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"Il declino italiano e i tanti numeri da ribaltare", di Carlo Buttaroni*

L ’Abenomics, la ricetta economica del premier giapponese Shinzo Abe, fa discutere il mondo. Il programma di rilancio giapponese si basa su una forte espansione della spesa pubblica con pesanti interventi a carico del governo centrale (circa 85 miliardi di euro) accompagnati da investimenti da parte dei governi locali e di capitali privati. Complessivamente, un’iniezione di circa 170 miliardi di euro finalizzati a dare slancio all’economia nipponica con investimenti in tecnologie avanzate, ricerca e sviluppo, energia e ambiente, sicurezza anti-sismica, ricostruzione infrastrutturale e abitativa post-tsunami. Nel programma non mancano gli aiuti alle imprese in difficoltà, i sostegni ai redditi per i meno abbienti e gli investimenti nelle aree più deboli del Paese. Questa manovra, secondo il governo, dovrebbe portare, già nel 2013, una crescita del Pil pari al 2%, con conseguente aumento dei posti di lavoro di 600mila unità. Per spingere sulla crescita, la Abenomics punta anche a una forte espansione monetaria, alzando da subito il livello accettabile d’inflazione dall’1% attuale al 2% e, in prospettiva, al 3%. A tutto questo va aggiunto l’obiettivo di deprezzare lo Yen per rilanciare le esportazioni che nel 2012 hanno subito un forte rallentamento. Gli effetti di queste politiche economiche non si sono fatti attendere: il primo trimestre del 2013 ha registrato una crescita importante del Pil (+3,5%) e un calo del tasso di disoccupazione. Le critiche, però, non mancano, soprattutto per quanto riguarda l’inflazione. A tutti ha risposto il premio nobel Paul Krugman in un editoriale pubblicato sul New York Times: un po’ d’inflazione è proprio ciò che serve in questo momento, in Giappone come negli Usa. E anche in Europa. Tuttavia un rischio c’è, almeno potenziale. Le politiche monetarie sono immediate (in negativo e in positivo) mentre le manovre che utilizzano la spesa pubblica richiedono tempo. Il pericolo è che vengano attuate le prime, mentre le seconde stentino a partire. D’altronde, un conto è mantenere vicino allo zero i tassi d’interesse per aiutare la crescita del settore privato comprando titoli di Stato per finanziare la spesa pubblica, un altro è gettare soldi freschi di stampa dall’elicottero. Un’attività, questa, che i critici più feroci annoverano tra i programmi di stampo keynesiano, attribuendo (erroneamente) a Keynes l’idea che stampare denaro sia la medicina migliore per risolvere una crisi. In realtà, l’autore della Teoria Generale la pensava molto diversamente. L’espansione monetaria ha senso solo se serve a finanziare la spesa pubblica ed è utile nella misura in cui aiuta le imprese a investire e assumere, mettendo nelle mani dei propri dipendenti nuovo potere d’acquisto. Per Keynes, le politiche monetarie da sole non bastano. Ecco, infatti, cosa scriveva l’economista di Cambridge nel 1933 a Franklin Delano Roosevelt. «Lo scopo del programma di ripresa economica è quello di aumentare la produzione nazionale e mettere più uomini al lavoro. Nel sistema economico del mondo moderno, la produzione è attuata principalmente per la vendita e il volume di produzione dipende dalla quantità di potere d’acquisto confrontato con il costo primo della produzione che ci si attende arrivi nel mercato. In termini generali, pertanto, un aumento della produzione non può avvenire se non per il funzionamento di uno o l’altro di tre fattori: gli individui devono essere indotti a spendere una parte maggiore dei loro redditi già esistenti; oppure le imprese devono essere indotte da una maggiore fiducia nelle prospettive o da un basso tasso d’interesse a creare ulteriori redditi correnti nelle mani dei propri dipendenti, che è quanto succede quando o il capitale circolante o il capitale fisso del Paese viene potenziato; oppure l’autorit à pubblica deve essere chiamata in aiuto per creare ulteriori redditi correnti attraverso la spesa di denaro preso in prestito o stampato. In tempi difficili, il primo fattore non si può pretendere funzioni su una scala sufficiente. Il secondo fattore entrerà in gioco come seconda ondata contro la recessione, dopo che sarà cambiato il vento grazie alle spese dell’amministrazione pubblica. È, pertanto, solo dal terzo fattore che ci si può aspettare il maggiore impulso iniziale». In poche parole, Keynes riteneva che non si può comprimere il processo di crescita e l’austerità è esattamente l’opposto di ciò che è necessario fare in un momento di crisi. D’altronde, un governo non può liquidare il suo deficit se la fonte delle sue entrate, il reddito nazionale, è in diminuzione. In questo caso è proprio la riduzione del deficit e non il debito a essere controproducente, perché implica lo spreco del capitale umano e fisico disponibile, oltre la miseria che ne scaturisce. Nel 2010, il caposcuola dell’austerità, Alberto Alesina dell’Università di Harvard, ha assicurato i ministri delle finanze europei che «forti riduzioni dei disavanzi di bilancio sono accompagnate e immediatamente seguite da una crescita sostenuta, piuttosto che da recessioni, anche nel brevissimo periodo». Ma ci sono alcuni errori alla base delle «rassicurazioni» di Alesina. Il più grossolano è stato confondere la correlazione con la causalità, tanto che in un articolo del 2012, utilizzando lo stesso materiale di Alesina, gli autori hanno dimostrato che «mentre è plausibile ipotizzare che gli effetti legati alla fiducia siano stati in gioco nel campione statistico dei consolidamenti, durante le recessioni non sembrano essere stati mai abbastanza forti da rendere espansivi i consolidamenti». Un esempio ancora più eclatante è quello degli economisti di Harvard Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, secondo i quali la crescita dei Paesi rallenta bruscamente se il rapporto debito/Pil supera il 90%. Si è scoperto, per ò, che la loro teoria è viziata da banali errori di calcolo sul foglio Excel e che il risultato riflette la massiccia sovraesposizione di un Paese nel loro campione. Un articolo del blog TheNextNewDealdella Roosevelt Foundation mette in evidenza come, dato un certo rapporto Debito/Pil, è molto più probabile che la bassa crescita sia precedente tale rapporto e non successiva, come ci si aspetterebbe se fosse il debito a causare il rallentamento della crescita. L’aumento del debito pubblico determina, negli anni successivi al «picco», tassi di crescita leggermente maggiori che nel periodo precedente. È quindi la bassa crescita la causa di debiti pubblici elevati e non il contrario. La fragilit à delle teorie alla base delle politiche d’austerità è sempre più evidente e i risultati sono stati quelli che ogni keynesiano si sarebbe aspettato: crescita pressoché nulla nella zona euro negli ultimi due anni e mezzo, un enorme declino in alcuni Paesi, crescita del debito e una modesta riduzione dei disavanzi pubblici, nonostante forti tagli della spesa. Il tutto con effetti collaterali devastanti. In primo luogo, la disoccupazione prolungata, erodendo il «capitale umano» dei disoccupati, distrugge la produzione attuale e anche quella potenziale. In secondo luogo, le politiche di austerità hanno colpito molto più severamente i soggetti che si collocano in fondo alla scala della distribuzione del reddito, semplicemente perché coloro che si trovano nella parte alta della scala usufruiscono molto meno dei servizi pubblici. In Italia, la narrativa prevalente sulla crisi economica e sulle soluzioni per uscirne, ha identificato nell’alto debito pubblico «a rischio insolvenza» la causa primaria dei problemi attuali. Sempre al debito viene attribuita anche la malattia endemica del Paese: la debole crescita economica. In realtà, come tutti gli studi hanno dimostrato, la crescita del debito pubblico dipende dalla mancanza di crescita economica e non il contrario. E poiché è difficile motivare i tagli e il rigore sulla base di modelli macroeconomici di breve periodo, i sostenitori dell’austerità si sono concentrati su spiegazioni di lungo periodo mescolate a considerazioni di tipo etico: il debito pub
blico è un male poiché limita la crescita dell’economia nei decenni a venire e quindi renderà tutti più poveri nel futuro e lo Stato è un parassita che succhia la linfa vitale della libera impresa e dei cittadini. Soffrire oggi per godere dei benefici in futuro: questa, in altre parole, la soluzione acclamata dai sostenitori dell’austerity. E sotto l’insegna di teorie sbagliate e motivazioni indimostrabili, in Italia lo Stato si è ritirato dal governo dell’economia, sono state tagliate o rinviate le pensioni di lavoratori ormai avanti negli anni, effettuati tagli indiscriminati alla spesa pubblica, annullate le leve di sostegno alle imprese e alle famiglie nonché compressi i diritti dei lavoratori. Senza contare quanta disoccupazione è stata «causata» da teorie fondate su errori aritmetici e utilizzo scorretto dei fogli di calcolo. Per non rischiare di diventare poveri nel futuro si è così diventati poveri nel presente.

*PRESIDENTE TECNÈ

L’Unità 27.05.13

"Sul web la giustizia fai da te", di Fabio Tonacci

Ci si vendica anche, sul web. Con una foto rubata, con un video imbarazzante pubblicato senza autorizzazione, con una chat che doveva rimanere privata e invece è lì, sbattuta su una pagina di Facebook. Visibile da tutti, parenti e amici, e da tutti inesorabilmente commentata. È così che un social network diventa gogna, per esporre alla pubblica umiliazione Carolina, che ha bevuto troppo e si fa riprendere mentre le dicono oscenità. O Andrea a cui piace indossare pantaloni rosa e quindi per il branco è un debole che va sfottuto. Due quindicenni che poi si sono suicidati perché travolti dalla vergogna. Si consumano vendette. Quasi sempre insultando e denigrando. Oppure postando le sgangherate chat di presunti stalker sessuali sulla pagina «Io odio i maniaci di merda». Altre volte, poi, trovando in Rete il coraggio che non si ha nella vita reale di segnalare possibili evasori fiscali, finti disabili, truffatori vari o semplici autisti di bus col vizio di correre troppo. Come nel caso di
evasori inchiodati con nome, cognome,
foto, email private. E però a sbriciolarsi non sono solo le reputazioni di centinaia di utenti, ma anche il concetto stesso di privacy, demolito da ritorsioni a mezzo web sempre più praticate e pericolose, oppresso da forme virtuali di giustizia faidate: si preferisce screditare pubblicamente online qualcuno, invece di presentare una vera denuncia alle autorità. Sfruttando la possibilità di gettare sassi e ritirare le mani che Internet offre a costo zero. Come nel caso di “Io odio in maniaci di merda II”, seconda versione di una popolarissima pagina Facebook aperta ad aprile 2012 e che in poco più di un anno ha accumulato quasi 38mila sostenitori (la prima era arrivata a 230mila like, poi ha avuto qualche problema, anzi «è stata rubata », come dicono gli ammini-stratori). È una lunga e a prima vista pure divertente galleria di centinaia di chat
private tra uomini e donne in cui il copione seguito è sempre uguale a sé stesso. Tragicamente agganciato ai cliché da giornaletto porno: lui si esibisce in un approccio sessuale tanto sconcio quanto goffo, lei lo manda regolarmente a quel paese, lui la offende. Con varianti sul tema: invio di foto di genitali, minute descrizioni di esagerati amplessi vagheggiati, proposte di masturbazioni via webcam, inviti osceni col banale canovaccio della donna sottomessa.
Chat dal lessico così triviale che mancano non solo di decenza, ma anche di congiuntivi, apostrofi, virgole. Come se tutti i maniaci d’Italia fossero anche dei mezzi analfabeti.
La vendetta delle stalkizzate si concretizza fotografando lo schermo del computer o del telefonino e inviando tutto agli amministratori. «Ho creato la pagina perché mia sorella era stata molestata da un tizio su Facebook — racconta uno dei gestori, rispondendo alle nostre domande via mail senza
però rivelare la propria identità — ci arrivano dalle 200 alle 300 segnalazioni al giorno, non riusciamo a leggerle tutte, siamo in arretrato di 8mila messaggi». Sull’autenticità di certi
screenshot pubblicati nemmeno gli amministratori possono mettere la mano sul fuoco, però i nomi corrispondono a profili reali. «Le persone incastrate reagiscono molto male, con minacce di morte. A volte cercano di intimidirci sostenendo di essere imparentati con la mafia. Facebook segue le norme americane per cui non siamo noi a violare la privacy, al massimo lo fa chi manda le schermate. Sono quasi sempre ragazze».
A prima vista, degli Zorro della Rete: giustizieri mascherati che combattono con la spada della divulgazione gli impuniti e sboccati maniaci del web. O presunti tali. Ma c’è anche chi non considera quest’operazione del tutto limpida, criticandone scopo e modalità. Chi decide, per esempio, chi è maniaco e chi no? Le chat pubblicate spesso sono parziali, non si capisce con chiarezza chi abbia provocato chi. Perché le vittime
non si rivolgono direttamente alla Polizia se si sentono molestate? In alcuni casi gli “incastrati” sembrano essere persone con seri problemi psichiatrici, andrebbero curate più che dileggiate. E qualche legittimo dubbio su una pagina il cui titolo inizia con “io odio” e finisce con un’offesa, si può anche avere.
Ma qualche dubbio in termini di privacy c’è anche su quei siti in cui si denunciano i presunti evasori fiscali. Su gli utenti possono segnalare i negozi che non rilasciano gli scontrini. Non ci sono i nomi dei titolari, è vero, ma i punti vendita sono indicati con precisione su una cartina geografica. Cioè non è difficile capire qual è il punto vendita in questione. In un anno sono state raccolte 125mila denunce per un totale di 18 milioni di euro di scontrini non fatti. Con lo stesso obiettivo è stato aperto che si serve anche di una app per smartphone, allo scopo di comunicare in tempo reale luogo e entità della ricevuta non fatta o della fattura maggiorata. La presunta evasione, secondo i calcoli del sito, ha raggiunto i 140 milioni di euro. Anche in questi casi però, come si fa a essere sicuri che la segnalazione sia fatta in buona fede e non sia invece un subdolo tentativo di discreditare qualcuno?
Il successo delle community che denunciano maniaci sessuali, o presunti tali, ed evasori
fiscali, o presunti tali, è anche figlio della moderna tendenza a usare il web per regolare conti. Basta poco, del resto. Una foto compromettente, una mail riservata postata su Facebook, una notizia falsa diffusa su Twitter. Le minacce arrivate alla casella di posta elettronica del presidente della Camera Laura Boldrini e la foto falsa in cui appariva nuda fatta circolare a scopo denigratorio sono storia di ieri. Così come la decisione del direttore del Tg di La 7 Enrico Mentana di cancellarsi da Twitter per i troppi insulti ricevuti ha spinto Roberto Saviano a riflettere dalle pagine di Repubblica sui confini del nuovo diritto al social network, sulle sue possibili degenerazioni, sulla «necessità di regole che non può passare per censura». Fin dove arriva la legittima critica, si chiede lo scrittore, e dove invece inizia la diffamazione? E fin dove si può spingere la libertà di denunciare su siti e social network presunti colpevoli di reati, nascondendosi dietro l’anonimato? Che fine facciano queste denunce, poi, non è sempre chiaro. «Molte ragazze sono andate dalla polizia e ci hanno mandato la foto del verbale — sostengono gli ammini-stratori di “Io odio i maniaci di merda II” — addirittura qualche pedofilo era già sotto controllo e la polizia li ha beccati grazie a loro».
Efficace o meno, la vendetta via Internet non è fenomeno solo italiano. In Cina sono stati aperti diversi portali dove si possono divulgare i nomi di chi si crede abbia preso mazzette. In Estonia, Lituania, Finlandia e Iran i corrotti si possono denunciare con lo
smartphone.
Col rischio che diventi un gioco al massacro: tutti contro tutti per rovinarsi la reputazione a vicenda. Da noi sta riscuotendo un discreto successo l’esperienza di uribo.com, community
di ragazzi italiani under 25 che denunciano finti disabili, mettono foto di persone col volto coperto che fumano in luoghi di lavoro infischiandosene del divieto, indicano i distributori di benzina che hanno rincarato troppi i prezzi, segnalano sprechi e piccoli scandali, come le tesi scolastiche buttate in un cassonetto dall’Università di Bari. Per ogni caso è indicata città e luogo, e il sito garantisce l’anonimato assoluto. Si lancia il sasso, si ritira la mano.

La Repubblica 27.05.13

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“Ma Internet è un mondo senza regole le vittime possono diventare carnefici”

«Internet e il mondo dei social network sono ancora un Far West senza regole. E chiunque divulga dati di natura sessuale si espone inevitabilmente a rischi enormi. Però stiamo attenti, talvolta le vittime possono diventare carnefici. Come nel caso di “io odio i maniaci di merda”». A parlare è Antonello Soro, il garante della privacy, che da settimane monitora i siti delle community di denuncia.
Cos’è che la preoccupa di più di quella pagina Facebook?
«La natura dei post in questione, perché possono essere tratti da una chat privata,
oppure possono essere stati pubblicati su un profilo aperto, o ancora essere stati inviati in maniera massiva e indiscriminata a più interlocutori, quasi fosse spam.
E poi c’è la possibilità dei “falsi”: non mi stupirei che molti dei messaggi denunciati nel sito possano essere stati postati da chi ha utilizzato nomi e cognomi combinati a caso e foto raccolte chissà dove. Da ultimo c’è il caso più grave, quello del furto di identità, cioè l’utilizzazione di dati personali di persone ignare che diventano vittime due volte: perché a loro nome vengono inviati messaggi volgari a sconosciuti e perché si ritrovano etichettati come “maniaci”». Si viola la privacy degli utenti in questo modo?
«Sì. E quindi chi, magari per difendersi o stigmatizzare un comportamento, usa un sito che denuncia presunti “maniaci” invece di rivolgersi alla autorità competenti, rischia di trasformarsi da vittima in carnefice».
Chi deve rispondere dell’eventuale violazione?
«In linea di massima a rischiare è chi materialmente posta i messaggi da denunciare. Tuttavia, anche l’eventuale moderatore o il soggetto che ha aperto siti di questo genere si espone comunque a gravi rischi»
E qual è la posizione del Garante su chi, attraverso siti che garantiscono l’anonimato, denuncia evasori fiscali?
«Se la finalità è fornire statistiche sull’evasione in Italia non ci sono rischi per la privacy. I problemi sorgono se il sito consente di rendono identificabile il presunto evasore. In questo caso sorgono una serie di quesiti in ordine al rispetto di alcuni importanti principi contenuti nel Codice privacy, dal principio di finalità a quello di pertinenza e non eccedenza. Per esempio: perché dovrebbe essere necessario pubblicare un fatto su un sito, quando è molto più efficace denunciare il fatto alle autorità competenti? Cosa capita se la denuncia non ha fondamento e l’interessato si vede etichettato come evasore di fronte al mondo? E ancora, può un sito sostituirsi agli accertamenti che competono a forze e di polizia e magistratura? »
(fa. to.)

La Repubblica 27.05.13

"La quindicenne bruciata perchè diceva No", di Cristina Comencini

La ragazza di Cosenza, così giovane come il ragazzo che l’ha ammazzata, è morta perché era una donna, non per amore né per passione, come spesso viene scritto. Fabiana era una giovane donna che voleva decidere di non continuare una relazione, forse la prima della sua vita, voleva essere libera.
Ci si deve attrezzare a livello legale per punire questi reati e per prevenirli, ma non riusciremo a entrare fino in fondo nel nodo che si stringe a poco a poco tra un uomo e una donna, di qualsiasi età, ceto sociale o provenienza geografica, prima dell’uccisione, se non afferriamo il dato culturale profondo, la novità terribile che si nasconde dietro ognuno di questi delitti. Questa realtà riguarda prima di tutto gli uomini, i ragazzi, la loro formazione, la loro sessualità, in un mondo in cui la posizione e i sentimenti delle donne cambiano rapidamente e sono, per la prima volta nella storia, espressi, raccontati, vissuti.
Lasciare un uomo si può dire oggi, ma in molti casi non si può ancora fare. Questo è il velo che dobbiamo sollevare per capire: la fantasia di possedere la donna amata, non è solo di chi arriva al gesto estremo di cancellarla, ha radici millenarie, è iscritta nel nostro modo di desiderarci. Per questo sono gli uomini normali, i ragazzi che mai potrebbero uccidere, che devono sentirsi in causa per primi. Ridefinire se stessi, il proprio desiderio di fronte a un essere diverso, che dice quello che prova liberamente, con un corpo che non concede per sempre, ma che vuole desiderare il loro per scelta, è il grande compito degli uomini del nostro tempo.
Questa riflessione non è veramente mai cominciata per paura. È la stessa paura di affrontare il dolore dell’abbandono di una donna, di vederla nella sua differenza, vitalità, invecchiamento, la paura di perdere la certezza della sua presenza accanto a te. La sessualità degli uomini deve trasformarsi di fronte alla nuova libertà delle donne, è una grande occasione, non è una perdita anche se come ogni cosa nuova fa paura. Gli uomini devono capire il legame tra violenza e desiderio del corpo femminile, capire perché il soldato in guerra stupra la donna nemica prima di ucciderla. E devono essere cresciuti i ragazzi in un modo nuovo dalle donne che sono le loro madri. Lasciare che gli uomini divengano tali, staccandosi dall’idea della disponibilità materna totale, dall’idea possibile di una subalternità femminile che accetta tutto perché non vede nel figlio mai l’adulto.
La subalternità femminile è lo specchio della violenza sulle donne, il nostro sguardo abbassato di chi non vuole vedere il pericolo e stringe l’altro nell’abbraccio che sembra riparare ogni offesa, cancellare ogni minaccia. Questa è la portata della questione: l’evoluzione del modo profondo in cui ci guardiamo, ci desideriamo, facciamo l’amore, cresciamo i figli.

La Repubblica 27.05.13

"La democrazia fredda", di Michele Prospero

C’è un generale calo dei votanti nelle elezioni amministrative, malgrado il presidenzialismo comunale, che chiama all’elezione diretta del sindaco. Cresce (con schede lunghe un metro e mezzo) l’attenzione alla politica come arena in cui trovare accesso e visibilità. Ma precipita la credibilità della politica e si appanna il senso della sua stessa funzione storica. Solo a Roma si sono presentate 40 liste e circa duemila sono i candidati in lizza.

Si tratta di una mini città, conteggiando anche le scalate ai posti di consiglieri nei municipi. In fondo, la politica è vissuta come la residuale arena in cui è possibile sperimentare una qualche forma di mobilità in un mondo altrimenti bloccato negli ascensori sociali.
Aumentano perciò i soggetti della competizione in un quadro però di eclisse della fiducia accordata dal pubblico alla politica. Le metafore crepuscolari (de-democratizzazione, deconsolidamento, post-democrazia) sono molto realistiche nel cogliere l’odierna alienazione politica. Le immagini aurorali che annunciano il bel trionfo di una agorà elettronica, di una società ormai trasparente e di una sfera pubblica dialogica sono invece edificanti e illusorie. L’iper-democrazia per i ceti riflessivi capaci di discorso e argomentazione informata (rete, democrazia deliberativa, primarie) e l’apatia per i ceti produttivi e per i condannati ai ruoli periferici: questa sembra la radiografia dell’esistente divisione dei compiti tra due società polarizzate. Una ipertrofia della partecipazione convenzionale e non convenzionale cara ai ceti urbani secolarizzati (con tempo, istruzione e denaro) convive con un abbandono dei riti della cittadinanza da parte dei ceti subalterni e periferici.

La democrazia (persino nella Grecia che brucia) conserva il suo l’involucro minimale-competitivo, quello esaltato da Schumpeter. Smarrisce però la sua peculiare ossatura novecentesca, quale agenzia di integrazione tra pubblico e privato, diritti e crescita, società e potere, costituzione e lavoro.

La prevalenza dello spirito capitalistico acquisitivo (con i grandi poteri dell’economia che tendono a fuggire dallo spazio pubblico e dagli oneri della fiscalità statale) ha sbiadito il costituzionalismo incardinato sul valore inclusivo del lavoro.
E con l’emarginazione del lavoro è inevitabile anche l’eutanasia della democrazia, che rimane in piedi ma solo come una asfittica procedura. Tra gazebo e retoriche per cui uno vale uno, la democrazia effettiva si riduce a un nucleo sempre più minimalistico di tecniche impotenti nel mitigare la rudezza dei rapporti di potere annidati nella sempre più diseguale società di mercato.
Ai processi di spoliticizzazione di per sé indotti dal capitalismo finanziario, che rinverdisce i fasti dell’individualismo possessivo con il dominio incontrastato della ricchezza, si aggiunge una inaudita de-politicizzazione condotta dalla politica medesima. Trionfano manifesti con slogan banali, e gli aspiranti sindaci nascondono le tracce dell’appartenenza. Una rifondazione identitaria dei partiti, con un ritrovamento di grandi principi ispiratori, è ormai una esigenza per la sopravvivenza della democrazia.
A una politica che già il mercato relega nella irrilevanza (e crescono gli imprenditori che si fanno liste personali in ogni città), si unisce una classe politica che si occulta e con cartelli demenziali confessa tutta la sua incapacità di sfiorare il nodo dei grandi poteri postmoderni. I ritrovati della iper-democrazia svelano un circolo vizioso della partecipazione: gli incentivi all’azione pubblica diretta non accorciano la distanza tra potere e società e con il plusvalore di tempo e denaro ribadiscono gli indici di diseguaglianza e di esclusione.
La mera alternativa della società civile (comitati, movimenti su singole istanze) alle forme di separatezza del politico non prospetta un rimedio efficace nel riparare al vuoto di rappresentanza dei ceti marginali. Tra la solitudine del decisore (presidenzialismo municipale) e l’atomismo dell’abitante della società civile (anomia, esclusione, sfiducia, rabbia) risalta l’assenza della mediazione politica.

La politica progetto è necessaria ma non può rifiorire senza il terreno fertile dell’autonomia del lavoro e senza la rinascita della mediazione. Nelle città si presentano al voto tanti uomini che vorrebbero essere soli al comando ma così la politica non riparte e anzi cresce la disillusione, l’abbandono. Senza partiti e sindacati, colpiti al cuore dallo tsunami antipolitico, non c’è una sfera pubblica rigenerata ma cresce solo la delega ad arcani centri di potere in grado di influenza, di pressione, di appropriazione.

L’Unità 27.05.13

"I sei eurocomandamenti", di Andrea Bonanni e Alberto D'Argenio

Ora è ufficiale: Olli Rehn mercoledì proporrà la chiusura della procedura per deficit eccessivo dell’Italia. Il Commissario europeo Affari economici proporrà la decisione al resto della Commissione per mettere fine alla vertenza aperta contro l’Italia nel 2009 per colpa del governo Berlusconi. Un passo fondamentale che premia il risanamento del governo Monti e la credibilità con la quale l’esecutivo di Enrico Letta si è presentato in Europa: secondo la Commissione l’Italia ha terminato il 2012 con un deficit al 3% e nel 2013 dovrebbe restare al 2,9%, dunque sotto l’asticella di Maastricht. Obiettivo che a politiche invariate centrerà anche nei prossimi due anni, condizione per chiudere la procedura. La decisione darà nuovi margini di manovra al governo, tanto che il premier Enrico Letta, pur con cautela e senza trionfalismi, con i suoi collaboratori si è detto «soddisfatto» del passo ormai imminente stando alle bozze che circolano a Bruxelles.
Rientrando tra i paesi virtuosi l’Italia non sarà più sottoposta a quei vincoli sulla spesa che hanno imbrigliato l’azione del governo in questi anni. E, al contrario di alcune indiscrezioni dei giorni scorsi, è un’uscita piena e senza alcuna condizione dal club dei paesi inaffidabili. Il che permette a Letta di aprire la vera partita europea su due fronti. Primo, beneficiare della flessibilità ottenuta da Monti per i paesi virtuosi, partita fondamentale che si gioca da qui a luglio quando Bruxelles sfornerà le regole sulla “Golden rule” stabilendo quali (e secondo quali parametri) sono le spese che generano crescita (l’Italia vuole inserire anche quelle che aumentano l’occupazione) che non vengono conteggiate nel deficit. Solo alla fine di questo negoziato si potrà capire con certezza su quanti soldi potrà contare il governo per rilanciare l’economia (i 12 miliardi stimati al momento sono ancora frutto di calcoli approssimativi). In secondo luogo lo stop alla procedura per defict permette a Letta di presentarsi al summit di fine giugno con maggiore forza politica per ottenere misure Ue a sostegno della crescita e dell’occupazione giovanile.
Insieme allo stop alla procedura, mercoledì la Commissione approverà le raccomandazioni di politica economica per ogni paese europeo, Italia compresa. Testi che mirano a migliorare la competitività dei singoli soci del club europeo e che hanno un forte impatto politico sui governi (in alcuni casi sono anche vincolanti) ma la cui applicazione non è una condizione alla chiusura della procedura sul deficit. All’Italia la Commissione rivolge sei raccomandazioni le cui bozze, fino all’ultimo passibili di modifiche, iniziano a girare nelle stanze dei bottoni di Bruxelles. La prima raccomandazione riguarda proprio i conti pubblici. La Ue, come da copione, chiede di «proseguire il risanamento con un ritmo appropriato ma compatibile con la crescita ». Un’indicazione, quella della Commissione, che rafforza Letta nella battaglia pro-crescita al Consiglio europeo, il consesso dei capi di Stato e di governo dei 27. Bruxelles chiede anche di mantenere un avanzo primario adeguato (il saldo tra entrate ed uscite al netto del pagamento degli interessi sul debito) in modo da ridurre il gigantesco debito pubblico italiano.
GIUSTIZIA E BANCHE
La seconda raccomandazione chiede all’Italia di insistere con la spending review, di migliorare l’efficienza della Pubblica amministrazione anche con una semplificazione del quadro regolamentare nei confronti di cittadini e imprese. Si indica poi la necessità di accelerare i tempi della giustizia civile, di rinforzare le norme anticorruzione e di migliorare l’uso dei fondi europei nelle regioni del Sud. Il terzo punto affrontato da Bruxelles è una new entry rispetto alle raccomandazioni degli anni scorsi e riguarda il sistema bancario. La Commissione riconosce lo stato di contrazione del credito per le imprese e per questo invita il governo a «migliorare l’efficienza del settore bancario». In particolare mette nel mirino la regola che impone tempi lunghi (fino a 18 anni) per permettere alle banche di eliminare dai bilanci i crediti che ormai non possono più essere riscossi. Una zavorra che pesa sui bilanci e limita l’erogazione di prestiti in tempi di crisi. La Commissione chiede anche di lavorare su mercati alternativi per diversificare e compensare la stretta delle banche, come quello finanziario e i fondi privati di finanziamento.
LAVORO E FISCO
La quarta raccomandazione chiede di attuare pienamente la riforma Fornero e di prendere nuove misure per l’occupazione giovanile e femminile. Anche questo un forte assist per Letta che in vista del summit di fine giugno sta portando avanti una battaglia politica per ottenere misure e fondi per l’occupazione giovanile. Al governo Bruxelles suggerisce comunque di migliorare il sistema di formazione professionale e i servizi pubblici per il collocamento dei neolaureati. Il quinto punto, che ha valore solo politico visto che sul fisco la Ue non ha competenze, ricalca il testo dello scorso hanno chiedendo di spostare il peso fiscale dal lavoro al consumo, alle proprietà immobiliari e alle attività che inquinano. Si chiede di rivedere le agevolazioni fiscali, di riformare il catasto e di mantenere alta la guardia nella lotta all’evasione. Infine Bruxelles invita Roma a proseguire le liberalizzazioni.

La Repubblica 27.05.13

"Record astenuti. Per il governo una prova in più", di Federico Geremicca

Non sono bastati diciannove candidati a sindaco, 1.667 aspiranti consiglieri comunali, alcune altre migliaia in lizza per un seggio nei municipi ed una scheda elettorale lunga nientedimeno che un metro e venti centimetri. E i casi sono due: o nemmeno una tale, gigantesca kermesse messa in piedi per la scelta del nuovo sindaco di Roma è stata sufficiente a motivare i cittadini chiamati alle urne.
Oppure – e non ci sentiremmo di escluderlo – è stato proprio quest’ennesimo confuso, discutibile e dispendioso «carnevale elettorale» a contribuire a tener la gente lontana dai seggi.

Sia come sia, la Capitale tocca il suo record negativo di partecipazione al voto in una tornata amministrativa: solo il 37,7% all’ultima rilevazione di ieri (ore 22). Che vuol dire quasi venti punti percentuali in meno rispetto alle elezioni di cinque anni fa. E se Roma piange, non è che il resto d’Italia rida. L’affluenza alle urne è infatti precipitata praticamente ovunque attestandosi poco oltre un misero 44 per cento, il che vuol dire quasi sedici punti percentuali in meno rispetto al voto del 2008. Il dato è generalizzato. Riguarda il Nord (Brescia, Sondrio, Vicenza e Treviso registrano flessioni oltre il 20%), il Centro (Pisa -25%, Massa -16%) così come il Sud e le Isole, dove il calo è più contenuto solo perché si partiva da percentuali solitamente assai più basse. Si vedrà oggi, a operazioni di voto concluse, la reale dimensione di questa ennesima crescita dell’astensione. Ma ieri i segnali erano tutti negativi, e tra gli addetti ai lavori (politici e sondaggisti) serpeggiava un certo pessimismo.

La politica, dunque, si conferma malata. E la malattia non solo contagia tornate elettorali in genere meno colpite dal fenomeno (quelle amministrative) ma non è arginata nemmeno dalla presenza diffusa di liste del Movimento Cinque Stelle, che si immaginavano capaci di convogliare la disaffezione e la protesta dall’astensionismo al voto per il loro simbolo. Non è accaduto. E non basta. Per i candidati di Beppe Grillo, infatti, la vigilia non sembrava preannunciare risultati particolarmente brillanti: quasi a riprova del fatto che il movimento del comico genovese non solo non «guarisce» la cattiva politica, ma ne viene negativamente contagiato una volta che – agli occhi dei cittadini – ha con essa contatti troppo ravvicinati.

Sarebbe il caso che si cominciasse a tener conto sul serio (cioè mettendo in campo risposte) della crescita esponenziale del fenomeno-astensione. Occorre ci si convinca che non si è, ormai, di fronte ad una crisi passeggera – è quel che si immaginò al tempo del suo primo segnalarsi: diciamo dopo Tangentopoli – quanto ad una tendenza che pare sempre più inarrestabile. Convincersene vuol dire operare concretamente per rallentare – se non fermare – una deriva negativa e perfino pericolosa: operare varando leggi elettorali e riforme che riavvicinino il cittadino agli eletti e alle istituzioni, e accelerando sul piano del taglio ai costi della politica (mettendo da parte annunci, promesse e inutili populismi).

E non farebbe male lo stesso governo a raccogliere il segnale che arriva da questa sorta di diserzione di massa: il Paese non è fuori dalla crisi e non sta meglio di prima solo perché – dopo mesi di estenuanti scontri e trattative – un governo finalmente è in campo. Conta quel che fa, e come lo fa. Continuare a ripetere ad ogni tornante – che siano le sentenze per Berlusconi o il voto di sette milioni di italiani – che quel che accade «non avrà ripercussioni sul governo» non è un buon modo né per difenderlo né per aiutarne la sopravvivenza. L’esistenza in vita, il governo Letta-Alfano dovrà guadagnarlo sul campo. E la strada, onestamente, appare ancora tortuosa e in salita.

La stampa 27.05.13