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"Non scherzate sui pensionati", di Carla Cantone

Tognoli Calvi Maria. Un nome sicuramente sconosciuto ai più ma che in queste ore mi è tornato più volte alla mente. Maria è stata una lavoratrice bracciante e una staffetta Ha lottato da giovane per la libertà e l’emancipazione, quando era già anziana per i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici, per l’uguaglianza e per la democrazia. Era una pensionata che votava comunista, ed era colta anche se aveva solo la terza elementare. Maria era mia nonna. Di donne e uomini così nello Spi, in Cgil e nella società ce ne sono per fortuna sempre tantissimi. Per cui pretendo rispetto per tutti i pensionati e gli anziani di ieri e di oggi. Oppure qualcuno pensa che gli anziani da rispettare siano solo quelli che in politica, nella società, nelle arti e nei mestieri, in televisione e nel mondo della cultura hanno avuto e hanno un ruolo importante e di potere? Chi la pensa così si dovrebbe vergognare. Dico queste cose perché in questi giorni sento commenti sui pensionati e sullo Spi ingrati, stupidi, smemorati e anche un po’ «razzisti». Lo Spi è un grande sindacato che raccoglie gli uomini e le donne che hanno combattuto le storiche battaglie per la democrazia e per i diritti, quelli che sono stati in prima linea per contrastare il fascismo, la mafia e il terrorismo, quelli che hanno costruito la Cgil, conquistato lo statuto dei lavoratori e un welfare universalistico. Lo Spi, un sindacato di lotta e di memoria, è fatto di questa gente qui e rappresenta quasi tre milioni di persone che continuano a militare nella Cgil. Persone che hanno lavorato per una vita e che oggi per lo più prendono una pensione non certamente da ricchi, che devono fare i conti con uno Stato sociale fatto a pezzi a cui si aggiunge il dramma della disoccupazione o della precarietà di figli e nipoti. Gli anziani e i pensionati non sono egoisti ma hanno a cuore il futuro di questo Paese. Eppure c’è chi li vorrebbe relegare ai margini della vita pubblica e chi si infastidisce perfino perché votano una determinata forza politica o perché si iscrivono al sindacato. Nessuno si interroga mai del perché ciò avviene, del perché il centrosinistra non raccoglie uguali consensi tra i giovani e i lavoratori e di quanto pesano licenziamenti, crisi e precarietà nella militanza sindacale. Per molti il problema è che il 37% dei voti ottenuti dalla coalizione di centrosinistra provenga da persone con più di 60 anni e che la Cgil rappresenta prevalentemente i pensionati. Il peso degli anziani in politica, nella società o all’interno di un’organizzazione sindacale viene quindi visto come un’onta, qualcosa di cui vergognarsi, una sorta di peccato originale da rimuovere con tutti i mezzi possibili. Stiamo rincorrendo il tema del cambiamento – che è sacrosanto e nel quale credo profondamente – finendo però per mettere tutti nel tritacarne in nome del motto «il nuovo per il nuovo purché sia nuovo». Non ci si rende conto però che in questo modo nessuno andrà mai bene, che ci sarà sempre qualcuno più giovane o, semplicemente, meno vecchio. Non ci si rende conto che rinnovamento e cambiamento non possono essere ricondotti solo a una questione anagrafica e che non è di un insulso conflitto generazionale ciò di cui il Paese ha bisogno. Lo Spi fra le sue priorità ha il continuo rapporto con i giovani, perché pensa davvero e si batterà nella promozione di una nuova generazione in grado di costruire un modello di società alternativo al berlusconismo dell’ultimo ventennio. Una generazione che riconsegni alla politica quell’interesse e quella passione che gli anziani di oggi hanno avuto la possibilità di conoscere nel secolo scorso. Non sono quindi i pensionati che intralciano il cambiamento, ma chi non è disponibile a lasciare il passo avendolo detenuto per troppo tempo in ogni campo. Anche in questo non si tratta di età, non c’è differenza fra 50, 60 o 70 anni ma si tratta di capire quando occorre fermarsi e accontentarsi di ciò che si è dato e di ciò che si è avuto. Qui sta l’egoismo, siano essi pensionati o ancora attivi. E allora sono i giovani e i diversamente giovani che devono allearsi nel pretendere il rinnovamento. La vita si sta allungando, gli anziani stanno aumentando e vogliono continuare ad impegnarsi per un Paese che sia migliore per tutti. Dobbiamo essere orgogliosi di avere tanti pensionati che non rinunciano al voto nel pieno rispetto della Costituzione e che non fanno il tifo per l’antipolitica, che non fanno di tutte le erbe un fascio e che proprio per questo chiedono il cambiamento profondo dei partiti e della politica. D’altra parte gli ultra 60enni sono un terzo della popolazione del nostro Paese e per fortuna esistono e camminano nel sentiero della vita insieme agli adulti e ai giovani. Tutti siamo importanti, ad ogni età, sapendo che, come sosteneva mia nonna che lavorava nei campi, ogni stagione dà i suoi frutti, in primavera, in estate, in autunno ed ovviamente anche in inverno. È questo il senso concreto di una forte alleanza fra giovani ed anziani per conquistare il cambiamento. Il cambiamento va aiutato promuovendo la partecipazione dal basso e non il rovescio, per cui occorre rafforzare e non depotenziare ogni regola che definisce democrazia e partecipazione.

L’Unità 16.05.13

"In terza media è il ceto a decidere che superiori farai", di Silvia Favasuli

In Italia il grado di istruzione dei genitori pesa ancora sulle scelte dei figli. Stella (tutti i nomi sono di fantasia ndr) ha 14 anni e siede a un banco della Scuola media Ardadia del Gratosoglio, estrema periferia Sud di Milano. «L’anno prossimo andrò al Liceo Scientifico. Mi piacciono matematica e scienza e da grande voglio lavorare come guardia parco, oppure veterinaria». La professoressa di Lettere Rosa Donatacci, che ha coordinato le attività di orientamento della scuola, spiega invece che il consiglio orientativo per Stella, mamma baby sitter a ore e papà impiegato con la licenza media, era diverso. «Noi insegnanti e la mamma di Stella avremmo preferito piuttosto un liceo delle scienze umane all’Agnesi. Stella è brava ma è anche molto empatica, e quella è la stessa scuola frequentata da sua madre».

Nella classe della scuola media del Gratosoglio, su 16 ragazzi presenti, quasi tutti figli di operai, artigiani, casalinghe e commercianti, solo cinque frequenteranno l’anno prossimo lo scientifico, nessuno il classico, tre il linguistico, altri tre un istituto tecnico e cinque una scuola di formazione professionale (Cfp). Luca, figlio di due ingegneri, andrà allo scientifico. Romina, papà idraulico, mamma al lavoro in una mensa, farà il Cfp.

Piazza Ascoli, non troppo distante da Porta Venezia, Milano. Al terzo piano della Scuola Tiepolo, tra i banchi di una delle terze c’è anche Carlo. Ha la stessa età di Stella, ma genitori entrambi architetti con uno studio in proprio. «Carlo», racconta la professoressa di Lettere Silveria Schiavo, «non studia molto, spesso non fa i compiti o dimentica il materiale. Per questo, di fronte alla preferenza dei genitori per un liceo classico, abbiamo piuttosto consigliato un liceo delle scienze umane». E invece, l’anno prossimo Carlo andrà al Parini, lo storico liceo classico milanese. «I miei genitori mi dicono che pone le basi, apre molte strade, dà più sbocchi professionali. Quando loro devono scegliere i tirocinanti preferiscono quelli che hanno fatto il classico o lo scientifico perché hanno più preparazione».

Su 28 ragazzi in aula, quasi tutti figli di professionisti, insegnanti universitari e dirigenti,23 si divideranno tra classico e scientifico, due hanno scelto il linguistico, solo tre faranno un istituto tecnico, uno il professionale. Caterina ad esempio farà ragioneria. «I suoi genitori hanno una grossa pasticceria, e potrà dare una mano nell’amministrativo», spiega l’insegnante.

A 14 anni i giovani italiani di domani si preparano ad entrare nel terzo ciclo di istruzione scolastica. Finite elementari e medie, devono decidere a quale ciclo di scuola superiore iscriversi. Ed è in questo primo snodo che l’Italia misura la sua capacità di offrire pari opportunità educative agli studenti e fare della scuola un luogo in cui appianare le disparità sociali.

Ma basta entrare in una qualsiasi terza media del centro o una della periferia milanese per accorgersi che ancora oggi, nella maggior parte dei casi, «il destino scolastico futuro degli alunni viene progressivamente segnato dalle origini sociali, delle quali non portano alcuna responsabilità». È il commento del professor Daniele Checchi, Docente di Economia politica dell’Università degli studi di Milano a margine di una delle numerose ricerche dedicate al tema, con cui ha mostrato, tra le altre cose, che gli insegnanti sono i primi a farsi influenzare dalla classe sociale di appartenenza del ragazzo nei consigli orientativi. Il tutto in un sistema di istruzione secondaria diviso per indirizzi ben distinti tra loro e dove la scelta della “filiera”, come la definisce Checchi, (generalista, accademica e professionale) avviene tra i 13 e i 14 anni, «un’età in cui l’influenza dei genitori è ancora forte».

Nel 2008 ha studiato un campione di studenti lombardi di terza media. E ha analizzato l’influenza di tre fattori sulla scelta della scuola superiore: background familiare, competenze e voti, contesto sociale. Lo ha fatto in tutte e tre le fasi della scelta: il momento dell’orientamento scolastico, la preiscrizione (ora non c’è più) e l’iscrizione definitiva. Si è accorto, ad esempio, che già nella fase di orientamento, «gli insegnanti nel formulare i loro consigli non si limitano ad una valutazione delle risultanze scolastiche oggettive dei ragazzi (come risulterebbe dai voti e dai test attitudinali), ma tengono anche conto della famiglia di provenienza». Cioè, sono gli stessi insegnanti ad essere per primi sensibili «alle pressioni direttamente o indirettamente provenienti dall’ambiente circostante». Del fenomeno, Checci propone due letture. Una positiva, che vede gli insegnanti «preoccupati che le famiglie non riescono fornire il supporto economico necessario a intraprendere carriere più lunghe e rischiose», l’altra, negativa, è che gli insegnanti assecondano troppo le aspirazioni dei genitori.

http://m.linkiesta.it/come-scegliere-la-scuola-superiore

"L'Italia nella morsa della recessione PIL – 1,5% nel 2013", di Luigi Grassia

L’Europa ha cominciato il 2013 in recessione, lo confermano i dati ufficiali dell’Eurostat. A prima vista il calo del prodotto interno lordo non è traumatico: dopo il -0,6% dell’ultimo trimestre 2012 arriva il -0,2% del periodo gennaio-marzo. Quindi la recessione si fa meno pesante, a quanto sembra. Però il -0,2% è un regresso doppio di quello che si aspettavano gli analisti, e anche il -0,5% dell’Italia è più forte del previsto. Per il nostro Paese è il settimo calo trimestrale consecutivo e l’Istat calcola che la variazione acquisita per l’intero 2013 sia pari a un -1,5%. Inoltre c’è da registrare che entra ufficialmente in recessione un’economia grande come quella della Francia, finora immune, e persino la Germania di salva per il rotto della cuffia: la crescita trimestrale del suo Pil è appena dello 0,1% come dire che la ormai ex locomotiva tedesca non è più in grado di svolgere il tradizionale compito di traino della crescita degli altri Paesi.

Il dato del Pil tedesco era atteso +0,3% ma si tenga presente che nell’ultimo trimestre del 2012 c’era stato un calo dello 0,7%. Il +0,1% serve comunque ai tedeschi a evitare il timbro ufficiale della recessione, che richiede due trimestri consecutivi in rosso.

Sull prestazione complessiva europea ha pesato molto l’andamento dei Pil di Italia e Spagna, tutti e due in calo dello 0,5% nel trimestre. È in recessione anche l’Olanda (-0,1% dopo -0,4% del quarto trimestre 2012). Segno meno pure per la virtuosa Finlandia (-0,1% dopo -0,6%). Per Cipro si è allungata la serie negativa con -1,3% e per il Portogallo con un -0,3%. A sollevare più scalpore è il -0,2% della Francia, dopo il -0,2% del trimestre precedente. «La situazione economica è grave, non si può minimizzare», ammette il presidente Hollande, sottolineando comunque che questa fase recessiva è meno grave della precedente. Inoltre Hollande richiama alle sue responsabilità l’Europa intera, che al momento funziona in modo tale da non produrre sviluppo ma recessione.

Tutte le variazioni citate riguardano il confronto da un trimestre all’altro. I numeri sono più pesanti se si fa il confronto fra il primo trimestre del 2013 e lo stesso periodo del 2012: il calo del Pil dei diciassette Paesi dell’Eurozona passa allora dal -0,2% al -1% tondo. Considerando non solo i 17 Paesi dell’euro ma tutti e 27 i Paesi dell’Ue i numeri cambiano di qualche decimale, ma la tendenza rimane la stessa: nel periodo gennaio-marzo di quest’anno il Pil scende dello 0,1% rispetto al trimestre precedente e dello 0,7% nei confronti del primo trimestre 2012.

Ieri a Bruxelles il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi ha commentato così i dati del Pil: «Il declino dell’Italia non è affatto inarrestabile. Sono ottimista da italiano e da imprenditore, dobbiamo mettercela tutta». Ma la Coldiretti segnala che per colpa della recessione in Italia nel primo trimestre c’erano 450 mila disoccupati più dell’avvio del 2012: i senzalavoro sono saliti a 2,95 milioni, di cui 1,59 milioni uomini e 1,36 milioni donne. La crescita è stata del 18%.

La Stampa 16.05.13

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“LA CRISI AUMENTA LA DISUGUAGLIANZA REDDITO DEI PIÙ POVERI GIÙ DEL 20%”, di Maurizio Ricci

Nella crisi più grave dal dopoguerra, anche i ricchi piangono. Ma, francamente, lacrimucce. Il disastro sociale – un disastro di cui solo ora cominciamo a intravedere le devastanti proporzioni – è altrove. Gli italiani stanno, infatti, pagando la crisi a seconda del portafoglio: di più, quanto più è piccolo. Uno tende a dimenticarselo, davanti alle statistiche: ma i consumi che si riducono (in media) del 4,5 per cento, il reddito che scende (in media) dell’1 per cento significano cose completamente diverse nei quartieri alti e in borgata. Non solo perché nei quartieri alti ci sono più riserve e c’è più superfluo da tagliare. Ma perché l’impatto è, effettivamente, minore. Ce lo ricorda l’Ocse, l’organizzazione che raccoglie i Paesi industriali. Fra il 2007 e il 2010, il reddito disponibile dei 5 milioni di italiani che costituiscono il 10 per cento più ricco del Paese, si è ridotto dell’1 per cento l’anno. Ma per i 5 milioni di italiani del 10 per cento più povero del Paese, dove la carne viva del bilancio familiare è già esposta, il reddito si è ridotto del 6 per cento.
Sono riduzioni anno per anno, non cumulate. Questo significa che, nelle famiglie ricche, in quei tre anni, il reddito si è ridotto del 3 per cento, sicuramente una sgradita e inedita sorpresa: invece di 5000 euro al mese, per dire, 4.850. Ma per i più poveri, il taglio complessivo, nello stesso periodo, sfiora il 20 per cento: 800 euro al mese,
per esempio, dove, prima, ne entravano mille. Sono cifre che tengono conto sia delle tasse pagate, che di eventuali sussidi ricevuti. In altre parole, non c’è nessun intervento salvifico successivo di protezione sociale, tranne forse quello della Caritas. Non basta. Della tragedia, per ora, vi stiamo raccontando solo l’avvio. I dati dell’Ocse si fermano, infatti, al 2010, prima cio è che la crisi italiana si incattivisse davvero in recessione. Ma, già allora, era possibile vedere che il diverso peso della crisi sta allargando ulteriormente il golfo che divarica la società italiana. Nel 2007, il 10 per cento più ricco guadagnava 8,7 volte di più del 10 per cento più povero. Solo tre anni dopo, questo rapporto è passato a 10,2 volte, sopra la media dei Paesi Ocse.
Fra i Paesi industrializzati, solo in Spagna la crisi è stata socialmente più matrigna: i ricchi hanno perso, come da noi, fino al 2010, l’1 per cento del reddito annuo. Ma i poveri il 14 per cento: fra il 2007 e il 2010 lo hanno visto quasi dimezzarsi. C’è meno distanza, davanti alla crisi, in Grecia e in Irlanda. Ma sono i Paesi forti, quelli del Nord Europa a fornire un messaggio completamente diverso. Conta la miglior salute economica, ma, probabilmente, anche un sistema sociale più efficiente. Il risultato, comunque, è che, in Germania, in Finlandia, in Olanda, negli stessi tre anni che hanno visto sprofondare i poveri italiani e spagnoli, i ricchi, in proporzione, se la sono passata peggio dei meno ricchi. In Olanda, il decimo più povero della popolazione ha visto scendere il reddito
dell’1 per cento, ma il decimo più ricco del 2 per cento. In Germania e in Finlandia sono andati tutti avanti, ma i poveri di più.
Per una delle ironie amare della statistica, il brutale collasso dei bilanci delle famiglie più povere non si riflette nelle normali tabelle della povertà. Quando tutti i redditi scendono, anche se a velocità diversa, i parametri su cui si misura la povertà si ingarbugliano. Per questo, l’Ocse ha provato a ricalcolarli, prendendo come riferimento la situazione nel 2005. Se si tiene conto della situazione precrisi, dunque, il tasso di povertà è aumentato in Italia di oltre due punti percentuali, che sembra poco, ma non lo è. Vuol dire che, dove prima c’erano cinque poveri adesso ce ne sono sei. Soprattutto, l’aumento è stato rapidissimo, nell’arco di soli tre anni. Chi sono questi poveri? Qui, i dati dell’Ocse non presentano sorprese. Sappiamo da tempo che lo stereotipo della vecchina in miseria è superato. I poveri, oggi, bisogna cercarli negli asili e fuori dalle superiori. Fra il 2008 e il 2010, un italiano ancora minorenne ha visto il reddito medio che, teoricamente, gli compete, ridursi di oltre 600 euro l’anno. Per un giovane diciottenne, la riduzione del reddito disponibile è, in media di 300 euro. Quali sono le categorie forti? Gli adulti sotto i 50 anni che, più o meno hanno tenuto. E i pensionati che, in media, hanno accresciuto i guadagni

Il Corriere della Sera 16.05.13

"La crisi aumenta la disuguaglianza reddito dei più poveri giù del 20% ", di Maurizio Ricci

Nella crisi più grave dal dopoguerra, anche i ricchi piangono. Ma, francamente, lacrimucce. Il disastro sociale – un disastro di cui solo ora cominciamo a intravedere le devastanti proporzioni – è altrove. Gli italiani stanno, infatti, pagando la crisi a seconda del portafoglio: di più, quanto più è piccolo. Uno tende a dimenticarselo, davanti alle statistiche: ma i consumi che si riducono (in media) del 4,5 per cento, il reddito che scende (in media) dell’1 per cento significano cose completamente diverse nei quartieri alti e in borgata. Non solo perché nei quartieri alti ci sono più riserve e c’è più superfluo da tagliare. Ma perché l’impatto è, effettivamente, minore. Ce lo ricorda l’Ocse, l’organizzazione che raccoglie i Paesi industriali. Fra il 2007 e il 2010, il reddito disponibile dei 5 milioni di italiani che costituiscono il 10 per cento più ricco del Paese, si è ridotto dell’1 per cento l’anno. Ma per i 5 milioni di italiani del 10 per cento più povero del Paese, dove la carne viva del bilancio familiare è già esposta, il reddito si è ridotto del 6 per cento.
Sono riduzioni anno per anno, non cumulate. Questo significa che, nelle famiglie ricche, in quei tre anni, il reddito si è ridotto del 3 per cento, sicuramente una sgradita e inedita sorpresa: invece di 5000 euro al mese, per dire, 4.850. Ma per i più poveri, il taglio complessivo, nello stesso periodo, sfiora il 20 per cento: 800 euro al mese, per esempio, dove, prima, ne entravano mille. Sono cifre che tengono conto sia delle tasse pagate, che di eventuali sussidi ricevuti. In altre parole, non c’è nessun intervento salvifico successivo di protezione sociale, tranne forse quello della Caritas. Non basta. Della tragedia, per ora, vi stiamo raccontando solo l’avvio. I dati dell’Ocse si fermano, infatti, al 2010, prima cioè che la crisi italiana si incattivisse davvero in recessione. Ma, già allora, era possibile vedere che il diverso peso della crisi sta allargando ulteriormente il golfo che divarica la società italiana. Nel 2007, il 10 per cento più ricco guadagnava 8,7 volte di più del 10 per cento più povero. Solo tre anni dopo, questo rapporto è passato a 10,2 volte, sopra la media dei Paesi Ocse.
Fra i Paesi industrializzati, solo in Spagna la crisi è stata socialmente più matrigna: i ricchi hanno perso, come da noi, fino al 2010, l’1 per cento del reddito annuo. Ma i poveri il 14 per cento: fra il 2007 e il 2010 lo hanno visto quasi dimezzarsi. C’è meno distanza, davanti alla crisi, in Grecia e in Irlanda. Ma sono i Paesi forti, quelli del Nord Europa a fornire un messaggio completamente diverso. Conta la miglior salute economica, ma, probabilmente, anche un sistema sociale più efficiente. Il risultato, comunque, è che, in Germania, in Finlandia, in Olanda, negli stessi tre anni che hanno visto sprofondare i poveri italiani e spagnoli, i ricchi, in proporzione, se la sono passata peggio dei meno ricchi. In Olanda, il decimo più povero della popolazione ha visto scendere il reddito
dell’1 per cento, ma il decimo più ricco del 2 per cento. In Germania e in Finlandia sono andati tutti avanti, ma i poveri di più.
Per una delle ironie amare della statistica, il brutale collasso dei bilanci delle famiglie più povere non si riflette nelle normali tabelle della povertà. Quando tutti i redditi scendono, anche se a velocità diversa, i parametri su cui si misura la povertà si ingarbugliano. Per questo, l’Ocse ha provato a ricalcolarli, prendendo come riferimento la situazione nel 2005. Se si tiene conto della situazione precrisi, dunque, il tasso di povertà è aumentato in Italia di oltre due punti percentuali, che sembra poco, ma non lo è. Vuol dire che, dove prima c’erano cinque poveri adesso ce ne sono sei. Soprattutto, l’aumento è stato rapidissimo, nell’arco di soli tre anni. Chi sono questi poveri? Qui, i dati dell’Ocse non presentano sorprese. Sappiamo da tempo che lo stereotipo della vecchina in miseria è superato. I poveri, oggi, bisogna cercarli negli asili e fuori dalle superiori. Fra il 2008 e il 2010, un italiano ancora minorenne ha visto il reddito medio che, teoricamente, gli compete, ridursi di oltre 600 euro l’anno. Per un giovane diciottenne, la riduzione del reddito disponibile è, in media di 300 euro. Quali sono le categorie forti? Gli adulti sotto i 50 anni che, più o meno hanno tenuto. E i pensionati che, in media, hanno accresciuto i guadagni.

La Repubblica 16.05.13

A un anno dalle prime scosse un bilancio della ricostruzione

A un anno dal terremoto, il presidente della Regione e commissario delegato alla ricostruzione, Vasco Errani, ha tracciato un bilancio della ricostruzione, nel corso di una conferenza stampa cui hanno partecipato numerosi assessori regionali e sindaci, presidenti di Provincia e tecnici. Risorse, prospettive, progressione degli interventi, sono i temi trattati. “Molto resta da fare – ha detto Errani – ma abbiamo scritto una pagina per molti versi inedita, grazie a un grande lavoro di comunità”.
Tutte le cifre, i programmi e le immagini di questi dodici mesi sono raccolti in un video e un aggiornato dossier scaricabile dal sito http://www.regione.emilia-romagna.it/a-un-anno-dal-terremoto

Un anno in cui c’è stata una reazione straordinaria, frutto di una cultura profonda, di un grande lavoro di comunità. Un anno in cui è stato creato un impianto solido e flessibile, definita su una pagina bianca una gestione delle emergenze per molti versi inedita. Un anno in cui molto è stato fatto senza nascondere i problemi ma sempre tenendo ferma unapriorità: le richieste dei cittadini e delle imprese terremotate sono dei diritti e come tali vanno rispettati. Ora si va avanti continuando non a porsi delle scadenze ma degli obiettivi di qualità, per uscire dal dramma del sisma più efficienti e rinnovati di prima.

E’ questo il bilancio “politico” del presidente della Regione Emilia-Romagna e commissario delegato alla ricostruzione,Vasco Errani, tracciato oggi nella sede di Bologna nel corso di una conferenza stampa cui hanno partecipato numerosi assessori regionali e sindaci, presidenti di Provincia e tecnici. Rappresentanti di quella squadra cui anche visivamente, in modo eloquente, Errani ha voluto attribuire l’esito di un lavoro partecipato, mai svolto accentrando le funzioni in maniera “tolemaica” intorno a un fulcro, ma anzi condividendo ogni decisione, sin dall’inizio dell’emergenza.

Intorno a quest’asse, il presidente ha coagulato, grazie al contributo dei suoi assessori, cifre e interventi, programmi e risorse, progetti e priorità che segneranno anche i futuri anni di questa ricostruzione emiliana.

Un bilancio che trova corrispettivo in una serie di iniziative a cura dell’Agenzia di informazione e stampa della Giunta regionale, che ha prodotto in collaborazione con la struttura commissariale un dossier riepilogativo di questi primi dodici mesi dalle scosse, documento consultabile e scaricabile dallo speciale sito web www.regione.emilia-romagna.it/a-un-anno-dal-terremoto. Tra qualche giorno sarà resa disponibile un’applicazione per visualizzare lo speciale sui tablet. Sullo stesso sito è visibile il documentario “L’Emilia adesso: 365 giorni dopo il sisma” e uncalendario dei numerosi appuntamenti di questo mese nelle aree colpite.

Particolarmente approfondito il capitolo dedicato dal presidente Errani alle risorse, con una stima complessiva dei fondi a disposizione che “arriverà sopra i 10 miliardi, cui si debbono aggiungere i 6 miliardi resi disponibili dalla Cassa depositi e prestiti senza interessi alla restituzione. Risorse che per case e imprese dovrebbero coprire il fabbisogno”. E comunque, Errani ha voluto specificare che “in ogni caso se le risorse non dovessero essere sufficienti cercheremo una copertura. Inoltre, secondo i nostri calcoli potrebbe mancare 1 miliardo per il completo finanziamento delle opere pubbliche, cifra che potrebbe essere necessaria nei prossimi anni e che ci proponiamo di mettere a punto nei primi mesi del 2014”. E se si arrivasse a questo obiettivo, ha aggiunto, “sarebbe la prima volta che in un sistema di finanziamento del genere il cerchio trova una piena quadratura”.
Ma Errani ha voluto puntualizzare anche che “dobbiamo ancora concludere una verifica sull’incidenza reale delle assicurazioni nel computo dei danni, perché vogliamo che ogni nostra richiesta sia trasparente e seria, commisurata alla reale necessità”.

L’assessore regionale Gian Carlo Muzzarelli ha posto l’accento sul fondamentale tema delle imprese e del lavoro, sottolineando insieme a Errani un dato eloquente che rappresenta una positiva novità: nell’area del cratere i lavoratori in cassa integrazione erano 41.335 dopo il sisma, mentre oggi sono scesi a 2.627. Cifre indicative di una progressione che viene registrata anche in altri settori di intervento, a partire dalledomande per gli edifici: il totale delle pratiche in corso è di 2.660, di cui ben 600 in pagamento, con contributi concessi per oltre 40 milioni di euro, quasi 11 in pagamento.

E ancora il campo sanitario e assistenziale, dove, ha ricordato l’assessore regionale Carlo Lusenti, di circa 1.800 persone divenute improvvisamente non autosufficienti solo 175, attualmente, non sono al proprio domicilio.

O come il settore agricolo e agroalimentare per cui, ha ricordato l’assessore Tiberio Rabboni, sono stati rilasciati i via libera ai pagamenti per 246 imprese, e altre 140 si aggiungeranno entro giugno. Sono stati inoltre ricordati i programmi per le scuole, priorità tra le priorità, e i 1515 interventi di opere provvisionali insieme alle 400 mila tonnellate di macerie rimosse.

“Il sisma – ha commentato Errani – ci ha in qualche modo costretti a fare nuovi poli scolastici e nuove integrazioni tra i diversi livelli, anticipando così ciò che sarebbe dovuto in ogni caso accadere a livello nazionale e regionale”.
“Così come – ha detto ancora il presidente – avremo alla fine centri storici più vivibili e un sistema delle imprese innovato, frutto anche di una ricostruzione fondata su alcune regole fondamentali: la certezza della verifica di un diritto al risarcimento, il contrasto alla criminalità organizzata con il tema delle white list. Per la prima volta si sta sperimentando insieme alle Prefetture un sistema di contrasto alle infiltrazioni criminali che richiede un lavoro finora mai realizzato. Tutto ciò purtroppo richiede dei tempi, ma credo siano ben spesi”.

“E tutto questo – dice Errani – lo abbiamo fatto anche grazie al volontariato, al dipartimento della Protezione civileguidata dal prefetto Gabrielli, alla collaborazione con i vigili del fuoco, le forze dell’ordine, agli artisti che hanno donato il proprio apporto, ai tanti cittadini che con piccole e grandi donazioni hanno espresso solidarietà cui noi rispondiamo con la trasparenza e l’efficienza, mettendo tutto in rete, non come accaduto in altre situazioni”.

Infine l’attualità: il presidente ha reso noti i termini dell’audizione avuta ieri davanti alle Commissioni di Camera e Senato, in cui ha esposto ai rappresentanti del Parlamento gli emendamenti (relativi a fisco, deroga al patto di stabilità e risarcimenti alle imprese) al Decreto 43 che sposta a fine 2014 lo stato di emergenza per le zone terremotate.

da www.regione.emilia-romagna.it

"Il nuovo proletariato", di Gad Lerner

È il muratore di Vittoria che si è dato fuoco ieri quando la sua casa è stata messa all’asta perché non era in grado di restituire diecimila euro alla banca. Prima di lui riconosciamo l’uomo indebitato in tanti altri protagonisti dei gesti disperati di cui sono piene le cronache recenti. Ma non basta. Interi popoli, ormai, fra i quali gli italiani, vivono soggiogati dal debito. Una condizione esistenziale che li colpevolizza – siete voi stessi i responsabili della vostra disgrazia! – e li sollecita a modificare le proprie abitudini di vita attraverso una disciplina imposta. Prima ancora del sopraggiungere dell’indigenza, è la dottrina economica del debito, divenuta senso comune, ad ammonirci quotidianamente: non lavoriamo abbastanza, consumiamo troppo, godiamo di tutele sociali che non dovremmo permetterci. Ma davvero l’uomo indebitato deve rassegnarsi a chinare il capo e a prendersela solo con se stesso? È come se la crisi di un’economia globale fondata sul debito infinito, che si riverbera come debito sovrano degli Stati, debito privato delle imprese e debito individuale delle famiglie rimaste senza risparmi, ci costringesse a modificare il nostro sguardo sulle classi sociali. Anche i marxisti devono rivedere i loro schemi: la classica relazione capitale/ lavoro soppiantata dalla relazione creditore/debitore? Se pure il creditore non assume le fattezze prossime della banca o di Equitalia, esso incombe come entità sovranazionale che si fa beffe delle frontiere e ci travolge insieme al flusso dei capitali finanziari. Velleitaria, e pericolosamente reazionaria, sarebbe la pretesa di frenarlo col ricorso a barriere protezionistiche. Di conseguenza anche l’uomo indebitato si trasforma in figura trasversale, oltrepassa le tradizionali barriere sociali: può essere disoccupato o artigiano, operaio o imprenditore, precario o impiegato pubblico. Ma sempre uomo indebitato. Maurizio Lazzarato, autore del saggio La fabbrica dell’uomo indebitato (Derive/Approdi), sostiene che la fabbrica dei debiti, ovvero la costruzione e lo sviluppo di un rapporto di potere tra creditori e debitori, è il cuore strategico delle politiche neoliberiste. In altre parole, sarebbe l’esito naturale del predominio della finanza sui nostri sistemi economici. Ciò spiega perché, nella tempesta della recessione, il salvataggio delle banche è stato considerato prioritario rispetto al soccorso delle popolazioni in difficoltà: secondo questo schema, i governi vengono chiamati dal “Creditore universale” a imporre nel suo interesse sempre più deroghe ai diritti sociali: i cittadini devono rassegnarsi alla loro condizione di debitori. Da qui a sognare la rivolta dell’uomo indebitato come prossima forma che assumerà la lotta di classe, il passo è breve, nelle intenzioni dei pensatori rivoluzionari. Ma la realtà mal si presta a simili slogan. Se è vero infatti che il debito incide profondamente nella soggettività di chi ne è afflitto, presentandosi a lui come limitazione insuperabile e condizione eterna, l’effetto immediato è la disperazione sociale. Depressione, vergogna, solitudine, rabbia. Istinto autodistruttivo – come nel caso di Giovanni Guarascio che ha trascinato con sé nel fuoco anche la moglie, la figlia e due agenti di polizia – oppure volontà di rivalsa quando subentra il bisogno di individuare gli artefici della propria disgrazia: di volta in volta i politici, gli esattori del fisco, i banchieri, i funzionari pubblici, gli immigrati. Il pericolo poi è che entri in azione qualche imprenditore politico della disperazione, abile nel riversare su un nemico interno o esterno la responsabilità del debito insolvibile. Per secoli l’antisemitismo si è nutrito di simili pulsioni, ma domani potrebbe toccare ad altri divenire vittime dell’odio di altre vittime. L’uomo indebitato si sente ripetere dai leader di paesi più “virtuosi”, e dai tecnocrati nostrani prestati alla politica, che potrà salvarsi solo “facendo i compiti a casa”. Ma intanto perde la casa, come dimostrano anche le cifre del crollo del mercato immobiliare. La società si divide fra chi è ancora in grado di usare una carta di credito, restando così associato al mondo della finanza, e chi invece quel credito nominale l’ha perduto. Insieme al disagio sociale, ne deriva una nuova psicologia del debito privato come condanna esistenziale. La filosofa Elettra Stimilli ( Il debito del vivente, Quodlibet) individua le radici culturali di tale condizione nella natura stessa del capitalismo. Cita Walter Benjamin che nel pieno della crisi della Repubblica di Weimar, travolta dai debiti di guerra, additava il capitalismo come la più estrema delle religioni: «Il capitalismo è il primo caso di un culto che non redime il peccato, ma genera colpa… Un’enorme coscienza della colpa, che non sa rimettere i propri debiti». È ben noto che in tedesco la parola schuld si adopera ugualmente per dire debito e per dire colpa. Poco importa processare a ritroso il ricorso capitalistico all’economia del debito nel corso della sua storia. Resta il fatto che al giorno d’oggi l’uomo indebitato è una figura sociale talmente generalizzata da farci dubitare che accetti di sentirsi colpevole ancora a lungo. Nel frattempo il debito pubblico italiano ha raggiunto a marzo la cifra record di 2.034,725 miliardi di euro.

La Repubblica 25.05.13

"Diritti sul lavoro dal Bangladesh a Barletta", di Teresa Bellanova*

Lo scorso 24 aprile è avvenuta l’ennesima strage sul lavoro, a migliaia di chilometri da qui. Mi riferisco al crollo del Rana Plaza di Dhaka, la capitale del Bangladesh. Il palazzo in cui lavoravano più d 3000 persone, in maggioranza giovani donne, è venuto giù di schianto, seppellendo un numero ancora imprecisato di corpi. Ad oggi ne sono stati estratti 1125. I feriti sono circa 2.500. Che nessuno parli di fatalità. Il Bangladesh è noto come uno dei Paesi al mondo con le peggiori forme di sfruttamento anche minorile, i salari più bassi (tra 30 e 60 euro al mese), scarsissimo rispetto delle norme di tutela del lavoro, bassa percentuale di sindacalizzazione e inosservanza degli standard minimi; sono solo 18, tra ispettori e loro assistenti, gli addetti a verificare l’applicazione della legge sul lavoro, il Bangladesh Labour Act del 2006. Non è una fatalità, quella del Rana Plaza è un’altra tragedia ampiamente preannunciata, figlia della stessa miseria che spinge le persone, a Barletta come a Dhaka, ad accettare condizioni di lavoro indegno e di sfruttamento, dietro il ricatto della sopravvivenza quotidiana. Tanti cassintegrati italiani, tantissime lavoratrici e lavoratori, innumerevoli piccoli imprenditori hanno imparato a conoscere molto bene i motivi per cui le vicende di «quell’altra parte del mondo» riescono a stravolgere la nostra quotidianità. L’apertura, incondizionata e purtroppo da troppe voci celebrata, dei mercati globali ha spinto tantissime aziende a delocalizzare la propria produzione e tante multinazionali a dirottare le proprie commesse in Paesi come il Bangladesh. Laddove, cioè, i predatori globali hanno la possibilità di produrre a costi vicini allo zero. Non a caso le aziende tessili del Rana Plaza producevano per l’export, al 60% per l’Europa, proprio in quell’anello che circonda Dhaka, dove per un raggio di oltre 50 km si sono moltiplicate le fabbriche tessili. In Bangladesh la collera delle famiglie ha invaso le strade, stanno aumentando le proteste e crescono le tensioni e le manifestazioni di massa. Le autorità hanno arrestato per omicidio il proprietario, il direttore generale e due ingegneri delle fabbriche di abbigliamento, che si trovavano all’interno dell’edificio di otto piani. Una missione di alto livello dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Od), agenzia tripartita delle Nazioni Unite competente in materia di lavoro, si è recata in Bangladesh dove ha convenuto con governo e parti sociali un piano nazionale di azione articolato con iniziative a breve e medio termine, quali la riforma della legge sul lavoro, da proporre al Parlamento entro giugno 2013, con miglioramenti sull’esercizio dei diritti fondamentali di associazione sindacale, contrattazione e tutela della salute e della sicurezza. L’Oil ha impegnato il governo del Bangladesh a chiedere che le imprese coinvolte nei disastri degli ultimi sei mesi rispondano delle loro omissioni e negligenze ed ha richiamato i marchi e i committenti internazionali ad assumersi la propria responsabilità per il miglioramento delle condizioni di lavoro, della salute e della sicurezza. L’organizzazione International labour rights Forum e la campagna «Abiti puliti» in Italia intanto hanno sollecitato tutte le imprese operanti nel Paese asiatico a sottoscrivere il Bangladesh Fire and Building Safety Agreement, l’accordo che le impegna a garantire standard minimi di salute e sicurezza degli impianti industriali, ma gran parte delle imprese italiane non risultano tra le firmatarie di tale documento. La realtà ci dimostra che occorre un chiaro impegno da parte delle istituzioni per affermare e tutelare i diritti fondamentali della persona, ancora violati e negati, come quelli sulla dignità del lavoro, il diritto ad un salario equo che consenta di vivere decorosamente, il diritto di iscriversi al sindacato, di contrattare sulla retribuzione, il diritto a tutelare la propria integrità psico-fisica sul lavoro e il diritto a lavorare in sicurezza, senza pagare con la vita. Qui come altrove. Per questo, occorre che il nostro governo assuma delle iniziative concrete nelle competenti sedi internazionali per assicurare il rispetto dei diritti di tutti i lavoratori, anche nei Paesi di nuova industrializzazione e in particolare quelli in cui operano le imprese italiane, facendo sì che le stesse che subappaltano lavoro nelle fabbriche di abbigliamento, siano tenute sempre e comunque a verificare il rispetto degli standard internazionali del lavoro, a partire dalle convenzioni fondamentali. E questo prima di tutto per dare senso e coerenza alle parole, a cominciare dall’universalità dei diritti umani. Poi, se anche questa motivazione non fosse sufficiente, per un riequilibrio al rialzo delle condizioni di concorrenza. Lavorare affinché, oltre ai mercati, siano globalizzati anche i diritti vuol dire, allo stesso tempo, rendere il mondo un posto migliore e offrire ai nostri lavoratori ed alle nostre imprese la possibilità di accedere ai mercati globali in condizioni di maggiore parità, dischiudendo loro uno spiraglio di speranza per il futuro. Il lavoro è la priorità: lo hanno detto tutti e in tutte le salse. Ora però è il tempo di gettare lo sguardo oltre la siepe nazionale, se pur in colpevole ritardo nonostante i tanti allarmi degli anni passati.
*Deputata PD

L’Unità 15.05.13