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"Se la TV pubblica non fa più storia", di Giovanni Valentini

La Rai commise l’imperdonabile errore di adeguarsi ai sistemi delle tv private tagliando dal palinsesto i programmi di minore ascolto, come ad esempio la prosa, vale a dire eliminando le trasmissioni più culturalmente impegnative. (da “Come la penso” di Andrea Camilleri — Chiarelettere, 2013 — pag. 220).
Oltre che “magistra vitae”, come recita la locuzione latina attribuita a Cicerone, la Storia può essere anche “maestra di televisione”: e in particolare, d’informazione e di approfondimento. Tanto più se parliamo di servizio pubblico radiotelevisivo. E questo è senz’altro il caso della trasmissione “La storia siamo noi” che, da dodici anni a questa parte, Giovanni Minoli ha condotto con successo fino ad aggiudicarsi nel 2012 a New York il premio HistoryMakers International, l’Oscar dei produttori televisivi di storia.
A distanza di appena un anno da quel prestigioso riconoscimento, ora il vertice della Rai intende “divorziare” da Minoli, con la motivazione o il pretesto che la struttura a lui affidata per i programmi sul 150° anniversario dell’Unità d’Italia va sciolta e che il giornalista è ormai in età di pensione. Ma in realtà quel format, inventato da Renato Parascandolo, fa parte del patrimonio della tv pubblica, dei suoi compiti e delle sue funzioni istituzionali. E perciò i nuovi dirigenti di viale Mazzini, anche a prescindere dal nome di chi eventualmente sarà chiamato a sostituire il conduttore, rischiano di cancellare un cespite della Rai con una furia iconoclasta da talebani televisivi.
La storia è la memoria di un Paese e di un popolo. La sua coscienza collettiva. L’archivio anagrafico della sua identità sociale e culturale. E perciò – quali che siano gli ascolti di questa trasmissione, peraltro più che lusinghieri – un servizio pubblico radiotelevisivo non può venire meno al dovere fondamentale di coltivare, aggiornare e tramandare quella memoria comune, a pena di rinnegare il proprio ruolo e la propria missione.
Nel lungo periodo in cui ha diretto e condotto il programma, Minoli ha interpretato un modello di tv pubblica che è ancor oggi valido e attuale. Fra le numerose puntate prodotte, per circa mille ore di trasmissione all’anno, resta memorabile – per esempio – quella sugli incidenti durante il G8 di Genova che meriterebbe di essere adottata nelle scuole o nei master di giornalismo televisivo. Ma già prima lui stesso aveva introdotto un’innovazione di rilievo come “Mixer”, poi chiuso – a quanto pare – su sollecitazione di qualche “mandarino” politico a causa di un’impostazione considerata troppo indipendente. Non c’è dubbio perciò che, anche al di là dell’età, la sua esperienza e la sua firma appartengano a buon diritto alla migliore tradizione del giornalismo televisivo italiano, da Sergio Zavoli ad Andrea Barbato, da Piero Angela a Corrado Augias, da Lilli Gruber a Bianca Berlinguer e Milena Gabanelli.
Al di là del “caso Minoli”, comunque, un fatto è chiaro: la Rai, se vuole sopravvivere, deve compiere un salto di qualità sul piano dell’informazione, dell’approfondimento e più in generale di tutta la sua programmazione editoriale. Insediato dal “governo tecnico” di Mario Monti, il vertice in carica non può continuare a gestire l’azienda soltanto all’insegna del rigore contabile, a colpi di tagli e riduzione di personale. Altrimenti, riuscirà anche a tenere in vita “La storia siamo noi” in formato ridotto e forse a far quadrare il bilancio. Ma, su questa china, il servizio pubblico è destinato comunque a non fare più storia, cioè a non incidere più nella cultura e nella coscienza civile del Paese.
Mentre i Cinquestelle si trastullano con la “querelle” sulla presidenza della Vigilanza sulla Rai, una Commissione parlamentare che invece andrebbe abolita proprio per cominciare a sottrarla al controllo politico, rimane intatta dunque la questione della “governance”: vale a dire di chi è legittimato a dirigere e gestire il servizio pubblico. Non sarà verosimilmente questo governo né tantomeno questa “maggioranza di necessità” a risolverla. Ma occorre quanto prima una riforma organica per passare finalmente dalla Rai dei partiti alla Rai dei cittadini.

La Repubblica 18.05.13

"Quel razzismo che morde la realtà", di Luigi Manconi

Ierei sera Beppe Grillo si trovava a Treviso per il tutti a casa tour e ha deciso dunque, di inviare un messaggio «trevigiano». Ovvero ha scritto cose che, nell’arsenale micidiale degli stereotipi, dovrebbero corrispondere al senso comune attribuito agli abitanti di quella città. Tuttavia Treviso, lo sappiamo, è qualcosa di molto più complicato: è il luogo dove ha imperversato un sindaco che ha fatto, del linguaggio xenofobo, una risorsa di mobilitazione elettorale e il tratto qualificante di una certa ideologia strapaesana.

Ma, allo stesso tempo, Treviso è al centro di un territorio dove le associazioni degli industriali hanno ripetutamente chiesto l’ampliamento dei flussi migratori in rapporto ai mutamenti di un mercato del lavoro che, fino all’esplosione della crisi economico-finanziaria, conosceva una particolare vivacità e flessibilità. In questa situazione così diversificata, Grillo cala un discorso greve e plumbeo, inchiavardato in un apparato logico e lessicale minaccioso.

La tragedia di sabato scorso a Milano, dove uno straniero psicopatico ha ucciso a picconate tre persone, diventa materia di un ragionamento, si fa per dire, che trova la sua fonte di ispirazione in una versione, se possibile ancora più efferata e torva, della visione del mondo di Mario Borghezio. Ed è una visione del mondo

squisitamente paranoica. Intanto perché la follia di Adam Mada Kabobo viene rappresentata non come quel caso clinico che è, bensì come una sorta di fenomeno sociale. Una minaccia abnorme che connota la vita quotidiana, segna il paesaggio urbano e determina le forme delle relazioni collettive: «Quanti sono i Kabobo d’Italia? Centinaia? Migliaia? ».

Non solo: il meccanismo paranoico è selettivo e diventa, fatalmente, dispositivo discriminatorio. Proprio mentre le cronache sono attraversate da un succedersi incalzante di delitti che hanno come vittime selezionate le donne; proprio mentre un numero crescente di «buoni padri di famiglia» e di «mariti affettuosi» e di «amanti premurosi», tutti di limpido ceppo nazionale, si dedicano al massacro di mogli e amiche e figlie e figli, per Beppe Grillo il pericolo è decisamente altrove. Ed è rappresentato dall’Uomo Nero.

Anzi, no: il pericolo è anche quel portoghese che a Milano «stacca a un passante un orecchio a morsi. Prosegue poi per Porta Venezia dove picchia una persona all’uscita dalla metropolitana. Sale su un convoglio e alla fermata di Palestro aggredisce a testate, calci e pugni un ragazzo. Risalito in superficie, raccoglie un mattone e lo tira in faccia a un sessantenne che portava a spasso il cane. Gli spacca il setto nasale e gli procura un vasto ematoma all’occhio». Ora è davvero difficile comprendere perché mai, in questa dinamica di furia criminale, il connotato nazionale (portoghese!) sia rilevante. In altre parole, perché mai dovrebbe costituire un tratto qualificante rispetto a chi, per ventura, fosse nato a Bronte (Ct) o a Nulvi (Ss) o a Mira (Ve), e si macchiasse di simili delitti.

Insomma, nel caso di questo cittadino portoghese, nulla del percorso sociale, proprio nulla, sembra rimandare a una particolare identità etnica. Siamo nel campo, piuttosto, delle patologie individuali e delle molte radici sociali dell’abbrutimento e delle esplosioni di violenza che ne possono conseguire.

Dopodiché, Grillo non è un razzista, in nessuna delle diverse e classiche accezioni del termine: in lui, la xenofobia – che è cosa assai diversa – risulta come esaltata da una lettura ormai parossistica delle contraddizioni sociali; e da una concezione agonistica e tonitruante, bellica e nichilista della politica. Nello scenario che tratteggia – interamente fatto di «guerre», «macerie» e «rese dei conti» – la tragedia di Milano viene descritta con i toni e i colori di una foto che ritrae il bancone di una macelleria. E la faticosissima convivenza tra italiani e immigrati viene raffigurata grottescamente, come la copia sanguinolenta che un imbrattatele morboso può fare di un quadro di George Grosz.

Detto ciò, resta poco di che consolarsi. Ma chi, in questi giorni, vive comprensibilmente con grande difficoltà le «larghe intese» tra Pd e Pdl, si trova costretto a riflettere sui tormenti a cui lo avrebbe sottoposto un’eventuale intesa, larga o stretta, con il partito 5Stelle…

L’Unità 17.05.13

Giornata mondiale contro l'omofobia Napolitano: "Intollerabili aggressioni a gay"

Messaggio del capo dello Stato in occasione della giornata indetta dall’Onu in difesa dei diritti degli omosessuali: “Impegno fermo nella denuncia delle discriminazioni”. La Boldrini: “Riconoscere unioni anche in Italia”. Il ministro Idem: “Serve una legge specifica contro i reati di omofobia”. Grasso: “Lo Stato si attivi non solo per il riconoscimento, ma anche per la concreta protezione dei diritti dei gay”. La Ue: “Un omosessuale su 4 vittima di aggressioni”. “Esprimo la mia vicinanza a quanti sono stati vittime di intollerabili aggressioni e a quanti subiscono episodi di discriminazione che hanno per oggetto il loro orientamento sessuale”. Lo afferma il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in un messaggio in occasione della giornata contro l’omofobia. “La denuncia e il contrasto all’omofobia – ha detto il capo dello Stato – devono costituire un impegno fermo e costante non solo per le istituzioni ma per la società tutta”.
E intervenendo alla cerimonia il presidente della Camera, Laura Boldirini chiede che siano riconosciute giuridicamente agli omosessuali “le loro unioni anche in Italia”.

Nel suo discorso il presidente Napolitano rivolge “un pensiero particolare a quei giovani che per questo hanno subito odiosi atti di bullismo che, oltre ad aggravare le manifestazioni di discriminazione, alimentano pregiudizi e dannosi stereotipi. La cultura del rispetto dei diritti e della dignità della persona ha già trovato significative espressioni sul piano legislativo e deve trovare piena affermazione in primo luogo nella famiglia, nella scuola, nelle varie realtà sociali e in ogni forma di comunicazione. In momenti di difficoltà economica – come quelli che stiamo attraversando – più che mai è necessario vigilare affinchè il disagio sociale non concorra ad acuire fenomeni di esclusione gravemente lesivi dei valori costituzionali di uguaglianza e solidarietà su cui si deve fondare una convivenza civile”.

INCHIESTA Gay, diritti e persecuzioni nel mondo

Secondo un rapporto dell’Unione europea diffuso nellaGiornata Internazionale contro l’Omofobia, in Europa un omosessuale su quattro ha subito violenze o minacce negli ultimi cinque anni. Inoltre i due terzi della comunità di gay, lesbiche, bisessuali e trasgender (la cosiddetta comunità Lgbt) teme ancora di mostrare la propria sessualità in pubblico e la maggior parte di loro si sente discriminata. “Paura, isolamento e discriminazione sono fenomeni quotidiani per la comunità Lgbt in Europa”, ha denunciato nella relazione Morte Kjaerum, direttore dell’Agenzia dell’Unione Europea per i Diritti Fondamentali (FRA). Il sondaggio, descritto come il più corposo mai realizzato sul tema, ha ‘ascoltato’ 93mila persone nei 27 stati membri dell’Ue, con l’aggiunta della Croazia, prossimo a unirsi al ‘blocco’ nel mese di luglio. Oltre un quarto degli intervistati (il 26%) ha riferito di aver subito qualche aggressione, fisica o verbale, negli ultimi 5 anni.

Per il ministro per le Pari Opportunità, Josefa Idem “la solidarietà alle vittime e la condanna di questi atti vergognosi e inaccettabili non bastano”, è necessario “agire con determinazione affrontando il problema su vari piani”. Idem si è impegnata a sostenere l’adozione di una legge specifica contro i reati di omofobia e transfobia: “mi auguro possa essere approvata presto dal Parlamento con il più ampio sostegno possibile” ha detto.

Sui diritti dei gay è intervenuto anche il presidenti del Senato. “La tutela dei diritti delle persone omosessuali, bisessuali e transessuali rappresenta l’ultima frontiera del lungo percorso storico che ha accompagnato l’affermazione e la protezione dei diritti umani – ha detto il presidente del Senato Pietro Grasso – .Lo Stato si attivi non solo per il riconoscimento, ma anche per la concreta protezione dei diritti degli omosessuali”. “Gli omofobi sono cittadini meno uguali degli altri”. Secondo Grasso “sono chiusi nel loro guscio, si frequentano tra loro, non allargano i loro orizzonti né il loro cerchio di amicizie. Temono i viaggi all’estero, le feste, gli studentati all’università e gli spogliatoi delle palestre”.

Con un messaggio su twitter, interviene anche il sindaco di Roma Gianni Alemanno: “‘L’omofobia è una stupida discriminazione. Roma ci insegna quotidianamente il rispetto verso il prossimo. Odio la parola omofobia. Non è una fobia. Non sei spaventato. Sei un cretino”.

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Pd, venerdì sera assemblea a Carpi con gli on. Ghizzoni e Patriarca

Fa parte del ciclo di assemblee promosso dal Pd per fare il punto su Governo e Partito. Un vero e proprio giro d’orizzonte sul Governo Letta e sul futuro del Pd dopo l’elezione di Guglielmo Epifani e in attesa del congresso in autunno: è quanto programmato dal Pd modenese che sta organizzando assemblee aperte a iscritti ed elettori in tutte le zone della provincia. Due incontri si sono già tenuti a Nonantola e Pavullo. Venerdì 17 è programmata una iniziativa pubblica alla Festa di Fossoli con i deputati Ghizzoni e Patriarca. Altre assemblee sono programmate lunedì nel vignolese. Entro la fine della prossima settimana si conclude il ciclo di appuntamenti.

Il Governo Letta ha cominciato a lavorare e l’Assemblea nazionale del Pd ha trovato un’ampia convergenza sul nome di Guglielmo Epifani quale nuovo segretario nazionale del partito. Il Pd modenese, proprio su questi temi, sta promuovendo una serie di assemblee pubbliche per consentire a iscritti, elettori e simpatizzanti di confrontarsi e approfondire l’agenda del Governo e quella del Partito, così come era già successo all’indomani della travagliata elezione del presidente della Repubblica. “Due incontri si sono già tenuti nei giorni scorsi a Nonantola e Pavullo – spiega il segretario provinciale del Pd Paolo Negro – con l’iniziativa di domani, programmata nel carpigiano, entriamo nel vivo del ciclo di appuntamenti che contiamo di chiudere entro la fine della prossima settimana”. Per venerdì 17 maggio, infatti, presso la Festa Pd di Fossoli di Carpi, in corso di svolgimento, a partire dalle ore 20.45, è programmata un’iniziativa pubblica dal titolo “Pd: quale futuro?” che è insieme anche riunione dell’Assemblea comunale e dei Comitati direttivi dei Circoli Pd di Carpi. All’incontro saranno presenti i parlamentari Pd del territorio carpigiano Manuela Ghizzoni ed Edoardo Patriarca. “Altre due assemblee sono già previste per lunedì sera nella zona delle Terre di Castelli. – continua Negro – a Spilamberto, per l’area pedemontana, si terrà un incontro a cui parteciperà il segretario regionale del Pd Stefano Bonaccini, mentre a Guiglia, per la zona montana, l’iniziativa pubblica vedrà la presenza del senatore Pd Stefano Vaccari. Infine, entro venerdì della prossima settimana, saranno programmate le restanti assemblee di distretto. E’ solo nel confronto con i nostri iscritti ed elettori che il partito può ricostruire un solido rapporto di fiducia. Noi siamo qui, e da qui si può ripartire!”.

"La scuola pubblica della middle-class dove nasce la coesione americana", di Claudio Magris

Chicago. Accompagno Silvio Marchetti, che dirige con rara creatività l’Istituto italiano di Cultura, a tenere una lezione sull’Unione Europea in una scuola pubblica della città, il liceo classico — se così si può tradurre highschool — Foreman. La scuola si trova nel quartiere Belmont, alla periferia alquanto isolata e scialba di quella che forse è la più bella città degli Stati Uniti e quantomeno vanta una delle vie più belle del mondo, il Magnificent Mile.
Il liceo Foreman è frequentato soprattutto da studentesse e studenti ispanici — per lo più di provenienza o di origine messicana — e neri; alcuni, specialmente alcune ragazze, musulmani. È la prima volta che metto piede in una scuola secondaria pubblica americana, di cui spesso si lamentano la bassa qualità, il modesto stipendio e lo scarso prestigio sociale degli insegnanti nel Paese del business, ancorché ora vacillante, e delle grandi università, perfettamente organizzate e attrezzate come in nessun altra parte del mondo, in cui premi Nobel sdottorano come guru e in cui sussiegosi studenti in divisa assomigliano a giocatori di golf. I racconti che riguardano lascuola pubblica si soffermano spesso sulle situazioni peggiori nelle zone più disagiate, che rendono tanto più difficile il lavoro dei docenti con classi di alunni socialmente sbandati e disadattati, la cui scuola talvolta è più la strada che l’aula, anche con la violenza che ciò può comportare e che non favorisce certo, per usare un eufemismo, l’inclinazione allo studio e alla disciplina.
Ma ogni giudizio generalizzato è un pregiudizio, come dimostra quella mattina trascorsa al liceo Foreman, per me uno dei più begli incontri con la realtà americana. A parte i controlli all’entrata — necessari per la demenziale circolazione delle armi anche nelle mani più immature, ma sbrigati con cordiale ancorché scrupolosa lievità, diversamente da quanto accade talora nei contatti con la polizia all’ingresso nel Paese — mi sono trovato, di colpo, in una delle atmosfere che più amo e in cui più mi sento a casa, non troppo dissimile da quella del mio liceo triestino Dante Alighieri, dove hanno studiato pure mio padre e i miei figli e di cui ho celebrato un paio di mesi fa i centocinquant’anni (venendo, ahimè, definito dal giornale «illustre ex allievo ancora vivente»). Un liceo che ci ha insegnato ad amare lo studio e gli insegnanti, ma anche a ridere di essi pur sapendoli migliori di noi; che ci ha dato le coordinate fondamentali dell’esistenza e le amicizie fondanti per la vita, che ci ha insegnato a impegnarci nello studio pur non prendendolo troppo sul serio, a credere e insieme a non credere alle cose. È per questo che, come dice un personaggio di Fontane, il classico, con la sua ironia, «rende liberi». Alcuni di noi erano anche molto bravi con gli aoristi, la perifrastica passiva o l’estetica di Croce, ma quando un professore commetteva l’errore pedagogico di definirli «cavalli di razza» rispetto agli altri, essi ristabilivano subito le cose e l’unità fraterna della classe mettendosi a ragliare rumorosamente.
È quest’aria che ho trovato fra gli insegnanti e gli studenti di quella scuola pubblica americana. Un’atmosfera rispettosa e scherzosa, sciolta e aliena da presuntuosa protesta come da quella saccente supponenza che si ritrova in certi club studenteschi esclusivi di famosi campus universitari americani. Silvio Marchetti illustrava la storia dell’Unione Europea, i suoi meccanismi istituzionali, i suoi organi, le sue competenze, le sue difficoltà. Le domande erano precise, concrete; talune anche elementari, tuttavia mai vaghe o ideologiche. Nelle discussioni, rispettose ma vivaci e senza fronzoli, non emergeva affatto quell’ignoranza, sempre più crescente ovunque, che mi è capitato di incontrare pure in studenti di qualche università americana che non sapevano chi fosse Stalin.
Sguardi vivaci e affettuosamente maliziosi illuminavano quei volti per lo più bruni e quei sorrisi sotto i fazzoletti nient’affatto monacali delle alunne islamiche; alcuni, come è giusto, chiacchieravano, ma con discrezione, ridendo di qualcosa forse non meno importante, nella vita di un ragazzo, del trattato di Schengen o ridendo forse di noi, com’è altrettanto giusto, ma l’interesse generale, stimolato dall’illustrazione di Marchetti, era autentico e le domande rivelavano un’istintiva capacità di cogliere i problemi essenziali. Come appaiono fasulle, di fronte a quella gaia e semplice scolaresca, sia la petulanza delle nostre assemblee studentesche ideologico-pulsionali che chiedevano l’esame di gruppo o il trenta politico, sia l’ingenua arroganza di quei costosissimi percorsi scolastici americani che iniziano alla scuola materna o elementare quella pretesa selezione — intellettuale ed economica — che deve portare dall’asilo di lusso a Harvard, una programmazione grigiamente sovietica nello spirito anche se perfettamente organizzata, diversamente dalla sgangherata inefficienza sovietica.
È su scuole come questa che si basa la vera cultura di un Paese, che consiste nella qualità del suo livello medio, non nelle punte d’eccezione. Un Paese che avesse un Dante e milioni di sottosviluppati sarebbe un Paese barbaro. Occorre certo potenziare, dovunque, i centri di eccellenza da cui dipende la ricerca scientifica e tecnologica, fondamentale per ogni società, ma anche l’istruzione e la civiltà del cittadino medio, lasciando magari perdere, se la tasca è vuota e il piatto piange, festival, eventi e convegni.
Quelle classi accanto a me, quella mattina a Belmont, rappresentavano, contrariamente all’asfittica endogamia dei campus di eccellenza, la varietà della vita vera, in cui si studia e si fa chiasso, in cui ci sono secchioni e discoli, Pinocchio e Lucignolo. Una selezione diversa da quella ridicola dei test attende certo quella garrula scolaresca; una selezione difficile — per le difficili condizioni di partenza della maggior parte di quei giovani — incerta e inevitabilmente per qualcuno dolorosa, in un futuro che non è roseo per nessuno e tantomeno per chi è duramente esposto, senza alcun parapetto o privilegio, alla nuda durezza della vita.
Ma la fresca allegria della maggior parte di quei volti non sembrava inerme. In quelle classi che ci salutavano, uscendo dalla grande aula, chiacchierando e raccontandoci qualcosa della loro esistenza, delle loro famiglie, di ciò che loro piace o non piace, c’era l’America, l’americana varietà delle origini — anche degli insegnanti, una docente ad esempio proveniente dal Kazakhstan — e l’unità che alla fine ne risulta. «Quali sono veramente i confini dell’Europa?», ha chiesto una ragazza proveniente dalla Giamaica. Non è grave che né Marchetti né io sapessimo rispondere, ma che probabilmente non lo si sappia neanche a Bruxelles.

Il Corriere della Sera 17.05.13

"L’avvocato del Cavaliere con la pistola sul tavolo", di Sebastiano Messina

Non ha l’energia sanguigna del toscanaccio Denis Verdini, e nemmeno il teatrale candore di Angelino Alfano, ma l’avvocato Piero Longo, difensore del Cavaliere e (dunque) deputato al Parlamento, ha il pregio di incarnare il vero sentimento berlusconiano al tempo delle Larghe Intese. Perché lui ama discutere, ma con la pistola in tasca.
E quando gli chiedono del processo al Capo e di quell’interdizione dai pubblici uffici che lo metterebbe fuori dalla politica, lui conferma la fiducia nella giustizia ma avverte che «se Berlusconi fosse interdetto dai pubblici uffici, al giudizio della Cassazione, il governo forse cadrebbe un secondo prima ». E con questa mossa lesta e malandrina ha messo sul tavolo, davanti agli occhi di chi dovrà giudicare, la pistola della crisi. Una pistola metaforica, si capisce. Il fatto è che l’avvocato la pistola ce l’ha davvero. «Ce l’ho sulla scrivania, in questo momento è davanti a me: una Ruger Lcr fabbricata in America» racconta in radio al sulfureo Cruciani de “La Zanzara”, lo stesso al quale un anno fa aveva rivelato di averne addirittura tre, di pistole: «due calibro 38 e una 765 semiautomatica », e che ogni tanto gli succede «di portarne in giro una, giusto per farle prendere aria». Purtroppo, si lamentava ieri, «non posso portarla con me alla Camera, o in tribunale, o sul treno».
E meno male, perché l’avvocato Longo – che prima di Berlusconi difendeva i due neonazisti assassini di Ludwig e gli estremisti accusati di ricostituzione del partito fascista – ha la vocazione del giustiziere. Se l’altra mattina si fosse imbattuto nel picconatore pluriomicida di Milano, Mada Kabobo, gli avrebbe sparato subito. «Alle gambe. E se non si fosse fermato avrei sparato di nuovo alle gambe e poi addosso». Non sapremo mai cosa sarebbe successo davvero, però sappiamo che quando l’avvocato Longo, il deputato Longo, decide che è arrivato il momento di mettere mano alla pistola, lo fa senza pensarci su due volte. L’unico dubbio che lo coglie, semmai, è se usare la Ruger, l’altra 38 special o la 765 semiautomatica. «Possiamo fare a meno del burro ma non possiamo fare a meno delle armi, perché con il burro non si spara” diceva Goebbels tre anni prima della guerra. Oggi, in questa lunga vigilia giudiziaria che s’intreccia con l’alba delle Larghe Intese, le sparate dell’avvocato Longo ci ricordano che la pacificazione invocata dal Cavaliere è solo il burro al quale non sarà difficile rinunciare quando verrà l’ora delle pistole.

La Repubblica 17.05.13

"I ricatti e le scorciatoie", di Claudio Sardo

Il governo Letta non è la garanzia di un salvacondotto per Berlusconi. La grande coalizione non è una deroga al principio di legalità. L’esecutivo è nato per rispondere a uno stato di necessità e a una duplice emer- genza: da un lato la drammatica crisi sociale e la necessità di risposte non convenzionali su sviluppo e lavoro; dall’altro il collasso del sistema politi- co, oggi privo persino di una legge elet- torale «legittimata».

Anche la giustizia è un problema da affrontare: ma Berlusconi non intende farlo. A lui interessano i processi che lo vedono imputato. Anzi, a lui interessa trovare il modo per sottrarsi al processo.

Ora il Cavaliere e il suo partito sono in preda a una crisi di nervi. Nei primi giorni del governo Letta, complice un Pd tramortito dal collasso delle presidenziali, Berlusconi sembrava il padrone della macchina. È bastato che nel Pd tornasse un minimo di consapevolezza sulle proprie responsabilità verso il governo, per aprire nel Pdl uno scontro politico: tra chi è sottomesso al Cavaliere al punto di considerare una priorità assoluta gli interessi processuali e chi invece comincia a pensare che un centrodestra dovrà pur esserci dopo Berlusconi e che anzi, a ben guardare, Berlusconi è molto più spompato di quanto non tenti di mostrare.

Bisogna scegliere. O si serve l’Italia, o non ha senso continuare questa esperienza. Enrico Letta ha fatto molto bene ieri nel dire che la legge sulle intercettazioni telefoniche (il vecchio ddl Alfano) non è nel programma e non è una priorità del governo. L’emergenza è il lavoro, cioè l’impresa che produce lavoro e i lavoratori che lo hanno perso. Si parte oggi con il decreto sull’Imu, sulla cassa in deroga, su questo primo intervento simbolico a carico degli stipendi dei ministri. Ma la vera prova di Letta sarà nei prossimi due mesi: dopo i necessari passaggi a Bruxelles, bisogna mettere in campo una terapia d’urto che rilanci la domanda interna, che aiuti le imprese ad assumere, che favorisca i giovani oggi senza futuro. Il governo deve fare questo. E su questo si gioca la vita. Chi ha secondi fini, è bene che lo dichiari subito. Non è sopportabile una polemica strisciante e permanente, che ha come obiettivo evidente tenere il governo e il Pd sotto scacco, sotto minaccia, per tentare di ottenere risultati non dichiarabili, e peraltro impossibili.

Il tema, in tutta evidenza, non è l’ineleggibilità di Berlusconi. Sul’Unità lo hanno scritto con nettezza sia Massimo Mucchetti che Giovanni Pellegrino. Restiamo convinti che la legge 361 del 1957 escluda l’eleggibilità di un signore, che è anche proprietario di un’azienda concessionaria dello Stato. Ma è evidente che una maggioranza politica non potrebbe oggi, senza esercitare violenza ai danni di tanti elettori, ribaltare il giudizio già espresso in sei legislature consecutive. Quel giudizio, peraltro, ha una forma e una natura para-giurisdizionale: e la prassi, i precedenti, in questo caso non possono essere trascurati da una coscienza democratica. Piuttosto viene da chiedersi se sia giusto che il giudizio sull’ineleggibilità, o sull’incompatibilità di un parlamentare venga affidato alle Camere, cioè alle maggioranze pro-tempore: la nostra risposta è che non è giusto. Che dovrebbe essere un organo imparziale, terzo, a decidere. Come la Corte costituzionale (anche se Berlusconi dirà che la Consulta è un soviet).

L’ineleggibilità non è materia di scambio. Resta il giudizio sulla forzatura che fece Berlusconi nel ’94. Ma nella sinistra non può non restare anche la fedeltà ad un costume di correttezza e di prudenza costituzionale, che nessuna polemica per quanto feroce può cancellare. Il Cavaliere tenga a mente che, per le stesse ragioni di coerenza, non potranno mai esserci deroghe «bipartisan» alle sentenze giudiziarie. È un’ipocrisia attribuire alle larghe intese il valore di una «pacificazione». Oggi il governo Letta è anzitutto un terreno nuovo di competizione tra destra e sinistra. L’auspicio è che la competizione si svolga anzitutto sulle soluzioni migliori per uscire dalla crisi. Ma se la competizione dovesse trasformarsi in un contorcimento, o peggio in un ricatto, per addolcire l’esito dei processi di Berlusconi, allora la rottura sarà inevitabile. Verrebbe da dire: se questo fosse l’intento del Pdl, sarebbe meglio rompere immediatamente.

Se fosse confermata la sentenza di Milano, con la relativa pena accessoria della decadenza di Berlusconi dai pubblici uffici, nulla e nessuno potrà opporsi all’esclusione del Cavaliere dal Parlamento. Forse lo avrebbe fatto il Parlamento che ha creduto a Ruby «nipote di Mubarak»: contiamo che questo Parlamento abbia maggiore dignità. E se la legge sulle intercettazioni non è una priorità, una priorità è invece dotare l’Italia di una efficace legge anti-trust sui numerosi e complessi conflitti di interesse, che ogni giorno emergono. Lo ha scritto Mucchetti: occorre inserire tra le cause di incompatibilità la proprietà personale o familiare, diretta o indiretta, compresa quella di azioni rilevanti ai fini del controllo societario: la legge del 1957 va superata e i conflitti di interessi non riguardano solo Berlusconi. Se ci fosse un centrodestra in Italia, se ne occuperebbero anche loro.

L’Unità 17.05.13