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"Migliaia di micro-cantieri riapriranno per l’Italia un jolly da 20 miliardi", di Ettore Livini

L’addio alla procedura Ue per debito eccessivo potrebbe regalare all’Italia un jolly a sorpresa (valore stimato 20 miliardi) da giocare sul tavolo delle infrastrutture. Riaprendo la storia infinita delle grandi opere e – soprattutto –– regalando a cascata una boccata d’ossigeno alle migliaia di micro-cantieri per la manutenzione ordinaria del Belpaese (strade, scuole, fogne, fiumi), bloccati da tempo tra le maglie strette del patto di stabilità e il dogma teutonico del tetto deficit/Pil al 3%.
La partita per attivare questo tesoretto si giocherà nelle prossime settimane, quando il governo Letta busserà a Bruxelles chiedendo di “sterilizzare” dal deficit tricolore, almeno in parte, gli investimenti in infrastrutture inserite nei corridoi strategici europei (Helsinki-Brennero- Palermo, Lione-Torino-Venezia-Kiev e Genova Rotterdam). Le cifre in ballo sono importanti: 39 miliardi già spesi, difficili a questo punto da recuperare, e poco più di 20 ancora da spendere. Una pioggia d’oro che – se la Ue dirà sì – potrà dare una mano decisiva a far ripartire l’economia tricolore.
IL “Cantiere Italia” prova, con la benedizione della Ue, a riaprire i battenti. In ballo – se Bruxelles darà l’ok alla Golden rule che scorpora dal deficit gli investimenti nei corridoi strategici Ue – c’è lo sblocco “diretto” di un’ottantina di interventi: oltre 6,5 miliardi andrebbero a pioggia sull’asse ferroviario Nord-Sud, quello inserito nel progetto di trasporti comunitario che va da Helsinki fino a La Valletta, con una cifra importante destinata a migliorare le strutture della linea Battipaglia-Reggio Calabria. Una decina di miliardi finanzierebbero i lavori sulla rete stradale e dei treni tra Torino e Trieste e quasi quattro servirebbero ad ammodernare la Milano- Genova, parte integrante del network di collegamenti prioritari fino a Rotterdam.
Ancora più importanti, però, potrebbero essere gli effetti collaterali di questo attesissimo dividendo targato Ue: l’inserimento dei progetti trasnfrontalieri in una sorta di “zona franca” del bilancio tricolore consentirebbe al Governo di concentrare la sua attenzione – e i suoi soldi – su quelle grandi e piccole opere che da almeno un decennio sono al palo. E a beneficiarne in presa diretta sarebbe un settore, l’edilizia, che dall’inizio della crisi ad oggi ha perso 320mila addetti, una cifra – come ricorda spesso il presidente dei costruttori Claudio De Albertis – «pari a 27 Ilva».
L’elenco dei cantieri in attesa di fondi è lunghissimo. La legge obiettivo per le grandi opere di interesse infrastrutturale, vecchia di due lustri, è stata completata solo per il 10% con 40,5 miliardi spesi contro i 374 previsti. Ma a soffrire sono stati soprattutto i mini-lavori di manutenzione quotidiana – la riparazione delle buche stradali, gli interventi sugli acquedotti, la messa in sicurezza dei letti dei fiumi – bloccati dalla burocrazia tricolore (e su quella la Ue può poco) e dalla cronica assenza di fondi: il piano di interventi contro il dissesto idrogeologico, per dire, è stato completato solo per uno sconfortante 16%. Ancor peggiore è il bilancio sul fronte dei depuratori, malgrado sulla testa dell’Italia penda la spada di Damocle delle multe di Bruxelles: in questo caso i lavori chiuso sono solo il 35%, meglio comunque del drammatico 8% alla voce delle ristrutturazioni degli edifici scolastici. Tutti capitoli di spesa su cui ora il governo, grazie all’aiutino di una Ue finalmente orientata a far qualcosa anche per la crescita, potrebbe tornare presto a mettere mano.
Il rischio, come sempre, è che l’Italia riesca a farsi male da sola. E che una volta sbloccato il tesoretto da 20 miliardi targato Ue («ogni miliardo di investimenti in più significa 12mila nuovi posti di lavoro», ha calcolato il ministro alle infrastrutture Maurizio Lupi) non riesca a spenderlo a dovere. La storia del Belpaese, purtroppo, è piena di esperienze di questo tipo: vale per tutti l’esempio dei Fondi strutturali, 99 miliardi di cui 28 miliardi stanziati dalla Ue nel periodo di programmazione 2007-2013. Roma, come ha calcolato il ministero della Coesione territoriale, ne ha utilizzati solo il 31%. «L’attuazione di questi progetti in Italia ha subito dei ritardi e il divario di risultati tra Nord e Sud del Paese continua ad aumentare », ci ha tirato le orecchie il Commissario alle politiche territoriali Johannes Hahn. Un modo garbato per dire che gli aiuti di Bruxelles, anche quelli che potrebbero arrivare al “Cantiere Italia” con la Golden rule, dobbiamo imparare a meritarceli.

La Repubblica 30.05.13

"O si cambia o si muore", di Claudio Sardo

L’Italia ha bisogno delle riforme istituzionali
E non può più tornare al voto con il Porcellum. Si tratta ormai di bisogni vitali della nostra democrazia, che rischia di essere travolta dal discredito, dall’impotenza, dalla crisi sociale. La giornata parlamentare di ieri ha formalizzato l’impegno in una mozione. Enrico Letta lo ha reso solenne, ribadendo che la vita stessa del governo sarà legata al raggiungimento dell’obiettivo.

Alle sue spalle c’è la determinazione del Capo dello Stato, il quale ha già chiarito che non sopporterà l’ennesimo fallimento: se il processo riformatore verrà interrotto, Giorgio Napolitano si dimetterà rendendo drammatica la crisi di sistema e cercando di tagliare la strada ad eventuali profittatori della rottura.

Tuttavia i nodi sono ancora aggrovigliati. E il confronto di ieri – compresa la frattura nel gruppo Pd – dimostrano che la strada per uscire dalla seconda Repubblica è quanto mai accidentata. Bisognerebbe anzitutto sconfiggere la cultura populista – dalla «religione del maggioritario» al mito del premier eletto dal popolo, e dunque «unto del Signore» – che si è sovrapposta alla cultura costituzionale, svuotandone i principi e alternando gli equilibri della Carta. Non sarà una legge elettorale a risolvere da sola il problema della governabilità, né la crisi di sistema. Anzi, l’idea di affidare il cambiamento alla riforma elettorale è esattamente ciò che ci ha portato al disastro. Il Parlamento è stato umiliato, la frammentazione politica è cresciuta con il maggioritario di coalizione, la solidità dei governi è rimasta una chimera: e intanto i leader carismatici rimpiazzavano i partiti demo- cratici e il confine tra i poteri veniva ripetutamente violato, provocando conflitti destabilizzanti. E comunque, di fronte all’attuale tripolarismo, non ci sono sistemi elettorali al mondo capaci di garantire governi monocolori.

La soluzione della crisi italiana passa invece, anzitutto, da quel lavoro di manutenzione costituzionale che è stato rifiutato per due decenni. Non ci sono scorciatoie. Chi vuole la riforma elettorale per evitare le riforme istituzionali è banalmente un imbroglione. Ma chi vuole difendere la Costituzione e i suoi valori – e noi siamo tra questi – deve oggi essere capace di rimuovere i detriti depositati durante la seconda Repubblica e di riassestare l’insieme, rispondendo alle nuove domande di governo e di rappresentanza. Si ripropone qui il dilemma tra modello semi-presidenziale e modello parlamentare. Anche questo nodo sarà difficile da sciogliere, perché lo scontro attraversa tutti gli schieramenti. Si tratta
ovviamente di soluzioni entrambe legittime. Ma occorre scegliere. Non si può prendere un po’dell’una e un po’ dell’altra. Perché rischieremmo di rafforzare il populismo senza contrappesi e di scavare un fossato incolmabile con l’Europa.
Adottare il modello francese vuole dire riscrivere per intero la seconda parte della Costituzione: non sarebbe una revisione, ma una netta svolta istituzionale. In ogni caso non si confonda – neppure nella propaganda dozzinale – il semi-presidenzialismo francese con il cosiddetto «sindaco d’Italia». Chi continua a far confusione tra presidente eletto direttamente e premier eletto direttamente, magari lasciando intendere che si potrebbe persino fare l’una e l’altra cosa insieme, svela in realtà un deficit democratico e brucia il terreno di un possibile compromesso.

Saggezza vorrebbe che la Costituzione fosse davvero rispettata nei principi fondanti, comprese le funzioni di equilibrio e le linee divisorie tra i poteri: la via maestra delle riforme resta il consolidamento del sistema parlamentare, magari con un governo rafforzato, con istituti di stabilizzazione come la sfiducia costruttiva, con il superamento finalmente del bicameralismo paritario. Il presidente della Repubblica «garante», come abbiamo visto in momenti di crisi drammatica, è una risorsa istituzionale preziosissima (che il modello francese consumerebbe). I padri costituenti avevano concepito un motore di «riserva» del sistema, in caso di stallo politico del Parlamento. Quanta sapienza c’era in questa flessibilità: perché rinunciarvi trasformando le presidenziali nello scontro politico-elettorale principale del sistema?

La legge elettorale, da un punto di vista logico, viene dopo. Non ci sono dubbi. Siccome le riforme istituzionali sono necessarie a restituire agli italiani una democrazia decidente, la legge elettorale è il compimento di questo percorso e va costruita sia favorendo la formazione del governo attorno al partito che raccoglie più voti, sia restituendo ai cittadini una rappresentanza trasparente, legata alla scelta diretta degli elettori. Resta l’esigenza di superare al più presto il Porcellum. La garanzia è necessaria: con il Porcellum non si deve più votare. E non basta affidarsi al giudizio prossimo della Corte costituzionale, perché da quella sentenza potrebbe venire una delegittimazione del Parlamento assai più di una riforma conclusiva. Sarebbe un errore tenere in vita il Porcellum così com’è fino alla fine del percorso riformatore. Perché qualcuno potrebbe essere tentato di utilizzarlo. Si disinneschi almeno la mina, a partire dall’eliminazione dell’assurdo premio di maggioranza alla Camera (che neppure corrisponde a quello del Senato e che fa impallidire persino la fascista legge Acerbo).

L’Unità 30.05.13

"Al bando i pesticidi che uccidono le api", di Carlo Petrini

Quando trent’anni fa l’Europa decise di mettere al bando la carne di animali allevati con gli ormoni, lo fece sulla base della constatazione che i consumatori non si fidavano più come prima di questi prodotti. E una celebre sentenza stabilì che, pur mancando l’evidenza scientifica incontestata del pericolo connesso al consumare quella carne, l’averla proibita per proteggere il mercato europeo dagli effetti della sfiducia era cosa giusta e meritevole di salvaguardia.
Quando vent’anni dopo venne firmato il trattato che inaugurava il Wto, uno dei suoi primi corollari fu che, senza la valutazione scientifica della pericolosità, nessun paese può proibire alle merci provenienti da un altro di entrare. E questo ha riaperto la questione della carne americana agli ormoni, cui seguirà subito dopo la questione degli Ogm. Perché i grandi gruppi che hanno interesse a questo mercato premono e la navicella delle istituzioni continentali stenta, e non poco, a tenere la rotta in certi marosi.
Qualcuno penserà: però è giusto evitare il protezionismo e basare i divieti sui dati scientifici. Vorremmo e potremmo obiettare che non c’è solo la scienza delle analisi, ma anche più di una scienza umana (dall’economia all’antropologia) che meriterebbe qualche ascolto nel processo decisionale pro o contro gli ormoni. Senza considerare i — peraltro dirimenti, a mio avviso — desideri dei cittadini, che sono anche (non certo soltanto) consumatori.
Ma questo articolo non è dedicato a una battaglia di avanguardia per risparmiare alle nostre tavole e alle fertili lande europee bovini gonfiati con le iniezioni o mais che produce nelle proprie cellule le tossine insetticide che lo proteggono dai parassiti. No, quello che voglio portare alla vostra attenzione è che la Scienza, l’oggettiva Scienza che dovrebbe far giustizia dei pregiudizi e degli oscurantismi, non fa eccezione alla regola generale che vuole che il miglior argomento diventi pretesto e viceversa: basta affidare al lupo la difesa dell’agnello.
A gennaio, l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (l’Efsa, con sede a Parma) ha stabilito scientificamente, sulla base di risultanze ampie e univoche, che 3 principi attivi, gli insetticidi più utilizzati in agricoltura nel mondo, sono direttamente responsabili di gravi danni alle api. Le piccole mellifere perdono la strada dell’alveare per gli «effetti collaterali » che gli insetticidi di ultima generazione (neonicotinoidi, perché agiscono sui centri nervosi degli insetti come la nicotina) spruzzati per proteggere le colture da altre pesti, hanno anche su di loro.
C’è stata una prima votazione in Consiglio dell’Unione europea, ed è stato un nulla di fatto. Troppi i contrari e gli astenuti, tra cui la Germania e la Gran Bretagna.
La Francia e l’Italia, invece, che già da due anni ne avevano proibito l’uso dei neonicotinoidi quantomeno per impolverare i semi da mettere nel terreno (concia insetticida presentata come indispensabile per combattere un nuovo parassita e rivelatasi in campo assai meno efficace della tradizionale misura precauzionale agronomica della rotazione delle colture) erano per il bando e lo avevano votato convintamente, ma senza raggiungere i numeri necessari.
L’appuntamento era rinviato al 29 aprile e, questa volta, le centinaia di associazioni riunite nella Convenzione europea dell’agricoltura e del mondo rurale (Arc 2020) avevano fatto le cose in grande: mobilitazione fisica e virtuale, milioni di email ai politici. Con risultati tangibili: davanti a scienza e cittadini uniti, vacillavano le astensioni e persino l’influente ministra tedesca sembrava mossa a difesa delle piccole preziose custodi dell’impollinazione.
Così, al voto è stata raggiunta una maggioranza di 15 paesi con 8 contrari e 4 astenuti, che porterà ad una moratoria di due anni per i principi attivi che l’Efsa ha individuato come nocivi e pericolosi. Una delle più grandi multinazionali della chimica ha minacciato azioni legali contro l’Efsa (che evidentemente secondo loro fa bene il suo lavoro solo se è in linea con gli studi finanziati dalle aziende che producono agrofarmaci), ma un punto è stato segnato.
Anche se è solo una moratoria e non l’auspicabile bando per quei prodotti.
E come mai è solo una moratoria e non un bando? Perché per i meccanismi di voto in Consiglio la maggioranza non è stata sufficiente per una condanna definitiva. Vi starete chiedendo: ma allora i contrari e gli astenuti non si son lasciati convincere? No, in effetti paesi come la Germania e la Bulgaria sono passati nel campo dei sostenitori del bando.
Peccato che ne sia uscita l’Italia, che essendo tra i più popolosi paesi dopo la Germania, insieme alla Gran Bretagna (coerente nella posizione pro chimica), è stata decisiva, in negativo. Nel nostro paese, che aspettava a giorni il parto del governo Letta, i distinguo messi in giro da più parti hanno avuto la meglio su un’istanza civile, democraticamente e scientificamente sostenuta.
Il bando non avrebbe lasciato scampo: inoppugnabile, nel rispetto le regole dell’Ue e del Wto avrebbe posto la parola fine alla carriera di almeno tre cavalieri dell’apocalisse nell’alveare! Purtroppo però è successo un fatto che dimostra che, in fin dei conti, più delle procedure, delle evidenze scientifiche, delle mobilitazioni contano le volontà ferree e coese di consorterie che sanno perfettamente cosa vogliono e quali interessi tutelare.
Si tratta di una lezione amara per tutti coloro che credono che a seguito di segnali d’allarme scientificamente rilevati la partecipazione popolare possa raggiungere qualsiasi risultato, in particolar modo nella tutela dei beni comuni, come l’ambiente, la salute e la biodiversità. Ma si tratta anche di un passaggio epocale perché, in realtà, le decisioni sull’agricoltura in ambito Ue sono sempre state prese lasciando i cittadini fuori dalla porta (in modo che non disturbassero i manovratori, politici da un lato e rappresentanti del mondo agricolo dall’altro, con frequenti osmosi tra i due): lasciati ad attendere le scelte di chi se ne intende e qualche volta se la intende.
La novità è che questa volta, come recentemente avvenuto per la votazione del Parlamento sull’uso dei fondi dell’aiuto diretto all’agricoltura, i cittadini, che sono i fornitori del denaro pubblico, destinato agli agricoltori, non sono più disposti a lasciar correre, a derubricare queste vicende a questioni tecniche.
Le api sono il futuro di tutti: fa specie che i tedeschi lo abbiano messo a fuoco in modo più limpido e netto degli italiani. Ma il vento sta inesorabilmente cambiando e ci auguriamo che la nuova ministra non manchi di accorgersene, dando atto a tutti i cittadini di essere legittimamente interessati a cosa succede fuori città. Il sostegno all’agricoltura non può essere un atto di fede, ma la concreta manifestazione di attenzione per chi può migliorare, proteggere e tramandare l’ambiente in cui viviamo. A patto che lo faccia.

La Repubblica 30.05.13

"La caccia al tesoretto", di Massimo Riva

Una buona e una cattiva notizia. La prima, attesa, riguarda la chiusura della procedura d’infrazione per deficit eccessivo formalizzata dalla Commissione Ue. La seconda, meno scontata, viene dalle più aggiornate previsioni dell’Ocse che danno in peggioramento le stime della crescita e della disoccupazione. Un’autentica doccia fredda sui pur timidi entusiasmi che potrebbe suscitare la decisione annunciata da Bruxelles. Il cammino dei nostri conti pubblici resta, dunque, quanto mai stretto e i possibili margini di manovra quanto mai esigui. Chi vagheggiava che la fine del contenzioso comunitario avrebbe dischiuso le porte di chissà quali tesoretti fiscali da dispensare ai contribuenti a maggior gloria dei governanti, si trova ora ricondotto bruscamente al confronto con una realtà contabile che non concede né indulti né amnistie.
Il fatto che Bruxelles abbia archiviato la procedura contro il nostro paese offre di certo non piccole opportunità. La prima è che dovrebbe consolidarsi il clima più favorevole in atto sui mercati finanziari dove — anche grazie alle politiche monetarie espansive di Usa e Giappone — sta diventando sempre meno costoso il sostentamento del nostro debito pubblico. Tanto che, forse a fine d’anno, si potrebbe conteggiare un non disprezzabile risparmio rispetto alle previsioni sulla voce spese per interessi. Ma attenzione: perché questo accada, dovremo rigare diritto. La decisione comunitaria, infatti, si basa sul presupposto che l’Italia chiuda anche il 2013 con un deficit non superiore al fatidico 3 per cento. Se nei sette mesi che mancano alla fine dell’anno dovessimo interpretare la sentenza di proscioglimento come una licenza al bengodi fiscale, non perderemmo solo la faccia in termini politici: la pur sempre precaria costruzione del bilancio pubblico ci crollerebbe addosso. E il tanto odiato e temuto “spread” tornerebbe pane quotidiano sulle mense degli italiani.
Ha fatto bene perciò Enrico Letta a ringraziare per il successo di Bruxelles i sacrifici degli italiani ma si è allargato un po’ troppo evocando anche l’opera dei governi precedenti. Sul gabinetto di Mario Monti nulla da dire: anzi, è proprio ad esso che va riconosciuto tutto il merito del rientro nelle regole comunitarie. Ma fra i «governi precedenti» c’è pure quello dell’accoppiata Berlusconi-Tremonti al quale spetta tutto il demerito di aver provocato l’apertura del processo per deficit eccessivo. È il caso di richiamare questo punto non soltanto per scrupolo storiografico ma, soprattutto, perché oggi è dallo stesso versante politico che vengono le maggiori pressioni per avventurose manovre di restituzione fiscale, di nuovo con noncuranza degli inesorabili riflessi sui saldi contabili a termine.
Resistere, resistere, resistere a queste spinte: questo è il compito oneroso che ricade oggi sulle spalle di un premier il quale dice di voler guidare un governo «di servizio al paese».
L’aver cominciato l’opera ministeriale con l’annuncio sulla sospensione dell’Imu non ha fatto un gran bell’effetto in Europa e ieri il
commissario Olli Rehn non ha mancato di sottolinearlo.
Occorre, infatti, ricordare che quando Mario Monti ha messo in campo questa prima forma di imposizione patrimoniale non ha mirato soltanto a fare indispensabile cassa per un bilancio nei guai. La sua è stata anche una puntuale risposta ad una delle critiche più fondate rivolte all’Italia dal resto d’Europa. In sintesi, chi ci guarda da Oltralpe vede il nostro paese come un convento povero affollato da frati ricchi. Seppure un po’ rozzamente, il governo Monti ha voluto spazzare il campo da questa incresciosa immagine dell’Italia. Visto che oggi può ritornare a testa più alta in Europa, il premier Letta aggiusti pure le norme sull’Imu ma senza strafare come gli chiede lo spregiudicato Berlusconi, evitando come la peste di rinfocolare la pessima impressione di un paese incapace di equilibrio sociale e di serietà fiscale.
Raccomandano questo esercizio di responsabilità politica non solo le stringenti osservazioni di Bruxelles, ma anche le allarmanti previsioni dell’Ocse che vedono un Pil 2013 in calo dell’1,8 per cento e una disoccupazione in aumento fino al 12,5 per cento l’anno prossimo. E qui siamo davvero al punto più critico. Enrico Letta dice di voler anteporre a tutto il tema socialmente crudele della disoccupazione giovanile. Giustissimo, non ci si illuda però di poter sciogliere questo nodo con un’acconcia manutenzione della legislazione vigente. Un po’ di bricolage giuridico non disturba certo, ma se un’azienda non vende i propri prodotti non è che possa assumere solo perché le si offre un lavoratore a costi più bassi. Insomma, il problema del paese non è quello di trovare modi più accettabili per spartire una torta in decrescita ma quello di farla diventare più grande quella torta. Finalmente in questi giorni — dopo settimane di avanti e indietro su fisco, tasse, Imu, Iva — è riapparso sulla bocca del neoministro dell’Economia, Saccomanni, il vocabolo «investimenti». Alla buon’ora: ecco la parola d’ordine che il premier deve fare propria nei consessi europei. Il suo maestro Andreatta ne sarebbe orgoglioso.

La Repubblica 30.05.13

"Epifani: tornare sui territori Renzi: l’astensione fa paura", di Simone Collini

Assemblee in tutte le regioni per discu- tere con simpatizzanti, militanti, elettori, delusi. E c’è anche l’ipotesi di coinvolgere gli iscritti al partito nel percorso che dovrebbe portare all’approvazione delle riforme istituzionali. Al quartier generale del Pd si studiano con attenzione i dati delle amministrative. Il gruppo dirigente canta vittoria, anche se il dato dell’astensionismo preoccupa e l’analisi dei flussi elettorali conferma che il successo praticamente ovunque è dovuto in gran parte a un crollo delle altre forze politiche. Per questo al Nazareno ci si prepara all’avvio della campagna congressuale con uno spirito diverso rispetto a qual- che giorno fa, però si iniziano a studiare anche le misure per recuperare il voto degli astenuti. Del resto, se Epifani osserva che il flop di Grillo è dovuto al fatto che «gli elettori gli avevano concesso la possibilità di cambiare e invece si è ritirato sull’Aventino», mentre la scelta del Pd di «assumersi la responsabilità di dare con il governo una funzione di ser- vizio verso i problemi del Paese» è stata «premiata», Matteo Renzi ironizza sì sul Movimento 5 Stelle che «doveva dimezzare il numero dei parlamentari e invece ha dimezzato i propri voti», però al di là della soddisfazione per la vittoria in tanti Comuni «anche roccaforti leghiste del Veneto» (sottolineatura non casuale visto che a vincere lì la sfida sono stati candidati renziani), il sindaco di Firenze dice: «Bisogna essere seri, un sacco di gente non è andata a votare e l’astensionismo fa paura. Siamo contenti dei risultati ma occhio che si devono recuperare gli astenuti». Un aspetto che non sfugge neanche a Epifani, che parlando dei ballottagi dice al Tg3: «Basta le nostre discussioni qui a Roma, torniamo nei territori, sosteniamo i nostri candidati a sindaco, andiamo in mezzo alle persone, perché questo vuole il nostro elettorato e il nostro popolo». Epifani domani incontrerà i segreta- ri regionali del Pd per pianificare la strategia in vista delle sfide del 9 e 10 giugno ma anche per preparare la Direzione di martedì prossimo, in cui verrà presentata la nuova segreteria e saranno discussi gli adempimenti congressuali. Il leader del Pd intende però organizzare prima di quell’assise una serie di incontri sul territorio per spiegare le ultime mosse, per rilanciare un partito che ha attraversato e tuttora attraversa una fase molto difficile ma che adesso ha l’occasione per ripartire. E le parole d’ordine sono: territori e ampio coinvolgimento di iscritti ed elettori.
Epifani, incontrando il gruppo dei deputati Pd, non chiude neanche all’ipotesi avanzata in più di un intervento di far pronunciare la base del partito nel percorso delle riforme istituzionali (Beppe Fioroni ha proposto un referendum tra gli iscritti). «La volontà del Pd di attuare cambiamenti alla Costituzione viene da lontano, non dobbiamo avere paura», è il messaggio lanciato all’assemblea del gruppo (che invece boccia l’ipotesi di apportare poche modifiche al Porcellum).

Coinvolgere la base, spiegare agli elettori il perché delle scelte compiute negli ultimi tempi è il modo migliore per ripartire, viene spiegato al Nazareno. E spiegare è anche quello che inten- de ora fare Pier Luigi Bersani, come spiega parlando a Ballarò. «Penso che potrò ancora dare una mano se riuscirò a far capire bene quello che è stato fat- to», dice l’ex segretario, che di fronte ai risultati del primo turno amministrativo ribadisce quello che già aveva detto nelle scorse settimane: «I Cinquestelle? Hanno perso un’occasione, non hanno capito che era un’occasione di cambiamento». Ora il flop del M5S è solo una conferma, per l’ex segretario Pd. Che fa notare come «una smacchiatina» al «giaguaro» Berlusconi alla fine è stata data (al governo c’è Letta e il Pdl ha avuto un risultato deludente) e dice del crollo di Grillo a questa tornata elettorale: «Così impara a capire il rapporto tra governo e cambiamento. Prima era troppo difficile da capire, purtroppo per l’Italia».

Ora c’è un governo guidato da Enrico Letta, ma sostenuto insieme al Pdl. Per Epifani la scelta è stata «premiata» dagli elettori. Una lettura analoga a quella che fa in queste ore il capo del governo. Ma nel Pd non tutti la pensano allo stesso modo. Dice Pippo Civati, che conferma la sua candidatura al congresso: «Ha vinto Marino che, come me, era scettico sul governo Pd-Pdl. È molto vicino a Rodotà e a quell’area politica che non è certo quella di Letta».

Questo argomento sarà oggetto di discussione nei prossimi giorni e probabilmente accompagnerà l’avvio della campagna congressuale. Una campagna che non è escluso veda la partecipazione attiva anche di Renzi. Il sindaco di Firenze, alla domanda del Tg1 se intenda candidarsi, non risponde con un no ma con questa frase: «Prima delle poltrone ci sono le idee». Quelle che lui ha scritto nel libro “Oltre la rottamazione”, che ora presenterà in giro per l’Italia (domattina è a Roma, domani sera a Firenze). Quanto alla teoria che questo voto amministrativo rafforzi l’esecutivo, Renzi risponde: «Il governo sarà forte se farà le cose, se è un governo che chiacchiera e vivacchia trascinerà l’Italia in basso».

L’Unità 29.05.13

"Prima che sia tardi", di Massimo Gramellini

Come ci si comporta con una donna innamorata in pericolo di vita che non vuole essere salvata? C’è la ragazza di Caserta con la milza spappolata dai calci del fidanzato che rilascia un’intervista per dirgli che lo perdona e lo ama ancora. E c’è la ragazza di Nettuno che torna a casa col setto nasale rotto e sostiene di essere caduta, ma quando il padre viene a sapere da altri che sono stati i pugni del moroso a ridurla in quello stato, lei si rifiuta di sporgere denuncia. Per noi che le osserviamo da fuori, le gesta dei due trogloditi sono le prove generali del prossimo delitto. Ma per chi le subisce sotto l’effetto di un’emozione malata e di una sconsolante immaturità sentimentale, appariranno forse una forma estrema e «macha» di passione.

Quando nutrivo una fiducia illimitata nelle parole, pensavo che gli amori sbagliati fossero incantesimi dissolvibili da una frase pronunciata al momento giusto. Per esempio: chi alza le mani su di te, non ti ama e non merita il tuo amore. Ma le vittime non sanno di essere in trappola. Sperano di redimere il bruto e si smarriscono dentro spirali psicologiche che contemplano di tutto, dal masochismo all’istinto protettivo, all’orgoglio di chi non accetta di essersi sbagliata. Esaurite le parole, a scuotere le coscienze obnubilate rimangono i gesti. Il padre della ragazza di Nettuno ha denunciato il picchiatore contro la volontà della figlia. E l’avvocata della ragazza di Caserta ha rinunciato al mandato: si è rifiutata di continuare a difenderla. Azioni forti, provocatorie. Luci accese nei crepacci di certi amori sbagliati, affinché qualcuno li veda e si fermi, prima che sia tardi.

"Centrodestra, un futuro oltre Berlusconi", di Luigi La Spina

Ancora una volta è apparsa evidente la diversità tra le elezioni amministrative e quelle per le politiche. Una caratteristica costante in Italia, ma che pure i differenti sistemi di voto in uso nelle due consultazioni hanno accentuato. Cambia, evidentemente, la domanda dei cittadini nei confronti dei candidati e cambia l’offerta della politica nel cosiddetto mercato elettorale.

Quando i due tipi di votazione si sovrappongono, poi, le valutazioni sono ancora più complicate perché gli effetti di trascinamento tra i due voti non sono facilmente calcolabili.

I confronti e i giudizi, perciò, dovrebbero sempre rispettare le regole elementari della statistica, quelle che comparano situazioni omogenee e criteri altrettanto omogenei. L’analisi dei risultati del voto di ieri, proprio cercando di non tradire le norme della correttezza valutativa, consente sia qualche correzione alle impressioni più immediate, sia di formulare alcune ipotesi sulle tendenze, di più lungo periodo, nei comportamenti elettorali degli italiani.

L’esito più clamoroso e più preoccupante della parziale consultazione amministrativa è certamente il dato dell’astensione. La percentuale dei cittadini che non hanno ritirato la scheda elettorale è alta in sé, ma è ancor più significativa perchè, in Italia, il fenomeno del «non voto», diversamente da altre democrazie occidentali, non è mai stato così diffuso. Un confronto, però, tra votazioni amministrative omogenee, cioè quelle non «inquinate» dall’effetto spurio di contemporanee elezioni politiche nazionali, suggerisce un giudizio meno sorprendente. Perché non c’è stato un crollo improvviso della partecipazione elettorale, ma la conferma di una costante tendenza che, alla tradizionale scadenza dei cinque anni di una legislatura comunale, si pone sempre tra il 5 e l’8 per cento in meno di votanti. Un dato forse ancor più allarmante di una caduta drammatica, perché segnala una disaffezione dei cittadini per la politica profonda e crescente, non legata a sfiducie episodiche e transitorie, ma a una delusione per i comportamenti della nostra classe politica che nasce da lontano e che non sarà curabile, nè in tempi brevi, né con ricette demagogiche, come il caso Grillo sembra dimostrare.

Al di là delle un po’ affrettate consolazioni del «Pd» sulla tenuta del partito, fondate più sullo scampato pericolo della sua dissoluzione che sui consensi numerici effettivamente ottenuti dai suoi candidati, la riflessione forse più interessante, quella che illumina uno scenario più gravido di conseguenze per il sistema politico italiano, anche con uno sguardo più lungo sul futuro, riguarda il centrodestra.

Se, come pare probabile, Alemanno sarà sconfitto al ballottaggio da Marino, questo schieramento che, dalla fondazione della Repubblica, può contare sulla maggioranza dei consensi tra gli italiani non guiderà nessuna tra le più importanti città del Paese. Con il rischio di perdere persino alcune delle sue tradizionali roccaforti in quelle città di media dimensione che, soprattutto nel Nord, avevano sempre assicurato un suffragio ampio e sicuro allo schieramento di centrodestra. Questo risultato, naturalmente, non si fonda sulla peggiore prestazione che, da sempre, contraddistingue l’alleanza guidata da Berlusconi nel voto amministrativo rispetto a quello nelle politiche, ma confronta votazioni di tipo omogeneo.

I motivi di tale situazione sono vari e si possono dividere sostanzialmente in due campi, il primo di tipo più strettamente politico, il secondo con caratteristiche economico-sociologiche.

Dopo vent’anni, la leadership carismatica di Berlusconi non è riuscita, non ha potuto, non ha voluto creare una classe dirigente con personalità adeguate alle esigenze di governo del territorio. Nei casi più fortunati ha «adottato» leader locali di provenienza democristiana o socialista, in altri ha gettato nella mischia della politica manager pubblicitari, uomini di belle ma sproporzionate speranze, donne di bella ma troppo ambiziosa presenza. Il risultato di un confronto che, in genere, vede perdenti i candidati locali del centrodestra rispetto a quelli del centrosinistra, non deriva da un destino avverso, né da differenze, dal punto di vista politico, genetiche. E’ il prodotto naturale, coerente e inevitabile del rapporto fiduciario e personale tra Berlusconi e il suo elettorato. Con il vantaggio di poter godere, all’ombra della sua abilità nelle campagne elettorali nazionali, di una rendita di posizione assicurata, o quasi, in Parlamento, ma con lo svantaggio di perderla del tutto quando il candidato, nel voto amministrativo, non è più lui. Per ora, il rischio che il centrodestra perda una forte rappresentanza alle Camere è oscurato dalla longevità politica del Cavaliere, ma in un futuro non troppo lontano questa sarà l’incognita più importante del nostro sistema democratico.

La seconda causa della grave sconfitta di questo schieramento è il venir meno di quella richiesta liberista e antistatalista su cui si è fondato, per 20 anni, il consenso, soprattutto nel Nord, al centrodestra. In un momento di crisi economica, dalle giunte degli enti locali ci si aspetta sicurezza sociale, mantenimento dei livelli nei servizi pubblici, stimolo allo sviluppo e all’occupazione. Attese che, in genere, si pensa siano più ascoltate da uomini della sinistra e meno da candidati dello schieramento opposto.

Ecco perché il centrodestra, se vuol garantirsi un futuro meno oscuro, non dovrà solo pensare al dopo Berlusconi, alla costruzione di un partito e di una classe dirigente all’altezza delle sfide dei prossimi decenni, ma a come adeguare il suo programma politico alle mutate esigenze del blocco sociale che, in questi anni, ha costituito lo zoccolo duro dei suoi consensi elettorali.

La Stampa 29.05.13