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"Il peccato originale", di Piero Ignazi

Partiamo da una premessa: in tutti i paesi europei ad eccezione della Svizzera vi sono forme di finanziamento pubblico ai partiti.
Eliminandolo del tutto, come viene ora ventilato dal progetto governativo, ancora una volta faremmo eccezione rispetto alle altre democrazie europee. Questo furore iconoclasta contro i contributi pubblici si può ben capire perché l’Italia, fino allo scorso anno faceva — di nuovo – eccezione per l’ammontare gigantesco di denaro pubblico dirottato verso i partiti. Dal 1994 al 2013 sono stati elargiti quasi due miliardi e mezzo di rimborsi elettorali per ogni tipo di competizione, dalle regionali alle europee passando per le legislative (e in questo calcolo sono esclusi i contributi per i comitati organizzatori dei referendum).
Anche al di là delle malversazioni e ruberie l’opinione pubblica non sopporta più di vedere i politici – di ogni livello – godere di retribuzioni e benefit inarrivabili per la maggioranza dei cittadini onesti. Questo sentimento di discredito, tracimato fino all’ostilità, ha beneficato il M5S. Ma la rincorsa al giacobinismo antipartitico non taglia l’erba sotto i piedi al movimento di Beppe Grillo perché la disistima nei confronti dei partiti è ben radicata; e non cambia da un momento all’altro solo perché si tolgono loro i soldi. La ri-legittimazione dei partiti passa per una ripresa di attività volontaria, magari intermittente ma incarnata da persone “disinteressate”, o quanto meno senza i privilegi derivanti dalla loro attività politica o carica pubblica.
I partiti a livello locale, “ambasciatori” della società civile presso i decision-makers, vivono una condizione di marginalità e sudditanza rispetto ai vertici nazionali. Mentre a Roma le strutture centrali sono opulente perché lì arriva il finanziamento pubblico, in periferia stentano, perché lì arrivano solo le briciole. Addirittura in alcuni casi, come nel Pdl, anche i proventi derivanti dalle iscrizioni vengono risucchiati dal centro. La concentrazione delle risorse nei quartieri generali dei partiti ha isterilito la loro vita alla base. Ne consegue che, da molti anni, la quota di finanziamento pubblico supera nettamente quella autoprodotta: Pdl e Pd dipendono dal 70% al 90% dai contributi dello Stato.
Comunque, passare dall’abbondanza senza limiti e totale irresponsabilità all’abbattimento di ogni forma di sovvenzione pubblica è rispondere ad un eccesso con un altro. Invece di cancellare del tutto il finanziamento, peraltro già dimagrito e modificato con una nuova legge, approvata nel luglio dell’anno scorso ma passata del tutto inosservata, travolta dallo tsunami antipartitico, meglio sarebbe prendere spunto dalle buone pratiche adottate all’estero. E, in particolare, concentrarsi sulla triade virtuosa della limitazione degli importi di entrata e di spesa, dell’efficacia dei controlli, del rigore nelle sanzioni.
I versamenti dello Stato sono già stati ridotti dalla legge del 2012 a 91 milioni l’anno, di cui un terzo co-finanziato sulla base di quanto i partiti autonomamente raccolgono. 91 milioni sono ancora molti, forse troppi. Ma certo troppo bassa è la quota di autofinanziamento: il rapporto 30/70 va invertito. Per avere soldi dallo Stato i partiti devono dimostrare di essere in grado di attivare una massa importante di contributi (ovviamente certificati, pubblici e di piccoli importi). A fianco della riduzione degli importi e della loro modulazione in rapporto ai contributi pubblici va poi introdotto un tetto alle spese. Fin qui i partiti hanno guadagnato grazie alla generosità dei rimborsi, e i bilanci sono in molti casi attivi; ma riducendo le entrate vanno tenute a freno le spese, con plafond ben definiti.
I controlli, anche nell’ultima norma, sono soprattutto formali e nelle mani dei controllori-controllati, con un intervento non ben definito – e quindi inefficace – della Corte dei Conti. Società esterne di auditing e indicazioni precise sull’intervento dei giudici, nonché una ampia pubblicità dei bilanci, rappresentano alcuni passaggi minimi per una maggiore efficacia nei controlli.
Infine, le sanzioni. Fin qui, al di là dei casi clamorosi alla Belsito, l’opacità dei bilanci ha nascosto di tutto e non ha consentito che venissero individuati responsabili di abusi e
malpractice.
La decadenza dall’incarico per quel candidato che sforasse il tetto di spesa, ad esempio, costituirebbe un deterrente importante.
I soldi in politica sono ad alto rischio e inducono in molte tentazioni. Ma non vanno demonizzati. Vanno limitati e controllati. Con un intervento dello Stato, severo e calmierante allo stesso tempo.

La Repubblica 25.05.13

Convenzione di Istanbul. Subito la ratifica per fermare la violenza contro le donne

Sono previste in Aula la prossima settimana la discussione generale e le votazioni della legge di ratifica della Convenzione di Istanbul per il contrasto alla violenza sulle donne e il femminicidio. Una risposta sollecita di questo Parlamento contro il dilagare di una realtà non più accettabile che continua a fare troppe vittime, una sfida culturale per il bene del Paese. Il lavoro per prevenire e contrastare la violenza sulle donne raggiunge con questo provvedimento un indispensabile quadro di riferimento giuridico internazionale, vincolante che inquadra la violenza domestica sulle donne e offre strumenti concreti di prevenzione e di intervento, dalla protezione e assistenza delle vittime, alle sanzioni penali. Un passo importante a cui si è arrivati per l’impegno tenace di chi dentro il Parlamento crede nella possibilità che la politica possa contribuire in modo determinante al miglioramento della società.

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Subito la ratifica per fermare la violenza contro le donne
Cos’è
Per il PD era una priorità. Il primo giorno di questa legislatura abbiamo presentato la proposta di legge di ratifica della Convenzione, che è il primo trattato internazionale sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne. È anche il primo strumento internazionale vincolante che crea un quadro giuridico completo per proteggere le donne contro qualsiasi forma di violenza. Contiene misure per la prevenzione della violenza, la protezione delle vittime e i procedimenti penali per i colpevoli; definisce e criminalizza le diverse forme di violenza contro le donne tra cui il matrimonio forzato, le mutilazioni dei genitali femminili, lo stalking, le violenze fisiche e psicologiche e la violenza sessuale.
Parte dal presupposto che “la violenza contro le donne sia uno dei meccanismi sociali cruciali per mezzo dei quali le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini”. Pertanto auspica che gli Stati membri si impegnino a garantire uguaglianza di genere con tutti gli strumenti a loro disposizione, anche educativi e di comunicazione di massa. Favorisce l’autonomia e l’autodeterminazione delle donne, favorisce la prevenzione (perché è un “diritto di tutti gli individui, e segnatamente delle donne, di vivere liberi dalla violenza, sia nella vita pubblica che privata“) promuovendo cambiamenti nei comportamenti socio-culturali con particolare attenzione ad incoraggiare gli uomini e i ragazzi a contribuire in tal senso. Obbliga le Parti a vigilare affinché la cultura, gli usi e i costumi, la religione, la tradizione o il cosiddetto “onore” non possano essere in alcun modo utilizzati per giustificare gli atti di violenza. Parla di aborto e sterilizzazione forzati, matrimonio forzato, atti persecutori, mutilazioni genitali, molestie allargando la tutela e la protezione anche alle donne (e bambine) extra-comunitarie e generando una rete di collaborazione tra Paesi affinché il crimine venga perseguito fino in fondo.
Come funziona
Per entrare pienamente in vigore necessita di essere ratificato da almeno 10 paesi, di cui 8 stati europei. L’Italia è il quinto paese a concludere l’iter di ratifica. Ad oggi, benché 29 paesi abbiano posto la loro firma al documento, solo altri 4 paesi europei, oltre all’Italia, l’hanno ratificato, ovvero hanno concluso il processo di creazione di una legge nazionale che renda effettivo nel proprio paese il testo della Convenzione. Questi quattro paesi sono: Albania, Montenegro, Portogallo, Turchia.
Le tappe dell’Italia
Il Ministro Fornero ha posto la firma al documento nel settembre 2012 promettendo, nelle dichiarazioni seguenti, che avrebbe concluso l’iter prima della fine del suo mandato.
L’11 dicembre 2012 il Consiglio dei Ministri italiano ha ratificato la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica.
L’approvazione da parte del Parlamento (Camera e Senato) conclude l’iter che sostiene l’approvazione della Convenzione a livello europeo e sancisce una legge interna avanzata e garante per le donne.

Dossier sulla ratifica della Convenzione
Testo della Convenzione
Proposta di legge di ratifica e relazione
Iter legislativo
Elementi per la valutazione degli aspetti di legittimità costituzionale
Analisi degli effetti finanziari
Schede di lettura

Mozione sulla violenza alle donne che chiede una specifica sessione parlamentare

http://www.deputatipd.it/Documents.asp?DocumentID=5430

Cuperlo: "Un Pd popolare e nazionale. E un nuovo centrosinistra", di Daniela Preziosi

Sulla legge elettorale abbiamo un imperativo categorico, ormai persino morale: non tornare mai più al voto con il porcellum. Per questo il parlamento deve affrontare la riforma come una priorità. Apportare correttivi di superficie rischia di lasciare inevaso il tema di fondo: la nuova legge deve garantire per un verso la governabilità, cioè essere in grado di esprimere una maggioranza politica che possa governare il paese; per altro verso, deve restituire agli elettori il diritto di scegliere i propri rappresentanti. Detto questo, è giusto che il parlamento trovi la soluzione più condivisa. E mi auguro che sulla legge elettorale la maggioranza sia più ampia di quella che sostiene il governo». Parla Gianni Cuperlo, 52 anni, triestino, il segretario della Fgci che ha trasformato nella Sinistra giovanile del Pds. Deputato, saggista, poco propenso alle semplificazioni mediatiche, è candidato al congresso Pd.

Il governo aveva tentato l`accordo su una modifica del porcellum.

Noi non possiamo limitarci a una correzione di dettaglio. Questa legge ha rivelato limiti che sono una delle cause, certo non l`unica, della crisi della democrazia e della rappresentanza in Italia. Capisco chi dice che la legge elettorale deve corrispondere alla forma di governo che si sceglie. Ma oggi non possiamo correre il rischio di tornare a votare con il porcellum. Sarebbe irricevibile.

Dalla legge elettorale dipendono anche le alleanze. Lei ha detto: `Fuori dal centrosinistra il Pd non ha senso`. Alle prossime politiche ci sarà un nuovo centrosinistra?

Sì, e non voglio neanche pensare che non sia così. Siamo arrivati al sostegno di questo governo con il percorso che conosciamo. Avevamo proposto l`alleanza «Italia bene comune», ma nella sfida di febbraio abbiamo subìto una sconfitta. Dopo il voto, Bersani ha giustamente fatto il tentativo di non sciupare l`occasione del nuovo parlamento, il più rinnovato, ringiovanito, femminile e laico della storia repubblicana. Tutti sappiamo le ragioni che ne hanno impedito il successo. A questo punto, dopo gli errori compiuti, prima su Franco Marini e poi su Romano Prodi, e dopo il discorso drammatico del presidente della Repubblica alle camere, l`alternativa non era fra fare un governo o votare, ma fra fare un governo o lasciare incancrenire i problemi di milioni di famiglie, di lavoratori. Il nostro sostegno leale e autonomo al governo Letta ha però un carattere di eccezionalità ed emergenza. L`esecutivo deve fare alcune cose, provvedimenti economici e sociali urgenti per dare un po` di ossigeno alla parte del paese che soffre la crisi in una forma micidiale – l`ultimo rapporto dell`Istat dà un quadro allarmante – e incardinare riforme che consentano di ricostruire un rapporto positivo fra i cittadini e la democrazia. Contemporaneamente dobbiamo ricostruire un campo largo del centrosinistra, non solo alternativo alla destra, ma competitivo per il governo del paese. Io non mi rassegno alla frattura con la sinistra e con un pezzo importante di società italiana, di movimenti, del civismo, del diritto, della moralità. Questo campo di forze va ricomposto per offrire al paese una seconda chance. E dobbiamo farlo con radicalità, con coraggio, per riconoscere i limiti che ci hanno impedito di risultare convincenti. Il congresso del Pd deve servire essenzialmente a questo.

Nei paesi in cui è andata al governo una `grossa coalizione`, per lo più sono scomparse le alleanze a sinistra. In Italia non andrà così?

In Germania la grossa coalizione è stata realizzata due volte, e oggi non è al governo. E in ogni caso qui da noi l`alleanza con Sel l`abbiamo già sperimentata. Sul piano locale, per esempio, in tantissime realtà: penso alla Puglia, dove Nichi Vendola è presidente di una regione che ha fatto enormi passi in avanti con il centrosinistra. Non vorrei che trasformassimo in un confronto ideologico quello che dev`essere un confronto politico, culturale e programmatico. L`esperienza di questi anni ci dice che esiste un larghissimo terreno di condivisione. Che naturalmente va definito, profilato e approfondito. Ma non credo nella logica del divorzio irreparabile. Mi ostino caparbiamente a credere nel contrario, a volere il contrario.

Parlava degli errori sull`elezione del capo dello stato. Non avete archiviato troppo in fretta quel 101 voti di franchi tiratori che hanno spostato a destra il governo?

La consapevolezza del danno prodotto è assolutamente presente nei gruppi parlamentari del Pd e nella sua base. Basta andare nei circoli per cogliere quanto sia una ferita aperta. Quelle vicende drammatiche hanno dato il segno di un partito che non era in grado di sostenere le decisioni che assumeva. Ma non c`è stata nessuna volontà che precostituiva lo sbocco politico del governo con il centrodestra. Anche la vicenda di Marini non va rimossa: la direzione aveva votato all`unanimità un mandato pieno al segretario per tentare una condivisione ampia su un nome di garanzia al Colle. E di fronte al nome di Marini, esponente autorevole del Pd, abbiamo assistito già al voto di un partito che non era in grado di mantenere la parola. A questo si sono sommati altri errori. Io per esempio avrei preferito che nella rosa dei nostri nomi vi fosse anche Stefano Rodotà. Poi siamo passati a Prodi: che però era il nome che qualche giorno prima Berlusconi aveva dichiarato irricevibile. Non siamo stati credibili. Oggi non mi interessa tanto scoprire chi siano stati quei 101. Compito della politica è capire perché siamo arrivati a quel collasso. Dobbiamo riflettere, per evitare che succeda in futuro e per ricostruire un rapporto più sereno nel gruppo dirigente sul terreno delle regole condivise.

Civati, altro candidato al congresso, dice che Berlusconi dev`essere eleggibile perché diversamente cadrebbe il governo. È così?

Ma no. E c`è qualcosa di stonato tra l`agenda della politica di oggi e il fatto che invece dovremmo essere alla prese con temi che investono come un tornado questo paese, che rischia di non reggere all`urto della crisi più devastante degli ultimi anni. Dalla sinistra europea arrivano segnali fondamentali. Il presidente Hollande ha fatto un discorso storico, un investimento che la Francia non aveva mai fatto nel processo di integrazione politica dell`Europa. E poi le riflessioni che arrivano da Lipsia, dall`appuntamento dell`Spd, sul rilancio della critica a un modello di sviluppo, a un capitalismo finanziario che ha finito per dominare l`economia reale ma anche i diritti e le libertà degli individui: temi che riguardano le prospettive del mondo, oltreché dell`Europa. Di fronte a tutto questo, noi ci chiediamo se la giunta delle elezioni del senato deve votare in ragione di una legge del `57 dopo che per ire volte il parlamento, a torto o a ragione, ha dichiarato Berlusconi eleggibile. Il buon senso ci dice che i nodi politici di fondo del paese non si possono risolvere attraverso procedure regolamentari. Né quello di una destra non europea segnata dall`egemonia mediatica di questo suo tycoon, né quello di un movimento anch`esso anomalo come I`M5S. Si deve mettere in campo un`iniziativa politica, parlo del ruolo del Pd, perché il paese torni a fidarsi di noi e nella possibilità dell`alternativa che non abbiamo realizzato fin qui.

Se diventerà segretario, quale sarà il suo Pd?

Un grande partito popolare e nazionale che riscopre il senso della sua identità, e si concentra molto meno sul potere e molto di più sulle persone e sulle idee.

Il Manifesto 24.05.13

"Medici corrotti e pillole fai-da-te il ritorno degli aborti clandestini", di Maria Novella De Luca

Il cartello è scritto a penna, a volte su un pezzo di cartone. «Qui non si effettuano più Ivg». Ossia interruzioni volontarie di gravidanza. Aborti cioè. Porte sbarrate, reparti chiusi, day after di qualcosa che c’era, funzionava, e adesso è in disuso, smantellato, abbandonato. «Tutti i medici sono obiettori di coscienza, vada altrove». Altrove è l’Italia che torna alla clandestinità: da Nord a Sud in intere regioni l’aborto legale è stato cancellato, oltre l’80% dei ginecologi, e oltre il 50% di anestesisti e infermieri non applica più la legge 194. Accade a Roma, a Napoli, a Bari, a Milano, a Palermo. Le donne respinte dalle istituzioni tornano al silenzio e al segreto, come quarant’anni fa. Alcune muoiono, altre diventano sterili, ma nessuno ne parla. Ventimila gli aborti illegali ogni anno calcolati dal ministero della Sanità con stime mai più aggiornate dal 2008, quarantamila, forse cinquantamila quelli reali. Settantacinquemila gli aborti spontanei nel 2011 dichiarati dall’Istat, ma un terzo di questi frutto probabilmente di interventi “casalinghi” finiti male. Cliniche fuorilegge, contrabbando di farmaci: sul corpo delle donne è tornato a fiorire l’antico e ricco business che la legge 194 aveva quasi estirpato. Ma chi gestisce oggi questo commercio ramificato? Quali sono le rotte dell’aborto clandestino, che sta facendo ripiombare il nostro paese nel clima cupo degli anni antecedenti al 22 maggio 1978, quando finalmente in Italia l’interruzione volontaria di gravidanza diventò legale? E gli aborti iniziarono a diminuire, arrivando oggi ad essere il 53,3% in meno rispetto agli anni Ottanta.
CLINICHE E CONTRABBANDO
Ambulatori fuorilegge: l’ultimo gestito dalla mafia cinese è stato smantellato a Padova dalla Guardia di Finanza alcune settimane fa. Incassava quattromila euro al giorno. Tra i clienti anche donne italiane. E poi sequestri, spaccio di farmaci abortivi, confezioni di Ru486 di contrabbando, 188 procedimenti penali aperti nell’ultimo anno per violazione della legge 194, spesso contro insospettabili professionisti che agivano nei loro studi medici. Donne che ricominciano a morire di setticemia, e donne che migrano da una regione all’altra cercando (spesso invano) quei reparti che ancora garantiscono l’interruzione
volontaria di gravidanza. Ragazzine e immigrate che vagano nei corridoi del metrò cercando i blister di un farmaco per l’ulcera a base di “misoprostolo” che preso in dosi massicce provoca l’interruzione di gravidanza, spacciato dalle gang sudamericane che lo fanno arrivare nel porto di Genova dagli Stati Uniti. Dieci pillole, 100 euro al mercato nero, meno della metà se si compra su Internet. E le giovanissime abortiscono da sole, nel bagno di casa, perché della legge o del giudice tutelare non sanno nulla, perché in ospedale la lista d’attesa è troppo lunga e i consultori sono sempre di meno. (Dal 2007 al 2010 ne sono stati tagliati quasi 300).
Alem ad esempio, 17 anni, nata in Italia da genitori egiziani, brava e brillante a scuola, ricoverata in coma a Verona per un aborto provocato con un uncino. «Non volevo che i miei genitori si accorgessero che ero incinta — ha raccontato — e in ospedale non mi hanno voluto perché ero minorenne…». O Irene, cresciuta tra le Vele di Scampia, già baby mamma a 14 anni, che a 16 anni abortisce nel bagno di casa, ma sbaglia dosi di misoprostolo, e finisce in un grande nosocomio di Napoli tra la vita e la morte. «Sono troppo povera per avere un altro figlio» confessa ai medici. O, ancora, ed è sempre Sud, la storia della compravendita di un neonato architettata da un ginecologo di Caserta, Andrea Cozzolino, finito in manette l’8 maggio scorso. Aveva convinto una giovane donna minorenne che si era rivolta a lui per un aborto clandestino, a partorire, e poi vendere il suo bambino per 25mila euro… La percentuale di successo di questi aborti solitari, quasi sempre farmacologici e di cui si trovano dettagliate istruzioni in Rete è alta, oltre il 90%, ma chi sbaglia rischia la vita. Commenta amaro il ginecologo Carlo Flamigni: «Contro la 194 c’è una congiura del silenzio. Accedere ai servizi è sempre più difficile, e le donne più fragili, le più giovani, le straniere, finiscono nella trappola dell’illegalità. È una sconfitta per tutti».
MORIRE D’ABORTO
Pilar ha 50 anni, il cuore grande e le braccia forti. In Perù faceva l’ostetrica, qui assiste da vent’anni le donne migranti. «L’ultima che ho accompagnato in ospedale mi ha detto di chiamarsi Soledad, di lei so poco altro, se non che fa la badante e ha già due figli in Ecuador. Per due volte aveva provato a cercare un reparto di Ivg, dopo aver scoperto che in Italia l’aborto è legale. Per due volte l’hanno rimandata indietro dicendole che non c’erano i medici. Così ha fatto da sola — rivela Pilar — con le pasticche che ha comprato da un’amica, e quando mi ha chiamato aveva la febbre e un’emorragia in corso. L’hanno salvata, non è stata denunciata, ma per mesi era così debole che non ha potuto lavorare, ha perso il posto di badante, e ora è disoccupata ». E non è soltanto questione di donne immigrate. «L’aborto clandestino ormai riguarda tutti i ceti della società », aggiunge Silvana Agatone, ginecologa e presidente della Laiga, la Lega italiana per l’applicazione della 194, che da anni denuncia l’incredibile dilagare dell’obiezione di coscienza.
«Ci sono gli aborti d’oro, quelli dei ceti elevati, che si svolgono in sicurezza negli studi medici, oppure all’estero. E poi ci sono gli aborti delle donne povere, delle clandestine, che comprano le pasticche nei corridoi del metrò, e se qualcosa va male si presentano al Pronto Soccorso affermando di aver avuto un aborto spontaneo». Qualcuna si salva, qualcuna no. Come quella donna nigeriana che arrivò in ospedale «con una gravissima infezione ed è morta di setticemia» ricorda Agatone, che lavora all’ospedale San Giovanni di Roma. È andata meglio a Mariangela, pugliese, che non sapendo più dove andare dopo la chiusura dell’ultimo reparto di Ivg nella sua provincia (Matera) racconta sul forum “aborto-blogspot” di essersi rivolta grazie al tam tam ad una (stimata) ginecologa di un paese vicino. «Duemilacinquecento euro, intervento chirurgico sterile e sicuro. Come facevano mia madre e mia nonna, ma senza rischi. Tutto molto triste però». Ma come si è arrivati a questo smantellamento progressivo di una legge dello Stato? È legale che interi nosocomi non abbiano più medici che applicano la 194? «No, non è legale – continua Agatone – ma nessuno vuole più fare aborti perché si viene discriminati e obbligati a fare solo e soltanto quelli». Alcuni dati: nel Lazio il 91% dei ginecologi è obiettore di coscienza, a Bari gli ultimi due medici che facevano gli aborti hanno deciso di abbandonare il reparto, a Napoli il servizio viene assicurato da un unico ospedale in tutta la città, in Sicilia il tasso di astensione dalla 194 è dell’80,6%. «Ma la vera tragedia riguarda l’aborto terapeutico — conclude — un intervento per cui sono necessari medici interni all’ospedale, ginecologo, anestesista, infermieri, e non si può supplire con professionisti a contratto. Visti però i numeri dell’obiezione di coscienza è evidente che in tempi brevi nelle strutture pubbliche italiane gli aborti terapeutici non si faranno più».
IL CALVARIO DI SERENA
E allora le donne emigrano. Svizzera, Inghilterra, Francia. Quattrocento euro per una “Ivg” entro il terzo mese, circa 3000 per un aborto terapeutico (oltre la 22esima settimana) in clinica. Ma non tutte possono andare all’estero, e per quelle che restano la prospettiva è un calvario di umiliazioni. Scrive Serena F. che ha dovuto abortire alla 23esima settimana per gravissime malformazioni del feto: «Mi hanno abbandonato da sola, 15 ore di travaglio senza darmi né antidolorifici né altro, in tutto l’ospedale c’era soltanto una giovane ginecologa non obiettrice, ma era sovraccarica di lavoro, così mi ha affidato, si fa per dire, alle cure di due infermiere, ho chiesto ripetutamente un po’ d’acqua, me l’hanno negata per ore. Quando alla fine il mio disgraziatissimo bambino è nato, ed è morto subito dopo, una delle infermiere a bassa voce mi ha chiesto se non mi vergognavo di quello che avevo fatto… La ginecologa l’ha sentita e si è infuriata, quella ha risposto, è finita ad urli. Un dolore pazzesco. Ecco così si abortisce legalmente in Italia ».
LA DENUNCIA DI PIERA
Gli ostacoli nel percorso che porta all’aborto cominciano spesso nei consultori. «Ho tre figli, e la più piccola, Alice, è nata con la sindrome di down. Lo sapevo, l’ho voluta lo stesso. Poi è successo l’incredibile: a 44 anni sono rimasta incinta per la quarta volta. Mauro, Marco, Alice che assorbe ogni mio respiro. Non era possibile avere un altro bimbo. Sono andata in un consultorio della mia città per iniziare le pratiche dell’aborto. Ho dovuto subire l’umiliante interrogatorio dei volontari del Movimento per la Vita, lì collocati dalla direzione sanitaria, che per due settimane hanno cercato di farmi “riflettere”, parlandomi apertamente di omicidio, mentre i termini stavano per scadere. Un vero abuso. Fuorilegge. Come se non soffrissi già abbastanza. Ho abortito in ospedale e poi ho denunciato il direttore della Asl…». Ma come si fanno invece a calcolare i numeri di un fenomeno clandestino? Con quali parametri?
LE CIFRE DI UN DRAMMA
Da anni nella relazione al parlamento sulla legge 194, si cita una stima di 15/20mila aborti illegali ogni anno, un numero calcolato soltanto sul tasso di abortività delle donne italiane (6,9 per 1000) e sottostimato per stessa ammissione del ministero. Molti altri elementi però portano almeno al raddoppio di quella cifra, facendo salire la quota delle interruzioni di gravidanza clandestine a 40/50mila l’anno. Intanto confrontando le stime dell’illegalità al tasso di abortività delle immigrate, che è di 26,4 interruzioni ogni mille donne, tre volte quello delle italiane. Analizzando poi i dati Istat si vede con chiarezza quanto gli aborti spontanei siano aumentati, passando dai 55mila degli anni Ottanta, ai quasi ottantamila di oggi.
E secondo molti studiosi questa impennata altro non è che il ritorno dell’aborto clandestino “mascherato”, come avveniva prima della legge, quando le donne dopo aver tentato di “fare da sole” arrivavano in ospedale con emorragie e dolori, e i medici per salvarle completavano gli aborti, registrati come “spontanei”. Lo spiega con chiarezza Franco Bonarini, docente di Demografia all’università di Padova nel saggio “Sessualità e riproduzione nell’Italia contemporanea”. «L’incremento del rapporto tra aborti spontanei e gravidanze potrebbe essere conseguenza di un aumento del ricorso all’aborto volontario provocato illegalmente. Anche il più alto rischio per alcune categorie di donne, immigrate, non coniugate potrebbe essere indizio di questo fenomeno”. Ancora più preciso il calcolo di Bruno Mozzanega, dell’università di Padova, che si ricollega al crescente “spaccio” di farmaci per interrompere la gravidanza. «Agli aborti clandestini sottostimati in 20mila casi all’anno, si devono aggiungere, come segnala l’Istat, 73mila aborti spontanei, aumentati, rispetto al 1982, di 17mila casi all’anno. Un incremento medio del 30% che però nelle minorenni sfiora il 70%. Se questo surplus di aborti spontanei rappresentasse anche solo in parte gli insuccessi (5-10%) dei farmaci abortivi di contrabbando, ne emergerebbe un sommerso illegale di dimensioni inimmaginabili a carico soprattutto delle giovanissime».

La Repubblica 24.05.13

"Le 24 mila scuole a rischio sismico che ci rendono fragili", di Gian Antonio Stella

Almeno gli uragani, grazie a Dio, non li abbiamo. Le immagini della scuola di Moore in Oklahoma, però, dovrebbero essere di monito anche per noi. E ricordarci che le nostre scuole sono in larga parte esposte alle calamità di un territorio ad alto rischio sismico e idrogeologico. E che piuttosto che gli scongiuri servirebbe un’opera profonda di risanamento.
Vogliamo rendere omaggio sul serio, un anno dopo, alle vittime del terremoto in Emilia? Cominciamo a mettere in sicurezza quel patrimonio edilizio, pubblico e privato, di cui scopriamo la fragilità ogni qualvolta viene giù una frana o la terra dà uno scossone per rammentarci che l’Italia è uno dei paesi storicamente più colpiti dagli eventi sismici. I quali dall’Unità a oggi avrebbero ucciso, secondo le stime della studiosa Emanuela Guidoboni, circa 200 mila italiani.
Come scriveva sei mesi fa il Sole24Ore, dei 64.797 edifici scolastici censiti dal Rapporto Ance-Cresme sullo stato del territorio italiano nel 2012 «6.415 sono stati realizzati prima del 1919, 6.026 fra 1919 e 1945, 28 127 tra il 1945 e il 1971. Il 62% del patrimonio ha quindi più di 40 anni e spesso è stato sottoposto male e poco a manutenzione straordinaria. Ma è l’esposizione al rischio a rendere la situazione seria: il 37% degli edifici scolastici si trova in aree ad alto rischio sismico e il 9,6% a elevato rischio idrogeologico. Delle 24.073 scuole localizzate in aree ad alto rischio sismico 4.894 si trovano in Sicilia, 4.872 si trovano in Campania, 3.199 in Calabria».
Certo, con questi chiari di luna non è facile trovare i soldi per risanare tutti quegli edifici. E Dio sa quanto sia da rimpiangere lo spreco di risorse negli anni buoni. In ogni caso, la storia si è fatta carico di dimostrare che, purtroppo, intervenire «dopo» è peggio. Non solo perché si piangono i morti. Ma anche perché le ricostruzioni costano di più delle manutenzioni straordinarie.
Almeno per il patrimonio edilizio privato, comunque, qualcosa può essere fatto subito. Lo afferma una risoluzione votata all’unanimità dalla Commissione ambiente, territorio e lavori pubblici della Camera. La quale chiede che non solo sia rinnovato il patto coi cittadini perché possano scaricare dalle tasse il 55% delle spese fatte per migliorare l’efficienza energetica degli edifici ma l’estensione di questa opportunità «agli interventi di consolidamento antisismico» rendendo «obbligatoria la certificazione antisismica degli edifici pubblici e privati e i relativi controlli strutturali periodici».
«E i soldi dove li trova lo Stato per fare quegli sconti a tutti?», dirà qualcuno. Il presidente della commissione Ermete Realacci (l’unico, tra l’altro, ad aver rinunciato integralmente all’indennità di presidenza pari a 26.700 euro lordi l’anno), giura che non c’è problema. E che «tutti i soldi di tasse cui lo Stato rinuncia finiscono per rientrare e le misure si ripagano da sole, favorendo un aumento del fatturato e l’emersione del sommerso».
Tanto è vero, spiega, che «esistono dei problemi nelle regioni meridionali dove l’edilizia in nero è più forte». Lo dimostra una tabella dell’Enea. Su 100 interventi di riqualificazione nel 2011 la Lombardia ne contava 22,2 e la Campania un decimo: 2,1. E così la Sicilia: 2,0.
Un peccato: «Si parla tanto di Imu: la gran parte degli italiani paga meno di 500 euro per la prima casa e tra una casa costruita bene e una inefficiente passa la differenza di una bolletta di 1.500 euro l’anno. Il triplo. Se tutti se ne rendessero conto…».
Mesi fa, una ironica campagna pubblicitaria dell’Agenzia per la cooperazione e lo sviluppo norvegese studiata per ribaltare gli stereotipi verso il continente nero e basata sullo spot di bambini neri che cantavano «Africa for Norwey», si intitolava «Mandiamo termosifoni ai norvegesi!». Le nuove tecnologie e la migliore edilizia, in realtà, dimostrano che le case del futuro potranno farne a meno, dei termosifoni. Perfino a Oslo. Dove l’inverno è più lungo che sull’Appennino.
Un dossier del Cresme sul mercato delle costruzioni garantisce: «Il solo bilancio dello Stato evidenzia come ad entrate immediate o di poco posticipate (Iva, oneri sociali, Irpef, Ires, etc.) corrispondano uscite spalmate su 10 anni. Per effetto dell’attualizzazione dei valori in gioco, dunque, lo Stato trae un vantaggio nel décalage dei tempi fra gli incassi e le minori entrate. In estrema sintesi è dunque corretto affermare che al 2021 l’impatto del 55% sul sistema paese produrrà un saldo positivo quantificabile in 9.051,5 milioni di euro».
A maggior ragione, sostiene la commissione, sarebbe un peccato se a fine giugno l’agevolazione fiscale del 55% fosse lasciata cadere per essere sostituita con la detrazione fiscale del 36%, originariamente prevista per le sole spese di ristrutturazioni edilizie.
Se gli «interventi di green economy, finalizzati alla riconversione ecologica dell’economia, sono un importante volano per la ripresa dell’economia italiana dalla grave e prolungata crisi economica in atto», dice il documento, vale la pena di insistere. Allargando tutto alle ristrutturazioni per mettere le case in sicurezza. Un guadagno per i privati, un guadagno per lo Stato.
«Il presente e il futuro dell’edilizia, uno dei settori più in difficoltà con oltre mezzo milione di posti di lavoro persi dall’inizio della crisi, è legato più che a nuove costruzioni (e nuovo consumo di territorio) a scelte diverse come la riqualificazione del patrimonio esistente, la demolizione e la ricostruzione, il recupero di aree urbane degradate, la bellezza. Alla qualità più che alla quantità», dice Realacci, «Del resto concordano su questo anche i costruttori, le imprese, i sindacati, i professionisti… Non è un caso se il voto in commissione è stato unanime».

Il Corriere della Sera 24.05.13

"Governo e conflitto d’interessi", di Claudio Sardo

Le motivazioni della sentenza della Corte d’Appello di Milano delineano uno scenario inquietante. E confermano, oltre agli aspetti penalmente rilevanti, quanto distorsivo per il sistema democratico sia il conflitto d’interesse berlusconiano. Ma tutto ciò non cambia le ragioni costitutive del governo Letta, né consente deroghe al principio di legalità.

Il governo Letta è nato per affrontare una duplice emergenza. La prima: l’Italia ha bisogno vitale di politiche per il lavoro e la crescita, quelle politiche che i «tecnici» non sono stati capaci di attivare e che ora l’Europa, al culmine della crisi, può forse consentire dopo aver pagato un tributo altissimo all’austerità. La seconda emergenza: le riforme istituzionali ed elettorale, senza le quali nessuna nuova elezione può essere risolutiva, nel senso di consentire agli italiani di scegliere un Parlamento funzionante e un governo efficiente.

All’ombra del governo nessuno scambio improprio è possibile. Se la «pacificazione» è apparsa da subito un’espressione priva di senso, tanto più deve esserlo ora per chi ha immaginato salvacondotti a favore del Cavaliere. Quando la Cassazione pronuncerà il verdetto definitivo su

questo processo, la politica e le istituzioni dovranno inderogabilmente attenersi. Nessuno è condannato fino a sentenza definitiva, ma nessuno può sottrarsi alla legge dopo quella sentenza. Questo è il paradigma della legalità e della garanzia del diritto.

Berlusconi non sarà espulso dal Parlamento per il voto di una maggioranza politica che ribalterà il giudizio sull’ineleggibilità (ex legge 361 del 1957), consolidato nelle passate legislatura. Non per uno scambio vergognoso tra governo e principio di legalità. Ma semplicemente perché nessuna forza ancorata alla Costituzione e al buon senso può assumersi la responsabilità di una simile forzatura.

Il punto che deve essere chiaro al Cavaliere e a tutti gli altri è che la trattativa, su questi terreni, sarà impossibile anche in futuro. Se Berlusconi verrà condannato in via definitiva, non ci potranno essere sconti. La legge è uguale per tutti. E se a Berlusconi, nell’altro processo a

suo carico, fosse inflitta la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici, la decadenza da senatore diventerà inevitabile.
Il leader del Pdl ha partecipato alla «stranissima» maggioranza per trarne un qualche vantaggio sul piano giudiziario? Allora è meglio che ritiri subito la fiducia al governo Letta e proponga apertamente le elezioni anticipate.

Il governo Letta richiede patti chiari. Il programma deve procedere con celerità, ma stavolta è chiaro che far saltare il tavolo vuol dire mettere a rischio il futuro stesso del Paese. Piuttosto la vicenda processuale di Berlusconi colloca di nuovo molto vicino alle priorità una legge moderna anti-trust e anti-conflitto di interessi. Se ci fosse una destra in Italia, capirebbe che il problema – e il rischio democratico – va molto oltre Berlusconi. Non vorremmo che finita la stagione del Cav ci trovassimo con conflitti di interesse ancora più intricati, e senza avere più a disposizione gli anticorpi sociali.

L’Unità 24.05.13