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"Una medicina che non piace ma forse ci guarirà", di Eugenio Scalfari

Ho letto ieri sul Foglio cinque pagine di giornale che Claudio Cerasa ha dedicato a Enrico Letta facendone un ampio ritratto politico e culturale. Cerasa è uno dei migliori analisti di personaggi, è giovane, specializzato sulla sinistra e in particolare sul Pd e, pur scrivendo su un giornale di parte, mantiene un’encomiabile obiettività senza naturalmente rinunciare alle sue opinioni. Il ritratto di Letta è abbastanza corrispondente al personaggio anche se non nasconde un giudizio sostanzialmente negativo. L’incolpazione maggiore è quella di puntare, attraverso il governo di strana maggioranza affidato a Letta da Napolitano, ad una storica pacificazione tra centrodestra e centrosinistra, che passa necessariamente dalla fine dell’antiberlusconismo programmatico e più ancora antropologico che ha motivato non solo la sinistra estrema ma anche il centrosinistra negli ultimi vent’anni.
Ebbene, Cerasa su questo aspetto peraltro capitale del suo ritratto sbaglia di grosso sia per quanto riguarda Letta sia il suo mandante, Giorgio Napolitano. Di Letta lo ricavo da quanto lui stesso ha più volte già dichiarato in proposito dopo esser stato nominato presidente del Consiglio. È rimasta celebre la frase pronunciata in Parlamento nel discorso di presentazione per ottenere il voto di fiducia e poi più volte da lui stesso ricordata: «Avrei voluto presiedere un governo ben diverso da questo, che poggia su una formula
anomala».
«Comunque non mi occuperò di politica ma di politiche, cioè di questioni concrete che l’Europa, i bisogni della nostra gente e i disagi che affronta ci impongono di risolvere al più presto. Questo è perciò un governo che non proviene da una libera scelta ma da una necessità che verrà a cessare quando gli scopi per il quale è stato nominato saranno stati realizzati».
Questo Letta. Quanto a Napolitano, che conosco da quarant’anni e che mi onora della sua amicizia, ancora recentemente in una lunga conversazione che abbiamo avuto su alcuni momenti cruciali del passato, ha ricordato la profonda differenza che Enrico Berlinguer faceva tra l’ideologia del compromesso storico e un governo di solidarietà nazionale imposto dalle circostanze e cioè dalla lotta contro il terrorismo degli anni di piombo e la crisi economica e finanziaria che in quello stesso periodo scosse profondamente la società italiana. Il compromesso storico era una sorta di mantello che nascondeva la realtà e la necessità dei veri moventi dell’accordo tra il Pci e la Dc e che ebbe termine nel 1979 con la svolta di Salerno con la quale il Pci tornò all’opposizione e vi si mantenne per tutti gli anni che seguirono. Questo sarà anche — così pensa Napolitano — ciò che avverrà quando la necessità che motiva questo governo sarà superata e riprenderà la dialettica tra centrosinistra e centrodestra le cui differenze di fondo restano in piedi, come resta e sempre resterà la differenza profonda tra la visione del bene comune vista dalla sinistra e quella che ispira i conservatori e i moderati.
Questo governo va dunque giudicato con il metro dello scopo e della necessità e deve muoversi celermente evitando, nei limiti del possibile, di affrontare argomenti «divisivi» che potrebbero minarne l’esistenza e sempre che quegli argomenti possano essere rinviati a momenti più adatti.
Ciò non può tuttavia eliminare la rimozione di tali argomenti quando essa diventi impossibile e rischi di deformare l’esistenza stessa del governo il quale, pur basandosi su una strana alleanza, non può snaturare l’essenza dei partiti che ne fanno parte. Esiste e deve esistere cioè una spiccata autonomia del governo e della squadra dei ministri che lo compongono rispetto ai partiti.
Anche quest’aspetto della questione è stato più volte ribadito da Letta e da Napolitano: il governo, qualunque governo, è un’istituzione e, come tutte le istituzioni, ha una sua autonomia e non è uno strumento delegato dei partiti.
Certo, la sua esistenza dipende dalla fiducia del Parlamento ma se uno dei partiti che lo appoggia decide di sfiduciarlo, deve proporre la sua sopraggiunta sfiducia al Parlamento assumendosene la responsabilità. Se la sfiducia fosse approvata spetterà poi al capo dello Stato di decidere come provvedere nei termini della Costituzione.
Mi pareva che in tempi ancora molto agitati e piuttosto confusi fosse quanto mai opportuno tornar a chiarire questi principi che sono alla base dell’attuale situazione.

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Gli obiettivi concreti che il governo Letta deve realizzare sono i seguenti: 1. Il pagamento effettivo dei debiti che la pubblica amministrazione ha nei confronti delle imprese creditrici, per una cifra che sia la più elevata possibile dei debiti suddetti.
2. Il rifinanziamento della Cassa
integrazione in deroga che ne assicuri la capacità di operare almeno per un anno.
3. Nuovi posti di lavoro per i giovani che facciano diminuire la loro disoccupazione in modo da ridurne almeno due punti percentuali rispetto alla vetta attualmente raggiunta.
4. Incentivi attraverso sgravi fiscali alle classi di reddito più basse.
5. Una riforma dell’Imu con andamento fortemente progressivo rispetto ai patrimoni dei contribuenti.
6. Incentivi alle imprese sull’assunzione di giovani e interventi per la diminuzione del cuneo fiscale.
7. Mantenimento degli impegni assunti con le autorità europee, ma attivazione in Europa di provvedimenti di forte rilancio della crescita.
8. Una politica europea che innesti l’evoluzione verso un governo europeo in linea con le proposte avanzate nei giorni scorsi dal presidente francese, Hollande.
9. Abolizione dell’attuale sistema di finanziamento pubblico ai partiti e sua sostituzione con finanziamenti privati limitati come quota e servizi gratuiti per quanto riguarda tariffe postali, affissione di manifesti ed altre forme di propaganda solo quando si tratti di fasi elettorali.
10. Leggi costituzionali per l’abolizione delle Province, riforma del Senato federale, drastica diminuzione del numero dei parlamentari.
Questo vuole la gente, ma la premessa è la riforma della legge elettorale che, secondo i più recenti sondaggi, si colloca al primo posto
dei desideri del popolo e sulla quale la stessa Corte costituzionale sta per intervenire sollecitata da un ricorso della corte di Cassazione.
Questo è complessivamente il programma per la realizzazione del quale il governo Letta è stato insediato. Quanto tempo ci vorrà per attuarlo? Non moltissimo, ma neanche poco. A occhio, direi che 18 mesi, cioè un anno e mezzo, siano il minimo, tre anni il massimo. Poi si tornerà in nuove condizioni alla normale dialettica di alternativa tra contrapposte forze politiche.
Nel frattempo spetta ai partiti e movimenti riformarsi per riacquistare un grado maggiore di quella comunicazione e fiducia con la società civile che è ormai ridotta ai minimi termini. Ma questo spetta a loro e a loro soltanto.
Questo governo potrà stabilire norme di trasparenza alla loro attività e rendicontazione dei loro bilanci affidata ad un organo terzo che un’apposita legge potrà indicare
e insediare.

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Sarà una fase di intenso lavoro sia del governo sia del Parlamento sia della pubblica amministrazione. Ma anche della società civile, intesa soprattutto come parti sociali a cominciare da imprenditori e sindacati, i cui comuni obiettivi consistono nel far aumentare il tasso di produttività, competitività e posti di lavoro.
Gli imprenditori, nella riunione di Confindustria di venerdì scorso, hanno manifestato una vera e propria disperazione perché l’industria del Nord sta morendo. Se è per questo, sta morendo anche e ancora
di più quella del Centro e del Sud, ma poiché il grosso delle imprese è concentrato a Settentrione, l’allarme è più che giustificato.
La disperazione manifestata da Squinzi presuppone che le imprese siano soltanto vittime innocenti, ma le cose non stanno esattamente così, anzi non stanno affatto così. Le imprese e in particolare quelle piccole e medie, ma anche le grandi e grandissime che sono ancora in piedi, hanno cessato di investire da trent’anni in qua. In parte per le loro eccessivamente piccole dimensioni e, quindi, per l’esiguità dell’autofinanziamento, in parte per la mancata innovazione del prodotto e del processo produttivo. La conseguenza è stata una caduta netta della base occupazionale e una sostituzione dell’attività finanziaria a quella industriale con ricadute sulle esportazioni e soprattutto sulla domanda interna ed una crescente dipendenza dal sistema bancario.
La crisi iniziata nel 2008 e sopraggiunta in Europa nel 2011 ha fatto il resto con pressione fiscale e debito pubblico in aumento e impossibilità di svalutazioni monetarie.
Questo è il panorama dal quale purtroppo occorre ripartire.
Tacere sul sindacato sarebbe una colpevole omissione. Il sindacato e in particolare la Cgil ha anch’esso notevoli responsabilità. In tutti questi anni si è trincerato dietro la difesa dei privilegi esistenti accogliendo col contagocce la flessibilità di un mercato del lavoro che, ingessato nella normativa, è diventato di fatto non già flessibile ma caotico, con una quantità di
contratti e di lavoro nero che ha di fatto stravolto la struttura sindacale diventata anch’essa una sorta di casta.
Questa è la svolta da compiere senza la quale la de- industrializzazione diventerà un fatto compiuto con tutte le conseguenze che ne deriveranno. Il governo attuale c’entra poco perché questo è un lavoro che comporterà tempo e di cui protagoniste sono appunto le parti sociali se saranno in grado di togliersi le bende che le hanno mummificate e ritrovare la spinta che ebbero dalla fine degli anni Quaranta fino alla fine degli anni Settanta del secolo scorso. Oggi sono ridotte a simulacri di quello che erano un tempo. L’alleanza dei produttori, questo sarebbe lo strumento idoneo. Ma un tempo c’erano i Di Vittorio, i Trentin, i Lama, i Mattei, i Valletta, gli Olivetti. Oggi quelli che sembrano i più attivi sono i Landini, che puntano a fare della Fiom un partito politico il che vuol dire che non hanno imparato nulla e non hanno ancora capito che l’Italia non è un’isola ma una costola dell’Europa la quale a sua volta è una costola del mondo globale.

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I processi di Berlusconi non riguardano
il governo e tantomeno il
Parlamento.
Lo stesso interessato l’ha detto in una delle sue mutevoli dichiarazioni.
Riguardano lui, i suoi avvocati e le Corti giudicanti.
Governo e Parlamento debbono invece aggredire la corruzione con leggi adeguate; quelle varate
dal governo Monti, e in particolare dall’allora ministro della Giustizia Severino, non lo sono. Debbono riportare ai livelli precedenti i tempi della prescrizione ma contemporaneamente accorciare radicalmente la durata dei processi sia civili che penali.
Berlusconi deve difendersi nei processi adducendo prove che risultino convincenti e tenendo presente il principio immodificabile dell’eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge; come garanzia esistono tre gradi di giudizio prima che la pena diventi definitiva. Quando lo diventa e se lo diventa va scontata e non ci possono essere né se né ma.
La questione dell’ineleggibilità deve esser chiarita con una legge; quella esistente è di dubbia interpretazione.
Basta un solo articolo che indichi come responsabile dell’azienda il suo azionista di riferimento, dopodiché il suo funzionamento diventa automatico.
Quanto alla legge sui partiti, movimenti o liste che siano, io ragiono così: bisogna fare norme sulla trasparenza e sul finanziamento elettorale.
Trasparenza, limiti di spesa elettorale e relative facilitazioni sui servizi che la fase elettorale comporta. Tanto basta e dev’essere eguale per tutti, partiti, movimenti, liste civiche comunque si chiamino. Chi viola tali norme non potrà partecipare alle elezioni o, secondo la natura della violazione, incorrerà in elevate multe.
Mi pare che basti e che ci sia lavoro per tutti.

La Repubblica 26.05.13

"Bagnasco, i fischi e la trans Il miracolo di don Gallo", di Gad Lerner

Poteva succedere solo a Genova, città collerica ma giusta. E ci sarebbe voluto Fabrizio De Andrè per raccontare i due minuti in cui la folla dei devoti riunita nella chiesa del Carmine ha zittito il suo porporato arcivescovo per regalare subito dopo un applauso che sembrava un abbraccio al transessuale, succedutogli al medesimo pulpito. A tutti noi, in quel momento, è parso di sentirla scendere di lassù la risata cos ì familiare del defunto, don Andrea Gallo, disteso nella bara ornata dai paramenti del sacerdozio e da una sciarpa rossa.
Così il cardinale Angelo Bagnasco, che è anche il presidente dei vescovi italiani, il cui giornale Avvenire aveva relegato tra le notizie minori la morte di uno dei preti più amati della penisola, ha dovuto misurare in prima persona quanto aspro possa diventare il contrasto fra le due Chiese in cui sta dividendosi il popolo dei fedeli. Perché ieri, sia detto a suo merito, Bagnasco s’ è concesso a una di quelle rarissime occasioni in cui tale confronto non viene eluso ma vissuto pubblicamente. E non ci si venga a dire che i contestatori appartenevano all’area dell’estremismo politico dei NoTav o dei centri sociali, rimasti fuori sulla piazza. Perché dentro al Carmine era riunito il popolo cristiano dell’angiporto che aveva partecipato con commossa devozione alla liturgia, fino a che l’omelia di Bagnasco l’ha spazientito. Dando luogo a uno di quei moti proverbiali dell’animo genovese cui sarebbe impossibile negare rilevanza nazionale.
Dove è inciampato il cardinale Bagnasco? Nel suo riflesso d’ordine che l’ha indotto a edulcorare l’asperità dei contrasti fra la gerarchia e l’altra Chiesa testimoniata da don Gallo, compartecipe delle devianze che insorgono dentro la vita sofferente degli ultimi, e perci ò anche prete ribelle. Col suo discorso scritto Bagnasco stava riducendo don Gallo a quella indubbia appartenenza ecclesiale che però gli era stata fatta pagare duramente. Accettata per fede, certo, ma per fede anche strattonata, con coraggio, lungo la sua intera esistenza. Come la volta che il prete di strada, nel suo candore, aveva ammesso di aver accompagnato una prostituta disperata a interrompere la gravidanza.
Come le tante volte in cui la gerarchia aveva tentato di ghettizzarlo lontano dai fedeli.
Non stava dicendo il falso, Angelo Bagnasco, quando ricordava i rapporti affettuosi mantenuti dal cardinale Giuseppe Siri, principe della Chiesa più conservatrice, col sacerdote rosso. Ma lo ha fatto censurando il prezzo fatto pagare a don Gallo dai suoi superiori, e allora dai banchi si sono cominciati a udire dei colpi di tosse — singolare forma di contestazione — fino a che tutto il Carmine s’è messo a tossire. Qualcuno ha gridato «ipocrita », altri mormoravano e uscivano. Sinché dalla piazza s’è levato il canto “Bella ciao” e in chiesa i fedeli si sono messi ad applaudire tanto a lungo, ostentatamente, da fargli capire che era meglio farla finita lì. Protetto da Lilli, l’anziana segretaria della Comunità di San Benedetto al Porto — «Ragazzi, basta, se volete bene a Andrea!» — l’arcivescovo ha avuto il buon senso di cedere la parola a Vladimir Luxuria. Che contrasto, quando la chiesa ha acclamato il transessuale che ringraziava don Gallo per la sua evangelica accoglienza. E che sorpresa quando lo stesso Bagnasco ha dato la comunione proprio a Luxuria.
Si sono confrontate due Chiese ieri a Genova. E la Chiesa degli ultimi, impersonata da don Luigi Ciotti, si è premurosamente incaricata di proteggere la Chiesa titolare della dottrina. Inchinandosi a essa, ma non senza accenti burberi: «All’extra omnes del conclave io e don Gallo rispondiamo con il “dentro tutti”, dentro i gay, dentro le lesbiche, dentro i divorziati». Il fondatore del Gruppo Abele poteva farsi forza delle parole di Francesco contro «i cristiani da salotto». Perciò si è rivolto con ironia a Bagnasco ricordandoglielo: l’ha detto proprio il nuovo Papa! Prima però aveva rivolto una raccomandazione ai fedeli, a nome di don Gallo: «Se incontrate per la strada qualcuno che sostiene di avere capito tutto, girate al largo!». Nei giorni scorsi lo stesso giornale cattolico Avvenire che minimizzava l’esperienza di don Gallo, giustamente ha reso onore al magistero di don Pino Puglisi assassinato dai mafiosi e proprio ieri beatificato a Palermo. Ma contrapporre l’uno all’altro questi due preti di strada significherebbe negare una vitalità del cristianesimo reale, vissuto nel mezzo del dolore degli uomini e dell’ingiustizia sociale da cui in larga misura scaturisce, che purtroppo la Chiesa ufficiale sembra vivere con timore.
Ricordo don Gallo a un comizio della Fiom in piazza del Duomo a Milano, quando ebbe l’ispirazione di mettersi a dialogare con la Madonnina raccontandole le ingiustizie subite dalle migliaia di operai là riuniti. Un predicatore formidabile del Vangelo, come in altri tempi fu Davide Maria Turoldo. Indimenticabile resta quella giornata del novembre 1991 in cui l’arcivescovo di Milano, Carlo Maria Martini, sentì il bisogno di chiedere pubblicamente scusa al vecchio, morente frate dei Servi di Maria per i torti che la Chiesa gli aveva inflitto. Turoldo, incredulo, scoppiò a piangere.
Don Gallo non ha ricevuto questo bene. Ieri nella chiesa del Carmine avrebbe meritato un atto di riparazione da parte del suo vescovo. Glielo hanno tributato in vece sua, a migliaia, i portuali, gli operai, le parrocchiane, i tossicodipendenti, i transessuali, le prostitute, i militanti di un nuovo ordine sociale, il sindaco, gli amici. Con quei colpi di tosse e con lacrime di riconoscenza.

La Repubblica 26.05.13

"Precari, stipendi più bassi del 25%", di Luigi Grassia

Sempre più precario e sempre meno pagato. È così che sta diventando il lavoro in Italia, dove lo stipendio di un dipendente a termine si ferma in media a poco più di mille euro, inferiore di circa il 25% a quello di chi ha un posto fisso. A certificarlo sono i numeri raccolti dall’Istat nel Rapporto annuale sulla situazione del Paese.
Nel 2012, dice il rapporto, la retribuzione mensile netta di chi ha un contratto a tempo determinato è stata di 355 euro inferiore alla media: uno dei tanti «contro» dei rapporti di lavoro flessibili, su cui poi incombe anche l’incertezza per il futuro. Che le buste paga dei precari siano più leggere non è scontato; anzi, secondo logica la precarietà potrebbe essere compensata da qualcosa di più un busta (all’estero succede).

Il confronto dell’Istituto di statistica è limitato ai dipendenti full time, senza contemplare i rapporti ancora più deboli come i part time. Ma già così per il lavoratore a scadenza la perdita è di un quarto dello stipendio che nel 2012 si è fermato a 1.070 euro medi.

Il divario a svantaggio dei precari è dovuto a più ragioni, anche se ormai può essere considerato una costante. In parte la distanza deriva da aspetti legati all’età o alla professione. Ma l’Istat osserva che «le differenze permangono anche a parità di caratteristiche» e aumentano fino ad arrivare a quasi 400 euro «al crescere dell’anzianità lavorativa», visto che il tempo determinato non prevede scatti di anzianità.

Resta vero che in tempi di crisi pur di trovare un impiego si è disposti ad accettare retribuzioni più basse, basti pensare che i cosiddetti atipici nel 2012 hanno superato quota 2 milioni 800 mila. Il problema è che, spiega sempre l’Istat, «la crescita dei lavoratori a tempi determinato e dei collaboratori si accompagna a una diminuzione della probabilit à di transizione verso lavori standard e a un aumento delle transizioni verso la disoccupazione». In parole povere chi lascia il lavoro precario finisce più facilmente disoccupato che occupato a tempo pieno.

È interessante notare che il gap che separa i dipendenti a tempo determinato da quelli con posto fisso sia quasi lo stesso che passa tra un lavoratore straniero e uno italiano (-25,8%, 968 euro a fronte di 1.304 euro). La retribuzione mensile netta per gli stranieri – prosegue il Rapporto – è diminuita a confronto con il 2011, ma non è andata molto meglio agli italiani, che l’hanno aumentata di soli 4 euro.

La Stampa 26.05.13

"Esodati, il Governo prepara un piano in tre mosse", di Massimo Franchi

Rifinanziamento del Fondo salvaguardati, introduzione di elementi di flessibilità nella riforma delle pensioni, staffetta generazionale. Il ministro Giovannini punta a risolvere in modo definitivo la questione esodati. Mercoledì a via Veneto sono arrivate le «ricognizioni» dell’Inps sul fenomeno: una elaborazione sulle platee delle varie categorie degli esodati (lavoratori in mobilità, prosecutori volontari, lavoratori cessati) che il ministro Giovannini sta studiando con il suo staff. Per evitare lo stillicidio delle cifre che creò grandissimi problemi al suo predecessore Elsa Fornero (fu lei stessa a chiedere all’Inps la stima che portò al numero di 392mila, per poi accusare la stessa Inps del problema), il ministro come promesso presenterà al Parlamento delle stime variabili. I numeri infatti possono cambiare (e di molto) a seconda che si consideri i lavoratori che andranno in mobilità nei prossimi anni o le persone che hanno fatto domanda per la prosecuzione volontaria del pagamento dei contributi ma sono lontanissime dall’età pensionabile (anche 35 enni). Le stime dell’Inps serviranno a Giovannini per «realizzare la mappa concettuale», primo passo per definire numeri precisi e puntare «ad una soluzione sistematica del problema». Ad oggi i salvaguardati, coloro che sono (o meglio andranno) in pensione con le vecchie regole sono 130.130, frutto di tre distinti decreti (65mila prima, 55mila poi, 10.130 infine). Il governo punta ad aumentarne di almeno 30mila il numero. Per farlo servono almeno due miliardi che dovranno rifinanziare il Fondo già previsto dall’ultima legge di bilancio. Prima di bussare al ministro Saccomanni, il titolare del dicastero del Lavoro vuole però annunciare altre due misure che permetteranno di affrontare e ridurre la portata del fenomeno. La prima è una modifica della riforma delle pensioni che permetta un’uscita flessibile. Facendo propria la proposta di legge Damiano-Baretta che prevede la possibilità, avendo almeno 35 anni di contributi, di andare in pensione da 62 anni di età con una decurtazione dell’8 per cento a scalare fino ad annullarsi a 66 anni, Giovannini punta a incentivare l’uscita di possibili esodandi. Il terzo tassello è invece quello della cosiddetta staffetta generazionale: i lavoratori vicini all’età pensionabile sarebbero incentivati a passare al part time, potendo insegnare ad un giovane neo assunto il mestiere. Lo Stato finanzierebbe la copertura intera dei contributi e gli sgravi fiscali per i giovani assunti. Anche questo meccanismo permetterebbe una flessibilità del sistema, oggi rigido. Il primo firmatario della proposta di modifica della riforma delle pensioni, Cesare Damiano, commenta positivamente il piano del governo: «Tentare di risolvere il problema in modo definitivo è sempre stata la nostra priorità spiega Damiano . Tenderei a distinguere il rifinanziamento del fondo di salvaguardia per i cosiddetti esodati, queste persone devono andare in pensione con le vecchie regole, dalla mia proposta di legge che guarda invece al futuro e andrebbe in vigore dal 2014. Oltre alla staffetta generazionale, propongo una solidarietà espansiva: invece di uno scambio fra un giovane e un anziano, sarebbe un intero reparto a ripartire l’orario di lavoro per permettere l’assunzione di giovani». Il piano del governo trova però subito l’altolà della Cgil: «Noi siamo per tenere distinti i piani, sennò c’è il rischio di tornare alla confusione dell’epoca Fornero spiega il segretario confederale Cgil Vera Lamonica Il ministro ci ha promesso un tavolo sul tema, lo convochi al più presto con noi sindacati e con l’Inps».

L’Unità 25.05.13

"Sei milioni senza contratto. Consumatori non spendono", di Marco Ventimiglia

I numeri della crisi sono molteplici, ed anche per questo non sempre catturano l’attenzione. Quello diffuso ieri dall’Istat però non corre tale rischio, perché apprendere che praticamente mezza Italia è in attesa del rinnovo del contratto di lavoro non è certo un fatto trascurabile. L’Istituto di Statistica ci spiega che ad aprile, per l’insieme dell’economia, la quota di lavoratori dipendenti in attesa di rinnovo del contratto è pari al 45,7%, in aumento rispetto al mese precedente a seguito dell’entrata in vigore di due contratti ma della scadenza di nove. Complessivamente le intese contrattuali in attesa di rinnovo sono ben 51 (di cui 15 appartenenti alla pubblica amministrazione), relative a circa 5,9 milioni di dipendenti (di cui circa 2,9 milioni occupati nel pubblico impiego). Entrando più nel dettaglio della rilevazione, i mesi di attesa per i lavoratori con il contratto scaduto sono in media 26,5, peraltro in diminuzione rispetto ad aprile 2012 (29,1). L’attesa media calcolata sul totale dei dipendenti è invece di 12,1 mesi, in crescita rispetto a un anno prima (8,7). Ed ancora, con riferimento al solo settore privato la quota dei dipendenti in attesa di rinnovo è pari al 29,8%, in aumento rispetto al mese precedente (23,4%) e in decisa crescita rispetto ad aprile 2012 (9,3%); i mesi di attesa per i dipendenti con il contratto scaduto sono 13,2, mentre l’attesa media è di 3,9 mesi considerando l’insieme dei dipendenti del settore.

L’ANALISI DEGLI AUMENTI L’Istat ha diffuso anche altri dati, fra cui quello relativo all’andamento delle retribuzioni nel mese di aprile. In questo caso si registra un aumento dello 0,3% rispetto a marzo, che diventa un +1,4% facendo riferimento ad aprile dell’anno scorso. Complessivamente, nei primi quattro mesi del 2013 la retribuzione è cresciuta dell’1,4% rispetto al corrispondente quadrimestre del 2012. Con riferimento ai principali macrosettori, ad aprile le retribuzioni orarie contrattuali registrano un incremento tendenziale dell’1,8% per i dipendenti del settore privato e una variazione nulla per quelli della pubblica amministrazione. I settori che il mese scorso hanno presentato gli incrementi tendenziali maggiori sono: alimentari bevande e tabacco (5,8%); pubblici esercizi e alberghi (2,9%); acqua e servizi di smaltimento rifiuti (2,6%). Si registrano, invece, variazioni nulle in tutti i comparti della pubblica amministrazione. «I dati sull’ aumento delle retribuzioni in relazione all’inflazione ha commentato il segretario confederale della Uil, Antonio Foccillo non costituiscono una buona notizia come sembrerebbe. In realt à l’inflazione è ridotta ai minimi termini a causa della recessione. Il potere di acquisto delle famiglie cala sempre di più e i consumi sono crollati. In tale contesto la lieve crescita delle retribuzioni è del tutto irrilevante». Non legata al mondo del lavoro, ma non per questo meno significativa, è la rilevazione compiuta dall’Istat sulla fiducia dei consumatori, questa volta aggiornata al corrente mese. L’indice è risultato in peggioramento, attestandosi al livello di 85,9 rispetto all’86,3 di aprile. A determinare il risultato negativo, la somma di componenti dall’andamento peraltro diverso. Infatti, se diminuisce la componente riferita al quadro economico (il relativo indice passa da 73,3 a 70,5), aumenta quella relativa al clima personale (da 90,5 a 92,0). Il clima corrente risulta stazionario a quota 90,1 mentre il clima futuro diminuisce (da 80,8 a 80,6 ). In particolare peggiorano in misura consistente i giudizi e le attese sulla situazione economica del Paese: i rispettivi saldi passano da -138 a -145 e da -50 a -60. Quanto alle attese sulla disoccupazione si registra, al contrario, una diminuzione (da 109 a 105 il saldo). Infine, migliorano le valutazioni sulla situazione economica della famiglia, con il saldo che passa da -72 a -65 per i giudizi, e da -29 a -23 per le attese.

L’Unità 25.05.13

«Il femminicidio è una ferita sociale», di Salvo Fallica

«Penso che la violenza contro le donne non riguardi solo chi la fa e chi la riceve, è anche una ferita sociale. Credo che riguardi tutti. Purtroppo si parla spesso di violenza in termini scandalistici, non nell’ottica dell’antropologia culturale. È questo il messaggio che tento di far passare in molti dei miei romanzi incentrati su questo tema». Dacia Maraini parla del suo ultimo libro, L’amore rubato, parte dalla narrativa per arrivare all’attualità, alla politica. A 360 gradi.

Maraini va subito al nocciolo della questione: «Uno dei problemi del tema della violenza è che a volte assume l’aspetto stereotipato, mentre occorre scandagliare a fondo la tematica per comprenderne i meccanismi drammatici e profondi. Ma vi è anche una questione cultural-storica, le donne hanno introiettato per millenni un senso d’inferiorità. Anche se sono stati fatti parecchi passi avanti verso l’emancipazione, persistono ancora molte resistenze antropologiche. Spesso la violenza viene subita come una colpa. Su questo occorre lavorare ancora molto»

Qual è la condizione femminile nell’Italia di oggi?
«Siamo molto progrediti sul piano legale, ma sul piano sociale si è per certi versi inasprito il rapporto fra chi si sente padrone in casa e chi giustamente si sottrae. Non vorrei fare generalizzazioni. Vi sono molti uomini che hanno accettato ed accettano il cambiamento culturale, che hanno rispetto per il mutato ruolo della donna, altri invece che come muli si oppongono, chiudendosi in un mondo angusto, con atteggiamenti e comportamenti padronali e violenti».

Lei è una scrittrice impegnata. Attenta non solo a quel che si muove nel sociale, ma anche nella politica. Che immagine ha dell’Italia di oggi? E qual è l’immagine dell’Italia all’estero?

«Sono preoccupata di quel che accade nell’Italia di oggi. Ma voglio partire dalla seconda parte dalla domanda. Sono sempre in viaggio, e purtroppo debbo dire che l’immagine dell’Italia all’estero è pessima. Silvio Berlusconi è considerato un uomo che disprezza le donne, che le compra, che dà un pessimo esempio all’opinione pubblica. Non è soltanto questo aspetto delle donne che è emerso dalle vicende giudiziarie di Milano, vi è la questione della corruzione dei giudici, dei testimoni, la compravendita dei senatori. Non entro nel merito giuridico di ogni singola vicenda, ma l’insieme che vien fuori da tutto questo sul piano etico, morale, dei comportamenti, è sconcertante. In nessun Paese del mondo, una persona con questi trascorsi potrebbe avere un ruolo pubblico così importante. Poco tempo fa, mentre infuocavano le polemiche sulle sue vicende giudiziarie era addirittura al governo»
Va detto oggettivamente, che seppur ha perso più di otto milioni di voti rispetto alle ultime elezioni, vi è quasi un trenta per cento di italiani che l’ha votato ancora. È un fatto.

«Le questioni politiche vanno comprese, sicuramente inciderà la capacità di fare propaganda, alcuni messaggi che sollecitano la pancia degli elettori funzionano, ma deve dirsi che vi sono anche profondi limiti culturali e sociali di un pezzo d’Italia. Purtroppo in questo Paese non vi è una destra moderna, europea, è un dato di fatto anche questo. Come può un uomo con queste pendenze penali avere un ruolo politico di primo piano? Un uomo che ha trattato delle persone come oggetti in vendita, che tiene test moni a libro paga, 24 ragazze che ricevono 2500 euro al mese, sono cose che non possono accadere in nessun altro luogo del mondo. Questa è un’ anomalia. Ma vi è anche un’altra anomalia da non dimenticare: Berlusconi possiede tre televisioni, giornali, riviste, una casa editrice, ha il potere e la capacità di influire sui media. Se lui fa dire e ridire, facendo passare messaggi evidenti ma anche subliminali, che è un perseguitato dai giudici comunisti, che è una vittima, vi sono milioni di persone, senza altri canali informativi, che finiscono per credergli. Que- sto è un fatto reale e grave ». Quando i parlamentari del Pdl hanno manifestato davanti al tribunale di Milano contro i giudici, che sensazione ha provato?

«Quello che è accaduto è un fatto gravissimo. Ma anche i messaggi che son seguiti sono preoccupanti. Si mette in discussione una istituzione che è l’anima di un Paese. Se la giustizia viene trattata come se fosse il principio di tutte le ingiustizie di questo mondo, uno Stato non regge più. Va ricordato che la giustizia ha fatto e fa cose importanti. Ha combattuto e combatte le mafie in maniera efficace. Tanti giudici, tanti servitori dello Stato, hanno perso la vita in questa batta- glia di legalità, altri la sacrificano vivendo scortati. Sono persone che hanno bisogno di fiducia. Tutti possono sbagliare, ma non si può distruggere la credibilità di un sistema. Vorrei una giustizia più veloce, servono riforme per renderla più efficiente, ma che senso ha scagliarsi contro la magistratura con toni e modi che trascendono le regole civili e democratiche?» Berlusconi rivendica la sua innocenza, dice di sentirsi accerchiato…

«Non lo dico per stupire, ma vede, sono portata a credere ad una persona che reclama la propria innocenza. Ma è possibile che tutte le vicende molto gravi nelle quali Berlusconi è coinvolto siano il frutto di errori giudiziari? Se è così si difenda nei processi, non dai processi. Qui non c’entrano destra e sinistra, se vi è un uomo che si comporta come se le leggi non esistessero, si pone al di sopra delle regole, si fa votare leggi ad personam dal-a sua maggioranza parlamentare (in passato è accaduto più volte), vi è un problema di coerenza e credibilità. Quando il suo ultimo governo è caduto, è caduto anche per la mancanza di credibilità a livello internazionale.
Che giudizio s’è fatta di Ruby, delle cosiddette «Olgettine»?

«Ragazze che mi fanno pena, sono persone che hanno bisogno di soldi, di sopravvivere. Penso soprattutto a Ruby, una ragazza pronta a tutto, che ha trovato il suo paradiso ad Arcore. Non vi è dubbio che Berlusconi è generoso, ma è una generosità da padrone che vuole sempre qualcosa in cambio. Ragazze che pagano la ricchezza con l’umiliazione e la sottomissione. Subordinate. Mi fanno pena».

L’Unità 25.05.13

"Ultimatum di carrozza. Più soldi alla scuola o non faccio il ministro", di Pietro Piovani

O si trovano più soldi per la scuola pubblica oppure io smetto di fare il ministro dell’Istruzione. Maria Chiara Carrozza ha occupato il suo ufficio da neanche un mese, ma subito si è scontrata con lo stesso ostacolo che ha fermato tutti i suoi predecessori: la mancanza di risorse. Interpellata da Radio24, ha dipinto un quadro che in verità già tutti conoscevano: «Siamo in una situazione drammatica. Dobbiamo mettere in sicurezza le nostre scuole, dobbiamo metterle in grado di proteggere i nostri bambini, non di metterli a rischio. Abbiamo bisogno prima di tutto di un investimento nell’edilizia scolastica, e poi abbiamo bisogno di più insegnanti». E se non si trovano i finanziamenti? Si devono trovare, risponde la Carrozza, «perché altrimenti devo smettere di fare il ministro dell’Istruzione».
IL SISTEMA PUBBLICO
Il ministro non parla genericamente di istruzione, ma specifica che la sua richiesta è per «un reinvestimento nel servizio pubblico e nella scuola pubblica». Una definizione che sembra voler fugare i dubbi e le polemiche nate dopo le sue dichiarazioni a proposito del referendum sulla scuola privata indetto a Bologna (di fatto si è schierata per il no al blocco dei fondi destinati agli istituti paritari). La Carrozza insomma ribadisce che la priorità è il rilancio del sistema di istruzione pubblico, è lì che bisogna investire. Dunque si devono ristrutturare gli edifici scolastici, e assumere nuovi insegnanti. «Credo che il futuro del nostro Paese si possa giocare con un esercito di nuovi insegnanti, che davvero ci permettano di migliorare la qualità del servizio».
I TAGLI
Nel periodo compreso tra il 2007 e il 2011 la scuola ha perso 122 mila dipendenti, tra insegnanti e personale non docente. Nel triennio 2008-2011, la scuola ha subito tagli di spesa per ben 4 miliardi, e il sacrificio è proseguito nel 2012 anche se ancora non ci sono cifre ufficiali. Siamo il Paese europeo che destina meno risorse all’istruzione, appena il 4,24% del pil (la Francia e la Gran Bretagna superano il 6%, la Danimarca e l’Islanda sfiorano l’8%). È da qui che nasce la «situazione drammatica» denunciata dal ministro. Che aggiunge: «Dobbiamo lavorare su questo, altrimenti come facciamo a parlare di crescita?». E al di là dell’aspetto economico c’è quello umano: quel 25% di giovani italiani tra i 15 e i 29 anni di età che non studiano più ma non trovano un lavoro. «Per me questo è un dramma che non mi fa dormire la notte» dice ancora il ministro.
LE RISPOSTE
Alessandro Cattaneo, sindaco di Pavia e presidente dell’Anci (l’associazione dei Comuni italiani) si dice «completamente d’accordo» con la Carrozza e auspica in particolare «l’individuazione di risorse per l’edilizia scolastica, vera emergenza nazionale». Nicola Fratoianni di Sel approva: «Fa piacere che il ministro dica quello che sosteniamo da tempo noi». Il segretario del Prc Paolo Ferrero invece è sarcastico: «Vuole dimettersi? Lo faccia pure. Non è difendendo la scuola privata che si comincia a reinvestire nel pubblico».

Il Messaggero 25.05.13