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"Come passarsi il testimone in fabbrica", di Roberto Mania

Ci sono grandi gruppi, come Bayer, Techint, A2a, Campari, interessati alla staffetta generazionale. Da giugno scatteranno nel milanese i primi contratti. È a Milano, Monza e Brianza, che sta iniziando la sperimentazione del lavoro diviso tra giovani e anziani. In attesa che il governo vari il piano per l’occupazione giovanile
DENTRO il piano potrebbe esserci una nuova regolamentazione del contratto tra generazioni, e il test lombardo sarà decisivo per capire se varrà la pena seguire la Francia di François Hollande che ha deciso di scommettere sul
contrat de génération mettendo in campo un miliardo di euro da qui al 2016 con l’obiettivo di creare 500 mila accordi. Anche in Germania ci sono i contratti generazionali ma vengono stipulati nelle aziende e non seguendo una specifica legislazione.
Più che il modello francese, dunque, è la Lombardia che farà da apripista per rilanciare il contratto generazionale dopo il nulla di fatto di diversi progetti presentati nel passato a cominciare da quello del pacchetto Treu del 1997. La crisi, però, sembra stia dando un nuovo impulso allo scambio anzianigiovani. Incide la riforma delle pensioni che ha allungato la permanenza al lavoro, ma incide — probabilmente — anche la ricerca di nuove forme di solidarietà tra generazioni perché quella che nel passato si realizzava nel sistema pensionistico, con i giovani che pagavano le pensioni, non ha retto di fronte ai mutamenti demografici. Premono le aziende che hanno bisogno di abbassare i costi (un lavoratore giovane costa meno) ma anche di ristrutturarsi per ricercare nuove vie competitive nel mercato, e non hanno più a disposizione lo strumento dei pensionamenti anticipati. Va detto che la staffetta non crea nuovo posto lavoro ma stimola il turn over. Anche per questo è importante che — stando alle prime indicazioni del governo — sia esteso al pubblico impiego.
«Più che un contratto-staffetta che dà l’idea del passaggio del testimone, parlerei di contratto ponte tra generazioni», dice Alberto Meomartini, presidente al termine del mandato di Assolombarda, l’associazione milanese della Confindustria, che ha fortemente spinto per adottare il nuovo contratto. Nelle aziende lombarde un anziano con meno di 36 mesi di distanza dalla pensione potrà accettare volontariamente di passare al part time con la possibilità di svolgere anche una funzione di tutor nei confronti del giovane che verrà assunto come apprendista. L’anziano riceverà uno stipendio dimezzato, ma i contributi ai fini del calcolo dell’assegno pensionistico saranno integrati dallo Stato, o meglio dalla Regione, utilizzando le risorse di un fondo europeo per il reimpiego. È fortissimo l’interessamento anche di altre Regioni. In Friuli si è vicino all’avvio della sperimentazione, così come in Piemonte, in Emilia Romagna e nelle Marche. Prossimo a partire il progetto nel Lazio. «È una misura di politica attiva per il lavoro — spiega Paolo Reboani, presidente e amministratore delegato di Italia Lavoro, l’agenzia del ministero per promuovere l’occupazione — che può funzionare. Viene incontro alle esigenze delle imprese di ridurre i costi, fa entrare i giovani nel mercato del lavoro, e viene incontro alla domanda dei lavoratori più anziani di un “decalage” lavorativo verso la pensione».
Certo la staffetta più efficace sarebbe quella tra padri e figli, prevista in alcuni accordi nel settore bancario e anche alle Poste, perché i primi sarebbero più incentivati a rinunciare volontariamente a una parte dello stipendio in cambio del posto al figlio. Ma sarebbe un’altra cosa: una forma di solidarietà familistica.
Il governo sembra intenzionato a seguire l’esempio lombardo. Si ragiona su diverse ipotesi: una coppia di giovani assunti con contratto di apprendistato, oppure un solo giovane a tempo indeterminato, con l’anziano sempre a tempo parziale. Altra ipotesi è quella di un pensionamento concordato (nel caso si ritornasse a forme di pensionamento flessibile) in cambio dell’assunzione di un giovane.
Rimane il problema dei costi. L’Inps ha fatto alcune simulazioni dalle quali emergerebbe una particolare onerosità dell’operazione. Probabilmente si potranno usare risorse europee. Resta il fatto che la vera partita si giocherà su questo terreno.

La Repubblica 21.05.13

Fassina «Giuste le domande della piazza Fiom Ma il Pd si gioca tutto al governo», di Andrea Carugati

La piazza della Fiom? Sbagliato dire che il Pd non c’era. C’erano tanti esponenti del nostro partito, da Cofferati a Orfini», spiega Stefano Fassina, viceministro dell’Economia. «In passato, quando eravamo all’opposizione, la nostra presenza in quelle piazze era più significativa, io stesso ci ero andato. Ma oggi le risposte alle domande di quel popolo, che restano fondative per noi, dobbiamo provare a darle dal governo. È questo il banco di prova su cui il nostro popolo e i nostri elettori ci misureranno».

Il tema di quella piazza era il lavoro. Il premier Letta dice che la priorità è il lavoro. Su questo fronte che risposte pensa che potrà questo governo?

«Con il Consiglio dei ministri di venerdì abbiamo mosso i primi passi. Un miliardo per la cassa integrazione in deroga, circa 100 milioni per i contratti di solidarietà che riguarderanno decine di migliaia di persone, il rinnovo dei contratti precari in scadenza nella Pubblica amministrazione che riguardano altre decine di migliaia di persone».

E adesso cosa farete? Quali saranno le priorità di qui a fine state?
«Il nodo del problema è a Bruxelles, dobbiamo correggere la politica macro-economica dell’eurozona. Altrimenti non si inverte la tendenza alla recessione e l’emorragia di posti di lavoro. La principale trincea del lavoro è questa. Nella situazione in cui ci troviamo, le regole del mercato del lavoro e anche gli incentivi sono molto marginali per l’obiettivo di creare nuova occupazione. Bisogna innanzitutto fermare l’austerità che soffocal’economia e fa aumentare il debito pubblico. Non dico che non faremo correzioni alla legge Fornero, ma non è quello il punto principale. Bisogna sostenere la domanda pubblica e privata, altrimenti non c’è ripresa. Questo non vuol dire che lasceremo intatte le riforme Fornero: dobbiamo risolvere la questione degli esodati, regolare i contratti flessibili, modificare i contributi per le partite Iva, gli ammortizzatori sociali e le politiche per la formazione».

Nel dettaglio, quando parla di correzioni di rotta macroeconomiche a cosa si riferisce?
«Si deve arrivare a una completa unione bancaria, ai project bond per finanziare gli investimenti, a una “golden rule” che consenta di non contabilizzare nel deficit le spese per investimenti produttivi. Più che puntare alle agevolazioni fiscali per l’assunzione di giovani, sarebbe più utile un piano di messa in sicurezza di scuole e ospedali, da almeno 10 miliardi. Queste misure anticicliche di tipo keyne- siano devono andare di pari passo con la risoluzione dei nodi che citavo a livello europeo. Le due cose si tengono».

Che tempi vi date?

«Il Consiglio europeo di giugno sarà decisivo, anche per stabilire le politiche nazionali. Sarà quella la sede per capire quali saranno gli spazi di manovra per sostenere l’occupazione, soprattutto quella giovanile. Noi puntiamo in primo luogo alla chiusura della procedure per deficit eccessivo».

Pensa che questo basti a rispondere alle domande pressanti dei vostri elettori? «Abbiamo dato con il decreto di venerdì scorso i primi segnali in controtendenza. Ma siamo di fronte a problemi drammatici che non si risolvono con la bacchetta magica. Da parte di nessun governo. Scorciatoie non ce ne sono».

È giusto concentrarsi sull’Imu? C’è il rischio di togliere risorse al lavoro?
«Noi siamo riusciti a evitare che nella sospensione ci fossero anche le case di lusso. Il Pd aveva già da tempo proposto di innalzare la detrazione sulla prima casa a 400 euro. Si potrebbe lasciare l’Imu per il 15% di immobili di maggior valore.

E con i 2 miliardi di gettito si potrebbe bloccare l’aumento dell’Iva a luglio». Crede davvero che l’aumento dell’Iva si possa ancora bloccare?

«I margini di manovra sono molto stretti, ma ci si può lavorare. Bloccare l’aumento dell’Iva eviterebbe un ulteriore colpo alle famiglie e alle imprese».

Per le altre famiglie l’Imu prima casa sarebbe cancellata?
«Sì, per l’85% delle famiglie sarebbe cancellata».

Lei era stato uno dei più critici rispetto all’ipotesi di un governo col Pdl. È giusto dire che il Pd sta pagando il prezzo più alto per il sostegno a questo governo? «Certamente, nel nostro elettorato c’è grande preoccupazione. La sfida ce la giochiamo tutta sui risultati, non sulla retorica dell’inciucio che porta avanti Grillo, in una chiave reazionaria».

Col Pdl c’è una reale possibilità di intesa sulle politiche da proporre in Europa? «Secondo me sulle sfide europee l’intesa è possibile, soprattutto sulla priorità di una correzione di rotta macroeconomica. Non dimentico che è stato il governo Berlusconi a firmare gli accordi sul pa- reggio di bilancio nel 2013. E tuttavia va preso atto che oggi il Pdl ha cambiato impostazione su questo punto».

Meglio il governo Pd- Pdl che quello dei professori?
«C’è una differenza fondamentale. Questo governo ha una maggiore consapevolezza del fallimento delle politiche di austerità e di svalutazione del lavoro. Lo dico anche a chi nel Pd ha sostenuto che l’agenda Monti dovesse essere l’agenda del Pd, e oggi ripropone per Chiamparino e Renzi le ricette del Lingotto. In quella piattaforma in primo piano c’era la maggiore flessibilità del mercato del lavoro e una prospettiva tutta microeconomica che era inadeguata nel 2007 e oggi lo è ancora di più. Non a caso l’agenda Monti è stata spazzata via dagli elettori». Epifani polemizza con Sel e Fiom. Lei vede margini di ricucitura con Vendola? «Vendola deve capire che il Pd si è assunto la responsabilità di provare a dare risposte. Stare a fianco dei lavoratori che soffrono è necessario ma non basta. Confido che anche sul merito dei provvedimenti economici e sociali si possa coinvolgere tutto il centrosinistra».

L’idea di un cambio di maggioranza e di un governo con Sel e un pezzo di M5S la incuriosisce?
«Mi pare un’ipotesi a oggi del tutto irrealistica».

L’Unità 20.05.13

“Noi, più forti del sisma” nella fabbrica di Finale ricostruita dagli operai, di Jenner Meletti

C’è ancora una casetta di legno, nel cortile dietro la Cigaimpianti. «L’abbiamo tenuta perché ci serve come ricovero degli attrezzi per la mega grigliata che faremo prima delle ferie, con tutti gli operai. E soprattutto per ricordare i giorni pesanti che abbiamo passato». Giorni nei quali la fabbrica era rotta e le tante casette di legno erano gli uffici e anche l’abitazione per gli operai e i tecnici che avevano perso la loro casa di mattoni. Claudio Sabatini, il titolare di questa azienda di outsourcing (fornisce ad altre imprese servizi di montaggio e manutenzione) ricorda una data precisa, nel difficile cammino della rinascita. «Mercoledì 23 maggio 2012, tre giorni dopo la prima scossa. Su cento operai, quindici non si erano presentati in azienda. Li ho chiamati uno per uno, per un incontro. Sembrava una riunione degli alcolisti anonimi. Uno alla volta, operai e tecnici hanno raccontato i loro problemi. “Mi chiamo Marco, lavoro qui da tre anni. Il mio appartamento è pieno di crepe”. “Io sono Alessio, devo sistemare mio padre, la sua casa è crollata”…».
Comincia con quella riunione la resurrezione della Cigaimpianti, che venti giorni prima della scossa, il 30 aprile, aveva festeggiato i trent’anni di lavoro e aveva inaugurato il nuovo stabilimento. Le strutture portanti del capannone alto 15 metri, con due piani, avevano retto. Ma erano crollati i con-trosoffitti, tutte le pareti divisorie in laterizio, i tre quarti dei pannelli di tamponamento… Da rifare gli impianti elettrici e di riscaldamento, da sistemare tutti gli infissi. «Ragazzi, il momento è critico. Non sappiamo ancora se dobbiamo lavorare anche di notte o se rischiamo di andare tutti a casa. Dobbiamo darci da fare». Arrivano le casette di legno, per ricollegare telefoni e computer e per dare un letto a dieci operai. Gli altri cinque trovano alloggio in due appartamenti dell’azienda. «Una parte di noi ha lavorato per rimettere in sesto il nostro capannone, gli altri sono andati nelle altre aziende danneggiate. Operai specializzati nella manutenzione in questi casi sono preziosi. Due di loro erano alla Menù, quando è arrivata la scossa del 29 maggio. Erano giovani, meno male, e con le gambe buone. Sono riusciti a scappare nel momento del crollo».
A metà marzo è ripartita anche una piccola officina che costruisce macchine per la confezione del tabacco. «Dopo lo shock iniziale – racconta Claudio Sabatini – ci siamo messi bene in pista. Da metà giugno a fine anno sono riuscito ad assumere anche dei lavoratori a tempo determinato per la messa in sicurezza dei capannoni terremotati. A Natale, quando ho detto loro che purtroppo non potevo rinnovare il contratto, invece di arrabbiarsi mi hanno ringraziato. “Tu comunque ci ha fatto lavorare per sei, sette mesi”. La crisi è anche questa, con operai che ormai sentono il lavoro come privilegio e non come diritto. Non è una cosa buona: racconta la disperazione più di tante statistiche».
I cento dipendenti dell’anno scorso sono ancora a busta paga, ma uscire dalla crisi economica è più difficile che liberarsi dalle macerie del terremoto. «Prospettive? Se fossi il comandante di una nave, non avrei bisogno del radar: si naviga a vista. Dei soldi spesi, circa 150.000 euro, per il capannone, non ne ho visto uno. La Regione assicura che i rimborsi ci saranno, non più all’80 ma al 100%. Ma il 100% di zero è sempre zero. Mi aspettavo di più, da chi amministra un territorio dove si produce un Pil da record e dove si pagano le tasse».
Finale Emilia, un anno dopo, ha ringraziato con un pranzo 650 volontari arrivati da ogni parte d’Italia. «Proviamo a rinascere – dice il sindaco Fernando Ferioli – ma è
davvero dura. Quasi tutte le aziende hanno ripreso l’attività (la cassa integrazione, nei Comuni al centro del cratere, si è ridotta da 10.000 e 2.500 unità) ma tante si trovano senza commesse. Molti negozi hanno riaperto, fra le vecchie mura o nelle casette di legno, ma le famiglie non hanno soldi da spendere. Ho 1.900 unità abitative inagibili, 1.200 delle quali in classe E, le più disastrate. Sono arrivati solo i soldi dell’Unione europea, e almeno ho potuto pagare i debiti per i 7 milioni spesi per cibo e servizi nelle tendopoli. Solo adesso qualcosa comincia a muoversi per chi ha aggiustato la propria casa e aspetta i soldi dalla Regione. Ma la burocrazia è quasi inattaccabile: il modulo Sfinge, per le imprese che chiedono finanziamenti per la ricostruzione, ha un vademecum di istruzioni di 50 pagine». «Sono ottimista, ma è dura», dice Giovanna Guidetti, della Fefa, ristorante e locanda. Piatti antichi, come la torta degli ebrei. «Nella trattoria ho perso il 50% dei clienti, la locanda è ancora chiusa perché inagibile. Ho pagato le tasse, la bonifica e tutto il resto. Anche il canone tv per la locanda vuota, per il 2012 e il 2013. Ho scritto alla Rai per chiedere una sospensione, il 2 maggio mi hanno risposto che “la vigente normativa prevede l’obbligo del pagamento in tutti i casi di detenzione di apparecchi televisivi”. Lo sanno che qui c’è stato un disastro, l’hanno fatto vedere a tutta Italia. Ecco, di fronte a risposte come questa, restare ottimisti è davvero un’impresa».

La Repubblica 20.05.13

"Dalla parte delle famiglie povere", di Chiara Saraceno

Alimentazione, consumi energetici (acqua, luce, gas, benzina e gasolio), telefono e abitazione (affitto, mutuo), sono gli ambiti di spesa che incidono maggiormente sui bilanci delle famiglie a basso reddito. Sono anche i settori che – soprattutto gli alimentari e i beni energetici – hanno conosciuto il maggiore aumento dei prezzi in questi anni e che, quindi, hanno colpito in modo sproporzionato proprio le famiglie a più basso reddito. In altri termini, queste famiglie non solo sono state più vulnerabili delle altre alla perdita di reddito dovuta alla perdita o riduzione dell’occupazione. Hanno anche sperimentato in misura maggiore una diminuzione sensibile del potere d’acquisto del reddito su cui potevano contare e proprio rispetto ai beni più necessari: una alimentazione adeguata, potersi riscaldare, cucinare, illuminare l’abitazione, pagare l’affitto, mantenere quei rapporti minimi con l’esterno che non contribuiscono solo alla qualità della vita, ma sono indispensabili anche per mantenere o trovare un lavoro.
Se tra il 2005 e il 2012 l’indice armonizzato
dei prezzi al consumo è salito del 17,5%, se si considera il pacchetto di consumi specifici di famiglie con diversi livelli di reddito (controllando per ampiezza della famiglia), l’aumento risulta del 20,2% per le famiglie a più basso reddito, quattro punti percentuali in meno di quello (16.3) sperimentato dalle famiglie con i redditi più alti. L’aumento dei prezzi ha quindi ridotto in modo sensibile il potere d’acquisto di tutti, ma in misura molto maggiore quello dei più poveri, colpendo spese non voluttuarie, ma essenziali.
È quanto emerge da un’analisi dell’Istat, che non si limita a verificare il tasso complessivo di inflazione e neppure a disaggregarlo per settori merceologici e/o aree di consumo, ma stima la sua incidenza per bilanci e modelli di consumi familiari differenti.
Questi dati dovrebbero essere al centro delle decisioni di politica economica che il governo prenderà nei prossimi giorni e settimane, non solo per una ovvia questione di equità, ma anche per una banale questione di fattibilità. Le famiglie più povere non possono ridurre ulteriormente i
consumi, dato che hanno già intaccato quelli necessari. Ed anche quelle che stanno un po’ meglio, ma sono lontane dall’agiatezza, sono già al limite. Di conseguenza, qualsiasi intervento sull’Iva dovrà essere calibrato per non aggravare bilanci già messi a dura prova nei consumi essenziali. Analogamente, qualsiasi taglio alla spesa (ad esempio nella sanità, nella scuola, nei servizi di base) andrà calibrato per l’impatto che potrebbe avere sui bilanci famigliari più modesti. E qualsiasi decisione sull’Imu, uscendo dal facile populismo per cui la prima abitazione di proprietà è un bene da non tassare a prescindere dal suo valore e dal reddito di chi la possiede, dovrebbe concentrarsi principalmente sui proprietari a basso reddito ed eventualmente con una rata di mutuo pesante per il loro bilancio. Senza dimenticare che tra le famiglie a basso reddito sono concentrati gli affittuari. Questi non traggono nessun sollievo da politiche della casa rivolte solo ai proprietari. Hanno invece visto in questi anni assottigliarsi, e poi sparire, il Fondo nazionale per il sostegno all’affitto. La responsabilità delle politiche in questo settore è rimasta solo ai Comuni che, tuttavia, hanno visto diminuire i trasferimenti loro destinati e la stessa autonomia impositiva, come testimoniato dalle vicende dell’Ici prima, dell’Imu oggi.
Le conseguenze della riduzione di consumi importanti da parte delle famiglie in condizioni economiche più modeste possono avere effetti anche di lungo periodo, in particolare sulla salute e istruzione dei figli. È di questi giorni la notizia che in città come Torino sono diminuite le domande di iscrizione al nido. Perdita del lavoro di un genitore e importo della retta, per quanto modesta, scoraggiano le famiglie dall’offrire ai figli questa esperienza. Si tratta, di nuovo, delle famiglie economicamente più modeste. Ci si potrebbe rallegrare per questo risparmio per i bilanci pubblici. Ma che conseguenze avrà questo mancato investimento sui bambini, dato che sappiamo che un buon nido ha un impatto positivo importante sullo sviluppo cognitivo, soprattutto tra i bambini che appartengono ai ceti sociali più svantaggiati?

La Repubblica 20.05.13

"Quando soffia il vento del populismo", di Bernardo Valli

Il modello tradizionale dell’estrema destra, neo fascista o neo nazista, appartiene ormai al passato o sopravvive a stento. In esso rientravano l’Msi prima del congresso di Fiuggi; l’Msi- Fiamma tricolore di Pino Rauti; l’Npsd e la Dvu tedeschi; il National Front e il Bnp britannici; o l’Nvu olandese. I movimenti con la vecchia impronta sono ridotti a gruppuscoli. Il modello post industriale (come l’ha chiamato Piero Ignazi) ha conosciuto invece un’espansione significativa. Favorita anche dalla crisi economica e finanziaria, intervenuta nel frattempo.
Il fenomeno populista, nelle sue dimensioni attuali, è un prodotto della svolta avvenuta attorno al 2000, quando l’inizio del secolo segna per noi europei, se non proprio la fine, il profondo mutamento di un mondo e comincia, appunto, quello dell’incertezza. Si è appena concluso il comunismo ed è appena iniziata la globalizzazione. Per molti paesi del vecchio continente si sta per aprire l’era dell’euro, della moneta unica, vista come una rinuncia della nazione; i referendum sulla Costituzione europea rivelano profonde perplessità (Olanda e Francia reagiscono con un “no”); esplode il terrorismo islamico con l’attentato dell’11 settembre a New York; ne segue la guerra in Afghanistan e un paio d’anni dopo quella in Iraq; i due conflitti “contro l’Islam” e gli attentati del 2004 a Madrid e del 2005 a Londra rilanciano, accentuano i timori per il terrorismo islamico e di conseguenza quelli per la massiccia immigrazione musulmana. E nel 2008, il 15 settembre, l’affare della banca di investimenti Lehman Brothers annuncia la crisi economica e finanziaria. Con le conseguenze che ancora viviamo, in particolare l’austerità e l’aumento della disoccupazione.
È su questo sfondo (ricostruito da Dominique Reynié, professore nella parigina Sciences Po e autore di saggi sull’opinione pubblica) che le democrazie europee vedono crescere l’ondata populista. Due sono gli itinerari seguiti dai partiti politici convertiti, in parte o del tutto, alla nuova, devastatrice protesta. Il primo riguarda i movimenti dell’estrema destra razzista i quali agiscono per opportunismo. I dirigenti più giovani abbandonano o accantonano le vecchie ideologie neo naziste, neo fasciste, antisemite e negazioniste (dell’Olocausto). E archiviano l’anticomunismo, non solo perché il comunismo si è dissolto, ma anche perché un’ampia porzione degli strati popolari un tempo sensibile ai suoi richiami adesso rappresenta un elettorato da conquistare. I populisti si adeguano con pragmatismo alle nuove realtà. Non mancano di spirito imprenditoriale. Conoscono la cultura del marketing.
In Francia la svolta del Front National avviene a tappe. L’anziano Jean-Marie Le Pen tenta senza grande successo la modernizzazione del partito di cui è il fondatore, ma questa sua incapacità non gli impedisce nel 2002 di superare il candidato socialista, Lionel Jospin, al primo turno delle elezioni presidenziali. Al ballottaggio sarà inevitabilmente sconfitto dal tardo gollista Jacques Chirac. Per Le Pen sarà comunque una sconfitta trionfale. E lo sarà anche per l’estrema destra che si sta riformando.
La figlia Marine gli succede nove anni dopo e adotta un discorso non più ancorato ai temi tradizionali. La neo leader del movimento non attenua gli attacchi all’immigrazione, in particolare quella musulmana, ma non ricalca lo stile del razzismo paterno. Lo ripulisce, lo nasconde sotto i richiami alla democrazia. Marine Le Pen predica l’uguaglianza tra uomini e donne, la laicità, le libertà individuali e d’opinione. Da questa base se la prende con l’immigrazione musulmana, portatrice di valori che minacciano quelli democratici della République. I riferimenti al regime collaborazionista di Vichy, durante l’occupazione nazista, o all’Algeria francese abbandonata da de Gaulle, spariscono. Vanno in soffitta.
Il Front National di Marine Le Pen si ispira al populismo dell’Europa del Nord. Per il super nazionalismo, per lo sciovinismo, si distingue invece dai separatisti, ad esempio dalla Lega italiana e dal Vlaams Belang fiammingo. Il comun denominatore è il rifiuto dell’Unione europea. I populisti gli devono larga parte del loro successo. In Danimarca hanno puntato dal ‘92 sull’antieuropeismo e sulla difesa dell’indipendenza del paese e dell’identità nazionale.
Per questo gli svedesi hanno respinto l’euro nel 2003.
Sempre l’eurofobia, più che l’euroscetticismo, è all’origine dell’ancora caldo successo dell’Ukip (United Kingdom Independence Party), che tre settimane fa ha ottenuto il 23% alle elezioni amministrative in Gran Bretagna, e al quale i sondaggi promettono il 20 % a quelle politiche del 2015. Se il pronostico si avverasse l’intero quadro politico sarebbe sconvolto. Ai tre partiti tradizionali (il conservatore, il laburista e il liberaldemocratico) se ne aggiungerebbe un quarto di dimensioni tali da modificare gli equilibri della democrazia britannica. L’obiettivo iniziale dell’Ukip, animato da Nigel Farage, era di far uscire il Regno Unito dall’Unione europea. Ma col tempo il programma si è appesantito, ha assunto un chiaro carattere populista: lotta all’immigrazione, ad ogni diversità che inquini la compattezza nazionale, e un discorso che cerca di trasformare in collera lo smarrimento della gente colpita dalla crisi economica.
La base elettorale dell’estrema destra populista conta anzitutto piccoli commercianti, artigiani, operai: è formata da strati della società in cui prevale un sentimento di declassamento, di smarrimento di fronte alla mondializzazione, che espone i singoli paesi alla concorrenza internazionale, e a un’Europa in declino che non sa proteggersi. La crescente disoccupazione è attribuita alla mancanza di difese efficaci. I partiti populisti non si augurano la fine dell’economia di mercato, né sono nemici del capitalismo. Vogliono un’economia nazionale controllata da uno Stato forte, capace di ristabilire le frontiere e applicare una politica protezionista. Condannano il potere delle banche, della finanza internazionale, che sottrae al popolo le sue naturali risorse. E se la prendono con i ricchi, con coloro che governano con la politica o con il denaro. (In questo quadro il movimento di Grillo potrebbe trovare uno spazio).
Alternativa per la Germania, l’Afd, la nuova formazione politica tedesca, alla quale viene attribuito dai sondaggi circa un quarto dell’elettorato, ha come obiettivo una dissoluzione progressiva dell’unione monetaria. Sostiene che la Germania non ha bisogno dell’euro e che l’Europa può sopravvivere alla sua scomparsa. L’Afd è un movimento conservatore. Tra gli animatori, economisti, accademici e intellettuali, non sono pochi quelli provenienti dalla Cdu di Angela Merkel. E quasi tutti negano di essersi ispirati al populismo dilagante, e ancor meno all’estrema destra radicale.
Ma sono rari coloro che si dichiarano apertamente populisti o di estrema destra. Sono rari soprattutto nei partiti della destra rispettabile, dove le tentazioni populiste sono vive e tenaci. E che si esprimono sollecitando più o meno apertamente alleanze con i partiti estremisti, tenuti ufficialmente fuori dall’“arco costituzionale” come si diceva tempo fa in Italia. Nelle competizioni elettorali il populismo è emerso a tratti, in modo evidente, in tanti paesi europei. Senz’altro con Sarkozy in Francia, e con Berlusconi in Italia. Due personaggi per altri versi incompatibili. La tentazione di una complicità con il Front National è ancora forte nell’Ump (l’Unione per un movimento popolare) di cui Sarkozy è stato il presidente. E in Italia la Lega populista e il Pdl hanno governato insieme per anni. Anche in Gran Bretagna molti conservatori auspicano un’alleanza con l’United Kingdom Independence Party. Questo è il secondo itinerario, oltre a quello dell’estrema destra, lungo il quale il populismo si infiltra nella vita
politica europea.

La Repubblica 20.05.13

"Lavoro, si avvia il dopo-Fornero", di Massimo Franchi

Riforma del lavoro e rappresentanza. Un primo confronto fra le parti sociali, da una parte, e una firma già annunciata che invece tarda ad arrivare, dall’altra, con la cancellazione dell’incontro tecnico previsto per oggi. La settimana che si apre è densa di appuntamenti. Mercoledì è la giornata clou: mentre in mattinata Confindustria inizia la due giorni della sua assemblea nazionale, nel pomeriggio (alle 16) il ministro Enrico Giovannini incontra per la prima volta in modo ufficiale (informalmente ha già visto buona parte degli astanti) le parti sociali per un «monitoraggio sulla riforma Fornero del mercato del lavoro”, ma soprattutto per affrontare il tema degli interventi già annunciati dal governo in fatto di occupazione giovanile. Al tavolo Cgil, Cisl, Uil e Ugl assieme a Confindustria, Abi, Ania, Rete Imprese Italia, Confcommercio e Confcooperative. Giovannini punta a sfruttare l’uscita dalla procedura europea sul deficit per avere risorse a disposizione. Se nei primi giorni dopo la nascita del governo si era parlato della possibilità di far entrare alcune prime misure già nel decreto su cig in deroga e Imu, come incentivi alla stabilizzazione e riduzione della tassazione e della contribuzione a carico delle imprese in caso di assunzioni a tempo indeterminato, in special modo al Sud, ora le misure appaiono accantonate per la loro poca efficacia. L’ultimo capitolo di discussione riguarda le modifiche alla riforma Fornero sul lavoro. Gli obiettivi già dichiarati da Giovannini sono due: ridurre gli intermezzi tra un contratto a tempo determinato e l’altro (innalzato dalla Fornero a 60-90 giorni dai 20-30 iniziali) e una riduzione del cuneo fiscale. In più si spera nei 600 milioni che potrebbero arrivare dalla «Youth guarantee>, del piano Barroso. In più proprio durante la conferenza stampa, Giovannini ha parlato di riforma della cassa in deroga: un tema molto delicato. Insomma, tanta carne al fuoco per un incontro che non sarà sicuramente risolutivo ma che è importante per sancire un rapporto di fiducia e di confronto totalmente nuovo rispetto al governo Monti e la gestione di Elsa Fornero. Sulla rappresentanza invece le cose si sono complicate e i tempi sembrano allungarsi. Cgil, Cisl e Uil già il 30 aprile hanno già sottoscritto un testo comune che prevede la certificazione di iscritti e voti che permetta ai sindacati con più del 5 per cento di partecipare alle trattative e la necessità che le piattaforme siano sottoscritte almeno da sindacati che rappresentano il 50 per cento più uno così come gli accordi per i contratti nazionali siano sottoposti ad una consultazione certificata fra i lavoratori. L’accordo con Confindustria sembrava una formalità. Dopo vari incontri tecnici, giovedì sera nella foresteria di Confindustria Giorgio Squinzi, Susanna Camusso, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti sono usciti soddisfatti dall’incontro. Qualcuno parla di una telefonata di Squinzi a Letta per annunciare l’accordo mentre è vero che venerdì mattina la Cgil aveva in tutta fretta convocato un direttivo per sabato mattina con cui la segreteria voleva illustrare i termini dell’accordo.

CONFINDUSTRIA FRENA Il brusco stop è dovuto interamente a Confindustria. Più che sul merito, vanno sistemati solo dettagli come se la consultazione dei lavoratori vada fatta prima o dopo la firma o sull’esigibilità dei contratti si prevedano sanzioni esplicite in caso di mancato rispetto, i problemi riguardano i tempi: come detto mercoledì e giovedì Confindustria ha in programma l’Assemblea annuale. Assolombarda (i falchi vicini a Bombassei) e una parte di Federmeccanica non sono convinte del testo e puntano ad imporre condizioni. Pesa poi il vicino cambio della guardia a Federmeccanica: al posto di Luigi Ceccardi (autore dei contratti seperati) arriverà il reggiano Fabio Storchi, uno abituato a discutere (e fare accordi) anche con la Fiom.

L’Unità 20.05.13

Fenomenologia del “renzismo”, di Ilvo Diamanti

Matteo Renzi non si nasconde. Ma non si espone. In questo periodo, è ben visibile. Ma preferisce non “scendere in campo” direttamente. Al Salone del libro di Torino, ieri, ha espresso l’intenzione di andare “Oltre la rottamazione” (titolo del suo libro, pubblicato da Mondadori). Perché si tratta di uno slogan efficace, ma che, al tempo stesso, fa paura. Visto che, osserva Renzi, oggi, in Italia, “il 70% della popolazione è over 40”. Così, il sindaco di Firenze oggi frena sulla “questione generazionale”, sulla frattura fra vecchio e nuovo, in politica e nella società. Su cui aveva impostato la sua offerta politica, fino alle primarie. Quando aveva ottenuto un risultato rilevante, ma non sufficiente a vincere.
ANZI: lontano da quello ottenuto da Bersani. Anche per questo appare prudente. E, per la successione di Bersani, come futuro segretario del PD, preferisce lanciare la candidatura dell’ex-sindaco di Torino, Sergio Chiamparino.
Resta coperto, Renzi. Teme, ancora, di vincere la competizione dell’audience e di perdere quella politica. Di risultare il candidato preferito “fuori”, più ancora che “dentro” il partito. Come nelle precedenti primarie del PD. Così attende. Di rientrare direttamente in gioco quando si tratterà di scegliere non il futuro segretario, ma il candidato Premier. D’altronde, nell’opinione pubblica continuano ad emergere, nei suoi confronti, orientamenti molto favorevoli. Nell’Atlante Politico di Demos, infatti, il 64% degli elettori valuta positivamente la sua azione politica (con un voto pari o superiore al 6). Primo fra i leader. Avvicinato, a breve distanza, dall’attuale
Premier, Enrico Letta. Anch’egli giovane, ma di certo meno polemico verso il ceto politico (non solo del PD). Favorito dall’incarico di governo, sostenuto da intese molto larghe.
Ciò che colpisce, tuttavia, è la trasversalità del consenso. Anzitutto, sotto il profilo dell’età. È, infatti, evidente come il richiamo alla “rottamazione” non abbia preoccupato gli elettori più anziani. Fra i quali, al contrario, il sindaco di Firenze ottiene il gradimento più elevato (oltre i 65 anni sfiora il 70%). Inoltre, è interessante osservare come egli riesca a sfondare il “confine padano”, visto che ottiene il sostegno maggiore (oltre il 70%) proprio nel Nord. Mentre è più debole nel Mezzogiorno (58%). Renzi: gode dei livelli di consenso più elevati fra gli studenti e i pensionati. Fra gli impiegati pubblici. Fra i cattolici praticanti. Mentre è (un po’) meno sostenuto dagli operai, dai liberi professionisti, dagli imprenditori. Dalle persone con un basso livello di pratica religiosa. Ma il maggior grado di trasversalità dei consensi nei suoi riguardi emerge in rapporto agli orientamenti di voto. Renzi, infatti, ottiene un giudizio positivo dal 77% degli elettori del PD, ma da oltre l’86% di quelli di Scelta Civica e dell’UdC. È, comunque, molto apprezzato anche dagli elettori di Centrodestra. Dal 70% dei leghisti, da oltre i due terzi della base del PdL. Mentre il suo consenso cala fra gli elettori di SEL e degli altri partiti di Sinistra — anche se si avvicina al 60%. I livelli più bassi di sostegno, nei suoi confronti, si osservano, però, nella base elettorale del M5S e nella zona grigia dell’astensione e dell’indecisione. Anche qui, comunque, egli dispone di un gradimento maggioritario, superiore al 50%.
Renzi, dunque, piace a tutte le principali componenti dell’elettorato. E appare in grado, soprattutto, di superare i tradizionali limiti espressi dal PD. In particolare, sul piano territoriale. Nonostante sia sindaco di Firenze, infatti, Renzi non sembra un leader della “Lega
di Centro” — per citare la formula usata da Marc Lazar per definire i DS (e valida anche per il PD, fino alle ultime elezioni). Sicuramente, non subisce il pregiudizio anticomunista, che ha vincolato la crescita del PD, come dello stesso Ulivo. Renzi, al contrario, piace agli elettori di Centro, e perfino di Destra, più ancora che a quelli di Sinistra. Non è un caso che, anche fra i possibili segretari del partito, egli sia decisamente il preferito dagli elettori del PD. Ma perda consensi tra quelli di SEL e della Sinistra (a favore di Barca e di Civati).
Il profilo politico e sociale del consenso a Renzi, dunque, ne sottolinea le ragioni di forza. Ma ne suggerisce anche i possibili limiti. Che in parte coincidono.
Renzi, infatti, si sottrae alla tradizionale frattura fra destra e sinistra. E impone, invece, la questione generazionale, legata al rinnovamento politico. In questo modo, intercetta l’insoddisfazione — diffusa — verso le istituzioni e i gruppi dirigenti di partito. Ponendosi in concorrenza con Grillo e il M5S. Infine, il sindaco di Firenze è tra i più abili nell’impugnare le armi del berlusconismo: la personalizzazione e la comunicazione. Non a caso proprio Berlusconi, come ha ribadito Renzi, anche ieri, ha bloccato la sua candidatura alla guida del governo.
Insomma, Renzi piace un po’ a tutti. E questo potrebbe diventare un problema, oltre che un vantaggio. Le stesse basi del suo consenso, inoltre, potrebbero costituire una minaccia, oltre che una risorsa. Renzi, in particolare,
rischia di non ancorarsi alle “questioni” e alle “fratture” sociali. Di cui la distinzione fra destra e sinistra è uno specchio. Rischia, dunque, di non dare rappresentanza adeguata ai problemi e alle domande delle principali componenti del mercato del lavoro. Che, in una fase drammatica come questa, si sono rivolte, non a caso, soprattutto al M5S. Infine, non è chiaro a quale alternativa guardi, rispetto al “partito personale” “mediale” e delle “ nomenclature”, distante dalla società e dal territorio. E oggi dominante.
Anche per questo, probabilmente, Matteo Renzi preferisce “restare fuori” dalle scelte — e dalle polemiche — che riguardano il partito e il governo. In attesa che i tempi maturino — e logorino i suoi concorrenti. (Bersani, che lo aveva battuto alle primarie, si è già “consumato”.) Tuttavia Renzi, in questi tempi crudi, rischia. Se non spiega cosa ci sia “oltre la rottamazione”. Quali priorità. E quali parole. Se non spiega: come sia possibile imporle. E, soprattutto, cambiare il PD da fuori. Senza conquistarne la guida. Renzi rischia, altrimenti, di arrivare anch’egli logoro. Alla guida di un partito logoro.

La Repubblica 20.05.13