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"La graduatoria dell’orrore. Le giovanissime più a rischio", di Anna Meldolesi

Se può esistere una graduatoria dell’orrore, l’uccisione della ragazza di Cosenza arriva a fondo scala. La giovane età della vittima e del presunto carnefice, la ferocia, l’inferno che inghiotte i sentimenti. Un femminicidio scolvolgente proprio perché tanto acerbo. Sarebbe di qualche sollievo pensare che chi uccide così sia un pazzo, che sia cresciuto in una famiglia violenta o abbia una storia criminale alle spalle. Sarebbe un modo per tracciare una linea netta tra noi e loro.

Ma è davvero così?

Un tempo i criminologi inquadravano i casi di femminicidio guardando alla provenienza sociale della vittima e concentrandosi sulla trasmissione intergenerazionale della violenza. Poi gli approcci psicanalitici hanno puntato i riflettori sulla donna, chiedendosi se chi resta vicino a un violento non lo faccia per masochismo. A cominciare dagli Anni ’70 il femminismo ha cambiato ancora una volta il quadro. Le donne abusate sono diventate le vittime «di uomini ordinari che agiscono in un contesto sociale di autorità e dominio maschile». Dove sta la verità?

Il Murder in Britain Study è un’investigazione di 3 anni su tutti i tipi di omicidio commessi nel Regno Unito e permette di confrontare centinaia di casi. Ci dice che il rischio di femminicidio è maggiore in giovane età, quando le relazioni sono più instabili e le pulsioni tumultuose. L’infanzia e la vita adulta degli autori dei femminicidi è più tormentata di quella della popolazione generale, ma è più convenzionale di quella degli altri assassini. In generale i primi presentano meno traumi familiari, meno problemi sociali, minor abuso di alcol rispetto ai secondi. Le casistiche internazionali indicano che circa metà delle donne uccise dal partner aveva già subito violenze da lui. Ma le violenze sono commesse anche da assassini con la fedina penale pulita.
Chi sono questi uomini che non delinquevano e non picchiavano, ma un giorno, inaspettatamente, hanno ucciso, magari infierendo ripetutamente sul corpo?

Ciò che sembra improvviso il più delle volte in realtà non lo è: c’è quasi sempre un passato di tensioni, litigi, idee oppressive su come dovrebbe comportarsi una fidanzata o una moglie. L’immagine di apparente normalità spesso torna a manifestarsi in carcere, dove molti tendono a comportarsi da detenuti modello. Questo non significa, purtroppo, che quando torneranno in libertà non costituiranno più un pericolo, se non vengono efficacemente trattati.

Il 44% di loro, secondo lo studio inglese, non è pentito, il 60% non prova empatia nei confronti della vittima. Possono esserci o meno precedenti penali, ma secondo gli specialisti tra il 70 e l’80% degli autori di questi omicidi ha dei problemi con le donne. Per questo chi pensa che siano uomini normali sbaglia e fa un torto al genere maschile. Ma chi parla di violenza di genere ha ragione, perché ad armare la mano spesso è una concezione aberrante del rapporto tra uomini e donne.

Il Corriere della Sera 26.05.13

"Vent'anni di omissioni dietro un dramma nazionale", di Goffredo Buccini

Gli americani, che sanno trasformare i guai in genere cinematografico, lo chiamano worst case scenario: il peggiore degli incubi possibili. Noi, nel nostro piccolo, lo stiamo sperimentando a Taranto. L’Ilva, asse portante della siderurgia nazionale e dunque dell’assetto industriale nostrano, da ieri è senza vertici. Dimissioni collettive, via anche un manager del livello di Enrico Bondi appena insediato per raddrizzare la barca. A rischio almeno 40 mila posti di lavoro, da domani la città dei Due Mari ricomincia a vivere tensioni che una recente sentenza della Consulta e la nascita di un pool di banche finanziatrici parevano avere allentato. E’ l’ultimo effetto del sequestro deciso dalla giudice Todisco contro la Riva Fire, la cassaforte di Emilio Riva e figli: otto miliardi e cento milioni di euro bloccati, cifra sconcertante (beni indispensabili per andare avanti, dicono in azienda preparando il ricorso). Soldi che sarebbero stati sottratti alle bonifiche ambientali e alla sicurezza degli impianti dal 1995 a oggi (cioè anche mentre i vertici Ilva dialogavano col governo Monti ottenendone deroghe e benefici). Certe morti in fabbrica, scrive la gip in un passaggio agghiacciante, si spiegano anche così.
C’è da augurarsi che la Todisco abbia preso un abbaglio immane. In caso contrario siamo in presenza di un’operazione coloniale (in senso tecnico: sfruttamento di un territorio da parte di un’entità economica esterna, nativi danneggiati, risorse portate altrove). Un’operazione non consumata, tuttavia, nel buio dell’Africa del diciannovesimo secolo, ma oggi, sotto i riflettori del villaggio globale. Tutti potevano vedere. Tutti si sono girati dall’altra parte. Quando l’acciaieria nacque per mano pubblica, mezzo secolo fa, un vecchio sindaco dc, Angelo Monfredi, disse che qui erano «talmente poveri» che si sarebbero fatti mettere gli impianti «anche in piazza della Vittoria», cuore di Taranto. I suoi successori, via via meno poveri, non si sono allontanati molto dalla «linea Monfredi», nemmeno trattando con i privati che da vent’anni sono scesi quaggiù.
Perché, senza voler nulla togliere alle responsabilità eventuali dei Riva (sempre più inadeguati a gestire la catastrofe) è difficile non scorgere attorno ad esse un quadro di disattenzioni e omissioni tra i politici che avrebbero dovuto legiferare, i sindacalisti che avrebbero dovuto protestare, i giornalisti che avrebbero dovuto documentare problemi noti a Taranto anche ai bambini (non per modo di dire: ci sono prati alla diossina dove è stato vietato giocare per ordinanza sindacale). Senza allontanarsi molto nel tempo, quando nel 2005 l’Ilva subì la prima condanna per inquinamento, Comune e Provincia si ritirarono dall’elenco delle parti civili e la Regione di Fitto non ci si mise neppure («certi nodi non si sciolgono per via giudiziaria»: giusto, purché si trovi un’altra via). Dai finanziamenti (regolarmente dichiarati) dei Riva a Bersani nel 2006, agli apprezzamenti di Vendola per il patron Emilio, ancora nel 2011, sulla rivista dell’azienda («credo che dalla durezza dei primi incontri sia nata la stima reciproca che c’è oggi»); dalle rassicurazioni dell’attuale sindaco Stefàno al boss delle pubbliche relazioni Archinà, sul rinvio sine die del referendum avversato dall’azienda, fino al ricorso di Cgil e Cisl proprio contro quel referendum; senza dimenticare il silenzio tenace di generazioni di senatori e deputati pugliesi: l’idea di dover difendere comunque i posti di lavoro ha convinto chi era in buona fede e coperto chi magari lo era meno. Faldoni di intercettazioni mostrano connivenze di giornalisti locali. A ciascuno il suo. Ma il flop del tanto sospirato referendum, infine celebrato ad aprile, ha svelato lo scarso interesse alla questione persino della mitica società civile (massimo astensionismo a Tamburi, il quartiere più inquinato). L’Ilva è dramma nazionale, la sua chiusura avrebbe effetti esiziali sulla nostra economia, sicché ora si guarda al governo Letta, all’Europa, a qualche santo patrono. Ma «ce me ne futt’a mme?, che me ne frega?», il motto identitario dei tarantini, troppo a lungo ha unificato la Penisola sulla questione. Davvero la colpa è tutta di patron Emilio?

Il Corriere della Sera 26.05.13

"L’ultimo atto dei teatri lirici", di Luca Dal Fra

Sono parecchie le grane che Massimo Bray ha trovato sulla sua scrivania di Ministro per i beni e le attività culturali: forse la più appassionante riguarda la musica nel nostro Paese. In tutto il mondo l’opera parla italiano, grazie a uno straordinario repertorio lasciatoci dai nostri compositori che sta conquistando sempre nuovo pubblico dall’Asia al Sudamerica all’Africa e perfino in Europa -, ma in Italia il melodramma vive la stagione più triste della sua storia, d’altronde insieme alla musica sinfonica e da camera vessate da iniqui e inutili provvedimenti varati dal Governo Monti.
Se nei giorni scorsi hanno fatto scalpore i lavoratori delle librerie Feltrinelli che per evitare i licenziamenti abbiano scelto la cassa integrazione di solidarietà, non tutti sanno che la cosa avviene da anni nelle Fondazioni lirico-sinfoniche, i nostri maggiori teatri lirici. C’è poi la crisi endemica che attraversiamo, con oltre 10 anni di continui tagli agli investimenti pubblici del settore; su tutto pesa la Legge 100/2010, la cosiddetta riforma Bondi, che nei discorsi di quell’ineffabile ministro avrebbe dovuto «salvare la lirica» e invece la sta affondando. Per non parlare dei cosiddetti contributi salvifici dei privati alla cultura, che dal 2005 al 2011 per le 14 Fondazioni lirico-sinfoniche sono passati dalla cifra risibile di 47,6 milioni di euro a 50 milioni e, considerando l’inflazione, come valore reale sono diminuiti. Si aggiungano gli effetti di una visione tutta managerialista e privatista che sta facendo non pochi danni all’identità delle nostre grandi istituzioni musicali e non di rado sta causando disastri economici.
Caso esemplare è il Carlo Felice di Genova, dove per far fronte ai tagli e al conseguente dissesto del teatro, per la prima volta più di due anni fa è stata introdotta la cosiddetta «solidarietà», vale a dire una riduzione dell’orario di lavoro con la conseguente diminuzione di stipendio, in parte coperta dalla cassa integrazione. Una medicina amara per i lavoratori ma soprattutto per più versi inutile: il danaro pubblico che veniva risparmiato tagliando gli investimenti, era poi speso in parte come sussidio, e per di più il piano industriale, che oltre alla «solidarietà» aveva visto prendere impegni dagli enti locali e dai privati, è miseramente naufragato poiché gli unici a rispettarlo sono stati i lavoratori. In questi giorni si sta perfezionando un nuovo accordo di «solidarietà» per i tecnici e gli amministrativi, mentre orchestra e coro rinunceranno a una parte dello stipendio. Una Caporetto progettuale e amministrativa visto che il teatro non dà segni di ripresa. È forse per questo che una analoga medicina è stata proposta in questi giorni dal commissario straordinario Carapezza Guttuso per risanare il Massimo di Palermo: tagli ai salari che secondo il sindacato raggiungerebbero il 60% dello stipendio, oltre al recente annullamento di 2 titoli di una stagione che contava 8 opere e si è ridotta del 25%.
La Scala è però l’emblema della gravità della situazione: il teatro vive oramai con più del 60% di risorse proprie (soci e sponsor privati, vendite), dunque ben oltre la soglia di quel 50% che piace alla visione più liberista delle istituzioni culturali. Nel 2012 il teatro meneghino si è visto decurtare circa 7 milioni di euro (3 dallo Stato, 3 dalla Provincia e 1 dal Comune), così oltre a vari tagli per chiudere senza un disavanzo, i lavoratori hanno rinunciato a circa la metà del loro compenso integrativo, un contratto che era stato firmato appena l’anno precedente. Se il più importante teatro italiano è in affanno si può immaginare cosa accada altrove, e dunque è importante sottolineare come il Governo Monti dopo aver garantito che non avrebbe tagliato gli investimenti alla cultura, naturalmente lo ha fatto sia nel 2012 che nel 2013 per lo spettacolo circa il 5% in meno, cui vanno aggiunti i tagli alle amministrazioni locali nei capitoli di spesa dedicati alla cultura. Conseguentemente anche al Lirico di Cagliari i fondi delle amministrazioni locali per il 2013 sono ridotti alla metà. E saranno dolori.
La nuova frontiera è tuttavia sui Lungarni fiorentini e, ahimè, le acque sono molto torbide. Il Comunale di Firenze, uno dei più importanti teatri italiani, nel 2010 è stato affidato a Francesca Colombo, nominata sovrintendente dall’appena insediato sindaco Matteo Renzi. Curriculum non inopinabile, aggressivo atteggiamento manageriale, dopo aver promesso il pareggio di bilancio, in tre anni di gestione Colombo ha accumulato quasi 15 milioni di euro di passivi prima che il teatro venisse commissariato nel febbraio scorso (11,6 certificati da lei stessa per il biennio 2010-11, altri 3 per il 2012 certificati dall’attuale commissario). E questo malgrado i lavoratori del teatro abbiano fatto pesanti periodi di cassa integrazione in deroga, abbiano acconsentito a numerosi licenziamenti volontari con incentivo, e perfino abbiano ceduto una parte degli accantonamenti della loro liquidazione.
Insomma, un’altra Caporetto, cui l’attuale commissario Francesco Bianchi risponde oggi con una linea del Piave vecchia e ammuffita: altri 120 licenziamenti (75 di personale più altri 44 con cause di lavoro che il teatro è destinato a perdere). Il progetto sarebbe chiudere il corpo di ballo in Italia ogni volta che un teatro è in crisi la prima vittima sono i danzatori e disfarsi dei tecnici in cospicua parte, passando da 404 lavoratori del 2009 a 277 nel 2014. Come sempre il ridimensionamento radicale porterà a una diminuzione della produttività e dunque degli investimenti pubblici, mentre nel contempo Firenze è in procinto di avere un nuovo teatro d’opera, del costo di centinaia di milioni di euro, per destinarlo proprio al Comunale, che in questo modo da
centro produttivo diventerebbe un luogo di circuitazione con annessi orchestra e coro, ma senza tecnici per montare gli spettacoli. Si parla di una legge speciale per salvare la situazione, con contributi non per il teatro ma per il festival, il Maggio musicale, dove sono anche circuitati spettacoli. Il provvedimento dovrebbe contenere anche una prebenda per l’Arena di Verona, che non ne avrebbe urgenza, ma si tratta di una cosiddetta larga intesa per gratificare due città, una governata dal centrosinistra e l’altra dal centrodestra.
Impressione diffusa è che la battaglia che in questi giorni stanno combattendo i lavoratori e i sindacati del Comunale di Firenze non riguardi solo i bilanci e i passivi del loro teatro, ma tutti i teatri italiani che si vorrebbero lentamente trasformare da centri di produzione a contenitori per circuitare spettacolini intrattenitivi e canzonettistici. È questo il destino dei nostri grandi teatri? Ma oltre alle Fondazioni lirico-sinfoniche, la musica in Italia comprende altre realtà: un tessuto che si sta assottigliando sempre più, sia quantitativamente che qualitativamente. Parliamo delle Orchestre Regionali talvolta di notevole qualità come la Toscanini di Parma, la Regionale Toscana, la Haydn di Bolzano -, dei Festival, delle associazioni concertistiche, talune di nobili ascendenze come la Filarmonica Romana, gli Amici della Musica di Firenze o di Palermo.
Negli ultimi 13 anni, contrassegnati dai continui tagli ai finanziamenti pubblici operati dai governi di centro-destra e da quelli tecnici, avevano avuto una sola forma di risarcimento: le istituzioni consolidate godevano di un sistema di anticipi che arrivavano a metà stagione e coprivano fino all’80% del finanziamento -, che gli permetteva di non chiedere prestiti e non pagare interessi alle banche. Tuttavia il Governo Monti con due leggi 135/2012 detta Cronoprogramma e 33/2013 sulla trasparenza -, indirizzate a regolare forniture e appalti, ha reso burocraticamente impervio se non impossibile pagare alle istituzioni culturali questi anticipi e perfino i saldi degli scorsi anni, (pur se in questo caso si tratta di contributi e non di forniture e appalti). Risultato: di fronte a un settore fortemente definanziato come quello culturale, le banche prestano a interessi da capogiro oppure non prestano affatto, visto che queste istituzioni, al contrario dei teatri d’opera non possedendo un patrimonio, non sono in grado di offrire garanzie. Ricaduta collaterale: le attività culturali in Italia stanno acquisendo la fama di settore insolvente e gli artisti internazionali vengono sempre meno volentieri.
È un’altra Caporetto, emblematica poiché le due leggi del Governo Monti il cui scopo sarà stato anche encomiabile, non hanno tenuto conto della specificità del settore cultura e dell’emergenza in cui versa da quasi quindici anni e della sua attuale fragilità. Questo ultimo punto, la specificità del settore cultura, non solo non è nell’agenda politica del centro-destra, ma neppure, spiace dirlo, del centro-sinistra. In cosa bisogna sperare: finalmente in un rifinanziamento dell’investimento pubblico in cultura, che oramai nessuno osa proporre? In politiche culturali, serie, lungimiranti e progettuali che mancano da anni? Di certo questi sono solo i problemi più urgenti della musica: una vera grana che il ministro Bray si è trovato sul tavolo, ma per ora la pratica non appare neppure aperta.

L’Unità 26.05.13

"Il semipresidenzialismo vuol dire cambiare Costituzione", di Francesco Cundari

A leggere i giornali, si direbbe che sul modello francese nel partito democratico siano ormai tutti, o quasi tutti, d’accordo. Legge elettorale a doppio turno e semipresidenzialismo sarebbero dunque la risposta migliore al montare dell’antipolitica, l’unica davvero all’altezza della richiesta di rinnovamento che sale dal Paese.
Curiosa conclusione, considerato che si tratta della proposta uscita quindici anni fa dalla famigerata bicamerale D’Alema. Addirittura surreale, se consideriamo come nella lunga serie di crisi istituzionali in cui la politica italiana si dibatte da almeno tre anni l’unico punto di riferimento certo, l’unica istituzione riuscita a conservare credibilità e capacità di svolgere il proprio ruolo, a detta di tutti, è proprio la presidenza della Repubblica. Vale a dire l’unica istituzione rimasta intatta in questi venti anni di continua torsione del sistema in nome di uno spirito del bipolarismo maggioritario del tutto estraneo al nostro dettato costituzionale.

Molti autorevoli osservatori sostengono che l’emergenza di oggi sia salvare questo bipolarismo ed evitare il ritorno al proporzionale. Non c’è da sorprendersi: anche all’indomani del fallimento di Lehman Brothers molti autorevoli economisti sostenevano che l’emergenza fosse evitare il ritorno ai salvataggi di Stato. Vista la situazione, in entrambi i casi, forse sarebbe il caso di preoccuparsi dell’andata, prima che del ritorno.

Se alle ultime elezioni gli italiani hanno dato tra il 25 e il 29 per cento a tre diversi poli — centrosinistra, centrodestra e Cinquestelle — cosa significa, in concreto, salvare il bipolarismo? Quale bipolarismo, con tre poli che in campagna elettorale si sono presentati come perfettamente equidistanti l’uno dall’altro? Illudersi di risolvere il problema con il doppio turno è una furbizia che può costare cara. Nella Francia del 2002 il candidato socialista all’Eliseo Lionel Jospin rimase fuori dal ballottaggio per i voti che gli sottrassero i candidati di ben quattro diverse liste trotzkiste. Al secondo turno andarono così il leader della destra gollista Jacques Chirac e il leader della destra xenofoba Jean-Marie Le Pen, costringendo la sinistra francese a condurre una surreale campagna elettorale a favore di Chirac. Il risultato fu la trionfale elezione a capo dello stato di un leader che al primo turno aveva preso meno del 20 per cento.

Nel discutere di sistemi elettorali non bisogna pensare alle convenienze di una parte, si dice. Non bisogna cercare di cucirsi addosso il vestito più adatto a vincere, si capisce. Se questo è vero, però, vuol dire che lo stesso vestitino bisogna essere capaci di immaginarlo anche indosso ai propri avversari. Prima di proseguire sulla strada del modello francese, pertanto, sarebbe utile che ciascuno di noi cercasse di visualizzare un ballottaggio per il Quirinale tra Beppe Grillo e Silvio Berlusconi, a familiarizzarsi con l’ipotesi del comico genovese a Capo delle Forze armate o del miliardario di Arcore a capo del Consiglio superiore della magistratura.

L’aspetto più curioso di questo dibattito è però la sua tempistica, a pochi giorni dall’ordinanza in cui la Cassazione ha spiegato tra l’altro che il premio di maggioranza del Porcellum «provoca una alterazione degli equilibri istituzionali, tenuto conto che la maggioranza beneficiaria del premio è in grado di eleggere gli organi di garanzia che, tra l’altro, restano in carica per un tempo più lungo della legislatura». Evidentemente, un simile problema riguarda tutti i sistemi maggioritari (potenzialmente, il doppio turno potrebbe anzi produrre alterazioni degli equilibri persino più significative). La nostra Costituzione prevede infatti una serie di contrappesi che le torsioni maggioritarie hanno progressivamente indebolito, in nome di una esigenza di «governabilità» che non sembra mai soddisfatta, ma intanto ha consentito a Silvio Berlusconi di farsi approvare fior di leggi ad personam, anche quando il suo partito non superava il 30 per cento. Se qualcosa è rimasto in piedi nonostante tutto, a cominciare dall’indipendenza della magistratura, è grazie a quel poco di contrappesi costituzionali che alla «rivoluzione maggioritaria» hanno resistito. Se si vuole abbattere anche quelli, lo si dica. Ma il modello francese non è una «modifica» della Costituzione e nemmeno una sua «riforma». È semplicemente un’altra Costituzione. Ogni scelta è legittima, naturalmente. Purché si chiamino le cose con il loro nome e non si pretenda di fare tutte le parti in commedia. Se si vuole sposare un’altra donna non si chiede una modifica del proprio rapporto di coppia, si chiede il divorzio.

L’Unità 26.05.13

"I nuovi conti dei partiti", di Ettore Livini

Uno per mille, meno soldi per tutti. Il finanziamento pubblico ai partiti – a vent’anni dal referendum – si prepara (forse) a celebrare davvero il suo funerale. E ad entrare nella terra incognita dei contributi privati. A dare la linea è stato il premier Enrico Letta: «I cittadini che lo desiderano potranno destinare alle formazioni politiche l’uno per mille dell’imposta sul reddito», ha annunciato. Le tecnicalità del provvedimento sono ancora da scrivere. Ma due cose paiono certe: la torta dei quattrini a disposizione rischia di ridursi drasticamente. E se passerà la linea — attualmente più gettonata — di donazioni dirette (con l’indicazione del gruppo destinatario nella dichiarazione dei redditi) la mappa delle entrate della “Politica Spa” rischia di essere ridisegnata. A tutto vantaggio dei partiti — come la Lega — radicati nelle aree più ricche e popolate del paese. Ecco come potrebbero cambiare le cose.
RIMBORSI ADDIO
I 159 milioni stanziati dopo le elezioni dello scorso febbraio (45,8 milioni al Pd, 42,7 ai 5 Stelle che non li accetteranno, 38 al Pdl) saranno il canto del cigno dell’era dei rimborsi elettorali, il cappello sotto cui i palazzi hanno riesumato il vecchio finanziamento pubblico cancellato con maggioranza bulgara (il 90,3% di “sì”) al referendum del ‘93. Dal ‘94 ad oggi, calcola la Corte dei Conti, i partiti hanno incassato in questo modo surrettizzio 2,4 miliardi, a fronte di spese elettorali accertate di poco meno di 600 milioni. Nel ‘94 il tariffario del rimborso era di 1.600 lire a cittadino (75 centesimi di euro). Ma poco alla volta è salito surclassando l’inflazione, raggiungendo le 4mila lire nel ‘98 per arrivare adesso ai 5 euro. La torta dei rimborsi è così lievitata dai 46 milioni distribuiti alle politiche del ‘94 ai 503 delle elezioni 2008. Poi l’austerity e la marea montante anti-casta hanno costretto la politica a moderare gli appetiti, tagliando del 30% circa i fondi statali a sua disposizione.
L’ERA UNO PER MILLE
Quanto incasseranno i partiti nell’era del finanziamento privato? Dirlo con precisione, come ovvio, è impossibile. La donazione è volontaria e nessuno si azzarda a fare previsioni. Anche se il livello di popolarità
delle formazioni più tradizionali non induce i loro tesorieri a grande ottimismo. Qualche punto fermo però può essere messo. L’otto per mille, per dire, garantisce oggi un gettito pari a più di un miliardo l’anno. Ma è obbligatorio per tutti e anche chi non sceglie a chi girarlo vede stornata proporzionalmente la sua quota sulle realtà indicate dagli altri. Meglio allora fare riferimento al 5 per mille, la quota di reddito che può essere versata a onlus, associazioni sportive, ospedali o istituti di ricerca in modo volontario. Nel 2011, 16,7 milioni di italiani, più o meno la metà della platea dei contribuenti, hanno deciso di devolvere un pezzo del loro reddito — in media 23 euro a testa — a fin di bene, mettendo sul piatto 391 milioni. Se lo stesso numero di persone — ma siamo a livello di pura utopia — decidesse di dare un altro un per mille ai partiti, la torta a loro disposizione sarebbe di 78 milioni l’anno. Cifra su cui a Roma tutti metterebbero la firma. Se a finanziare la politica fossero invece solo 5 milioni di italiani, l’intero arco costituzionale tricolore si dividerebbe 23 milioni l’anno, 125 per una legislatura. Un quarto dei quattrini intascati nel 2008.
I RIMBORSI FEDERALI
Chi incasserà più soldi? Le ipotesi sono due: la prima ventilata è la costituzione di un “monte-finanziamenti” collettivo alimentato dall’uno per mille da spartire poi tra i partiti in base ai risultati elettorali.
La strada più probabile (e più rispettosa del volere del singolo contribuente) è però quella secondo cui ogni cittadino indica direttamente il nome del partito cui girare l’uno per mille. E in questo caso a stabilire vincitori e vinti sarebbe la mappa dell’Irpef tricolore, premiando le formazioni forti nelle aree più ricche del paese. L’un per mille di tutte le dichiarazioni lombarde, per dire, ammonta a 41 milioni l’anno, quello del Lazio a 22. In Campania, dove i redditi sono minori, scendiamo già a 14, in Sicilia a 8. Emilia, Toscana e Umbria — le tradizionali roccaforti rosse — hanno un gettito potenziale di 31 milioni mentre la “macroregione Padana” feudo dei “barbari sognanti” della Lega (Piemonte, Lombardia e Veneto) vale 72 milioni. Ben 15 in più rispetto a tutta l’Italia dal Lazio (incluso) in giù, isole comprese. Con l’effetto che ad essere avvantaggiate saranno le forze più radicate al nord (Pdl e Lega) e penalizzate le altre, compreso il Pd.

La Repubblica 26.05.13

"La spinta delle città", di Claudio Sardo

Oggi e domani sono chiamati alle urne 7 milioni di italiani, un terzo dei quali cittadini romani. Le elezioni amministrative sono anzitutto la manifestazione di volontà di un comunità civica, finalizzata a costituire e indirizzare il proprio governo locale. Dimenticare questa priorità vuol dire negare valore alle autonomie, e spesso letture iperpoliticiste inducono a sbagliare le analisi oppure a strumentalizzare i risultati.

Tuttavia un test così vasto e importante, a tre mesi da elezioni politiche concluse senza un vero vincitore, non potrà non avere anche una valenza generale. Sono palpabili la delusione, la sfiducia, la sofferenza che attraversano il corpo sociale del Paese – come hanno dimostrato venerdì le difficili piazze di Roma. È evidente la paralisi del nostro sistema politico. Ed è ancora più esplicita, più urgente la domanda di una svolta nell’azione di governo: a partire dal lavoro, dal rilancio della domanda interna, dall’ossigeno di cui hanno bisogno le imprese, dalla necessità di riequilibrio nel senso dell’uguaglianza. Sì, perché la disuguaglianza sta diventando uno dei fattori del declino nazionale.

Il voto dei cittadini – proprio perché inciderà nella dimensione locale – non sarà indifferente a queste dinamiche sociali, che toccano ormai tutti i terminali del Paese. Impresa e lavoro possono allearsi, individuando nella rendita finanziaria e in quella parassitaria gli antagonisti di questa fase storica. I Comuni hanno un ruolo importante nel sostegno alle forze sociali del rinnovamento e nella definizione di una nuova idea di pubblico, efficiente, integrata, aperta, ma sempre capace di perseguire il bene collettivo. Proprio per questo a Roma – capofila della tornata amministrativa – è necessario cambiare rotta rispetto alla gestione arroccata e clientelare del potere da parte della giunta Alemanno. Il progetto di Marino, peraltro, ha una dimensione civica che può dare anche un contributo alla ricostruzione del centrosinistra nazionale.

Certo, il governo nazionale del cambiamento non si è realizzato. Per colpa nostra, oltre che per svariate altre congiunture. Il Pd e il centrosinistra non sono stati capaci di presentare un programma e una squadra convincenti, e poi di restare uniti nei passaggi cruciali. La domanda di rinnovamento – nelle scelte politiche e negli uomini – è fortissima. Non la si può affrontare con superbia, e neppure con la furbizia di chi si fa trascinare dell’onda.

Il centrosinistra deve aprirsi e misurarsi, nel merito, con le critiche e i malumori che provengono da chi ha ancora tanta passione e voglia di partecipare al cambiamento possibile: fa più paura il disimpegno silenzioso che la contestazione severa. Ma questo lavoro di riprogettazione politica, compreso quello di un nuovo radicamento del partito nella società (perché senza partiti democratici ci sarà soltanto il potere delle oligarchie), può e deve partire dal basso, dalle città. Le elezioni am- ministrative, pur con tutte le difficoltà di questi giorni, possono essere il primo passo sulla nuova strada.

Di sicuro, il voto non sarà un giudizio sul governo. Nel senso che il governo non è un contratto di «pacificazione», né un’alleanza di tipo tradizionale. Il governo è una modalità inedita – imposta dallo stato di necessità – in cui si esprime la competizione politica. Dopo l’esaurimento dei «tecnici», il compito del governo è portare il Paese fuori dalle secche della recessione e di dargli un assetto istituzionale finalmente europeo. Ma nei Comuni la battaglia principale resta quella tra centrodestra e centrosinistra. Non potrebbe essere altrimenti. E dove il centrodestra è più debole, il centrosinistra se la vedrà con i grillini, cercando di confermare sul campo quella centralità nel tripolarismo italiano che certo è molto scomoda, ma non è scontata. Del resto, Grillo finge di rappresentare un’alternativa politica. In realtà – e lo hanno scoperto molti suoi elettori – il Movimento Cinque stelle ha lavorato tenacemente in questi tre mesi per riaprire a Berlusconi le porte del governo. Grillo non vuole cambiare, vuole lucrare sullo status quo.

Speriamo invece che Enrico Letta riesca a ottenere in Europa una svolta nelle politiche economiche e sociali, e a tradurle in provvedimenti innovativi. Ma intanto, mentre fa i conti con i propri errori e con i propri limiti, il Pd e il centrosinistra devono tenere alta la sfida. Il governo non è solo potere. Anzi, oggi è assai poco potere. Il governo come servizio alla comunità è in primo luogo la dimensione sperimentata nelle realtà locali. Dai Comuni partì a metà degli anni 90 quell’onda di rinnovamento, di europeismo positivo, di coesione sociale che generò l’Ulivo, progenitore del Pd. Stiamo ora entrando in nuova stagione. Con nuovi protagonisti e nuovi traguardi. Ma la spinta delle città, compresi le donne e gli uomini protagonisti del buon governo locale, resta indispensabile per il progetto del centrosi- nistra. Non si tratta di costruire un partito degli «eletti» o un partito dei sindaci. Si tratta di riattivare dal basso il circuito della politica democratica. Senza un centrosinistra vitale non ci sarà il cambiamento. Non basterà un capo carismatico a riparare i danni di un altro capo-padrone.

L’Unità 26.05.13