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"Non solo riforma elettorale", di Claudio Sardo

Con il porcellum non si può, non si deve mai più votare. Questo è il primo punto fermo di ogni trattativa. Non è accettabile un premio senza limiti (come ha già detto la Corte costituzionale), non è accettabile che l’elettore sia privato del diritto di scegliere gli eletti, non è accettabile il carattere coalizionale della competizione maggioritaria (che, non a caso, non ha uguali in alcun Paese democratico e di cui la Cassazione ha denunciato le evidenti storture, a partire dalla fraudolenta divisione in Parlamento dei partiti che hanno raccolto insieme il premio davanti agli elettori).

Ma c’è anche un altro punto che è arrivato il tempo di affermare, dopo vent’anni di seconda Repubblica. La legge elettorale, da sola, non basta a garantire efficienza e funzionalità di un sistema. Di più: davanti al nostro, attuale tripolarismo, non c’è legge elettorale in grado di assicurare governabilità. I riformatori, dunque, non possono che puntare a riforme di sistema. Senza riforme di sistema, la domanda di democrazia governante sarà sempre delusa e con essa rischia di deperire persino l’enorme patrimonio etico e giuridico della nostra Costituzione. Il governo e le forze responsabili devono quindi porsi l’obiettivo di arrivare dove nessuno è riuscito negli ultimi vent’anni: completare il percorso di riforma istituzionale e sottoporlo al referendum popolare. Dovrà essere un buon testo per passare l’esame degli elettori. Un testo coerente, fondato su una scelta chiara e non su un mix improbabile di vari modelli. In poche parole: bisogna decidere finalmente tra sistema parlamentare e semi-presidenzialismo.

Il sistema parlamentare è senza dubbio il più coerente con la nostra Costituzione: ma perché sia possibile un governo forte e stabile, di fronte a un Parlamento altrettanto forte e autorevole, è necessario spezzare il bicameralismo paritario. Se invece dovesse prevalere il modello francese, deve essere comunque chiaro che l’elezione del Capo dello Stato e quella del Parlamento avverranno in tempi diversi e ai cittadini andrà lasciata la possibilità di esprimere una rappresentanza antagonista al presidente.

Il nodo delle modifiche da apportare oggi al Porcellum si colloca in questo contesto. La priorità sono le riforme di sistema (e logica vuole che la legge elettorale segua le modifiche costituzionali). Ma bisogna mettere subito le carte in tavola. Avviare il percorso delle riforme vuol dire assumere fin d’ora l’impegno ad arrivare al traguardo. Altrimenti delle istituzioni italiane non resteranno che macerie.

Se si faranno davvero le riforme, si può anche limitare oggi l’intervento elettorale alla decapitazione del Porcellum (cioè l’eliminazione del premio) e a poche altre cose (ad esempio, il ripristino delle preferenze in circoscrizioni più piccole). Non sarà la legge finale, ma sarà sbarrata la strada ad elezioni anticipate: con il proporzionale puro, infatti, Berlusconi potrebbe anche arrivare primo e finire all’opposizione. Ma se le riforme istituzionali fossero improbabili o gli impegni della stranissima maggioranza insinceri, allora bisogna aprire subito la battaglia per una legge elettorale migliore. Sapendo che questa può portare al voto immediato e che, comunque, non garantirà da sola la governabilità futura.

L’Unità 23.05.13

"Occupazione, confronto al via. L'incognita delle risorse", di Luigina Venturelli

II ministro Giovannini smentisce lo stanziamento di 12 miliardi per sostenere il mercato del lavoro e la Cig in deroga. I sindacati: «I fondi sono inadeguati»Risorse limitate e tempi stretti. Il successo del confronto tra il governo e le parti sociali appena avviato per sostenere l’occupazione dipende tutto da queste due variabili. Scontato l’obiettivo: «Il lavoro è la priorità, soprattutto quello dei giovani ». E condiviso anche il percorso per raggiungerlo, fatto non solo di regole, cioè di «interventi di modifica alla legge 92 da fare col cacciavite», ma anche di politiche attive, perché «l’occupazione non si fa a costo zero». Da questo punto di vista, le parole con cui il ministro del Lavoro Enrico Giovannini ha commentato la conclusione dell’incontro di ieri pomeriggio, «il primo di una serie che coinvolgerà anche altri soggetti», non sono dissimili da quelle usate dai rappresentanti di Cgil, Cisl e Uil. Ma saranno il quanto e il quando degli interventi in esame a dare sostanza al piano per il lavoro che l’esecutivo vorrebbe adottare entro l’estate. Il responsabile del Welfare, infatti, ha insistito sul mese di settembre come termine ultimo, perché «se per allora imprese e lavoratori non avranno segnali d’inversione mi preoccupa molto l’autunno». E ha precisato che tutti i provvedimenti rispetteranno i vincoli di finanza, dunque «in questo momento non siamo in grado di dire quante risorse sono a disposizione e dove saranno prese», e sarà comunque «difficile » arrivare allo stanziamento di 12 miliardi di euro di cui si è parlato in questi giorni sulla stampa. Una puntualizzazione che preoccupa i sindacati, secondo cui la discussione non può prescindere dalla certezza di copertura finanziaria per tutto l’anno della cassa integrazione in deroga e dalla ricerca di una soluzione al problema degli esodati. Il nodo del confronto, per una volta, non riguarderà tanto il merito delle misure da prendere: «Molti dei suggerimenti vanno esattamente nella linea che il ministero ha già avviato e che sono emersi nella discussione in Parlamento» ha sottolineato Giovannini, citando l’emergenza dei giovani disoccupati e inattivi, quella degli estromessi dal mercato del lavoro in seguito a ristrutturazioni aziendali, e quella del Mezzogiorno «dove la situazione si è aggravata rispetto al passato». Nei prossimi mesi la situazione congiunturale dovrebbe migliorare, ma non sarà «una ripresa vigorosa» in grado di riassorbire la disoccupazione. Per questo, ha spiegato il ministro del Lavoro, è necessario capire «come possiamo accelerare una trasmissione della ripresa economica al mercato del lavoro». Allo studio c’è la possibilità di mettere mano alla riforma Fornero con «interventi di modifica da fare col cacciavite» specie sui contratti a termine, la possibilità di «rivedere gli ammortizzatori sociali, specie quelli in deroga, fino alla revisione dei centri per l’impiego e ai processi di semplificazione », per mettere in campo delle proposte operative entro luglio che consentano alle imprese «di avere un quadro normativo chiaro». E, in merito alle politiche attive per l’occupazione, Giovannini ha assicurato che si sta lavorando «a ipotesi costose e meno», concentrandosi in particolare «su ipotesi di defiscalizzazione e decontribuzione ». Ma per i sindacati le ipotesi finora sul tavolo della trattativa potrebbero non bastare. «L’occupazione non si crea intervenendo solo sulle regole. Servono risorse, programmazione e progettazione» ha affermato la segretaria confederale della Cgil, Serena Sorrentino, secondo cui i finanziamenti per gli ammortizzatori sono «inadeguati » e vanno integrati. «Bisogna sì dare certezza alle imprese, ma anche alle lavoratrici e ai lavoratori che questa legge 92 l’hanno subita». Anche il segretario nazionale dellla Cisl, Luigi Sbarra, è tornato sulle emergenze della cassa integrazione e degli esodati per tornare a «dare serenità » a chi è stato colpito dalla recessione: «Al quinto anno di crisi è illusorio pensare che modificare le regole della legislazione possa assumere un peso decisivo nel creare occupazione. Quel che serve sono politiche per la crescita». Toni parzialmente critici anche dal segretario generale dell’Ugl, Giovanni Centrella, secondo cui c’è bisogno di avviare un tavolo specifico per gli esodati: «L’impianto della riforma Fornero va seriamente modificato, non toccato semplicemente con un cacciavite».

L’Unità 23.05.13

"Addio a don Gallo il prete dei dimenticati", di Vito Mancuso

Don Andrea Gallo vivrà nell’immaginario degli italiani con il suo sigaro, il cappello nero e l’immancabile colletto da prete, i segni più caratteristici della doppia appartenenza che ha contraddistinto la sua lunga e felice vita: l’appartenenza al mondo e alla chiesa, alla terra e al cielo. Termini tutti ugualmente importanti per uno
che vi ha dedicato la vita.
Ma il primo posto per don Gallo spettava al mondo e alla terra, perché era solo in funzione di essi che per lui aveva senso poi parlare di chiesa e di cielo. La stola sacerdotale, che egli amava e a cui è sempre stato fedele, veniva dopo la sciarpa arcobaleno con i colori della pace che spesso indossava, e veniva dopo la sciarpa rossa spesso parimenti indossata per l’ideale di giustizia e di uguaglianza che a lui richiamava.
È stato questo primato del mondo e della terra che ha condotto don Gallo a essere un prete ribelle, contestatore, mai allineato con i dettami della gerarchia, soprattutto in campo etico e sociale. Un ribelle per amore, per amore del mondo e della sua gente, mai invece contro la sua Chiesa solo per il fatto di essere contro.
Se don Gallo è giunto spesso a essere contro, lo ha fatto solo perché era la condizione per essere per, al fianco dei più emarginati, dei più umili, dei più bisognosi, e per non tradire mai la sua coscienza con il dover ripetere precetti o divieti di cui non vedeva il senso o che riteneva ingiusti.
Una volta gli chiesero che cosa pensasse della Trinità, come riuscisse a conciliare il rebus di questo Dio unico in tre persone, con tutte le processioni, le missioni e gli altri complessi concetti speculativi che il dogma trinitario porta con sé. Egli rispose che non si curava di queste sottigliezze dogmatiche perché gli importava solo una cosa: che Dio fosse antifascista!
Al di là della brillante battuta che gli servì per uscire indenne dalle insidie della teologia trinitaria, l’espressione “Dio antifascista” racchiude al meglio il messaggio spirituale che la vita di don Gallo ha rappresentato e continuerà a rappresentare per tutti coloro che l’hanno amato, l’hanno applaudito e hanno letto i suoi libri: intendo riferirmi alla cultura della pace, della solidarietà e della giustizia; alla lotta contro l’arroganza del potere e del denaro; al rifiuto di ogni forma di violenza, anche solo verbale, per ricorrere invece all’arma sempre più efficace dell’ironia e dell’umorismo.
Quello che mi colpiva e mi piaceva di don Gallo era che in lui, a differenza di altri cristiani contestatori e di una certa musoneria risentita abbastanza diffusa nella sua parte politica, mancavano del tutto il risentimento e l’astio, per lasciare spazio invece a un’allegria di fondo, una bonarietà, uno sguardo pulito, un accordo armonioso con il ritmo della vita, come si percepiva anche dalla musicalità grave della sua bellissima voce.
L’ultima volta che l’ho visto è stato due mesi fa, all’indomani dell’elezione del nuovo Papa, quando Fabio Fazio ci chiamò nel suo programma per commentarla. Don Gallo fu brillantissimo, ogni sua parola suscitava un lungo applauso del pubblico, era felice come un bambino per la speranza che il Papa venuto dalla fine del mondo stava riaprendo ai credenti come lui, quelli che sono nella chiesa non a dispetto del mondo, ma per servirne al meglio la vita, cioè cercando di dare agli uomini ciò che il mondo costitutivamente non può dare loro, vale a dire la speranza che i sacri ideali dell’umanità (il bene, la giustizia, l’amore) non sono illusioni destinate a cadere “all’apparir del vero”, ma la dimensione più vera dell’essere da cui ognuno di noi proviene e nella quale ritornerà. Era proprio per questa speranza che don Gallo credeva in Dio e nel messaggio di Gesù. Egli vedeva in questa fede uno dei più nobili gesti d’amore verso la vita e verso gli uomini che l’attraversano spesso soffrendo. La fede di don Gallo era un profetico atto di fedeltà al mondo e di amore per gli uomini. In un cattolicesimo quale quello del nostro Paese, spesso privo di schiettezza e di libertà di parola, calcolatore, politico, amico del potere, caratterizzato da un conformismo che fa allineare pubblicamente tutti alla voce del padrone, compresi coloro che privatamente fanno i profeti e gli innovatori, in questo cattolicesimo cortigiano e privo di coraggio, la figura di don Gallo con il suo sigaro e il suo cappello ha svettato e svetterà per onestà intellettuale e libertà di spirito, perché egli non temeva di ripetere dovunque (in tv o davanti al suo vescovo non aveva importanza) i concetti sostenuti tra nuvole di fumo nelle lunghe nottate genovesi con gli amici della sua
comunità.

La Repubblica 23.05.13

Boldrini: Dare pienezza a Convenzione Istanbul Ratifica è solo primo passo, poi risorse per attuarla

La Convenzione di Istanbul la cui ratifica sarà votata la prossima settimana dal Parlamento italiano è un “passaggio importante” ma bisogna trovare le risorse per darle pienezza; è questo il primo intervento legislativo in materia di tutela delle donne a cui pensa la presidente della Camera Laura Boldrini, intervenuta oggi all’Audit nazionale sulla violenza di genere promosso dalla ministra per le Pari Opportunità Josefa Idem.

“Il 27 e il 28 si approverà la ratifica della Convenzione di Istanbul” ha sottolineato Boldrini parlando con TMNews, “un passaggio importante. Ma per dare pienezza a questa convenzione bisognerà dare seguito con l’implementazione di quello che prevede la convenzione stessa e trovare anche le risorse per metterlo in atto, altrimenti rischia di rimanere una scatola vuota. Io mi auguro che sia il primo passo per arrivare ad aprire questa scatola con tutti i contenuti che sono richiesti dalla Convenzione”.

La Convenzione di Istanbul, che ha bisogno di dieci ratifiche dei paesi firmatari per entrare in vigore, vincola giuridicamente gli Stati in materia di violenza sulle donne e violenza domestica, con misure di prevenzione e definizione di diverse forme di violenza di genere, nonché dando norme sui procedimenti penali per i colpevoli.

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Incontro sulla violenza di genere
Intervento del Presidente Grasso presso la sala polifunzionale della Presidenza del Consiglio dei Ministri

Gentili ospiti,

ho accolto con piacere l’invito del Ministro per le Pari Opportunità, che desidero ringraziare per aver organizzato questo incontro e per la sua forte e sincera volontà di contrastare ogni forma di violenza contro le donne.
Quella di oggi è un’occasione preziosa per riflettere su un fenomeno che ha ormai assunto le dimensioni di una vera e propria emergenza sociale: la violenza di genere. Sono pienamente consapevole e preoccupato di questo fenomeno in tutte le sue forme, dal sessismo di certe affermazioni considerate “leggere” alle offese e alle minacce, dall’uso che purtroppo sta diventando frequente anche nel nostro paese dell’acido come forma di sfregio ai troppi casi di femminicidio.

Ho più volte sostenuto che dobbiamo affrontare questa emergenza in maniera globale e sotto ogni aspetto, non solo repressivo ma anche preventivo, con il coinvolgimento di tutti i saperi che possano contribuire a una maggior tutela, per garantire la sicurezza, la vigilanza nelle strade, luoghi di aggregazione sul territorio, un’urbanistica ripensata tenendo conto della sicurezza dei cittadini, ma senza dimenticare l’importanza della reazione sociale, del cambiamento culturale e della piena attuazione delle misure legislative, ove non occorrano nuove norme.
Ogni condotta che mira ad annientare la donna nella sua identità e libertà – non soltanto fisicamente, ma anche nella sua dimensione psicologica, sociale e lavorativa – è una violenza di genere. Lo ripeto perché sia chiaro di cosa stiamo parlando. Le cose vanno chiamate con il loro nome.

Non si tratta solo degli omicidi e delle lesioni gravi da parte di partner o ex partner. Ci sono donne che subiscono quotidianamente maltrattamenti, violenze sessuali e psicologiche, minacce e molestie. Donne alle quali viene negato l’accesso all’istruzione o al mondo del lavoro e che, essendo in condizioni di dipendenza economica, non riescono ad allontanarsi da un contesto relazionale di rischio. Donne che, trovata la forza di uscire da situazioni di questo tipo, non incontrano il sostegno sociale e istituzionale necessario per ricostruire la propria vita.
Non dobbiamo dimenticare che molte delle vittime di omicidio o lesioni gravi avevano già denunciato episodi di violenza o di maltrattamento. Altre, invece, non avevano mai chiesto aiuto, per sfiducia nelle istituzioni, per mancanza di mezzi o per una pericolosa sottovalutazione delle violenze subite.
Per la complessità delle sue ragioni e per la pluralità delle sue manifestazioni, la violenza contro le donne può essere combattuta solo con una strategia condivisa e coordinata. Il tema della violenza verso le donne deve essere inserito tra le priorità dell’agenda politica del Parlamento e dell’azione del Governo. Sono necessari interventi mirati in ambito giudiziario, sanitario e culturale, che vanno definiti e attuati in sinergia con le associazioni e gli enti di volontariato.

Per contrastare efficacemente questa deriva ritengo essenziale garantire alle vittime una protezione efficace sin dai primi atti penalmente rilevanti. Ciò consentirebbe, da un lato, di prevenire offese ulteriori e più gravi, con un crescendo di intensità che spesso culmina nell’omicidio; dall’altro, faciliterebbe l’emersione di sopraffazioni, che in troppi casi vengono tenute nascoste dalle stesse vittime per paura o per vergogna.
Come presidente del Senato ho già assicurato il massimo impegno affinché venga costituita la commissione parlamentare, concordemente richiesta da tutte le forze politiche, al fine di studiare il fenomeno del femminicidio per delineare analisi, interpretazioni e adeguate soluzioni.
Un passo deciso in questa direzione può essere compiuto con un adeguamento del nostro ordinamento giuridico ai più innovativi strumenti di tutela dei diritti delle donne, dobbiamo investire nella prevenzione e nella protezione delle vittime, dobbiamo prevedere misure di sostegno medico, psicologico e legale alle vittime e azioni istituzionali di prevenzione nel settore educativo e dell’informazione.
Perché, se è indifferibile l’approvazione di ogni norma necessaria, occorre nel contempo acquisire la consapevolezza che la violenza contro le donne è socialmente, prima ancora che penalmente, inaccettabile. Di questo dobbiamo parlare, su questo vanno sensibilizzati i ragazzi e le ragazze. Perché maturi una sensibilità diffusa e profonda sul tema della violenza di genere. È necessaria una reazione di condanna forte e chiara. Non esiste tolleranza né giustificazione alcuna per le condotte che ledono i diritti delle donne, e la consapevolezza condivisa della gravità del problema, come spesso succede nel campo dei comportamenti sociali, è il presupposto indispensabile perché davvero, un giorno, cambino le cose.

"Istat: 15 milioni in disagio economico", da repubblica.it

L’Italia ha “la quota più alta d’Europa” di ragazzi tra i 15 e i 29 anni che non lavorano né studiano: 2,25 milioni, uno su quattro. Le persone ‘potenzialmente impiegabili’, cioè disoccupati, scoraggiati e in cerca, superano i 6 milioni. Crollano consumi e potere d’acquisto. Quasi 9 milioni in disagio economico grave, sei famiglie su dieci tagliano il cibo. Disoccupati ‘cronici’ tanto da essere ormai sfiduciati. Potere d’acquisto delle famiglie e consumi in calo verticale. Giovani maggiormente colpiti dalla crisi economica, tanto da rinunciare a formarsi e a cercare lavoro. Le pennellate scure prevalgono nettamente nel quadro emerso dal Rapporto Annuale 2013 – La situazione del Paese firmato dall’Istat e incentrato sulla situazione economica delle famiglie e dell’Italia. Prevale il pessimismo – dunque – anche in considerazione del fatto che nei primi quattro mesi dell’anno nuovo si sono manifestati “segnali di perdurante debolezza dell’attività economica”.

Disagio economico. Sono quasi 15 milioni a fine 2012 gli individui in condizione di ‘deprivazione o disagio economico’, circa il 25% della popolazione (40% al Sud). Nel Rapporto si sottolinea che in grave disagio sono invece 8,6 milioni di persone, cioè il 14,3%, con un’ incidenza più che raddoppiata in 2 anni (6,9% nel 2010). A ciò si aggiunge il fatto che la pressione fiscale in Italia è al top in Europa al 44%. Nel 2012 “l’incidenza delle imposte correnti sul reddito disponibile delle famiglie è salita al 16,1%”, al livello più alto dal 1990.

Giovani sfiduciati. L’Italia ha “la quota più alta d’Europa” di giovani tra i 15 e i 29 anni che non lavorano né studiano. Si tratta dei cosiddetti Neet, arrivati a 2 milioni 250 mila nel 2012, pari al 23,9%, circa uno su quattro. Basti pensare che in un solo anno sono aumentati di quasi 100 mila unità. Il tasso di disoccupazione dei giovani tra il 2011 e il 2012 è aumentato di quasi 5 punti percentuali, dal 20,5 al 25,2% (dal 31,4 al 37,3% nel Mezzogiorno); dal 2008 l’incremento è di dieci punti. Sono stati relativamente più colpiti, spiega sempre l’Istat, i giovani con titolo di studio più basso, in modo particolare quanti hanno al massimo la licenza media (+5,2 punti). Il numero di studenti è rimasto sostanzialmente stabile attorno ai 4 milioni (il 41,5% dei 15-29enni; 3 milioni 849 mila nel 2008). La distanza tra formazione e lavoro emerge dal fatto che solo il 57,6% dei giovani laureati o diplomati italiani (tra 20 e 34 anni) lavora entro tre anni dalla conclusione del proprio percorso di formazione. In Europa la media è al 77% e l’obiettivo al 2020 è l’82%.

Disoccupati di lunga durata. Le persone ‘potenzialmente impiegabili nel processo produttivo’ sono quasi 6 milioni, se ai 2,74 milioni di disoccupati si sommano i 3,08 milioni di persone che si dichiarano disposte a lavorare anche se non cercano (tra loro gli scoraggiati), oppure sono alla ricerca di lavoro ma non immediatamente disponibili. Tra il 2008 e il 2012 i disoccupati sono aumentati di oltre un milione di unità, da 1,69 a 2,74 milioni, ma è cresciuta soprattutto la disoccupazione di lunga durata, ovvero le persone in cerca di lavoro da almeno 12 mesi (+675.000 unità) che ormai rappresentano il 53% del totale (44,4% la media Ue). Nel 2012 a crescere sono stati solo gli occupati a termine (+3,1%) e i lavoratori a tempo parziale (+4,1%). Performance da brividi anche per gli occupati più ‘alti’: il gruppo dei dirigenti e degli imprenditori ha perso 449mila unità in quattro anni. Dopo questa serie di dati, il ministro del Lavoro Enrico Giovannini – atteso al confronto con i sindacati – ha detto: “Oggi ci confronteremo con le parti sociali sul lavoro per arrivare a fine giugno con un piano forte”.

Crollo di consumi e potere d’acquisto. Nel Paese sono aumentate del 70% le famiglie con figli in cui nella coppia solo la donna lavora: sono passate da 224mila nel 2008 (5% del totale) a 381mila nel 2012 (8,4%), in aumento del 70%. I redditi non bastano però a sostenere i consumi. Nel 2012 il potere d’acquisto delle famiglie italiane ha registrato una caduta “di intensità eccezionale” (-4,8%). L’Istat evidenzia che al calo del reddito disponibile (-2,2%) è corrisposta una flessione del 4,3% delle quantità di beni e servizi acquistati, la caduta più forte da inizio anni ’90. Cala anche la qualità o la quantità degli alimentari acquistati: la fetta dei nuclei che limano su questi aspetti è aumentata dal 53,6% al 62,3% e nel Mezzogiorno arriva a superare il 70%. L’anno scorso questa situazione ha portato le famiglie italiane ad una propensione al risparmio tra le più basse nell’Ue.

Qualità della vita promossa. Nonostante tutto, però, alla domanda su come viene valutata la propria qualità della vita, gli italiani rispondono con la sufficienza piena: 6,8 il voto attribuito. Pur sotto stress finanziario, la maggioranza dei cittadini si dimostra tollerante nel rapporto con gli stranieri. Il 61,4% dei cittadini è infatti d’accordo con l’affermazione che “gli immigrati sono necessari per fare il lavoro che gli italiani non vogliono fare” e il 62,9% è poco o per niente d’accordo con l’idea che “gli immigrati tolgono lavoro agli italiani”. Solamente il 24,6% per cento degli italiani – però- è complessivamente ottimista sul proprio futuro nei prossimi cinque anni.

Conti pubblici. Quanto al bilancio dello Stato, l’Istituto sottolinea che i debiti commerciali delle pubbliche amministrazioni ammontavano a fine 2012 a 63,1 miliardi, in calo rispetto ai 65,7 miliardi dell’anno precedente. L’inversione di trend crescente, che si è visto tra il 2009 e il 2011, è attribuito alla spending review. Oltre la metà dei debiti (57%) è accumulato dal comparto della sanità. L’Istat riconosce gli sforzi fatti per proseguire il percorso di risanamento dei conti pubblici; l’indebitamento netto in rapporto al Pil è tornato entro la soglia del 3%, dal 3,8 del 2011. Ma anche che “non sono stati sufficienti ad arrestare la crescita del rapporto tra debito pubblico e Pil”.

da repubblica.it

"Una sinistra con la schiena dritta", di Pietro Spataro

Governare con Berlusconi è peggio che praticare uno sport estremo. Ma questo si sapeva e nessuno si sarebbe misurato con un’impresa ai limiti del possibile se non fosse stato per la drammatica crisi economica, per la vergognosa legge elettorale e per i madornali errori del Pd. Il problema ora è come gestire una fase di turbolenza che rischia di mettere in tensione il governo Letta, di indebolire l’impegno per far ripartire il Paese e di minare il percorso delle riforme costituzionali.

La strategia di Berlusconi è ormai chiara: stop and go, con agguati e ricatti. Prova a guidare il gioco, a incassare il bene che farà il governo e scaricare sulla sinistra quel che non riuscirà a fare. Ma l’ossessione giudiziaria del Cavaliere sta strattonando ogni giorno di più la «stranissima maggioranza». Quello scritto ieri, con l’oscena proposta di legge per dimezzare le pene del concorso esterno in associazione mafiosa, è solo l’ultimo capitolo della serie. Nelle stesse ore Berlusconi ha agitato il fantasma della sua ineleggibilità con l’accusa ridicola al Pd di volerlo far fuori. Insomma, è un terremoto continuo.

Certo, il Pd non può impedire a Berlusconi di fare danni, ma può sicuramente fargli pagare un prezzo per questa sua irresponsabile attività, cercando di aprire contraddizioni nel Pdl. Ci sarebbe bisogno di un Pd che evitasse di subire da una parte le pressioni della destra e dall’altra le minacce e gli insulti di Grillo barcamenandosi tra una trappola e l’altra e mostrando di continuo le proprie fragilità. Se il governo Letta ha un senso, il Pd deve farlo proprio fino in fondo. Epifani sta cercando faticosamente di ridare una rotta a un partito che negli ultimi mesi ha vissuto la crisi più drammatica dalla sua nascita. Ha rimesso al centro il tema fondamentale del lavoro, incita il premier a sbattere i pugni in Europa affinché si allenti la morsa del rigore e si mettano in campo politiche non convenzionali per la crescita. Però non basta Epifani. Perché non si governa una fase così complicata e piena di insidie con un partito che è ancora diviso, nel quale troppo spesso contano di più i destini personali che non l’interesse della comunità che si rappresenta e del Paese che si vuole governare. La ricostruzione del Pd avrebbe bisogno di una maggiore consapevolezza, da parte di tutti, del tempo che stiamo vivendo, altrimenti si finirà tra le macerie. E sulle macerie è poi difficile riedificare.

Queste verità bisogna dirsele con chiarezza, anche se sono crude. Se il Pd non ritrova lo spirito di combattimento uscirà malconcio da questa difficile esperienza di governo. In questa impresa, infatti, non ci si può stare con un piede solo, e qualcuno addirittura solo con la punta. Bisogna starci con coraggio e con la schiena dritta. Sapendo che sono due le sfide da giocare: quella del lavoro (e soprattutto del lavoro per i giovani) e quella della riforma della politica (e soprattutto di una seria riforma elettorale che faccia dimenticare l’osceno Porcellum di Berlusconi e Bossi). Su questi temi bisogna battagliare, insistere, incalzare il Pdl e sfidare il Movimento Cinque Stelle. Rendendo chiaro al Paese che non ci sono scambi, patti, pacificazioni. Che sulla legalità non ci sono scorciatoie possibili perché la legge è e resta uguale per tutti. E che il vero interesse è risollevare l’Italia, dare ossigeno alle imprese, rendere meno fosco il futuro dei giovani, consegnare agli elettori un sistema istituzionale che sia efficiente e che garantisca la certezza del loro voto.

Il binario del governo è evidente, come è scritto nero su bianco nel programma illustrato dal premier in Parlamento al momento del voto di fiducia. Su queste coordinate deve esercitarsi la vera competizione con la destra. E chi esce fuori dalla rotta indicata si assume la grave responsabilità di una eventuale crisi. Non si può più consentire a Berlusconi di condurre le danze. Per fare questo, però, il Pd deve smetterla di farsi del male. Deve ritrovare il suo «senso comune», saper interpretare il malessere che si agita tra i suoi militanti e non lasciare che vinca la sfiducia o la rassegnazione. La sinistra deve saper fare la sinistra, soprattutto nei momenti più difficili.

L’Unità 22.05.13