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"Tutte le strade portano a scuola", di Marco Lodoli

Il tragitto tra casa e scuola, cento metri o chilometri, in una città tranquilla o in un paesaggio difficile, per ogni ragazzino è comunque un viaggio meraviglioso. Noi italiani siamo purtroppo spaventati da tutto, vediamo a ogni angolo siringhe e pedofili, temiamo la furia delle macchine e i rapimenti, la nostra immaginazione si è distorta e le preoccupazioni hanno spazzato via ogni fiducia, così imbacucchiamo i nostri figli, portiamo giù per le scale del palazzo i loro zaini perché sono troppo pesanti, e poi quasi sempre si sale in macchina per fare prima, perché è sempre tardi, perché quel viaggio è un puro e semplice spostamento. Pensiamo che in ogni bambino c’è un Pinocchio, pronto a deviare dal suo tragitto obbligato verso scuola e a imboccare le traverse oscure del rischio, della disobbedienza, della catastrofe. Così facendo, neghiamo ai nostri figli un’esperienza formativa, quel senso di libertà che educa lo sguardo, il ritmo dei passi, la responsabilità. Eppure il bambino sa che deve andare a scuola, lo sa e in fondo gli piace, quello è il suo posto, lì ci sono gli amici, le maestre, il cortile, i libri su cui imparare cose nuove. In tutto il mondo ogni mattina milioni di bambini compiono quel viaggio, traversano il bosco incantato della realtà, si rinforzano sulla strada.
Queste fotografie raccontano bene la bellezza e la volontà, il desiderio di diventare grande che ogni scolaro ha dentro di sé. La casa è la protezione assoluta, a scuola ci sono regole precise, banchi e lavagne, orari e compiti: in mezzo c’è un percorso obbligato eppure libero, una sequenza di rettilinei e di svolte, di abitudini e piccole sorprese che sono già un insegnamento. Ai miei studenti romani del primo anno faccio sempre scrivere un componimento su quella minima odissea quotidiana, da Tor Bella Monaca o da Giardinetti o da Torre Gaia fino all’edificio scolastico di via Olina, a Torre Maura. Sono chilometri macinati su autobus affollatissimi, tramvetti, e poi a piedi, dall’ultima fermata fino alla classe, sono pagine e pagine di un diario interiore, è un ago che traversa un pagliaio. «Professore, ma è sempre la stessa cosa — mi rispondono —. Tutti i giorni è la solita fatica, non c’è niente da raccontare». Io però insisto, so che ogni giorno è diverso dall’altro, che quel viaggio è già un viaggio di conoscenza del mondo e di se stessi. E così gli studenti iniziano a prestare più attenzione a quanto accade sull’autobus, alle immagini che si srotolano fuori dal finestrino, agli incontri occasionali, ai pensieri che piovono insieme alla pioggia e al sole. Sono resoconti bellissimi, cronache che valgono quanto quelle dei grandi viaggiatori, di Marco Polo o Chatwin. C’è la fatica dell’andare ma anche la determinazione di raggiungere la meta, perché nonostante gli sbuffi e le proteste ogni bambino sa che la scuola è la fabbrica di una vita migliore, che vale sempre la pena partire per arrivare fino a qui. La casa è un laghetto, la scuola è il mare: in mezzo scorre il fiume del viaggio.
Come nelle favole, ogni mezzo è buono per raggiungere il castello, perché in fondo è la voglia di arrivare il vero motore: in queste fotografie vediamo bambini dell’Alaska che vanno a scuola con la motoslitta, zingari che in Francia prendono la metro, studenti thailandesi in risciò e brasiliani sul mulo, e bambini africani che coprono a piedi lunghe distanze. Il peso dei libri paradossalmente alleggerisce il viaggio, sono ali che rendono più lieve il cammino.
In Italia il problema dell’abbandono scolastico è terrificante soprattutto nelle zone più depresse economicamente: quante volte mi è capitato di provare a convincere studenti disamorati, avviliti, demotivati, di spiegare loro che la scuola è la possibilità più grande che hanno per trasformare la vita. E spesso questi ragazzini mi hanno risposto che alzarsi la mattina alle sei o alle cinque e mezza, per lavarsi, vestirsi e poi affrontare un viaggio fatto di mezzi pubblici che non arrivano, e che quando arrivano sono stracarichi di persone, e poi di chilometri a piedi, di ansie e ritardi, è una impresa insopportabile. E allora io cerco di rigirare la frittata: ogni fatica rafforza, ogni sacrificio prepara un futuro migliore, ogni autobus scassato e stracolmo può contenere una scoperta. Sono discorsi da professore, che non sempre riescono a persuadere. Contano di più la mia Vespa scassata e i venti chilometri che anche io ogni mattina mi cibo per raggiungere la scuola. Sono fatti, non chiacchiere vuote. Pioggia, tempesta o solleone, io parto e arrivo, la strada è sempre la stessa, ma il viaggio cambia ogni mattina. Mi piace traversare la città, lasciare il mio quartiere e trovarne un altro, lontano. Mi piace il baretto in cui mi fermo per un caffè, l’edicola dove compro il giornale. Il mondo si schiude attorno a un percorso, questo i ragazzi lo capiscono e lo apprezzano. E qualcuno allora mi dice: «Va bene, professò, domani ci riprovo, domani vediamo se ce la faccio a venire a scuola».

La Repubblica 19.05.13

"Metà della ricchezza dell’Italia è in mano al 10% delle famiglie", da La Stampa

Studio della Cgil sui salari 2012: crescono le disuguaglianze sociali. Cresce e si divarica sempre più la forbice delle disuguaglianze sociali. Il 10% delle famiglie italiane detiene poco meno della metà (47%) della ricchezza totale. Il resto (53%) è suddiviso tra il 90% delle famiglie. Lo segnala la Fisac Cgil, sulla base di uno studio sui salari nel 2012. Una differenza che diventa macroscopica mettendo a confronto il compenso medio di un lavoratore dipendente e quello di un top manager: nel 2012 il rapporto è stato di 1 a 64 nel settore del credito, di 1 a 163 nel resto del campo economico. Nel 1970, sempre secondo lo studio del sindacato del credito della Cgil, tale rapporto era di 1 a 20.

«Qui c’è la vera ingiustizia» commenta il segretario generale della Fisac Agostino Megale. In pratica, in 4 anni, dal 2009 al 2012, un lavoratore in media ha percepito 104 mila euro di salario lordi. Un amministratore delegato (dati riferiti ai primi 10 gruppi per capitalizzazione a piazza Affari), nella media dei 4 anni, ha accumulato invece 17 milioni 304 mila euro, con una differenza a favore di quest’ultimi di 17.200.000. Il rapporto calcola in 26mila euro lordi il salario medio di un dipendente, a fronte dei 4 milioni 326mila euro del compenso medio per un top manager.

Per Megale, i numeri del rapporto sottendono «un distacco enorme che richiede subito una legge che imponga un tetto alle retribuzione dei top manager». Infatti, prosegue, «in questi sei anni di crisi il potere d’acquisto dei salari e delle pensioni si è più che dimezzato mentre non hanno subito alcuna flessione i compensi dei top manager, così come nessuna incidenza ha subito quel 10% di famiglie più ricche, incrementando la forbice delle diseguaglianze». La proposta della Fisac è quindi quella di un’imposta patrimoniale per le famiglie che possono contare su una ricchezza complessiva oltre gli 800mila euro, pari a 1 milione 208.000 famiglie, in pratica la metà del gruppo delle più ricche (2 milioni 400 mila, che possiedono mediamente circa 1.600 mila euro).

Nel 2012 il salario netto mensile percepito da un lavoratore standard è stato pari a 1.333 euro che cala del 12% se si tratta di una dipendente donna, e del 27% se è giovane (973 euro). Per i giovani poi la retribuzione in 10 anni non si è mai accresciuta: mille euro mensili circa in busta paga, immutata dal 2003.

La Stampa 19.05.13

"La proposta rivoluzionaria di Hollande all'Europa", di Eugenio Scalfari

Riformisti o rivoluzionari? Questa domanda sta al centro del problema italiano ed europeo, ma può essere declinata in molti altri modi. Per esempio: socialisti o liberali? Progressisti o moderati? Di destra o di sinistra? Innovatori o conservatori? Sostenitori dei diritti o anche dei doveri? Spaccare la società in due è quasi sempre una semplificazione e semplificare i problemi complessi è quasi sempre un errore. Senza dire che bisogna analizzare con attenzione il significato delle parole. Se restiamo alla prima domanda che tutte le riassume, arriviamo alla conclusione che spesso una riforma fatta come le condizioni concrete richiedono può rappresentare una svolta radicale e quindi una rivoluzione; mentre accade altrettanto spesso che una rivoluzione che abbatta tutta l’architettura sociale preesistente spesso sbocca nel suo contrario, cioè in una dittatura.
Ma applichiamo questa griglia di domande all’Europa di oggi e all’Italia chiamando in soccorso anche qualche esperienza storica che possa aiutarci a capire il presente col ricordo di un passato analogo e quindi attuale.
La moneta unica europea è stata una riforma rivoluzionaria: ha reso impossibili le svalutazioni delle monete nazionali come strumento di competitività, ha unificato il tasso del cambio estero per una popolazione di oltre 300 milioni di persone, ha consentito un mercato libero per le persone, le merci e i capitali.
Un’altra riforma rivoluzionaria è stata quella del servizio sanitario nazionale. Un’altra ancora quella della scuola dell’obbligo. Una quarta il divieto di licenziamento senza giusta causa, una quinta il riconoscimento di pari diritti tra uomo e donna, una sesta quella delle pari opportunità e cioè della lotta contro le diseguaglianze nelle posizioni di partenza. Infine ultima della serie la tutela della libera concorrenza sul mercato degli scambi economici.
È pur vero che alcune di queste conquiste, tutte avvenute nel mezzo secolo trascorso dopo la fine della guerra, sono state in parte vanificate o deformate da interessi precostituiti che ne hanno impedito o limitato la piena realizzazione. Ed è altrettanto vero che nuove esigenze, nuovi bisogni e nuove tecnologie sono nel frattempo emersi rendendo necessari ulteriori mutamenti che spesso sono mancati. La necessità di una continua manutenzione e di mutamenti successivi è una dinamica indispensabile senza la quale le riforme effettuate si trasformano in uno stato di fatto che non progredisce ma invecchia. Il riformismo correttamente inteso coincide con l’innovazione, se diventa consuetudine cessa di esistere.
Purtroppo l’Europa e gli Stati che ne fanno parte versano in questa condizione. Il dinamismo delle riforme è cessato da almeno 20 anni e forse più. Perciò molti invocano la rivoluzione e rimproverano i riformisti di essersi addormentati. Ma che cos’è la rivoluzione quando è sganciata dal riformismo ed anzi gli si oppone?

* * *
La rivoluzione che si oppone al riformismo di solito si ispira all’utopia. I rivoluzionari utopisti si propongono la distruzione dell’esistente, non il suo ammodernamento. Perciò usano il “senza se e senza ma” e dicono di no a tutto. Nove volte su dieci finiscono in una dittatura.
Nel suo libro appena uscito col titolo “E se noi domani — L’Italia e la sinistra che vorrei” Walter Veltroni ricorda e concorda su una frase che Piero Calamandrei pronunciò in un ampio discorso da lui tenuto all’Assemblea costituente il 5 settembre 1946. La frase è questa: «Le dittature sorgono non dai governi che governano e che durano, ma dall’impossibilità di governare dei governi denato,
mocratici».
Veltroni ricorda anche che l’ultimo governo democratico governante fu quello dell’Ulivo presieduto da Romano Prodi dal ’96 al ’98. Dopo di allora i governi arrancarono e dal 2001 al novembre del 2011 furono gestiti dal populismo berlusconiano con la breve parentesi del biennio prodiano 2006-2008 che registrò il penoso spettacolo d’una coalizione che andava da Mastella a Bertinotti e un solo voto di maggioranza al Senato.
Per fortuna — aggiunge Veltroni — si susseguirono al Quirinale Scalfaro, Ciampi e Napolitano che sono stati i migliori presidenti della Repubblica che l’Italia abbia avuto ed hanno supplito alle terribili carenze del sistema.
Concordo pienamente con questi giudizi e con la necessità d’un profondo mutamento dei partiti e della società. Siamo percossi da una terribile crisi economica e sociale e in Italia ma anche in Europa da uno smarrimento della pubblica opinione. E siamo schiacciati da due populismi contrapposti e dalla crisi profonda del partito che ha la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera e quella relativa al Se-
ma non è in grado di risollevarsi dalla crisi che l’ha
atterrato.
Quanto all’Europa, versa anch’essa in condizioni che dire drammatiche è dir poco: una marea di disoccupati, una recessione che ha colpito quasi tutti i Paesi che la compongono, una politica economica profondamente sbagliata, una politica bancaria in fase di stallo, una lentezza decisionale che aggrava i malanni e vanifica le incerte terapie.
Questa è la situazione. Ci sono speranze di riportarla
sulla giusta rotta?

* * *
La speranza (lo dico con le parole di Calamandrei) è un governo che governi e che duri. Quello di Enrico Letta è nato per necessità e si regge su una maggioranza anomala e rissosa ma, allo stato dei fatti, senza alternative. Grillo non è un’alternativa e i suoi voti, quand’anche saltassero ancora in avanti (ma i sondaggi attuali lo danno al 23 per cento) da soli non bastano. Dal bacino elettorale di Berlusconi non succhia più, anzi sta avvenendo il contrario: è Berlusconi che si sta riprendendo i voti dei
delusi che erano emigrati dal Pdl verso l’astensione o verso Grillo.
I cinque stelle continuano invece ad affascinare i giovani di sinistra, i delusi del Pd, i sognatori della palingenesi, quelli che sono rimasti schifati dall’apparato chiuso e correntizio d’un partito che nel 2008 si era presentato come una sorta di partito d’azione moderno, aperto, che avrebbe dovuto plasmare una società civile forte e porsi al suo servizio.
Su questi delusi i cinque stelle esercitano la loro tentazione che però ha un punto debole: non esprimono nulla che sia di sinistra, né di quella tradizionale né di quella che pensa in termini di cultura moderna. Ce ne sono ancora nel Pd e molti, ma non pare che abbiano voce o almeno non abbastanza, capace di rovesciare gli equilibri malsani che ancora dominano quel partito.
Un Pd moderato non corrisponde alla sua genesi e soprattutto non riempirebbe alcun vuoto, al contrario ne aprirebbe uno a sinistra con conseguenze letali nel quadro italiano ed europeo.
Il Pd può avere, dovrebbe avere, i voti dei liberali, che non sono affatto moderati nel senso conservatore del termine. Nelle democrazie mature i liberali sono sempre stati alleati della sinistra riformatrice, è sempre stato così dovunque, in Inghilterra, in Usa, in Francia, in Germania, in Spagna. Ed anche in Italia, nei rari momenti di democrazia vincente. Rari, perché una parte rilevante di italiani non ama lo Stato, lo considera estraneo se non addirittura nemico e soggiace alle lusinghe della demagogia e del populismo. Predomina in loro un elemento anarcoide ed un’indifferenza verso la politica che porta inevitabilmente verso forme a volte nascoste e a volte palesi di dittatura.
Questo è il dramma italiano, un risvolto del quale, certamente non marginale, estende l’antipatia verso lo Stato nazionale ad un’analoga antipatia verso l’ipotesi di uno Stato europeo. Da questo punto di vista il populismo berlusconiano coincide con il populismo grillino: lo Stato italiano, per quel che poco che esiste, dev’essere raso al suolo e lo Stato federale europeo non deve nascere. Quel tanto che esiste dell’uno e dell’altro dev’essere completamente abbattuto. Poi, sulle loro ceneri, si potrà forse edificare il nuovo. Ma se li interroghi sul come distruggerli e come ricostruirli, riceverai come risposta una scrollata di spalle e un generico “si vedrà”.

* * *
Non è così che si costruisce il futuro dell’Europa e quello dell’Italia che le è strettamente legato. Da questo punto di vista giovedì scorso è avvenuto un fatto nuovo di straordinaria importanza: il presidente francese Hollande per la prima volta nella storia politica della Francia ha abbandonato la posizione tradizionale del suo paese di scetticismo e di ostile distacco verso un’Europa federata ed ha chiesto in modo perentorio la nascita entro il 2015 d’un governo unitario europeo con un bilancio comune, un debito pubblico sovrano comune, una politica economica, estera e di difesa comuni, un sistema bancario ed una Banca centrale con i poteri di tutte le Banche centrali dei paesi sovrani.
Non era mai accaduto prima, la Francia era anzi vista come un ostacolo insuperabile a questa evoluzione, imposta ormai dall’esistenza d’una società mondiale globale. Il progetto di Hollande prevede anche l’elezione del presidente dell’Europa col voto diretto dell’intero popolo europeo.
Il governo spagnolo si è già dichiarato pronto a sostenere la proposta francese. Il nostro presidente del Consiglio Enrico Letta aveva anch’egli sostenuto per primo questa necessità ma non aveva fissato date. Hollande ha rotto gli indugi: due anni di tempo e se gli altri paesi europei (la Germania soprattutto perché a lei è rivolto il messaggio di Hollande) non saranno d’accordo, la Francia andrà avanti con chi ci sta.
I partiti italiani finora non si sono fatti sentire; i giornali hanno riportato la notizia ma senza rilevarne la novità e la fondamentale importanza. Questa sì, sarebbe una rivoluzione: un governo ed un presidente eletto di uno Stato europeo fra due anni. Le elezioni tedesche che avranno luogo in autunno dovranno cimentarsi soprattutto su questo tema e così pure quelle italiane quando avverranno e le elezioni europee che si svolgeranno interamente su questi temi. La messa in comune dei debiti sovrani nazionali fu, non a caso, il primo passo della Confederazione americana verso la Federazione.
Il futuro si può costruire soltanto così e soltanto così può rinascere la speranza nel cuore degli europei e degli italiani.

La Repubblica 19.05.13

"Il Parlamento deformato", di Gianluigi Pellegrino

Ogni giorno che resta in vita il Porcellum è un giorno rubato alla democrazia. Ora è scolpito anche in una decisione della Corte suprema di Cassazione emessa in nome del popolo italiano. Ma gli alti giudici, nel provvedimento anticipato ieri da Liana Milella, hanno detto persino di più. L’attuale Parlamento è deformato nella sua composizione da una norma che nelle ultime elezioni ha dato i suoi frutti più velenosi. Il Pd e Sel non solo hanno avuto alla Camera un premio di maggioranza abnorme, ottenendo il 55 per cento dei seggi pur bocciati da più di due italiani su tre, ma poi si sono anche separati sciogliendo quella coalizione che aveva permesso di accedere al premio.
Con Sel che è andata all’opposizione non condividendo un governo che forse è di necessità, ma certamente è in frontale contrasto con il voto chiesto agli elettori. Berlusconi dovrebbe lamentarsene se avesse minimamente a cuore non solo la democrazia ma anche il suo stesso partito. Ma lui pensa solo a se stesso e il Porcellum resta il sistema più funzionale alla sua strategia di breve, medio e lungo periodo anche per il salvacondotto che potrebbe ottenere nella prossima legislatura.
I giudici inoltre non limitano la censura al premio di maggioranza, ma sottolineano come si esponga all’incostituzionalità anche la parte più intollerabile per il senso comune, le liste bloccate. E condannano espressamente la modifica del sistema per collegio previsto nel Mattarellum che invece garantisce il rispetto della Costituzione: elezione dei parlamentari “libera” e “diretta” da parte dei cittadini.
La Cassazione evidenzia ancora (con un specifico passaggio della motivazione) che un parlamento cos ì deturpato nella sua composizione rischia di delegittimare anche la scelta delle autorità di garanzia che hanno funzioni e durata ben più ampie delle legislatura. La Corte ovviamente non cita condotte e circostanze ma il riferimento esplicito è alla elezione del Presidente della Repubblica, dei componenti della Consulta, del Csm e delle autorità indipendenti. Il Parlamento ha compiti troppo alti per poter continuare a convivere con vizi così clamorosi nella sua composizione, rifiutandosi pure di emendarli.
A questo punto non c’è più spazio per infingimenti e nemmeno per pezze a colori come quelle che ha da ultimo ipotizzato il governo dopo il ritiro in abbazia: e cioè limitare l’intervento urgente ad una minimale manutenzione del Porcellum inserendo semplicemente una soglia per il premio di maggioranza. Rinviando il resto a future riforme tutte di là da venire.
Sarebbe un grave arretramento persino rispetto agli impegni assunti da Letta nel suo discorso di insediamento. E oggi sarebbe una pecetta del tutto insufficiente anche a superare le obiezioni sollevate dalla Cassazione. Resteremmo clamorosamente esposti ad una censura della Consulta senza precedenti. Rinviare poi sarebbe insieme miope e in contrasto con specifiche direttive europee. Miope perché abrogare oggi il Porcellum darebbe al governo la legittimazione necessaria per poter fare quanto di difficile e utile serve, prima di tornare al voto. Al contrario sarebbe esiziale cedere alla tentazione di traccheggiare per tirare a campare.
Il Consiglio d’Europa del resto ha invitato espressamente a non cambiare le leggi elettorali troppo a ridosso del voto: rinviare ci esporrebbe così ad un’ulteriore censura comunitaria.
Per questo anche al Pd è chiesto qualcosa di più. Non basta proporre disegni di legge e poi farsi scudo del niet di Berlusconi, come avvenuto sullo scempio della concussione che in realtà andava bene a tutti. Deve pretendere, il Pd, che il governo ripristini subito il Mattarellum anche con decreto legge e con tanto di voto di fiducia. Subito, con la stessa forza con cui Berlusconi ha preteso l’intervento sull’Imu. Altrimenti i democratici facciano sul punto blocco con i grillini senza se e senza ma.
Non è una delle cose da fare. Ma la precondizione di agibilità democratica del paese e di credibilità minima di forze politiche che vogliano dimostrare di avere a cuore, almeno un po’, l’interesse nazionale. E, a ben vedere, anche la loro stessa sopravvivenza.

La Repubblica 18.05.13

"Debutta (nel silenzio) il voto di genere", di Dario Di Vico

Il voto di genere. Succederà alle elezioni amministrative del prossimo fine settimana, quando gli elettori, per la prima volta, potranno indicare una seconda preferenza che però, per esser valida, dovrà indicare un candidato o una candidata di genere diverso dalla prima opzione. La norma è rivolta a favorire l’elezione di un congruo numero di donne nei consigli comunali e nasce sul modello delle quote rosa nei consigli di amministrazione delle società presenti in Borsa.
Alle elezioni amministrative del prossimo fine settimana gli elettori si troveranno per la prima volta di fronte a un esperimento. Potranno, se vorranno, indicare una seconda preferenza che però, per esser valida, dovrà indicare un candidato o una candidata di genere diverso dalla prima opzione. La norma è chiaramente rivolta a favorire l’elezione di un congruo numero di donne nei consigli comunali. Pur con differenze di metodo l’esperimento ricorda molto quello delle quote rosa nei consigli di amministrazione delle società presenti in Borsa. E proprio per questo motivo va visto con favore, dovrebbe infatti servire ad aumentare la circolazione delle élite che nel nostro Paese non avviene fisiologicamente ma ha bisogno di provvedimenti ad hoc o di eventi straordinari. Sarà interessante vedere come (e se) gli elettori useranno la chance che il legislatore ha dato loro. Con le nuove tecniche demoscopiche probabilmente saremo anche in grado di capire come uomini e donne, separatamente, avranno usato la doppia preferenza.
È presto per dire che tutto ciò agevolerà la riforma della politica ma di sicuro costituirà un test socio-culturale di grande valore e servirà forse a dare alla parola «cambiamento» un significato meno politicista di quello che ricorre nel dibattito delle élite. Di fronte a queste potenzialità sconcerta il silenzio assoluto fatto registrare finora attorno all’esperimento della seconda preferenza.
Avendo scelto questa strada le autorità preposte avrebbero dovuto quantomeno farla conoscere agli elettori e spiegarne l’utilizzo. Non è mai troppo tardi e la prossima settimana può essere utilmente usata a questo scopo. Del resto che si vada nella direzione di un maggior protagonismo femminile in politica lo testimoniano le scelte dei partiti, che alle ultime politiche hanno disegnato un Parlamento nel quale la componente «rosa» è arrivata al 30%. In proposito sarà interessante vedere quando arriverà in discussione alle Camere l’annunciato provvedimento anti-femminicidio quale sarà la risposta di un emiciclo molto più sensibile alle tematiche di genere di quello che lo ha preceduto.

Il Corriere della Sera 18.05.13

"Il taxi del Cavaliere", di Massimo Giannini

In un Paese che muore di poca competitività e di troppe tasse ogni riduzione d’imposta è una benedizione. Per questo il blocco dei versamenti Imu è una buona notizia per gli italiani. A giugno dell’anno scorso, con la stangata sulla casa, è andata in fumo la tredicesima di molti lavoratori. Adesso almeno questo sacrificio ci sarà risparmiato. Ma solo una propaganda bugiarda e corriva può spacciare questo sgravio parziale come la spinta che serve per sostenere i consumi e rilanciare la crescita. Ha ragione Enrico Letta: questo non è «il decreto dei miracoli». Averlo riconosciuto è già una prova di onestà, e anche di responsabilità.
L’onestà è nel riconoscere esplicitamente i limiti di un provvedimento che per ora congela soltanto il pagamento dell’Imu sulla prima casa, e impegna l’esecutivo a riformare entro l’estate l’intera tassazione sugli immobili. La responsabilità è nell’ammettere implicitamente che, a dispetto delle troppe promesse seminate dai partiti prima del voto di febbraio, allo stato attuale l’Italia non ha le risorse necessarie per finanziare interventi più massicci ed «espansivi». E nonostante i ripensamenti della Merkel e la svolta di Hollande, non si può permettere il lusso di riallargare i cordoni della borsa, e di sfondare il tetto del 3% di deficit strutturale in rapporto al Pil. Almeno fino alla chiusura ufficiale della procedura d’infrazione. Almeno fino alle elezioni tedesche del 22 settembre. È il paradosso tricolore di questa fase eccezionale da tutti i punti di vista: siamo stati addirittura troppo virtuosi, pagando un prezzo altissimo al rigore ma rispettando l’impegno al pareggio di bilancio al netto del ciclo. Oggi Bruxelles ci può al massimo dire «continuate così». Non ci può certo dire «tornate a spendere in disavanzo», come invece permette per altri due anni a Francia e Spagna, che l’obiettivo del pareggio non l’hanno ancora raggiunto.
Ecco perché di miracoli non c’è traccia, nel decreto del governo. Non si può raccogliere l’appello del «popolo dei capannoni», che deve rassegnarsi a una batosta sugli immobili strumentali all’attività aziendale pari al 50% in più del 2012 e al 176% in più del 2011. Non si può affrontare la sfida più impegnativa (e quella sì, decisiva per la ripresa dell’economia reale) della riduzione delle tasse sul lavoro e del cuneo fiscale sulle imprese. Non si può aprire il dossier dei nuovi ammortizzatori sociali per chi, tra i giovani precari e gli ultracinquantenni disoccupati, non ha nessuna copertura. Ed è già tanto se Saccomanni è riuscito a trovare il miliardo necessario a coprire la Cassa integrazione in deroga, anche se per riuscirci non ha trovato di meglio che prosciugare i fondi residui per la detassazione dei salari di produttività. Come dire: con una mano si dà e con l’altra si toglie, ma sempre nelle tasche del lavoro si va a pescare.
Com’è dunque evidente, siamo solo all’inizio di un percorso, che sarà lungo, difficile e tormentato. Per questo, sul piano politico, suonano come al solito velenose e pericolose le parole di Berlusconi, che dà ancora una volta quello che tutti si aspettano da lui: il peggio di sé. Di fronte a questo decreto, pur con tutte le sue manchevolezze, la soddisfazione è comprensibile. Prima del voto il Cavaliere aveva trasformato la cancellazione e addirittura la restituzione dell’Imu nella sua bancultura
diera politica, nel suo vessillo ideologico. Ma ora passa all’incasso nel modo che gli è più congeniale: titanico, smisurato. E la provocazione diventa inaccettabile. Il congelamento dell’imposta sulla casa non è un successo condiviso nell’azione corale del governo, da offrire a un’opinione pubblica smarrita e stremata. Diventa invece l’arma impropria di una campagna elettorale che per il Cavaliere non è mai finita, e che ora lui stesso usa da vincitore contro il centrosinistra sconfitto. È lui, non Letta e non il governo, che gli italiani devono ringraziare se non pagheranno l’Imu di giugno. Ed è lui, non Letta e non il governo, che ha in mano il programma e dunque il destino dell’esecutivo.
La reazione berlusconiana tradisce così la natura più vera e profonda di queste intese larghe ma contro natura, rispetto alla
del bipolarismo sedimentata nel Paese in questi due decenni. La Grande Coalizione è poco più che un taxi, sul quale lo Statista di Arcore sale in corsa per lucrare un crescente dividendo elettorale e nel frattempo raggiungere la meta dell’impunità, se non formale di fronte ai tribunali almeno morale di fronte agli italiani. Il Cavaliere usa il Pd a giorni alterni come l’alleato malleabile o come l’avversario irriducibile, secondo la convenienza politica o il calendario giudiziario. Questa sproporzione nei rapporti di forza che regolano la strana maggioranza, anche se non giustificata dai numeri, è purtroppo suffragata dai fatti. È un problema serio, del quale il presidente del Consiglio e il Partito democratico dovrebbero farsi carico. Azzerando l’asimmetria politica. Affiancando e contrapponendo, a quella della destra, l’agenda della sinistra (se ne esiste una). Dalla lotta all’evasione alle norme anti-corruzione. Dalla riforma elettorale a quella del lavoro. Il «governo di servizio» ha senso solo se serve al Paese, non se serve solo al Cavaliere.

La Repubblica 18.05.13

"Se si logora la coesione sociale", di Francesco Manacorda

Il lavoro che scompare, la casa che è a rischio, un futuro che spaventa. In meno di una settimana abbiamo dovuto mettere in fila, nelle cronache di un’Italia impaurita, vicende terribili: il muratore disoccupato che in Sicilia perde la casa per un debito di 10 mila euro con la banca e si dà fuoco, ustionando anche la moglie e due poliziotti, il giovane licenziato che nel Milanese uccide a sangue freddo il datore di lavoro e il figlio, l’artigiano di Savona che proprio ieri brucia in un rogo la sua vita. Storie diverse che non si possono accomunare con superficialità.

E storie le cui cause stanno talvolta anche in situazioni psicologiche fragili, ma che hanno comunque un tratto comune: sono segnali di resa individuale che amplificano, seppure con un effetto di forte distorsione, la paura e il disorientamento di un’intera società.

Dietro i suicidi degli imprenditori o dei disoccupati e la folle rabbia di chi impugna una pistola per farla finita con il datore di lavoro o con lo Stato – sia esso rappresentato dalle povere impiegate della Regione Umbria uccise in marzo, o dai Carabinieri attaccati mentre erano di servizio davanti a Palazzo Chigi – si legge il logorarsi della coesione sociale, di quel meccanismo che quando funziona è fatto di mille fili spesso impalpabili ma che tutti assieme resistono alle tensioni e permettono di non abbandonare al suo destino chi non ce la fa.

Non è un problema solo economico, ma è anche un problema economico. A cinque anni dall’inizio della grande crisi finanziaria e dopo almeno un ventennio che l’Italia paga – anche e soprattutto in termini di posti di lavoro – le sue carenze di produttività, non c’è del resto da stupirsi se gli effetti della crisi si fanno sentire soprattutto su quel grande ammortizzatore sociale che è – o è stata – la famiglia. Uno studio pubblicato in febbraio dalla Banca d’Italia su «Il risparmio e la ricchezza delle famiglie italiane» segnala come solo nel periodo 2008-2010 la loro capacità di risparmio sia scesa sotto la media dell’area euro e avverte che «nel 2010 il 9 per cento delle famiglie italiane aveva un reddito basso e, in caso di perdita del lavoro, una ricchezza finanziaria sufficiente per vivere al livello della linea di povertà per appena sei mesi».

Chi fa informazione ha il dovere di non assuefarsi allo stillicidio di notizie tragiche, che rischiano di finire rapidamente nel calderone del già visto e già sentito. Chi fa politica ha invece il dovere di prendere questi segnali per quello che sono: episodi patologici, certamente, ma anche sottolineature violente, vere e proprie macchie, su quel diario di speranze e preoccupazioni che un intero Paese scrive in silenzio giorno dopo giorno: che ne sarà del mio posto di lavoro? Servirà far studiare i miei figli? Riuscirò a comprare una casa?

Ricevendo l’incarico di formare il governo Enrico Letta ha messo l’occupazione, specie quella giovanile, al centro dell’azione dell’esecutivo. Nel giorno del primo decreto che contiene delle misure destinate a ridare in qualche modo fiato all’economia la scelta è quella di concentrarsi sulla sospensione dell’Imu – punto qualificante del programma elettorale del Pdl – e sul rifinanziamento della Cassa integrazione in deroga.

Sull’efficacia di un taglio dell’Imu per aumentare il reddito disponibile delle famiglie, spingendo così i consumi, i pareri sono discordanti. Ne abbiamo parlato con un dibattito articolato su queste pagine nelle ultime due settimane. Pare comunque difficile che i soldi che gli italiani non verseranno di acconto Imu a giugno entrino per ora – prima di sapere entro fine agosto come verrà tassata la casa – nel ciclo economico. Il rifinanziamento della Cassa integrazione in deroga è un atto importante, anche alla luce delle risorse che alla fine si è riusciti a trovare, ma sostanzialmente obbligato per far fronte proprio alla caduta dell’occupazione. I provvedimenti di ieri – come Letta sa bene – sono un inizio, ma non sono che un inizio.

La Stampa 18.05.13