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Stop al finanziamento dei partiti il pacchetto oggi in Consiglio dei ministri Letta: “I costi della politica vanno ridotti”, di Francesco Bei

Quello che nessuno si aspettava è che la riforma, lungamente attesa dopo il tradimento del referendum abrogativo del 1993, sarà già oggi al primo punto del Consiglio dei ministri.
Il governo inizierà infatti la discussione sui principi generali del disegno di legge che abolisce il finanziamento pubblico e lo sostituisce con varie forme di contribuzione dei cittadini agevolate fiscalmente. Il premier vuole il via libera “politico” già stamani, è determinato a portare a casa il risultato: «Puntiamo — ha confidato ieri a un espomassa
nente del Pd — ad approvare l’articolato, poi il testo completo con la bollinatura della Ragioneria generale per la parte fiscale, approderà al successivo Consiglio dei ministri tra pochi giorni. Era un impegno che mi ero preso nel discorso della fiducia e lo farò».
Letta si è fatto consegnare dagli uffici i vari disegni di legge già depositati in Parlamento sulla materia. Se ne contano almeno sette per l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, tra cui due dei renziani del Pd, una del Movimento 5 Stelle, una del leghista Roberto Calderoli e, ultima arrivata, Scelta Civica con Gregorio Gitti. Visto che tutti o quasi sembrano convergere sulla meta, il capo del governo si dice «fiducioso in una veloce approvazione ». Si tratta di una
enorme di denaro, nonostante sia stata già tagliata dal governo Monti. Per le elezioni del febbraio scorso i partiti riceveranno infatti 159 milioni di euro.
E poi cosa accadrà? Il piano prevede una serie di misure a favore della buona politica. Anzitutto la contribuzione volontaria dei cittadini, che saranno incentivati con detrazioni fiscali. Ma il ministro Gaetano Quagliariello, nel discorso programmatico di due giorni fa in commissione, ha alzato il velo su altri provvedimenti allo studio. Sempre tenendo fermi i due canoni della «sobrietà» e della «trasparenza ». Rimborsi elettorali potranno pure essere previsti, perché «la democrazia ha un costo che, per una sua parte incomprimibile, non può essere disconosciuto ». Tuttavia non potrà più essere un «finanziamento elettorale mascherato», come di fatto accade oggi, ma un rimborso effettivo «commisurato alle spese sostenute e documentate per la campagna elettorale». L’obiettivo finale è comunque un altro, più ambizioso. Ovvero che lo Stato «sostituisca l’erogazione diretta di denaro con la fornitura di servizi in ogni caso in cui ciò sia possibile». Nel progetto del governo i partiti potrebbero ottenere gratuitamente non solo agevolazioni postali o spazi televisivi per comunicare (come avviene nei programmi dell’accesso), ma anche sedi effettive, luoghi fisici, spazi pubblici per celebrare direzioni, congressi, riunioni.
«Se non c’è la capacità di essere austeri, con costi della politica ridotti, non si riesce ad avere la credibilità per ottenere risultati concreti», ha detto il premier davanti alla platea di Confindustria.
Intanto è partito con un decreto bandiera che riguarda i membri del governo. Un primo passo simbolico, ma tagliare i doppi stipendi qualcosa ha già prodotto. Come ha scoperto l’Ansa andando a leggere le tabella della relazione al decreto Imu-Cig, il risparmio complessivo è di 1,56 milioni di euro (2 milioni lordi). Il solo Letta rinuncia infatti a 75 mila euro l’anno (poco meno di 100 mila lordi), i 13 ministri in totale a 652 mila euro e i 20 sottosegretari a 834 mila. Intanto la presidenza della Repubblica fa sapere di aver fatto la sua parte per tagliare i costi del palazzo. Di non aver chiesto cioè «alcun adeguamento della sua dotazione» allo Stato per il triennio 2014-2016 e aver mantenuto i suoi fondi fermi al valore del 2008 (228 milioni), nonostante che da allora ad oggi sia già maturato un tasso di inflazione pari all’11%. La politica di risanamento avviata fin dall’inizio del primo settennato di Giorgio Napolitano ha già prodotto per le casse dello Stato risparmi stimati in circa nove milioni di euro l’anno. Per un totale di 63 milioni di euro.
Anche dentro al Pd — Renzi aveva sollevato per primo il problema — il dibattito si scalda sul finanziamento pubblico. Il partito, attacca Pippo Civati, «deve dare subito un messaggio, rinunciando ai soldi che non ha speso durante questa campagna elettorale». «Quelli che ha già speso e fatturato, cioè circa 11 milioni su 45 — ha aggiunto il deputato del Pd —, è giusto che vengano pagati, mentre gli altri 34 devono essere lasciati allo Stato come grande segnale al paese in questo momento di difficoltà ».
Slitta invece a luglio il disegno di legge costituzionale per l’abolizione delle province. Il governo ha deciso di attendere la decisione della Corte costituzionale su alcuni aspetti della spending review che toccavano, appunto, le province. E la sentenza è attesa per il 2 luglio. «Ma le aboliremo ribadisce Letta – lo abbiamo promesso ».

La Repubblica 24.05.13

«C'è ancora molto da fare». Il 30 arriva Letta e inizia la battaglia in Parlamento per gli aiuti, di Silvia Saracino

Il Presidente del consiglio Enrico Letta verrà in visita nelle zone terremotate il 30 maggio. L’annuncio è ufficiale, viene dal commissario straordinario Vasco Errani durante il consiglio regionale di ieri. Il percorso è ancora da definire, l’unica certezza è l’incontro in mattinata nella sede della Regione con alcuni sindaci e rappresentanti istituzionali.
Sicuramente il neo premier toccherà alcune zone colpite della Bassa modenese, per toccare con mano a che punto è la ricostruzione.
«La sintesi è semplice: si è fatto molto, c’è ancora molto da fare» ha detto Errani presentando in consiglio il bilancio a un anno dal terremoto. «Non partecipo a nessuna polemica — dice glissando sulle critiche ma non è vero che i fondi per la ricostruzione non ci sono, ci sono. E non dite il contrario, altrimenti chi ha un danno di soli diecimila euro si spaventa e, vista la burocrazia, non fa domanda. Invece ha diritto e deve farla».
Se Errani non vuole polemizzare ci pensano i comitati di cittadini a farlo, con Massimo Nicoletti del comitato Finale Emilia terremotata protesta. «Dopo la manifestazione del 18 febbraio, Errani e l’assessore Muzzarelli non ci hanno più interpellati».
Intanto a Roma i parlamentari emiliano-romagnoli affilano le armi per ricominciare la battaglia da dove era stata interrotta.
In questi giorni dovrà passare in senato il decreto che proroga lo stato d’emergenza e riapre i termini per accedere al prestito per pagare le tasse. L’obiettivo è salire sul treno allegando una serie di emendamenti importanti per le zone colpite. il primo blocco è il ‘pacchetto Emilia’, firmato da tutti, dal Pd al Pdl. Contiene sei richieste, tra qui l’estensione della copertura del prestito fiscale a tutto il 2013, e non solo fino al 30 settembre, e misure per far respirare i comuni, come la deroga al patto di stabilità e l’eliminazione dei vincoli alle assunzioni del personale.
A questi si aggiungono gli emendamenti presentati dal Pd e dal Pdl.
I democratici modenesi Ghizzoni e Vaccari hanno depositato un emendamento che chiede fiscalità di vantaggio per le micro imprese, fino a nove dipendenti e i lavoratori autonomi nell’area del cra- tere: esenzion delle imposte sui redditi fino a 100 mila euro, esenzione all’imposta regionale sulle attività produttive, dall’Imu, dalla tares e dal versamento dei contributi. Una sorta di ‘zona franca’, dal 2013 al 2015. Il senatore del Pdl Giovanardi, che ha sottoscritto il pacchetto Emilia concordato con Errani, ha presentato due emendamenti per chiedere «la proroga di un anno della possibilità di deduzione del 50% sulle ristrutturazioni edilizie nelle zone terremotate, la proroga di un anno dei pagamenti e la definizione puntuale dei pressupposti che possano portare a colpire le imprese con l’interdizione antimafia».

Il Resto del Carlino 22.05.13

Il presidente Errani al ministero: "In Emilia servono più docenti"

In Emilia-Romagna servono più insegnanti: non basta il plotone di 172 docenti aggiuntivi che il ministero ha già assefnato alla Regione. E’ il senso della richiesta che il governatore Vasco Errani invierà a Roma, dopo l’incontro con l’assessore Patrizio Bianchi e i sindacati regionali di categoria. “I numeri dimostrano che l’Emilia-Romagna è la regione italiana con l’aumento più elevato di studenti – ha detto il presidente Errani – Qui si è pagato già un prezzo altissimo con i tagli lineari degli anni passati, abbiamo già il più elevato rapporto alunni per classe, ora chiediamo di non essere penalizzati ulteriormente”. La popolazione scolastica, infatti, subirà un incremento di 8.500 studenti, pari a un +1,77% contro una media nazionale dello 0,39.

In Emilia-Romagna, ricorda una nota della Regione, il rapporto alunni/classe è di 21,5 a fronte di una media nazionale di 20. Aumentano anche gli alunni con disabilità, 592 in più rispetto all’anno scolastico in corso.

da repubblica.it

Beni culturali: Ghizzoni (Pd), subito riconoscimento professioni

“Per il via libera alla legge Madia è possibile procedere in legislativa”. “L’aggiornamento del Codice dei beni culturali è una riforma non più rinviabile: per questo abbiamo già chiesto una rapida calendarizzazione della proposta di legge Madia che aveva ottenuto nella scorsa legislatura un ampio consenso, risultato che ci fa ben sperare nella possibilità di approvare il testo in sede legislativa, cioè senza passare attraverso il vaglio dell’Aula”.

Così Manuela Ghizzoni, vicepresidente della commissione Cultura di Montecitorio, la quale spiega: “Oggi il ministro Bray, in occasione dell’ampia audizione parlamentare durante la quale ha esposto gli impegni programmatici del suo ministero, ha affrontato sinteticamente questo tema che certamente rappresenterà un aspetto qualificante del suo incarico. Infatti, il riconoscimento delle professioni dei beni culturali, tra le quali vanno ricordate: archeologi, storici dell’arte, bibliotecari, archivisti, antropologi, rappresenta la chiave di volta per valorizzare il lavoro dei giovani e investire nei talenti, proprio come vogliono le linee programmatiche del governo Letta”.

"Un giovane su 4 senza posto nè scuola", di Chiara Saraceno

I dati sono del 2012 e riguardano la popolazione italiana dai 14 anni: la percentuale del 36% registra una discesa vertiginosa, stante che un anno prima era del 45,8%, ed è dovuta pressoché esclusivamente alla diminuzione di chi è molto (o anche solo abbastanza) soddisfatto delle proprie condizioni economiche.
È quanto emerge dal rapporto annuale 2013 dell’Istat. Per altro, va osservato che è dal 2001, quindi da prima della crisi, che la soddisfazione per le proprie condizioni economiche è in diminuzione, al contrario di quanto avviene per altri aspetti della vita (salute, relazioni famigliari e amicali, tempo libero) che invece rimangono stabili o in aumento. In particolare e un po’ contro-intuitivamente, è aumentata la soddisfazione per le relazioni famigliari. Quasi che la maggiore dipendenza dalla solidarietà famigliare sperimentata da molti, specie i più giovani, la necessità di serrare le file e di condividere risorse e sacrifici, lungi dall’accentuare le tensioni in famiglia, le abbia viceversa ridotte.
Questa tenuta delle relazioni famigliari è indubbiamente un dato positivo. Ma non si può ignorare che non tutti hanno una famiglia che funziona ed è solidale, o che, pur essendo solidale, ha le risorse necessarie per esserlo efficacemente. Inoltre, poter contare solo sulla propria famiglia presenta molti vincoli alla autonomia individuale, oltre ad essere una delle cause della intensità
della riproduzione intergenerazionale delle disuguaglianze nel nostro Paese.
Nel generale fenomeno di una diminuzione della soddisfazione per le proprie condizioni economiche, rimangono e si acuiscono le differenze territoriali, in relazione sia alle diverse condizioni di partenza antecedenti la crisi, sia alla diversa incidenza della stessa, in termini di perdita di occupazione. È avvenuto, infatti, a livello territoriale quanto è avvenuto a livello di famiglie e di singoli: le condizioni economiche sono peggiorate per le regioni più povere e per gli individui più poveri. Non è un caso, quindi, che siano gli operai non solo ad esprimere maggiore insoddisfazione per le proprie condizioni economiche, ma a manifestare il calo maggiore tra i soddisfatti: sono loro ad aver sperimentato in maggior misura la perdita o la riduzione dell’occupazione e quindi anche del reddito e a vivere con più ansia la propria vulnerabilità sul mercato del lavoro.
L’insoddisfazione per le condizioni economiche diviene anche sfiducia rispetto al futuro prossimo, proprio e del Paese nel suo insieme. Una percentuale crescente di persone ritiene che non ce la farà a mantenere il livello di consumi, per altro già ridotto nell’ultimo periodo, cui è abituata e che ritiene indispensabile per il proprio sentimento di adeguatezza. E quanto più si è pessimisti rispetto a sé, tanto più lo si è anche rispetto alla tenuta economica del Paese. Si innesta così un circolo vizioso non solo sul piano pratico – se diminuiscono i consumi si indeboliscono anche le aziende che producono quei beni e diminuisce l’occupazione – ma anche su quello del clima culturale e politico complessivo.
Per fortuna, nonostante siano tra le categorie più colpite dalla crisi, i più ottimisti sono proprio i giovani fino a 34 anni, che hanno un orizzonte temporale più lungo davanti a sé. Gli ottimisti diventano tuttavia meno di un terzo tra chi ha i 35-44 anni, per diminuire ulteriormente nelle fasce di età successive. Ciò conferma che è giusto e opportuno investire nel miglioramento delle opportunità dei più giovani, per impedire che perdano la speranza, o per farla riacquistare a quelli che sembrano aver già gettato la spugna, ingrossando l’impressionante esercito dei Neet, i giovani — uno su quattro — che né lavorano né studiano. Ma occorre anche guardare con preoccupazione alla sfiducia e al pessimismo di chi è oggi nelle età centrali e non vede nessuna prospettiva di miglioramento. Anche perché sono loro a fronteggiare il peso dei bisogni insoddisfatti dei più giovani e dei più vecchi e della preoccupazione, non solo per il proprio futuro, ma anche per quello dei loro figli.

La Repubblica 23.05.13

Capaci, 2omila studenti a Palermo. Colle: «Falcone e Borsellino eroi»

Sono trascorsi 21 anni dalla strage di Capaci, che il 23 maggio 1992 uccise il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e i tre agenti di scorta, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani. Per ricordare il sacrificio di quei servitori dello Stato, anche oggi Palermo sarà palcoscenico d’incontri e manifestazioni alle quali prenderanno parte migliaia di studenti provenienti da tutta Italia, nonché i maggiori rappresentanti delle istituzioni.

In attesa di conoscere quali saranno le tappe che il presidente del Consiglio Enrico Letta farà in città, dopo aver annunciato ieri sera su Twitter la sua presenza a Palermo, come da tradizione, sono attese per stamattina al porto le due navi, ribattezzate Giovanni e Paolo, salpate ieri da Civitavecchia e Napoli, con a bordo circa 3mila studenti. Insieme a loro ci saranno il presidente del Senato, Pietro Grasso, il ministro dell’Istruzione, Maria Chiara Carrozza, il presidente Rai Anna Maria Tarantola, Nando Dalla Chiesa.

I ragazzi, una volta a Palermo, si divideranno in due gruppi. Uno raggiungerà l’aula bunker, dove si terrà un incontro incentrato sui temi della legalità; l’altro visiterà diverse piazze e parchi dedicati alle vittime della mafia. Sempre di mattina, alle12.30, il ministro dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza visiterà nel complesso monumentale di Sant’Agostino la mostra fotografica «Falcone e Borsellino vent’anni dopo».

In città sarà presente anche il presidente della Camera, Laura Boldrini, che si fermerà in raccoglimento alle 14.45 allo svincolo di Capaci dell’autostrada, per poi unirsi al corteo di ragazzi che partirà alle 16 dall’Aula bunker per raggiungere l’Albero Falcone. Infine, i ragazzi si ritroveranno davanti all’Albero Falcone, la magnolia antistante il portone di casa del magistrato, per il momento conclusivo della manifestazione che vedrà il minuto di silenzio alle 17,58, l’ora della strage.

«Le immagini dello spietato agguato restano indelebili nella memoria degli italiani, rinnovando l’angoscia di quel giorno e il ricordo commosso del sacrificio di Giovanni Falcone, di sua moglie Francesca Morvillo e degli agenti Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani, addetti alla loro tutela. L’attentato, replicato a distanza di poco più di un mese da quello in cui persero la vita Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta, rappresentò uno dei momenti di massima violenza eversiva dell’attacco della mafia allo Stato». Si apre così un messaggio inviato dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, a Maria Falcone, presidente della Fondazione «Giovanni e Francesca Falcone», in occasione del 21.mo anniversario della strage di Capaci.

«L’Italia – prosegue Napolitano – fu ferocemente colpita nelle persone di suoi servitori eccezionali, di grandi magistrati, di autentici eroi che sacrificarono la loro vita a difesa della legalità e della democrazia. La battaglia e l’esempio di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino diedero i loro frutti. Le indagini e gli interventi della Magistratura e delle Forze dell’ordine consentirono di contrastare con ancora maggiore efficacia vecchie e nuove forme di penetrazione e aggressione criminale. L’impegno prosegue instancabilmente con rinnovati successi e vede unite le forze politiche e sociali. Così come – e l’ho ricordato un anno fa a Palermo – prosegue l’impegno di perpetuare nel ricordo riconoscente i percorsi umani e professionali di coloro che sono caduti vittima del brutale attacco delle mafie. In questo contesto la mobilitazione di coscienze e di energie – promossa dalla Fondazione nel nome di Giovanni e Francesca Falcone e testimoniata dagli studenti che arrivano a Palermo a bordo delle navi della legalità – costituisce un contributo prezioso, divenuto ormai insostituibile, per la diffusione della cultura della legalità tra le generazioni più giovani».

www.unita.it

"Tocca ai giovani rifare l’Italia", di Alfredo Reichlin

Bisogna uscire da questa situazione di sfiducia, di polemiche, di tristezza e di ricerca del «chi ha sbagliato». Che cosa è successo? Calma e gesso diceva un mio amico che amava il bigliardo. È successo che è cambiato il mondo: ma sul serio, come non mai, per cui accadono cose come milioni e milioni di voti che si spostano senza che ce ne accorgiamo
Calma e gesso. Bisogna lasciare da parte vecchie dispute e ripartire. Per ripartire bisogna ritrovare il terreno della lotta: con chi, contro chi, come.

Con quale idea della situazione e del nostro ruolo andiamo al congresso? A me sembra chiaro che la ricostruzione di un partito come questo non può consistere in una riedizione delle vecchie culture della sinistra. Le cose cambiano. Mi ricordo che non tanto tempo fa, un pezzo della dirigenza di questo partito non solo esultò di fronte alla famosa lettera della Bce che ci imponeva una feroce austerità con i disastri che adesso vediamo. Si arrivò a dire che quello era (finalmente) il programma dei Pd, e che le obiezioni che fece allora Fassina erano quelle di un pazzo. Adesso il governo Letta si batte giustamente perché l’Europa cambi pagina. Ecco come le cose cambiano. Cambiano al punto che non solo gli errori compiuti e le sconfitte subite ma i fatti del mondo chiedono un luogo dove si possa formare una nuova idea del riformismo. Ed è ciò che rende più che mai necessari l’apporto di culture diverse: socialiste, cattoliche, giovanili, europeiste e anche radicali.

Stiano attenti i nostri critici da sinistra a non segare il ramo su cui anche loro sono seduti. Il Pd non ha fatto una «alleanza» con Berlusconi. Sostiene un governo di eccezione per impedire che la crisi gravissima del Paese sfoci in avventure reazionarie e populistiche. Criticate pure limiti ed errori nostri (che ci sono) ma è del tutto evidente che nella situazione attuale, senza un forte partito come il Pd aperto a forze centrali dell’impresa, del lavoro e dell’intelligenza creativa diventa molto difficile impedire che gli interessi profondi del Paese, e in primo luogo quelli del mondo del lavoro, siano travolti da un collasso del sistema democratico e parlamentare.

È con questo animo che bisognerebbe andare al congresso. Prima di tutto –lo ripeto- con la consapevolezza che quello che stiamo vivendo è un passaggio storico. E che, soprattutto da questo dato di realtà, una realtà gra de come una casa, deriva la necessità di una grande svolta. Una svolta vera, anche culturale. Calma e gesso. La nostra crisi non discende solo da errori contingenti ma dal permanere di una visione delle cose non adeguata alle mutazioni che investono non solo i rapporti sociali ma la condizione umana. Perfino la distanza tra le generazioni i è diventata enorme. Di qui la sconfitta: una domanda di cambiamento a cui noi non abbiamo dato risposte. Non era facile, essendo il mondo cambiato non solo rispetto alla Prima Repubblica ma agli ultimi secoli. Ma di questa «semplice» cosa non ci siamo occupati. Il nostro orizzonte era ristretto. Questo io penso e non da oggi. Quindi che congresso vogliamo fare? Le risposte saranno difficili ma cerchiamo almeno di porci le domande giuste, le grandi domande che incalzano la politica.

Che cos’è oggi la politica? Mi piacerebbe discutere seriamente di questo con i giovani che vivono un tempo in cui la politica conta poco per ciò che riguarda le grandi decisioni ed è sempre più disprezzata. Stiamo attenti a non sbagliare. Da un lato dobbiamo evitare le fughe in avanti. Noi non siamo i «pasticceri dell’avvenire» e il nostro dovere anche morale è assumerci le responsabilità che la situazione ci impone, senza sognare «regni che non esistono» (le parole di Machiavelli con le quali Enrico Berlinguer accettò il peso della segreteria del Pci). Questo da un lato. Dall’altro lato dobbiamo evitare una «concretezza» basata essenzialmente sul carisma di un personaggio che si costruisce attraverso i «media». Nulla di male, a condizioni però di non avvilire il protagonismo della società e quindi quella condizione della democrazia che consiste nel rendere possibile il mutamento tra dirigenti e diretti. Non servono a niente le polemiche tra vecchi e giovani. Non si tratta di «rottamare» nessuno né di disprezzare le esperienze passate. L’idea di fondo è un’altra. Io partirei dalla consapevolezza che spetta ormai a una nuova generazione, fare qualcosa di analogo a ciò che seppe fare la generazione –sia comunista che cattolica- che occupò la scena dopo il fascismo. Una politica che si nutriva di cultura e che si pensava come storia. Quella generazione fu concreta perché fece più che qualche riforma: ridisegnò la figura stessa dell’Italia. La ripensò a fronte delle nuove sfide dell’Europa e del mondo, quali erano uscite dalla Seconda Guerra mondiale: il compromesso socialdemocratico, la rivoluzione dei consumi, la durezza della guerra fredda. Quella generazione fece una riforma agraria, sancì la pace religiosa, scrisse la Costituzione, rimise al centro la questione meridionale, cancellò l’analfabetismo, trasformò l’Italia in un grande Paese industrializzato. Perché lo ricordo? Perché sono di questo tipo i problemi di oggi. Essi richiedono di collocare le riforme dentro una nuova visione del mondo che sfida l’Italia e questa visione deve essere storicamente concreta. Fatevi avanti, giovani. Spetta a voi fare ciò che non è riuscito alla generazione di mezzo. Ridefinire la figura e il ruolo dell’Italia: questo è il compito che le cose vi chiedono. Non solo tirare a campare ma mettere l’Italia in grado di contare nella nuova Europa e nel mondo.

Non fatevi illusioni. L’Italia così com’è non regge. Berlusconi ha aggravato le cose ma i guai nostri sono più antichi e più profondi. Bisogna sciogliere il grande nodo che soffoca lo sviluppo. È il nesso tra uno Stato inefficiente e corrotto e la creazione di consorterie e corporazioni. È (come causa ed effetto) un capitalismo che non investe sull’innovazione ma privilegia i bassi salari e le rendite. Serve a poco gridare nelle piazze più giustizia se non sciogliamo questo nodo. La grande novità è che non si può più pensare l’economia nei vecchi termini della polemica tra Stato e mercato. Che aspettiamo a proporre un nuovo modello di sviluppo? Lo fece negli anni 60 del Novecento un moderato come Ugo La Malfa con la «nota aggiuntiva». È di questo che si discuteva nei convegni del Cespe come in quelli di S. Pellegrino. Così l’Italia è andata avanti. L’economia non è una legge naturale, è una scelta. Ed è per fare nuove scelte, più giuste e più umane che noi abbiamo bisogno di una nuova Europa politica, federata. Non c’è solo un problema di giustizia ma di difesa della civiltà europea. L’economia finanziaria attuale non solo è ingiusta è arrivata al termine della corsa. Non funziona. Il rilancio dello sviluppo non è più possibile senza far leva su nuovi consumi umani e nuovi bisogni sociali. Il protagonismo della società diventa essenziale. Questa a mio parere deve essere la bussola della sinistra. E una linea chiara che può essere tradotta dal «latino dei Vescovi nel volgare dei parroci».

L’Unità 23.05.13