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"La trincea dell’equità", di Tito Boeri

“In questo mondo nulla è certo tranne la morte e le tasse” scriveva Benjamin Franklin nel 1783. In questo governo l’unica cosa certa è la sua morte senza la sospensione della tassa sulla prima casa.
Non rimane perciò che sperare che quella che verrà oggi decretata sia una vera sospensione, in attesa di una riforma organica delle tasse sulla casa. È una speranza di quelle ultime a morire perché non si era mai visto prima di oggi sospendere una tassa per poi riformarla. Chi infatti avrà mai il coraggio di sospendere la sospensione soprattutto se questa dura a lungo?
Bene perciò rispettare i 100 giorni che il governo si è dato per riformare il prelievo sulla casa. Tre mesi e mezzo, non di più. Anche perché il decreto sull’Imu sta già scatenando le proteste di chi si sente discriminato. Ci sono innanzitutto le imprese che protestano perché pagano tasse salatissime sui capannoni industriali. Sono raddoppiate rispetto a quelle dell’Ici perché le imprese non votano e i Comuni hanno preferito aumentare le imposte sulle imprese piuttosto che aumentare quelle sulle famiglie residenti. Ieri è stata la volta di Confcommercio che alza la voce perché le tasse su alberghi e negozi non sono state sospese. Seguiranno a breve i proprietari delle seconde case, non sempre ricchi (il terzo di loro più povero ha gli stessi redditi di chi ha una sola casa, secondo l’indagine Banca d’Italia). Anche i proprietari di seconde case in genere non votano nei Comuni che li tassano e dunque, in nome del nobile principio secondo cui ci può essere tassazione solo senza rappresentazione (!), hanno assistito impotenti al forte incremento delle aliquote sulle loro proprietà. E che dire degli affittuari? Equità vorrebbe che venissero trattati come i proprietari: se la prima casa è un bene che non si può tassare, dovrebbero poter dedurre le spese di affitto nella dichiarazione dei redditi (o detrarle ad aliquota uguale per tutti dalle imposte dovute). Tutto questo ci dice anche che un’eventuale abolizione dell’Imu sulla prima casa rischia di aprire una voragine nei conti dello Stato (oltre che in quelli dei Comuni), con una perdita di gettito ben superiore ai 4 miliardi dell’Imu sulla prima casa. Pezzo dopo pezzo, può crollare tutto il gettito dell’Imu, una torta di 22 miliardi, attorno a un punto e mezzo di pil e bisognerà rimpiazzarlo con tasse sul lavoro. Se così fosse, sarebbero tra i 4 e i 5 punti di cuneo fiscale in più.
Nel rivedere le regole bisognerà anche procedere con estrema cautela, evitando il più possibile annunci fuorvianti. Se c’è un campo in cui la consegna del silenzio è d’obbligo, questo è quello della casa. È un bene che sta molto a cuore agli italiani, dato che l’80 per cento dei nostri concittadini ne possiede una. Inoltre è un bene poco liquido e indivisibile (non si può vendere un pezzo di casa) per cui ci vuole molto tempo per adattarsi a cambiamenti nella normativa. Il problema è che sta diventando un bene ancora meno liquido, molto difficile da vendere senza realizzare pesantissime perdite. Dall’inizio della crisi, il numero di compravendite si è dimezzato. E il crollo del mercato nella seconda recessione è diventato più ripido, quasi verticale: meno 25% di compravendite nel solo 2012, come abbiamo appreso due giorni fa dall’Agenzia delle Entrate (che ha assorbito l’agenzia del territorio).
Un modo per rivitalizzare il mercato consiste nel ridurre i costi per chi vuole vendere la casa di cui è proprietario per comprarne una più piccola. Ci sono molti pensionati che hanno investito la loro liquidazione e i risparmi di una vita in una casa di un certo valore e che oggi si ritrovano “house rich e cash poor”, con una proprietà immobiliare importante, ma illiquida, e un reddito molto basso. La cosa più ragionevole da fare sarebbe perciò ridurre fortemente le tasse sulla compravendita di immobili, anziché abolire l’Imu sulla prima casa. È un modo per mobilizzare ricchezza, perché rende più liquido il bene casa, e migliora al contempo la distribuzione del nostro patrimonio edilizio. Oggi una famiglia può essere disposta a vendere una casa a un prezzo anche significativamente inferiore a quello a cui era stata valutata 5 anni fa se può al contempo comprarsi un’altra casa a prezzi altrettanto scontati (il calo delle compravendite, e presumibilmente dei prezzi, sembra in molte città essere stato più forte negli immobili di piccole dimensioni). Se invece deve pagare il 3 per cento del valore catastale dell’immobile sia all’atto della vendita che a quello dell’acquisto, il gioco non vale la candela. Meglio stringere la cinghia e rimanere in una casa troppo grande per il proprio reddito (ricordiamoci che dall’inizio della crisi il reddito nazionale è calato del 10 per cento e quello pro capite ancora di più). Chi ha seconde case paga poi fino al 10 per cento di imposta di registro in aggiunta a un’Imu molto pesante e nessun ordinamento da paese civile prevede che il patrimonio venga tassato sia quando posseduto che quando ceduto. Il vantaggio di avere proprietà immobiliari più liquide ci sarebbe anche per le imprese. Renderebbe meno arduo il cammino volto ad aumentare il patrimonio delle nostre piccole imprese, che molti piccoli imprenditori stanno cercando a fatica di ricapitalizzare, come ci dicono i dati del Cerved. Immobili più liquidi possono inoltre essere più agevolmente utilizzati come garanzia per prestiti. Da ultimo, ma non certo per importanza, la minore tassazione delle compravendite andrebbe incontro alle principali vittime della crisi, i giovani, che potrebbero più facilmente comprarsi una casa e che oggi non beneficiano affatto della sospensione dell’Imu.
Un intervento sulle tasse sulle compravendite – anziché sulle tasse sulla proprietà – di immobili avrebbe vantaggi sul piano della gestione e della tenuta dei conti pubblici. Ha un costo inferiore all’abolizione dell’Imu e parte del gettito perso con una riduzione dell’aliquota verrebbe compensato dall’aumento dei volumi di compravendite. Inoltre non aprirebbe voragini nei conti dei Comuni, richiedendo trasferimenti compensativi dal centro. Il gettito dell’imposta di registro va infatti alle casse dello Stato, che può più facilmente ovviare ad eventuali riduzioni del gettito.
Infine, stimolando le compravendite si avrebbe la possibilità di allineare più rapidamente e con meno errori i valori di catasto a quelli di mercato. Già oggi, pur con volumi ridotti, si può stimare quanto valga, ad esempio, avere una casa vicino ai giardini pubblici oppure nei pressi di una stazione di una metropolitana. Con un mercato più spesso i valori sarebbero più attendibili e ci sarebbero più informazioni per rendere la tassazione della casa più equa. Oggi questa premia chi ha la fortuna di avere valori catastali molto vecchi, una distorsione che spesso opera in modo regressivo, tassando in proporzione al valore immobiliare effettivo meno i ricchi di quanto tassi i poveri. È anche per questo che l’Imu è oggi così odiata. Ma ridurla a zero è sicuramente meno equo che allineare i valori del catasto a quelli del mercato e abbassare le aliquote.

La Repubblica 17.05.13

"Vittime per caso", di Adriano Sofri

Come si ricordano e si piangono le persone amate e ammazzate “per caso”? Domani sarà passato un anno dall’attentato di Brindisi che costò la vita a Melissa Bassi, studentessa di sedici anni, tenne fra la vita e la morte Veronica Capodieci, e ferì altre sei loro compagne. Ci sarà una commemorazione solenne, a Brindisi e a Mesagne, il paese di Melissa e Veronica, parteciperanno ministri e altre autorità, ci saranno cerimonie religiose e civili e concerti. Sarà presentato il librodiario che Selena Greco, compagna di banco di Melissa, anche lei ferita, ha intitolato “I giorni dopo il tramonto”. Intanto va verso la conclusione il processo all’autore confesso di quella tentata strage, che ora piagnucola in aula e chiede perdono e dice che aveva due figlie anche lui; che in carcere si fece sorprendere mentre rivelava il suo proposito di fare il pazzo; che ricavò “dall’enciclopedia” le istruzioni per comandare a distanza un ordigno fatto di bombole di gas. I giudici l’hanno dichiarato lucido e padrone di sé, com’è evidente, e l’hanno imputato anche di terrorismo. “Ho fatto tutto da solo”, ha detto, a metà fra la speranza d’attenuante e la rivendicazione. La sentenza si pronuncerà anche su questo terrorismo di un uomo solo, che voleva vendicarsi di qualcosa, della vita degli altri, e stampare così la propria orma, o compiacersi dello spavento suscitato. Nelle ragazze ferite nel corpo e nell’anima, che per mesi rifiutavano di uscire di casa, “perché là mi vogliono ammazzare”. Una è venuta a testimoniare in tribunale, sulle menomazioni irreversibili che ha subito e su come è cambiata la sua vita: “Tantissimo, è cambiata”.
C’è un’espressione usata, quando qualcuno muore oscuramente, si dice: “Non aveva nemici”. Quell’espressione riprende il suo significato. Non avevano nemici le ragazze della scuola brindisina. Non ne avevano le persone uscite di buon mattino nelle strade di Niguarda. Non le signore Margherita Peccati e Daniela Crispolti, impiegate della Regione a Perugia, al cui assassino non è bastato proclamarsi Dio e decidere di suicidarsi. Non i carabinieri in servizio a Montecitorio. I loro aggressori assassini li avevano i nemici, avevano saputo inventarseli,
e se no si erano accontentati dei primi esseri umani che capitassero loro a tiro — il loro “prossimo”, i più vicini, quelli che una provvidenza alla rovescia mettesse sulla loro strada. Questa condizione mostruosamente squilibrata turba ogni intelligenza. Quando, un minuto dopo l’esplosione di Brindisi, in troppi sostennero che fosse roba di mafia o terrorismo — e avevano le loro brave ragioni: la scuola delle ragazze è intitolata a Francesca Morvillo Falcone, la carovana antimafia stava per arrivare in città — erano mossi soprattutto da una speranza spaventata. La speranza è sempre quella che si tratti del “gesto di un pazzo isolato”. (Il pazzo isolato è una figura insieme arcaica e “americana”). Si può esorcizzarlo più facilmente, sentirsene più al riparo che non dalla minaccia della strage di mafia o terrorista. Tuttavia, in un angolo dei pensieri, la violenza della mafia o del terrore pretende di essere più spiegata, più prevedibile. Ha i suoi fini, i suoi bersagli, anche quando colpisce indiscriminatamente nel mucchio: la morte degli innocenti, degli estranei — la morte per caso — serve alla sua causa. Succede il contrario quando la decisione di uccidere non si cura dei suoi bersagli: omicidi volontari, spesso
premeditati — come a Brindisi — dalle vittime impreviste, offerte dal caso. A Niguarda, dopo il troppo tempo trascorso senza alcun intervento, si è di nuovo evocato l’impiego dell’esercito a presidio degli “obiettivi sensibili”: ma occorre chiamare sensibili obiettivi come il giovane che a ogni alba distribuisce i giornali con suo padre, il pensionato che porta il cane ai giardini, le ragazze che vanno a scuola, i carabinieri nella piazza, le impiegate di un ufficio. In questo privato terrorismo asimmetrico, fra assassini volontari e vittime fortuite, ciascuno e dovunque diventa meritevole di una scorta: e dunque è la società intera e la sua socievolezza che deve reimparare a far da scorta a se stessa. (Altro affare è la consunzione dei normali servizi di polizia, la famosa polizia di quartiere, fra usi impropri e denari distolti, auto vecchie e ferme e straordinari non pagati dalla seconda settimana e concorsi bloccati).
Anche il perdono, in questa sgretolata guerra asimmetrica, sfugge ai suoi confini. Si può, chi voglia e ci riesca, perdonare ai propri nemici: ma occorrerebbe rassegnarsi a onorare come nemici i pazzi o i farabutti che hanno deciso di soddisfare su persone ignote e ignare la loro inimicizia universale. Le persone che perdono i loro cari in circostanze come queste hanno uno speciale dolore che non può darsi spiegazioni, che non rintraccia abbastanza né una, per deforme che sia, causa umana, né una sciagura, com’è l’ingiustizia della morte naturale dei giovani. Il monumento ai loro caduti non evoca guerre di stati e di bande criminali o guerriglie civili: non c’è milite ignoto a rappresentarli, perché non c’era milite, solo ragazze di sedici anni che preparavano la sfilata scolastica dei loro modelli, signori di una mattina milanese, signore di un ufficio umbro. “Mio padre e io — ha detto la figlia del brigadiere Giangrande, Martina — ci chiamavamo un esercito sgangherato: ora siamo un mezzo esercito, e pure tanto sgangherato”.
Nel febbraio dell’anno scorso un tribunale milanese ha dichiarato non punibile Oleg Fedchenko perché affetto da schizofrenia, e l’ha assegnato a un Ospedale psichiatrico giudiziario. Fedchenko era il giovane ucraino, pugile dilettante, che nell’agosto del 2010 era uscito dalla casa materna annunciando di voler uccidere la prima donna in cui si fosse imbattuto per strada. “La prima che incontro”. Lo fece: lei era Emlou Aresu, era filippina, aveva due figli, all’indomani sarebbe ripartita per le Filippine. Faceva i lavori nelle case, “andava sempre di fretta”, come raccontarono i conoscenti, e così di fretta arrivò in viale degli Abruzzi, all’appuntamento con quel venticinquenne che voleva vendicarsi di un amore deluso e di chissà quale altro delirio. Si apprese allora che i criminologi li chiamano “delitti casuali”, e li considerano i più difficili da prevenire e impedire. Pensai allora che non è casuale esser donna, e filippina per giunta. Forse quel-l’aggettivo, casuale, verrà lasciato cadere per tutti. Forse, retorica a parte, prenderemo tutti congedo da quell’altra espressione così usata: “Non c’entravano niente”. C’entriamo, scriveremo sul monumento a questi caduti.

La Repubblica 17.05.13

Testo dell'Interrogazione di Manuela Ghizzoni sulla richiesta avanzata dalla società Exploenergy per individuare la presenza di «shale gas» nel sottosuolo del «cratere » sismico modenese

Al Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, al Ministro dello sviluppo economico. — Per sapere – premesso che:
   da recenti cronache locali e nazionali è emerso che la società milanese Exploenergy s.r.l ha presentato una domanda al Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare) per individuare nel sottosuolo compreso tra i comuni di Finale Emilia, Medolla, Mirandola, Camposanto, Ravarino, Bomporto e San Felice sul Panaro, in pieno «cratere» sismico, la presenza di «shale gas» o gas da argille non convenzionali;
   lo shale gas è un gas naturale ricavato da giacimenti non convenzionali di rocce sedimentarie, perlopiù argille parzialmente diagenizzate, che si sono formati in aree coperte da acqua superficiale, gas estraibile attraverso perforazioni orizzontali e fatturazioni idrauliche, quindi, interventi di fracking che però destano preoccupazione e paura in una terra già terremotata;
   nello stesso territorio e precisamente nel comune di San Felice nella frazione di Rivara, è ancora in attesa di un definitivo diniego da parte dei Ministeri competenti l’autorizzazione presentata da Erg e Independent Resources per la realizzazione di uno stoccaggio gas in acquifero, questione sulla quale l’interrogante ha già presentato in data 26 marzo 2013 un atto di sindacato ispettivo n. 5-00057 a tutt’oggi in attesa di risposta;
   l’area del sottosuolo individuata come possibile area di ricerca per ottenere il «permesso di ricerca in terraferma» è un’area di 656 chilometri quadrati tra le province di Modena, Ferrara e Bologna, una zona ad alto rischio sismico, colpita solo 11 mesi fa da un terremoto di magnitudo 5.9 che ha provocato 28 vittime, 350 feriti e 16 mila sfollati;
   la domanda per la concessione della succitata autorizzazione è stata presentata il 14 marzo 2012 ed il 30 aprile 2012 è stata pubblicata sul Buig (bollettino ufficiale degli idrocarburi e georisorse);
   sulla base del parere favorevole del CIRM (commissione per gli idrocarburi), nel febbraio 2013 il Ministero dell’ambiente ha autorizzato la società proponente Exploenergy S.r.l, a inviare copia della documentazione ai comuni interessati, con conseguente richiesta di emanazione degli atti di competenza delle stesse amministrazioni, e l’istanza in oggetto risulterebbe a tutt’oggi al vaglio della commissione nazionale valutazione impatto ambientale (Via) per il parere di competenza –:
   se corrisponda al vero quanto descritto sullo stato dell’istanza presentata dalla società Exploenergy s.r.l.;
   quali misure di precauzione si intendano adottare rispetto all’uso di una tecnologia così invasiva e devastante in un territorio reso già fragile dall’alto rischio sismico;
   in considerazione del forte impatto che l’applicazione di tale tecnologia comporta sul territorio e degli inevitabili effetti che su esso provoca, se non si ritenga opportuno e necessario rendere partecipi nelle diverse fasi di valutazione del progetto in questione le amministrazioni comunali, provinciali e regionali coinvolte, nonché i cittadini riuniti in comitati organizzati;
   come si intendano collocare la valutazione di tali istanze, singole e isolate, all’interno di una strategia energetica nazionale che per le implicazioni che comporta, non può prescindere da un confronto ampio e partecipato con il territorio, le imprese, i cittadini

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Ghizzoni e Vaccari “Fiscalità di vantaggio per le microimprese”

Ghizzoni e Vaccari “Fiscalità di vantaggio per le microimprese”. I parlamentari modenesi Pd depositano venerdì 17 maggio uno specifico emendamento. I parlamentari modenesi del Pd Manuela Ghizzoni e Stefano Vaccari hanno messo a punto uno specifico emendamento che prevede misure di fiscalità di vantaggio per le
microimprese e i lavoratori autonomi la cui attività è stata danneggiata dal sisma del maggio scorso. Si tratta di un provvedimento già in vigore per le piccolissime imprese della zona de L’Aquila e che i parlamentari modenesi ritengono sia giusto applicare anche nelle nostre zone colpite dal sisma.
Tecnicamente si chiamano “aiuti de minimis per le microimprese”. L’attuale legislazione li prevede già per le piccolissime imprese che operano nei territori colpiti dal sisma de L’Aquila. Ora i parlamentari modenesi del Pd Manuela Ghizzoni e Stefano Vaccari chiedono che le stesse agevolazioni vengano applicate anche per le microimprese e per i lavoratori autonomi che operano nei Comuni più colpiti dal sisma del 20 e 29 maggio 2012. I parlamentari Ghizzoni e Vaccari hanno predisposto uno specifico emendamento che dovrà essere discusso in sede di conversione in legge del decreto 26 aprile 2013 n.43, quello che ha introdotto la proroga dello stato di emergenza per le zone terremotate. Le agevolazioni in questione non potranno superare l’importo di 200mila euro nell’arco del triennio 2013-2015, ma prevedono comunque una serie importante di esenzioni. Le piccolissime imprese e i lavoratori autonomi, in sostanza, saranno esentati dalle imposte sui redditi fino a 100mila euro, dall’imposta regionale sulle attività produttive, dall’Imu sugli immobili utilizzati per l’esercizio dell’attività economica, dalla Tares e dal versamento dei contributi sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti a tempo indeterminato o a tempo determinato che abbiano un contratto della durata di almeno un anno. Sarà il Governo, con un apposito decreto da emanare entro 30 giorni dalla approvazione del provvedimento, a individuare i Comuni su cui insistono le imprese e i professionisti che beneficeranno della fiscalità agevolata: per farlo dovrà valutare quelli che hanno subito i maggiori danni dai sismi del maggio 2012.
“Con queste modalità – spiegano i parlamentari Ghizzoni e Vaccari – si vuole venire in aiuto alle piccolissime imprese la cui attività è stata danneggiata in seguito al terremoto. La validità del supporto è stata sperimentata a L’Aquila. Noi chiediamo che anche le nostre imprese e i lavoratori autonomi possano avere accesso al medesimo trattamento. Si tratta di misure che abbiamo concordato con gli enti locali del nostro territorio e con le associazioni di categoria. – concludono Ghizzoni e Vaccari – Su questo punto c’è una precisa coincidenza di vedute con la Regione. Ci aspettiamo che vengano approvate con sollecitudine. Noi lavoreremo e ci impegneremo anche su questo specifico fronte”.

"Il ricatto sul governo", di Claudio Sardo

L’Italia sta precipitando nel burrone della crisi economica e sociale. L’Istat ha appena certificato il Pil negativo per il settimo trimestre consecutivo: non era mai accaduto nel dopoguerra. E Berlusconi cosa fa? Èimpegnato nella guerra contro i giudici, tenta ancora a difendersi dai processi anziché nei processi, vuole condizionare, interdire, minacciare. Tutta l’Europa soffre, il nostro Paese però paga il prezzo più salato. Il governo Letta è nato per reagire, per rispondere allo stato di necessità, per evitare che i sacrifici compiuti durante la stagione dei «tecnici» siano sprecati. Due le priorità: il lavoro e le riforme. L’Italia ha bisogno di politiche non convenzionali per rimettere in moto lo sviluppo, e dunque l’occupazione. Anche la parola «priorità» non basta a descrivere l’emergenza: o il lavoro diventerà la vera «ossessione» di chi governa, oppure rischiamo il collasso della nostra civiltà. E per sostenere quest’impresa, è necessario finalmente chiudere il capitolo della seconda Repubblica, riconsegnando ai cittadini una democrazia funzionante, in cui gli elettori tornino a scegliere gli eletti e i governi tornino a decidere le cose che contano.
Viviamo un passaggio drammatico. Eppure il conflitto berlusconiano con la giustizia ricade sul Paese come una condanna, come una disgrazia. La giustizia va riformata, eccome. L’equilibrio tra i poteri va ritrovato, assolutamente. Ma Berlusconi non vuole che la giustizia funzioni. Vuole usare il potere residuo – che non è poco (anche grazie all’aiuto di Grillo, che ha preferito puntare sul Cavaliere anziché sul «modello Sicilia») – per costruirsi uno spazio di immunità.
Certo, senza il Pdl il governo Letta non sarebbe nato. Tuttavia, le minacce politiche così come gli strappi istituzionali sono inaccettabili. Il governo Letta non può deragliare dai suoi binari: il lavoro e le riforme. E non può derogare al principio di legalità, ieri ribadito dal voto del Csm. Non sarà una partita facile. Ma, a questo punto, la partita decisiva passa anche dal destino del governo. Dai suoi risultati dipenderà lo sviluppo della democrazia italiana, non solo la data delle prossime elezioni. Come Berlusconi, anche il Pdl è a un bivio: resterà un partito personale nelle mani del suo «proprietario», oppure ce la farà a diventare una forza di centrodestra di stampo europeo, capace dunque di andare oltre Berlusconi?
Altro che pacificazione. La sfida sarà durissima per tutti i contraenti del patto di governo. La minaccia di Berlusconi verso le istituzioni è in fondo l’altra faccia di quell’ipoteca politica che ha bloccato la transizione italiana. Per il Pd e per Enrico Letta i rischi sono molto alti. Eppure non era possibile sottrarsi alla responsabilità di affrontare, oggi, le emergenze sociali. Come poteva il Pd disinteressarsi del Paese reale e dei suoi drammatici bisogni, mentre il Pil continua a crollare e il sistema politica è prossimo al collasso? Come poteva agire per il tanto peggio, tanto meglio? La sconfitta ha provocato uno shock e una domanda ancora più grande di rinnovamento nel suo popolo: ma la ri-progettazione del Pd passa per l’Italia che soffre, per i problemi concreti, per l’avvio di politiche del lavoro, per le riforme istituzionali. Sì, anche per le riforme istituzionali che suscitano ormai solo scetticismo a causa dei ripetuti fallimenti, e che invece sono indispensabili per liberarci da questa insopportabile seconda Repubblica.
Lavorare per l’Italia. Ricostruire il Pd e i canali interrotti di una democrazia compiuta. Tenere la schiena dritta. Si assuma pure Berlusconi la responsabilità di una rottura, se è questo che vuole. Si assuma Grillo la responsabilità di giocare con il Cavaliere, se il suo proposito è solo quello di sostituire la sinistra. La sinistra delle riforme deve rilanciare la sua sfida senza paura. E senza distaccarsi dagli interessi popolari.

L’Unità 16.05.13

"I no che noi donne dobbiamo dire", di Laura Boldrini

Ci sono almeno due concetti che potrebbero essere evitati nelle cronache ormai quotidiane sulla violenza contro le donne.
Il primo è il concetto di “emergenza”. C’è infatti uno strano automatismo nel nostro Paese. Secondo il quale se episodi analoghi e gravi si ripetono con una certa frequenza vuol dire che si deve rispondere con una logica emergenziale. Ed invece nel bollettino quotidiano dell’orrore contro mogli, fidanzate o amanti c’è una violenza stratificata e con radici profonde. Più aumentano i casi, più si dovrebbe ragionare in termini di problema strutturale e quindi culturale.
Il secondo concetto è quello di ‘raptus’, riportato spesso nei titoli dei giornali. Quando però si va a leggere il pezzo si capisce che di improvviso non c’è stato proprio nulla. Ciò che è stato definito “raptus” era invece un gesto ampiamente annunciato. Penso ad uno degli ultimi casi: Rosaria Aprea, ventenne di Caserta, ridotta in fin di vita da un fidanzato geloso fino all’ossessione. Stordita dall’anestesia, ha avuto la forza di indicare il suo compagno come l’autore di quella violenza. Lo stesso che già due anni fa l’aveva mandata in ospedale, a furia di calci e pugni.
Ed è stata forse improvvisa, la morte di Maria Immacolata Rumi qualche settimana fa a Reggio Calabria? È arrivata in ospedale in fin di vita per le percosse subite. Il marito ha raccontato di averla trovata dolorante e “intronata” una volta tornato a casa. Ma gli stessi figli hanno dichiarato: “Nostro padre l’ha picchiata per tutta la vita, era geloso, non voleva che lavorasse”. Ecco perché parlare di morti improvvise appare addirittura grottesco. Sette donne su 10, prima di essere uccise, avevano denunciato una violenza o avevano chiamato il 118. E allora perché non sono state protette?
Dunque il più delle volte sarebbe meglio parlare di assassinii premeditati e di omissioni da parte di chi avrebbe potuto e dovuto tutelare le vittime.
Il comitato “Se non ora quando” di Reggio Calabria dopo l’omicidio di Maria Immacolata si è chiesto: tutto questo si sarebbe potuto evitare se fossero state rifinanziati case-rifugio o centri antiviolenza? Non potremo mai sapere se Maria Immacolata si sarebbe rivolta a queste strutture, ma di certo sappiamo che sono troppo poche in Italia. E che sono ancora meno quelle in grado di offrire ospitalità alle donne. Si parla di un posto ogni 10mila abitanti. Dunque non c’è più tempo da perdere: i soldi per rifinanziare i centri antiviolenza devono essere trovati.
Alcuni mi fanno notare che sarebbe utile introdurre un’aggravante per i casi di femminicidio. Altri, invece, sottolineano che non servono nuove norme, ma un’effettiva applicazione di quelle già esistenti. Se è così, allora bisogna capire dove e perché si inceppa il meccanismo dell’attuale legislazione. Si potrebbe dunque immaginare una sorta di monitoraggio dell’applicazione delle norme in materia di violenza alle donne. Monitoraggio che non rientra nelle mie competenze di presidente della Camera, ma che mi farò carico di sottoporre alla competente commissione Giustizia, presieduta dall’onorevole Donatella Ferranti, della quale conosco sensibilità e impegno su questo tema. Intanto può servire che l’Italia ratifichi la Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne: il 27 di maggio andrà in aula alla Camera come richiesto dalle deputate dei più vari gruppi politici.
C’è poi la questione della violenza via web. Ciò che mi sta a cuore è che si eviti l’equazione secondo cui, se le minacce, gli insulti sessisti, avvengono sulla rete, sono meno gravi. Non è così: la rete invece amplifica e pensare di minimizzare vuol dire non aver capito la portata del danno che dal web può derivare sulla vita reale delle donne. Questo non significa, lo ripeto, invocare un bavaglio. Semplicemente far sì che le norme già esistenti possano trovare effettiva applicazione anche per la rete. Oggi invece false identità o server collocati all’altro capo del mondo offrono un comodo riparo.
Infine, l’utilizzo del corpo della donna nella pubblicità e nella comunicazione. L’Italia è tappezzata di manifesti di donne discinte ed ammiccanti, che esibiscono le proprie fattezze per vendere un dentifricio, uno yogurt o un’automobile. In tv i modelli femminili che vengono proposti in prevalenza sono la casalinga e la donna-oggetto, possibilmente muta e semi-nuda. Da lì alla violenza il passo è breve. Se smetti di essere rappresentata come donna e vieni rappresentata esclusivamente come corpo- oggetto, il messaggio che passa è chiarissimo: di un oggetto si può fare ciò che si vuole. E invece è proprio a tutto questo che bisogna dire no.
Vorrei farlo usando le parole di una donna, una poetessa messicana, Susanna Chavez. Per anni si era battuta contro rapimenti, violenze e femminicidi nella sua città, Juarez. Un impegno che ha pagato con la vita, due anni fa è stata uccisa anche lei nello stesso modo delle vittime che aveva tentato di difendere. “Ni una mas”, era il suo slogan, “Non una di più”.
Questo è l’intervento del presidente della Camera, , al convegno che si terrà oggi a Roma, presso lo Spazio Europa, organizzato dall’Unione forense per i diritti umani e da Earth-Nlp.

La Repubblica 16.05.13

«Rendere più flessibile e aperto il percorso verso la pensione», di Massimo Franchi

«Dobbiamo correggere la riforma Fornero riportando nel sistema pensionistico elementi di flessibilità che consentano alle persone di scegliere quando lasciare il lavoro, permettendo ai giovani di sostituirli». Cesare Damiano, presidente della commissione Lavoro della Camera ha appena finito di presiedere la prima audizione del ministro Enrico Giovannini.

Damiano, la sua proposta di legge prevede che con 35 anni di contributi si possa scegliere di andare in pensione dai 62 ai 70 anni, con un sistema bonus malus. Ce la illustra?

«La riforma Fornero è troppo rigida e draconiana. Noi proponiamo che le persone possano scegliere il momento più opportuno per andare in pensione: con 35 anni di contributi e un assegno che sia almeno una volta e mezzo l’importo della pensione sociale, chi deciderà di andarci a 62 anni avrà una piccola penalizzazione dell’8 per cento che scala fino a 66 anni, età per cui si annulla. Ma prevediamo anche, per chi se lo può permettere, la possibilità di rimanere al lavoro oltre i 66 anni con un premio a salire fino all’8 per cento per chi ci andrà a 70 anni».

In più riappare anche una parola cancellata dalla riforma Fornero: lavori usuranti…
«Sì, prevediamo che chi ha fatto lavori usuranti, lista che fissammo ai tempi del governo Prodi, possa andare in pensione con 41 anni di contributi senza penalizzazioni anche se non ha 62 anni di età. Per esempio un saldatore che ha iniziato a lavorare a 16 anni, potrà andarci a 57 anni, senza aspettare i 62 e senza decurtazioni». È una proposta che ha bisogno di una copertura finanziaria? Crea scompensi nel bilancio dello Stato?

«Il sistema penalizzazioni-premi riduce al massimo il costo economico. Bisognerà fare dei conti, ma sottolineo come questa misura abbia un carattere strutturale e risolve molti problemi creati dalla riforma Fornero». Anche quello dei cosiddetti esodati? «È un grosso contributo a risolverlo perché riduce il salto creato da Fornero nell’innalzamento dell’età pensionabile che ha lasciato centinaia di migliaia di persone senza reddito. A questo proposito oggi la commissione incontrerà i comitati di tutte le categorie dei cosiddetti esodati per ascoltare le loro richieste e valutazioni».
Il ministro Giovannini martedì aveva già parlato di flessibilità. Pensa che il governo potrà fare propria la vostra proposta?

«Il ministro è a conoscenza di questa proposta che va comunque accompagnata al rifinanziamento del Fondo di salvaguardia per i cosiddetti esodati già creato nella scorsa legislatura che ha consentito a 130mila lavoratori di andare in pensione. Penso che la nostra proposta possa rientrare in quanto detto da Giovannini e Letta in fatto di flessibilità delle pensioni. Ora bisogna tramutare i principi in soluzioni tecniche e la nostra proposta va in questa direzione». Passiamo all’audizione di Giovannini. Come la giudica sulle altre voci: modifiche della riforma del lavoro, inclusione dei giovani, riduzione del cuneo fiscale?

«La giudico positivamente perché le sue risposte vanno nella giusta direzione di rendere le questioni sociali al centro dell’azione del governo. I principi sono giusti, ora abbiamo bisogno di approfondimenti. Diciamo che siamo ancora in una fase interlocutoria, da giugno ci aspettiamo che il governo e Giovannini traducano i principi in provvedimenti concreti». Domani arriverà il decreto sulla Cig in deroga. Il ministro ha parlato di probabile «misura tampone». Basterà?

«È noto a tutti che per il finanziamento dell’anno 2013 della cassa integrazione in deroga servono almeno 1,5 miliardi. Se il decreto stanzierà un miliardo sarà un passo avanti, a condizione che si provveda ad un monitoraggio continuo, ma si correrà il rischio di dover ripetere altri interventi nel corso dell’anno».

La Cgil chiede che le risorse siano trovate al di fuori di quelle stanziate per il lavoro. È d’accordo?
«È preferibile che si tratti di risorse fresche, ma toccherà al governo trovare le giuste soluzioni».

Dal suo osservatorio parlamentare come giudica le prime settimane dell’esecutivo?
«Il percorso è accidentato, ma non c’è alternativa se non quella di fare in modo che il governo produca quegli interventi di carattere sociale di cui il Paese ha urgente bisogno a partire dall’emergenza lavoro. Detto questo, un’altra necessità è quella di modificare la legge elettorale per poter tornare alle urne con un sistema che ridia la possibilità agli elettori di scegliere i propri candidati e di evitare i problemi di governabilità che ci hanno obbligato a questa strana maggioranza. Fatto questo si potrà anche tornare alle elezioni».

Sì, ma quanto durerà il governo Letta?

«I tempi non vanno decisi a priori, verranno determinati dal completarsi dell’azione programmatica individuata da Enrico Letta. Di certo va separata la questione giudiziaria di Silvio Berlusconi da quella del governo. Più riusciremo ad orientare l’azione dell’esecutivo sui temi sociali e del lavoro e più ne trarrà giovamento anche il Pd».

l’Unità 16.05.13