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"Pensioni, si riaprono i giochi", di Nicola Mondelli

Il tema della previdenza torna ad agitare la scuola. Sia tra il personale scolastico in servizio con contratto a tempo indeterminato, infatti, che tra le decine di migliaia di docenti e Ata precari, si sta registrando una certa preoccupazione per le voci, sempre più insistenti, di possibili modifiche alle norme previdenziali in vigore introdotte dal decreto legge n. 201/2011 (riforma Fornero), a condizione che si reperiscano i fondi necessari, che sarebbero all’esame del governo in carica.

Nell’ambito delle ipotizzate modifiche ci sarebbe anche la soluzione, da tempo auspicata, del problema sollevato da alcune migliaia di docenti e di personale Ata che non hanno potuto fare valere, ai fini pensionistici, i requisiti richiesti dalla normativa previgente l’entrata in vigore del predetto decreto legge «quota 96» perché tali requisiti li maturavano entro l’anno scolastico 2011/2012 e non entro il 31 dicembre 2011, come richiedeva l’art. 24 del decreto.

Sul personale della scuola le modifiche potrebbero da un lato consentire soprattutto al personale femminile di accedere alla pensione con una età anagrafica meno elevata rispetto a quella attualmente richiesta e dall’altro offrire ai precari un maggior numero di posti disponibili per incarichi sia a tempo indeterminato che di durata annuale. La più consistente modifica che potrebbe essere apportata alle norme in vigore dovrebbe infatti riguardare, unitamente però a penalizzazioni nel calcolare la pensione, la riduzione dell’anzianità anagrafica e/o contributiva oggi richiesta per accedere sia alla pensione di vecchiaia che a quella anticipata.

Un’altra ipotesi che sembra trovare molto consenso soprattutto tra le organizzazioni sindacali del comparto scuola è quella favorire, congiuntamente a benefici contributivi, l’accesso dei docenti e del personale Ata alla pensione anticipata con permanenza in servizio in regime di part-time fino al raggiungimento dell’età anagrafica o contributiva richiesta dalla normativa in vigore per accedere al trattamento di quiescenza.

Ad avviso di quanti sostengono quest’ultima ipotesi, una sua attuazione consentirebbe ad alcune decine di migliaia di precari di ottenere un incarico a tempo indeterminato sia su posto a tempo pieno che su posti a tempo parziale, come espressamente previsto dall’art. 39 del contratto collettivo nazionale scuola in vigore. Nel comparto scuola la ricerca di nuovi posti disponibili è diventata ancora più impellente alla luce della drastica riduzione dei pensionamenti che avranno decorrenza dal 1° settembre 2013.

Dovrebbero andare in pensione, secondo i dati provvisori comunicati a marzo dal ministero dell’istruzione, solo 10.009 docenti e 3.343 personale Ata. Una riduzione che sarebbe superiore addirittura del cinquanta per cento rispetto al numero dei pensionamenti registrati nel 2012 (21.112 docenti e 5.336 Ata). Sul numero reale delle cessazioni dal servizio che avranno effetto dal 1° settembre prossimo resta comunque un fondato dubbio sull’esattezza dei dati provvisori comunicati a marzo dal ministero dell’istruzione.

Secondo una indagine campione realizzata da Azienda Scuola, infatti, i docenti che cesseranno dal servizio a settembre non dovrebbero essere meno di 15.000, mentre gli Ata non meno di 4.500. Sui numeri reali non si hanno ancora, a fine maggio, dati certi. I competenti uffici del ministero di viale Trastevere continuano, infatti, a non fornire alcuna notizia in merito. Top secret. Ma, cui prodest?

ItaliaOggi 28.05.13

Musei: Ghizzoni (Pd), bella iniziativa ministro Bray su accesso bimbi extracomunitari

“E’ una iniziativa molto bella, finalmente nei musei i bambini saranno tutti uguali, senza barriere di nazionalità”. Lo afferma Manuela Ghizzoni, vicepresidente della commissione Cultura di Montecitorio, commentando la decisione del Ministro per i Beni e le Attività Culturali, Massimo Bray, di ‘consentire l’accesso gratuito ai luoghi della cultura sul territorio nazionale anche ai minori extracomunitari’.

Manuela Ghizzoni aggiunge inoltre: “i bambini extracomunitari, che vivono nel nostro paese, frequentano le nostre scuole, si esprimono con la nostra lingua, e sono così soggetti attivi della società italiana, avranno una ulteriore opportunità per condividere il nostro patrimonio culturale e frequentare i luoghi della nostra cultura”.

"Quel sindaco circense tra pajata e parentopoli", di Filippo Ceccarelli

Alemanno uguale Aledanno. Ma per una volta, e con l’aiuto degli elettori, il danno è tutto per lui. O quasi. Si dirà: alla buon’ora! Troppi guasti paiono ormai difficilmente rimediabili, per Roma. Ma che almeno sia d’insegnamento ai romani, anche fuori tempo massimo, l’aver accordato fiducia a un politico rivelatosi tra i peggiori sindaci che la recente storia capitolina ricordi.
E adesso si avrebbe persino scrupolo ad assestare il classico calcio del somaro, guai ai vinti, ma gli scrupoli necessariamente si attenuano rispetto alla più colpevole mancanza di memoria, per cui i potenti dispongono di costosi apparati adibiti a «far credere» e nessuno ricorda nulla, soprattutto con quali slanci e aspettative cominciano le esperienze e le avventure del potere municipale, per cui Alemanno, da poco eletto, si consentì addirittura di proclamare, con cieca determinazione: «Siamo stanchi dei troppi cretini al comando». Anvedi.
Era il marzo del 2009, e aver visto il sindaco di notte alle prese con la possibile inondazione del Tevere, autenticamente preoccupato sotto la pioggia sui muraglioni del fiume, poteva perfino rendere innocente quella sua smaniosa e temeraria risolutezza. Ma guai a considerare la stupidità una categoria po-litica! E men che meno guadagnare voti sulle tragiche vicende della cronaca nera!
Così ora che Roma è vissuta da ciascuno come una città divenuta inesorabilmente violenta, e che il vertice dell’amministrazione pare guidato dalla più balorda e surreale inconcludenza, non solo si consuma la classica nemesi, ma finisce per suonare minaccioso il nome stesso della fondazione di Alemanno: «Nuova Italia» – e non sia mai, per carità. E acquista amaro, sarcastico rilievo, oltre a fare sintomatico cortocircuito con certe abitudini degli amici del sindaco, che in una delle ineluttabili sfilate in costume da antichi romani incoraggiate dall’amministrazione si segnali una «Legio Rapax», laddove la rapacità dei suddetti amici è sotto gli occhi di tutti.
Il problema, semmai, o meglio il paradosso, è che Parentopoli, Monnezzopoli e Ladropoli, con l’opportuno e anche vorace contributo di Fascistopoli, hanno messo in ombra o addirittura gettato nell’oblio la prima incredibile fase della epopea alemanniana, con un misto di furbizia e ingenuità incentratasi su una logica tipo panem et circenses di cui i rigatoni con Bossi a piazza Montecitorio e il sogno dei bolidi di Formula 1 all’Eur costituiscono gli esempi più rinomati nella loro fantasmagorica cialtroneria.
E non solo perché Alemanno ha poi rinnegato la pajata, anzi disse con eleganza: «Mi è andata di traverso, con la Lega neanche una bruschetta»; e anche il Gran Premio, con il dovuto indotto di speculazioni, andò a farsi benedire. A quel punto, ma sempre invano, il sindaco cercò di acchiappare le Olimpiadi; arrivando a promettere, nel caso le avesse ottenute, un pellegrinaggio a piedi alla Madonna del Divino Amore, già obiettivo di analoghe visite propiziatorie. E anche di questo toccherà purtroppo ricordarsi: dell’uso pervicace della religione – e della Chiesa e del suo ex Pontefice ancora di più – come strumento di consenso, per cui resoconto mediatico di estasi a Lourdes, baci di mano, benedizioni di atti comunali, inflazione di presepi (tre solo in casa), menu quaresimale nelle scuole, doni al pontefice (con impicci amministrativi) sbandieramenti vaticani, figurarsi.
E «i Valori» prima di tutto. Dio Patria e Famiglia come uno scudo piatto e insieme coloratissimo. Sennonché, come è noto, il potere acceca, e nella Città Eterna ancora di più, per cui a parte scegliersi come testimonial un prete poi accusato di pedofilia, un certo giorno (dedicato all’Aids) Alemanno, che pure come tutti è una creatura imperfetta, per non dire un medio peccatore, ebbe l’idea di raccomandare ai giovani la castità pre-matrimoniale, che può essere anche un’idea, ma non si capisce bene cosa c’entri con l’amministrazione di una città che tra assedio di caldarrostai e risse di centurioni andava visibilmente a pezzi.
E dunque: Alemanno, Aledanno, Retromanno (perché spesso cambiava idea) Alemagno (Alè, Magno! con gesto di forchetta che si arrotola), Malemagno (secondo Pietrangelo Buttafuoco) e anche Brancalemanno (per gentile concessione di
Dagospia).
Sta di fatto che «sbullonato» il veltronismo, almeno a livello culturale, se così si può dire, il sindaco ha finito per sostituirlo con un suo succedaneo, però virato a destra. Quindi, a parte l’ideona di far cucinare grandi chef per i senza tetto (ma il sindaco e i maggiorenti al piano di sopra), vanno ricordate sbronze di futurismo, mascherate militari, saggi ginnici, calcetto da spiaggia, svariati test antidroga, oltre a matrone, senatores e antiche macchine da guerra che alimentano gli ammortizzatori psicologici dell’eterno scetticismo romano.
Fino alla fine, allorché durante l’ultimo Natale di Roma, culminato con il lancio di paracadutisti con tanto di fumogeni sul Circo Massimo, è parso che anche dal cielo provenisse il segno dell’imminente caduta dell’ardimentosa e ridicola giunta Alemanno (numero 3 o 4), per cui a causa del vento uno dei volatori è finito su un tetto di via dei Cerchi e sono dovuti intervenire i vigili del fuoco a tirarlo giù.
Nel frattempo il sindaco ha scalato torri, spalato la neve, prodotto video di lui in moto, litigato con conduttori televisivi, cambiato un numero notevole di spin doctor, distribuito uova di Pasqua ai passanti, a riprova che la sovraesposizione è una scienza esatta e che la fantasmagoria a vuoto prima o poi presenta il conto.
Ma poi, o intanto, anche quelli che speravano che la destra, proprio perché incontaminata, si sarebbe tenuta più pura, si sono dovuti ricredere scoprendo che i post-fascisti, specie in difficoltà, non solo erano più famelici, ma per trarsi dai guai individuavano settori deboli della società per proclamarli nemici sociali e dargli addosso: e in questo senso forse da parte dei media e dell’opposizione si è detto troppo poco riguardo alla stolida e inutile campagna scatenata contro la prostituzione e contro i crudeli raid per distruggere i campi dei rom, costretti a gironzolare per la città ricostruendo gli accampamenti.
In compenso, Alemanno ha promesso: di abbattere la teca dell’Ara Pacis e di «radere al suolo» (da Cortina) Tor Bella Monaca, nonché di costruire due stadi, insediare il Parco Fluviale, la Disneyland della Romanità e, visto che c’era, anche un paio di isole a largo di Ostia. Di concluso, per la verità, resta solo la problematica statuona di Giovanni Paolo II, cui un giorno fu appeso il cartello: «Wojtyla, perdona Alemanno perché non sa quello che fa». A quattro anni dalla vittoria, più che una beffa, sembra un ragionevole punto di vista.

La Repubblica 28.05.13

"Quei femminicidi non in nome dell’amore", di Sara Ventroni

I fatti sono avvenuti a Corigliano Calabro ma potevano accadere ovunque. La geografia non c’entra. Tantomeno il folklore. Le donne vengono uccise al sud come al nord. In una strada sterrata di provincia come in un appartamento di città. I mariti, i compagni, i fidanzati omicidi sono insospettabili professionisti o disoccupati. Hanno sessant’anni oppure diciassette. L’unico dato certo è che la deformazione affettiva nelle relazioni tra gli uomini e le donne non conosce frontiere di luogo, né di status. Non guarda in faccia ai titoli di studio, e non dipende dal conto in banca. Ricchezza o povertà, qui, non illuminano i fatti. I dati ci dicono, anzi, che dove le donne lavorano e sono indipendenti nel nord dell’Italia, come nel nord dell’Europa le violenze sono più frequenti.
La costante dell’intreccio ossessivo e prevedibile è dunque da cercare altrove.
La trama è piuttosto elementare: lei ha deciso di andarsene, di troncare; oppure ha bisogno di una pausa di riflessione. Lo dice, lo spiega, lo scrive. Ma lui non ci sta.
La morte di Fabiana non fa eccezione. È un cliché. Rientra nel nostro appuntamento quotidiano, con variazione su tema: non è il racconto del furore adolescenziale. Non è l’esplosione di gelosia. Non è un pruriginoso romanzo di consumo, e non è un dramma di Shakespeare. Ma soprattutto: non è una storia d’amore.
Più che il fatto in sé, ci illumina la rappresentazione che ne diamo. Questa volta le cronache vogliono sottolineare che la ragazza avrebbe lottato con tutte le sue forze, prima di morire. Dopo aver ricevuto diverse coltellate, Fabiana avrebbe tentato di strappare dalle mani del suo fidanzatino la tanica di benzina.
Ci sorpendiamo di questo gesto chiaro, animale, di difesa. Lo mettiamo in cornice come ci fosse qualcosa da indagare. Un di più di innocenza che andrebbe riconosciuto alla ragazza, come un epitaffio. O una medaglia al valore.
Il dettaglio sul quale indugiamo ci dice che abbiamo la coscienza sporca. Che ancora esite, in qualche punto remoto dell’immaginario collettivo, un tarlo che bisbiglia: se la donna non si difende (e se alla fine non muore, trovando il martirio che le spetta) vuol dire che in fondo lo voleva. Perché la donna è davvero innocente solo se riesce a dimostrare, post mortem, una qualche attitudine alla santità.
In caso contrario, ci sarebbe il sospetto di complicità. Di una corrispondenza malata di sensi. Un desiderio inespresso di far coincidere amore e morte. Tentazione ancora irresistibile per i cantori della nera, bisognosi di rincarare con ogni mezzo la dose quotidiana di pathos.
Allora tocca sfrondare il linguaggio dalle incrostazioni e dai riflessi pavloviani, dove «amore» rima sempre con «dolore», e viceversa. Oggi possiamo dire che non si è trattato di raptus. Oggi dovremmo chiarire che Fabiana si è difesa perché non voleva morire. Non c’è un altro significato da attribuire all’estremo tentativo di difendersi, se non quello di salvare la propria vita. Non c’è un fine remoto, o uno scopo da insinuare. Nessun desiderio di diventare vittima, magari più eccellente delle altre.
I fatti sono questi. Lei ha quindici anni, lui diciassette. Due ragazzi. Probabilmente goffi nei primi approcci. Analfabeti dell’amore e del sesso. Dilettanti della vita. Inconsapevoli di sé e di una relazione. Il mondo è ancora tutto da scoprire. Di là dalle coltellate, ci impressiona il fatto che il ragazzo abbia trovato il modo per dilatare il tempo, andando in cerca di combustibile. Come se colpire diritto al cuore con un coltello non bastasse. Come se bisognasse cancellare i definitivamente l’altro, nel fuoco. Un falò, e un autodafé.
La madre di Fabiana dice che anche il ragazzo è una vittima. Forse è così. Sicuramente è così. Ma non lo aiuteremo certo lasciandolo nel dubbio di aver ammazzato in nome dell’amore.

L’Unità 28.05.13

"La protesta è diventata alienazione", di Elisabetta Gualmini

Li hanno provati e hanno capito che non sono tanto diversi da tutti gli altri. I grillini dalle facce nuove e sconosciute alla politica, quelli «troppo inesperti per poter rubare», i politici-cittadini «proprio come noi» non hanno convinto gli elettori a chiedere il bis.

Il Movimento 5 Stelle ha perso un po’ dovunque nei comuni in cui si è presentato, dopo lo straordinario successo di tre mesi fa. Una nemesi storica a velocità supersonica, di proporzioni vistose. E lo sboom più che andare agli altri partiti è andato verso l’astensione. Se a febbraio Grillo aveva tirato per i capelli cittadini spazientiti, ma disponibili a fare il tentativo più estremo, buttandosi pancia a terra su una novità, ieri nemmeno le urla e i cori sbracati di tutti-a-casa non sono bastati. Più che rinunciatari o ribelli, in gruppi ora cospicui, i cittadini italiani tenderanno a cadere nella categoria dei «politicamente alienati». Di chi si sente totalmente estraneo rispetto alle istituzioni della democrazia rappresentativa. E non se ne cura più.

Il caso di Roma è emblematico. Solo un cittadino su due ha votato e i 5 Stelle hanno dimezzato il loro peso rispetto alle politiche. Avevano già dimostrato di soffrire sul voto amministrativo rispetto a quello nazionale, basato sull’opinione creata dal leader attraverso i media. La vittoria di Pizzarotti a Parma non deve trarre in inganno. Nel febbraio 2013, a Roma, presero il 27,3% sulle liste per il Parlamento. Ma lo stesso giorno, il candidato grillino alla presidenza della Regione guadagnò il 20,1 (e la lista con i candidati al consiglio comunale del Movimento solo il 16,8%). Oggi, però, è caduto al 13!

Il cyberpartito di Grillo, poi placcatosi saldamente a terra per mettere radici nei palazzi del potere, rimane pur sempre un partito di protesta. E i partiti di protesta raramente arrivano a ottenere una maggioranza utile per governare, o a mutare natura e diventare parte integrante del sistema. Il ridimensionamento che pare portare i 5 Stelle verso una taglia media, sembra dovuto a due fattori. Il congelamento del voto dato alle politiche ad opera di gruppi parlamentari che hanno perso troppo tempo a discutere di micro-strategie, scontrini del caffè, e organizzazione interna. E la mancanza di candidati alle amministrative con qualche appeal che non sia la sola luce riflessa del capo. Non si è visto in giro nessun altro Pizzarotti, in grado di essere a suo modo personaggio, e di farsi portavoce politico di movimenti locali già esistenti e già fortemente legati alla città. Dove Pizzarotti non c’è, come nella maggioranza dei luoghi, i «politici-gente-comune» sono solo degli sconosciuti, i 5 Stelle rimangono Grillo-dipendenti. Ma davanti al capo sfigurano. Di fronte alla violenza delle sue sparate colossali contro tutti, alla concretezza sanguigna del turpiloquio buttato addosso a chiunque e all’energia ciclopica che nemmeno il corpo elastico di Grillo riesce a contenere, il mondo mite e naïf degli aspiranti-politici che vogliono realizzare un Sogno (Come De Vito che è sceso in politica per cambiare il mondo per la sua bambina) semplicemente sparisce.

La politica corre veloce e le cose cambiano in fretta. Nel giro di pochissimo, l’antivoto è diventato non voto. Per quanto i dati vadano rispettati e non si debba indulgere con le esagerazioni. Ad esempio, alle regionali del 2010, la partecipazione a Roma era stata del 56,6%, solo di poco superiore a quella registrata ieri. Ma soprattutto, molti dei comuni in cui si è votato domenica scorsa, nel 2008 avevano votato nello stesso giorno delle politiche. Il termine di comparazione era quindi alterato. Tanto che se si considerano separatamente i comuni capoluogo che nel 2008 avevano votato lo stesso giorno delle politiche registrano un calo di 18 punti nel tasso di partecipazione. Ma in quelli che avevano votato in una data diversa, il calo è ben differente, di 8 punti. Molti lo stesso, naturalmente.

Insomma dalla «voice» (la protesta), si è passati all’exit (alla uscita dal gioco). Il suo fallimento ha fatto di Grillo il traghettatore da una forma di rifiuto a un’altra. Facendo prima lievitare la stizza per poi trasformarla in alienazione. E’ una indubbia battuta di arresto. Se il flop avrà ripercussioni sul plotoncino di parlamentari che dovevano aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno, lo vedremo a breve.

La Stampa 28.05.13

"La primavera dello scontento", di Massimo Giannini

In queste amministrative c’è la primavera del nostro scontento. Quando un elettore su due resta a casa e rinuncia al rito civile del voto, la crisi della democrazia rappresentativa è compiuta. Il dato che colpisce di più, in un test elettorale che interessava 7 milioni di italiani, è il trionfo del partito astensionista. Se alle politiche di febbraio lo tsunami grillino aveva spazzato via i «vecchi» partiti, stavolta la vera onda anomala è quella del non voto, che non è più protesta «creativa», cioè ricerca del candidato o della lista che rompono tutti gli schemi. È invece rinuncia preventiva, cioè scelta di chi non vuole più scegliere.
Perché lo considera inutile, e perché sente che la democrazia è ormai solo procedura di palazzo, e non più «cura» della polis. Se la democrazia rappresentativa non mi rappresenta perché non risolve i problemi della mia vita quotidiana, il mio voto non serve. Bisogna guardare innanzitutto dentro questo drammatico abisso che divide politica e società, per non caricare il voto di significati troppo «paradigmatici ». Ma al fondo dell’abisso, un bilancio parziale è comunque possibile. La clamorosa risacca che prosciuga ovunque il Movimento 5 Stelle lascia sul terreno l’esito più imprevedibile: un Pd che non molla e un Pdl che tracolla.

A dispetto dei sondaggi che a livello nazionale fotografano una ritirata del Partito democratico e un’avanzata del Popolo della Libertà, il voto delle città riflette l’esatto contrario. Il centrosinistra a Roma ipoteca il Campidoglio. Su 16 comuni capoluogo ne conquista 5 al primo turno, confermandosi in testa in altri 10. È un sorpasso in retromarcia, perché avviene nel clima di sfiducia e disincanto di cui abbiamo detto. Ma resta un risultato piuttosto sorprendente: dimostra che forse non tutto è perduto, e che il partito, con le sue strutture logore e con i suoi leader ammaccati, un barlume di radicamento sul territorio ancora ce l’ha. La soddisfazione di Epifani è dunque comprensibile. Tuttavia, anche qui conviene non farsi troppe illusioni.
Il vantaggio di Marino nella Capitale è ampio e difficile da colmare. Ma il ballottaggio è sempre un’altra partita, come può testimoniare Rutelli che la perse rovinosamente cinque anni fa. E l’ex chirurgo si afferma per ora grazie a una strana alchimia, difficilmente ripetibile su scala nazionale. Un misto di «oltrismo» e di «nuovismo»: non a caso il suo slogan era «Non è politica, è Roma». Una miscela di radicalità e di alterità rispetto allo stesso Pd: non a caso lui stesso non ha votato per il governo Letta e a questo primo turno lo ha sospinto soprattutto il voto di Sel. La formula Marino non è facilmente esportabile, in un partito che invece guarda ormai a Matteo Renzi, fautore e simbolo dello «sfondamento al centro», come il candidato premier predestinato. Dunque serve cautela. Per i prossimi quindici giorni e anche per i prossimi quindici mesi, quando si dovrà celebrare un congresso che si vuole, giustamente, fondativo di un nuovo centrosinistra, capace di ibridare in un’identità finalmente risolta quell’«amalgama mal riuscito» che è stato il Pd in questi anni.
Il centrodestra subisce una batosta pesante, e altrettanto inaspettata. A Roma paga l’impresentabilità di Alemanno, il peggior sindaco degli ultimi 50 anni, travolto dal nulla che ha rappresentato, sul piano amministrativo e su quello culturale. Non sono bastate le assunzioni clientelari di famigli ed ex picchiatori fascisti all’Atac e all’Ama. Hanno pesato le bugie propagandistiche sul calo delle tasse (tra Imu e addizionale Irpef Roma è la città dove se ne pagano di più) e gli scandali del suo sottobosco (in testa il suo braccio destro Mancini). Risultato: se il Pdl perde anche Roma, non amministra più nessuna grande città. Un trauma per la destra capitolina, ma anche per la leadership berlusconiana. Il Cavaliere si illude di tenere ancora assieme, sotto la sua sovranità carismatica, le ultime schegge impazzite dell’ex Msi e i residui avamposti prealpini della Lega. Questo voto amministrativo non lo premia, da nessun punto di vista. Il Popolo delle Libertà perde quasi ovunque al Nord, da Sondrio a Vicenza, da Treviso a Imperia. E il Carroccio scompare in Veneto, cioè nel cuore della prima epifania padana di trent’anni fa.
Resta da spiegare l’eclissi totale delle Cinque Stelle. Un non-partito che solo tre mesi fa ha sfondato le porte del Palazzo d’Inverno, sull’onda di una forza d’urto che giustamente non abbiamo solo definito «anti-politica», ma anche «altra-politica ». Ebbene, com’è accaduto in Grecia alla destra neo-fascista di Alba Dorata e alla sinistra estremista di Syriza, anche il Movimento di Grillo e Casaleggio ha subito l’enorme riflusso di chi l’aveva scelto per «dare un segnale», e ora è rimasto deluso. M5S non va al ballottaggio in nessun comune capoluogo, e nel complesso del voto amministrativo perde tra la metà e i due terzi dei consensi che aveva ottenuto nel voto politico. Piaccia o no al conducator genovese e al suo guru, è il segno che in questi tre mesi è mancata proprio quell’«altra politica» che gli elettori si aspettavano dal movimento. E invece è stato il vuoto, riempito solo dagli sfondoni di forma e di sostanza dei capigruppo e da un dibattito surreale e autoreferenziale sulle diarie e gli scontrini degli «onorevoli- cittadini».
Per una crudele legge del contrappasso, anche le 5 Stelle, appena entrate nel Palazzo e dunque cooptate dal Sistema, agli occhi dell’opinione pubblica sono diventate una banalissima e irrilevante «parte degli arredi». E’ la conferma di quello che l’ex comico non vuole accettare: non solo la sana dialettica interna, ma soprattutto il buon uso di un tesoretto elettorale che non serve a nulla se non viene speso e investito sul mercato politico. Se oltre centocinquanta deputati e senatori non producono politica, cioè proposte e leggi utili alla collettività, la «missione» palingenetica del grillismo perde totalmente di significato. Cade l’assioma sul quale si regge il futuro regno di Gaia: «uno vale uno». Non è più vero. Se il Movimento non cambia, e se non ricostruisce sul disastro in Friuli, in Val d’Aosta e ora nei comuni capoluogo, «uno vale zero». E dunque non vale neanche la
pena votarlo.
La domanda cruciale che tutti si fanno, adesso, è come questo risultato incida sul governo Letta. Se il voto di Roma, soprattutto, rafforzi o meno la Grande Coalizione. L’impressione – com’è già accaduto per l’Imu e per lo ius soli, per la riforma elettorale e per quella sul finanziamento pubblico, per la sentenza Mediaset e per il processo Ruby – è che anche questa contesa elettorale contribuirà a far fibrillare la stranissima maggioranza. La sensazione – come dimostra la percentuale stratosferica dell’astensionismo – è che in generale le Larghe Intese, per quanto necessarie o necessitate, non riscaldino i cuori della gente. Lo conferma un’evidenza, in questo momento davvero paradossale: mentre governano insieme a livello nazionale, saranno proprio il centrosinistra e il centrodestra a sfidarsi nei ballottaggi a livello locale. L’uno contro l’altro, e irriducibilmente diversi. Com’è giusto che sia, in una sana democrazia dell’alternanza.

La Repubblica 28.05.13

"Epifani: questo voto ci incoraggia", di Simone Collini

Un voto «incoraggiante» per il Pd, che a Roma segnala una chiara «volontà di cambiamento» e che nel resto d’Italia «premia la serietà e la capacità di governo» degli amministratori locali democratici e conferma il «radicamento» del partito nei territori. Guglielmo Epifani è soddisfatto dell’esito elettorale ma sa che il lavoro da fare sul partito e con il governo è ancora molto, che come dimostra la bassa affluenza alle urne il divario tra cittadini e politica è profondo e che i problemi con cui l’Italia deve fare i conti sono numerosi e complicati.
Il segretario del Pd lascia Roma di primo mattino, destinazione Terni, per partecipare a un’assemblea di lavoratori organizzata per discutere della vendita del gruppo Acciai speciali Terni da parte della società finlandese Outokumpu. Rientra poco prima che chiudano i seggi e poi segue lo spoglio delle schede dalla sede del partito, chiamando Ignazio Marino per commentare via via il risultato (che alla fine definisce «straordinario» e che «premia il profilo civico»: «Dobbiamo far rinascere questa città, con umiltà e sobrietà»). Il dato del Campidoglio fa registrare una netta bocciatura di Gianni Alemanno «mai nella storia dei sindaci di Roma al primo turno il sindaco uscente ha avuto un numero di voti così basso» conferma il Pd come partito più votato nella capitale e mostra un Movimento 5 Stelle in drastico calo: penalizzato, è l’analisi che viene fatta al Nazareno, dal no al governo di cambiamento tentato da Bersani, che ieri ha letto con soddisfazione i risultati elettorali. Ma al quartier generale del Pd è già il momento di guardare avanti. E infatti Epifani evita di infierire sui Cinquestelle («non è corretto dire qualcosa sul risultato delle altre forze politiche, ma dovrà essere motivo di riflessione per tutti») e lancia un appello in vista del ballottaggio del 9 e 10 giugno: «Sarebbe necessario che tutti coloro che credono e si sono battuti nel rinnovamento trovino nel nostro candidato il punto di riferimento. Se questo avverrà, tra 15 giorni Roma potrà avere quel sindaco di speranza e di rinnovamento che la capitale d’Italia si merita di avere».
Il Pd in queste due settimane dovrà evitare passi falsi e già dalla Direzione convocata per il 4 giugno (che dovrà aprire la pratica congresso) Epifani vuole far uscire un messaggio di unità e di forza del partito. Alcune uscite di ieri, come quella di Debora Serracchiani che ha detto che lei e Marino hanno vinto «nonostante il Pd», non sono piaciute al gruppo dirigente democratico. Il tesoriere Antonio Misiani bolla quella tesi come «stupidaggine», sottolineando che «il Pd è determinante per il buon risultato del centrosinistra in queste amministrative». E lo stesso Epifani parla di un voto «incoraggiante». «Non posso parlare di me e della mia segreteria, questo è evidente», risponde a chi gli domanda se il voto sia un segnale per il suo operato. «È qualcosa che incoraggia il lavoro che ho incominciato a fare, questo sicuramente sì. Credo sia un voto incoraggiante per tutto il Pd. La funzione del partito si conferma forte e il suo radicamento molto vitale. Quando si vuole cambiare si incrocia per forza questo partito e i suoi candidati».
Epifani però sa anche che il Pd, e il governo che sostiene, devono mandare in fretta un segnale di cambiamento affrontando le emergenze con cui deve fare i conti il Paese. Non a caso ha scelto come prima uscita pubblica da segretario del Pd l’assemblea dei lavoratori del siderurgico di Terni. Gli occhi in questo momento sono puntati sull’Ilva di Taranto, che per Epifani non deve smettere di produrre «perché se si ferma quello stabilimento avremmo a cascata conseguenze negative per il grosso degli impianti siderurgici in Italia» e perché solo se si tiene aperto «si possono fare investimenti per bonificare l’area». Ma non c’è solo il caso Ilva, dice il segretario Pd arrivando all’assemblea della Acciai speciali di Terni, che con i suoi 2862 occupati diretti copre il 15% del mercato europeo dell’inox e che ora la finlandese Outokumpu vuole mettere in vendita (dopo averla acquistata 16 mesi fa dalla tedesca Thyssen-Krupp): «Se si vuol dare all’industria italiana una prospettiva e se, come è necessario, vogliamo continuare ad essere un paese manifatturiero, dobbiamo salvare la nostra industria siderurgica», è il concetto su cui insiste Epifani chiamando anche il governo a giocare un ruolo di primo piano in questa vicenda. A Terni parla del destino dell’acciaieria, ma anche di Taranto e di Piombino, di come l’Italia si deve preoccupare se venisse intaccato un settore, com’è il manifatturiero, che copre l80% delle nostre esportazioni. «Il governo si deve muovere con decisione in Europa e nelle politiche interne», è l’appello che lancia a Palazzo Chigi.
Per domani è previsto un incontro in sede governativa a cui dovrebbe partecipare anche un rappresentante della Outokumpu (della quale detiene il 33% il governo finlandese). Sulla vendita dell’impianto siderurgico la nebbia è totale, e i sindacati chiedono che l’esecutivo giochi la partita direttamente anche in sede europea. Lo stesso Epifani giudica necessario «un ruolo attivo e decisivo» del governo perché «quando sono in ballo questioni di mercato europeo, quando devi parlare con multinazionali, è evidente che la sede non può che essere quella del livello nazionale». Ma non solo. Dice il segretario del Pd: «La questione dell’industria delle acciaierie in Italia è forse oggi la crisi industriale più profonda perché, in realtà, è una grande infrastruttura di base che serve a tutta l’industria italiana. Per questo sia il futuro di Terni, sia la situazione particolarmente difficile dell’Ilva, sia la situazione di Piombino e della Lucchini, cioè tre grandissime realtà degli acciai italiani, oggi richiede da parte del governo una particolare attenzione».

L’Unità 28.05.13

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Il governo: Letta respira: gli elettori hanno capito, di Ninni Andriolo

Quello che a molti sembrava scontato non lo è. E i risultati di ieri dimostrano che il presidente del Consiglio si è scrollato la «croce che gli era stata gettata addosso», quella cioè di voler guidare un’alleanza «innaturale» con il Pdl che avrebbe fatto pagare al Pd prezzi elevatissimi. Si ragiona così dalle parti del governo, mentre le percentuali di Roma e delle altre città scorrono sugli schermi tv dando la misura delle difficoltà che l’intesa con i democratici al contrario scarica sul partito di Berlusconi e Alfano. «I risultati dimostrano che gli elettori del centrosinistra comprendono le scelte che il Pd ha fatto», così un premier «soddisfatto» ha commentato con i suoi i dati di ieri.
Il primo turno delle amministrative non chiude la partita, naturalmente. Né quella elettorale né quella «per l’Italia» che Letta ha avviato dalla postazione di Palazzo Chigi. Ma la giornata di ieri dimostra che «i giochi sono aperti» e che non sta scritto da nessuna parte che il risultato che il centrodestra riprenderà in mano le redini del Paese. Certo «chi ha votato Pd non pensava di ritrovarsi alleato del Pdl» ricordano dalle parti del governo «ma il dato di ieri dimostra che lo stato di necessità non permetteva alternative» al governo di servizio. Stato di necessità appunto. Dalle parti del governo si comprende benissimo che l’intesa Pd-Pdl non sarà «eterna» e dovrà essere «a tempo». Le elezioni di ieri, tra l’altro, «dimostrano che si tornerà al bipolarismo centrosinistra-centrodestra». Gli elettori del Pd «con responsabilità concedono credito», ma il loro banco di prova sarà costituito «dalle risposte che il governo darà alle emergenze, alla disoccupazione innanzitutto».
E l’interrogativo sulla «durata» dell’esperienza di governo si ripropone anche alla luce delle amministrative. A Palazzo Chigi sono ben presenti i rischi che potrebbe comportare il dato elettorale deludente del Pdl. Come reagiranno i «falchi» che non hanno mai digerito l’alleanza con il Pd e che spingevano Berlusconi verso nuove elezioni anticipate? E come reagirà il Cavaliere, certo fino a ieri di sondaggi che premiavano «il senso dello Stato» ostentato dopo le politiche? Il patto Letta-Alfano («qualunque sarà il risultato, le amministrative non produrranno scosse al governo») non basterà ad arginare un Cavaliere abituato a rivoltare i tavoli sulla base alle convenienze del momento.
E come inciderà sulla stabilità del governo la necessità del Pdl di recuperare nei ballottaggi? Impensabili scosse che terremotino Palazzo Chigi, ma fibrillazioni che mettano in difficoltà il governo Letta sono sempre possibili. Gli argomenti da cavalcare non mancano: dall’Imu, all’Iva, fino alla proroga delle detrazioni fiscali sulle ristrutturazioni edilizie. A dispetto delle coperture difficili da trovare il Pdl potrebbe marcare le distanze per provare a recuperare elettoralmente.
Ed è anche per ammortizzare questi rischi che da Palazzo Chigi filtrano interpretazioni del voto che tendono a dare atto sia al Pd che al Pdl di aver guadagnato «i ballottaggi quasi ovunque» e a mettere in risalto i risultati positivi delle larghe intese che «oscurano» il Movimento 5 Stelle. Il governo per dirla con Letta «non esce sconfitto» dalle amministrative, mentre il populismo di Grillo subisce un ridimensionamento evidente. L’astensionismo? La prima risposta di Enrico Letta sarà l’accelerazione sulle riforme. Domani alla Camera e al Senato sono previste due sedute importanti con la presenza del presidente del Consiglio. Letta prenderà la parola nelle due Aule per rimarcare l’esigenza di portare a compimento il percorso riformatore in breve tempo. Il governo auspica che il Parlamento possa sancire con atti formali l’avvio della fase «costituente». Si prevedono più risoluzioni che avranno una «base comune», come annuncia il ministro Quagliariello.
Al di là della polemica sulla clausola di salvaguardia che l’esecutivo vorrebbe far passare per correggere il Porcellum, Letta «non intende giocare al ribasso». I risultati di ieri, anzi, possono favorire sia le modifiche al sistema di voto sia il raggiungimento dell’obiettivo «massimo» che il premier intende perseguire»: una compiuta riforma elettorale, la riduzione del numero dei parlamentari, il superamento del bicameralismo perfetto, una nuova forma di governo.

L’Unità 28.05.13