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"Quando bisogna dire dei no", di Vittorio Emiliani

Ha fatto molto bene la figlia di Enzo Tortora, Silvia, a chiarire a Silvio Berlusconi che suo padre «si difese nel processo e non dal processo», che «si dimise da parlamentare e andò ai domiciliari». Insomma, che è «blasfemo» Berlusconi nel paragonarsi a lui. Punto. Ma se Silvia Tortora ha pienamente ragione, non ne ha chi vorrebbe Berlusconi già in galera. Perché si mette – in materia di garantismo – sullo stesso piano dell’ex premier il quale pretende di essere considerato «di per sé» innocente. Lo scandalo della giustizia in questo nostro infelice Paese non è dato dal fatto che un potente venga processato (in qualche caso assolto, in qualche altro prescritto e in qualche altro ancora condannato), bensì dal fatto che i processi di ogni tipo durino, per i poveracci anzitutto, anni e anni, non dando tempestivamente ragione a chi ce l’ha.

In un altro Paese un esponente politico di primissimo piano come Berlusconi avrebbe lasciato ogni incarico politico. Mai avrebbe, in ogni caso, pensato di organizzare manifestazioni di piazza contro i propri giudici, contro i propri processi, coinvolgendo in esse il ministro dell’Interno nonché vice-presidente del Consiglio in carica. A Berlusconi che tuona dalla tribuna contro i magistrati siamo abituati, quasi assuefatti. Al titolare del Viminale che sale sullo stesso palco, no. È la prima volta in assoluto ed è una scandalosa, destabilizzante novità per le nostre istituzioni. Quale imparzialità potrà assicurare l’onorevole Alfano a tutti noi nell’esercizio di una funzione delicatissima qual è quella della sicurezza, dell’ordine pubblico, della tutela quotidiana dei diritti civili?

E quale «tregua nazionale» potrà il Pdl garantire ad un nuovo e inedito governo che i risultati elettorali del Senato e l’indisponibilità del Movimento di Grillo a qualunque accordo preventivo, anche circoscritto, hanno reso «necessario»? Un governo Pd-Pdl fortemente voluto, a parole, da Silvio Berlusconi, ma da lui contraddetto puntualmente nei fatti. Il Pd ha già pagato un prezzo molto alto alla lealtà dimostrata, a differenza di Berlusconi, verso il governo Monti. Verso un premier che poi, improvvidamente, ha voluto correre alle elezioni in prima persona, ottenendo uno scarso successo e tuttavia togliendo al Pd una quota di elettorato forse decisiva nel complicato gio- co dei premi regionali di maggioranza e di minoranza al Senato. Per questo il Pd, costretto alle «larghe intese» per non far precipitare una situazione sociale, occupazionale, imprenditoriale scandita da fallimenti, chiusure, licenziamenti, suicidi, deve davvero guidare e non subire il governo del quale il proprio vice-segretario, Enrico Letta, ha assunto con energia, con lucido coraggio, il timone. Nelle condizioni difficili che sappiamo e che manifestazioni come quella berlusconiana di Brescia rendono impervie. Per questo ha bisogno di avere alle spalle un partito e non un assemblaggio di gruppi e correnti dove chi prima si sveglia prima dichiara, spara, rivendica, si differenzia, dove chi aveva annunciato di lasciare la politica, è più che mai presente, dove l’ultimo arrivato in Parlamento, se non apre la sua polemica quotidiana, non si sente «qualcuno». Pen- si a dare un serio contributo in commissione. Capirà cos’è davvero il lavoro oscuro, duro, formativo di un parlamentare.

Sabato il Pd – pur attaccato da ogni lato, da gran parte della stampa (quella che una volta si chiamava «grande stampa» oggi ridotta spesso ad un miope cabotaggio, all’autoconservazione) – ha trovato un largo accordo per eleggere segretario un dirigente che ha un limpido passato di buoni studi (e non è poco, fra tanti «ripetenti» di luoghi comuni, esperti di Twitter e poco altro), di impegno sindacale serio e concreto partendo dai luoghi dell’informazione, di guida sicura, infine, della sola grande organizzazione di massa – diciamolo fuori dai denti – rimasta a questo Paese e alla sinistra riformatrice, la Cgil. Spero solo che subito non lo ostacolino nel Pd quanti temono, da provinciali, di «morire socialdemocratici». Come se le socialdemocrazie, in giro per l’Europa, si fossero macchiate di chissà quali colpe e non avessero invece garantito libertà, giustizia, diritti, welfare, lavoro, città vivibili, spesso una buona urbanistica (zero consumo di aree verdi nella Londra di Ken Livingstone). Per Guglielmo Epifani – che conosco bene da anni e che ricordo amico fraterno, quale ero anch’io, di Walter Tobagi, cattolico e socialista, vittima delle Br – non sarà facile. Come non lo è per Enrico Letta. Dovrà spiegare presto e meglio alla base perché non c’era alternativa – nella situazione che si era purtroppo determinata dopo la rimonta elettorale di Berlusconi e dopo il successo (del tutto sterile per ora) di Grillo – a questo governo «di necessità». Che però bisogna cercare di far funzionare il più possibile sul piano del rilancio economico, delle riforme a partire da quella elettorale. Con meno divismo e meno isteria anche nei quadri emergenti del Pd.

Con più umiltà, concretezza, capacità di produrre idee e non solo parole, parole, parole. Oltre tutto c’è un obiettivo immediato: appoggiare a fondo Ignazio Marino per riconquistare, dopo la Regione Lazio, il Cam- pidoglio dove Alemanno fu accolto da una selva di saluti romani e che risulta scosso da un quinquennio di disamministrazione, di scandali, di clientelismo, di aziende e servizi pubblici al collasso. È forse troppo poco?

L’Unità 13.05.13

"Femminicidio, non è tempo di rinvii serve subito un piano del Governo", di

Una settimana fa, dopo l’omicidio di cinque donne, il governo annunciò che si sarebbe mobilitato per affrontare l’emergenza. Rispondendo all’appello di convocazione degli Stati Generali di «Feriteamorte», il progetto di Serena Dandini e Maura Misiti, prima il ministro delle Pari Opportunità Josefa Idem, poi il suo collega dell’Interno Angelino Alfano dichiararono che nella prima riunione l’Esecutivo avrebbe messo a punto un piano di interventi. Trovando anche le risorse economiche necessarie a finanziare i centri antiviolenza. Non è accaduto.
Ormai da un anno il Corriere della Sera sollecita la creazione di un coordinamento nazionale che possa ascoltare chi già si occupa ogni giorno di questi problemi. Bisogna rendersi conto che la piaga del femminicidio riguarda tutti, uomini e donne. Bisogna comprendere che soltanto una vera attività di prevenzione può diminuire il numero delle aggressioni e dei delitti. Ecco perché si deve agire in fretta, ma soprattutto perché questi temi non possono diventare oggetto di propaganda politica. Poter contare su una banca dati e su piccoli gruppi di magistrati che all’interno delle procure siano dedicati esclusivamente a questo tipo di reati, può servire ad applicare le leggi che già ci sono. Modificare l’articolo 612 bis che punisce gli atti persecutori prevedendo che si possa procedere d’ufficio e non a querela di parte come previsto attualmente, può aiutare quelle donne che non hanno il coraggio o la possibilità di uscire allo scoperto.
Anche il Parlamento deve fare la sua parte ratificando la Convenzione di Istanbul che fornisce all’esecutivo un ulteriore strumento di intervento. Lo abbiamo detto più volte: non servono stanziamenti eccezionali o misure straordinarie. Basta avere la volontà di agire e la consapevolezza che soltanto una vera attività integrata tra le varie autorità consente di raggiungere gli obiettivi. Non è più tempo di rinvii. Il ministro Idem ha convocato per la prossima settimana le associazioni che si occupano di questi temi. Sarebbe bene che in quell’occasione ci fosse già il piano da poter discutere. Per dimostrare che il governo vuole davvero intervenire e non limitarsi ai proclami.

Il Corriere della Sera 13.05.13

"La guerra in TV fra giovani e anziani", di Bruno Ugolini

Chi sono i nemici dei precari? Ovverosia coloro che gestiscono una partita gigantesca ai danni di un’intera generazione costretta a mendicare lavori e lavoretti senza tutele e diritti? Voi pensereste a legislatori miopi e compiacenti, oppure a imprenditori intenti solo a rincorrere i costi minori, sacrificando magari la qualità dei prodotti. Pensereste certamente a qualche sindacalista, nazionale e o di fabbrica, che ha preso sottogamba la questione, magari invocando solo una legge capace di stabilizzare in un colpo solo questa drammatica questione trasformando, come con una bacchetta magica, i precari in detentori di un posto fisso ben tutelato. Immaginate, a questo punto, di dover mettere in scena, per conto di una grande rete televisiva pubblica, una tale complessa tematica. Cerchereste, allora, il legislatore inventore del supermarket del lavoro flessibile (un nome a caso: l’ex ministro Maurizio Sacconi), l’imprenditore avido e poco lungimirante, il sindacalista corporativo. Nella vita reale, ovverosia negli studi televisivi delegati a tali scelte, non succede così. Lo comprendiamo leggendo, su Facebook, un post di Ilaria Lani, responsabile dei giovani Cgil. Racconta che il gruppo «Giovani non più disposti a tutto » ha ricevuto un «incredibile messaggio» da una giornalista di Rai Tre. Tale missiva informa che a metà giugno partirà, sempre sulla rete di Rai Tre, «La guerra dei mondi » un programma condotto da David Parenzo (tra parentesi un apprezzato giornalista, protagonista con Giuseppe Cruciani della «Zanzara» di Rai24). Spiega la giornalista che trattasi di «una trasmissione sullo scontro generazionale, in cui si scontreranno in blocchi contrapposti, giovani e anziani». Essendo la prima puntata dedicata al lavoro cercano «giovani precari che abbiano la voglia di dire la loro al mondo degli anziani (stiamo parlando di 50/60enni) che comunque hanno goduto di un lavoro fisso e pensione certa». Tra i protagonisti della puntata ci sarà, tra gli altri, «un sindacalista, contro il quale la tribuna dei giovani potrà esprimere pensieri, rivendicazioni, magari risentimenti». Questo dunque il «casting», gli attori, i personaggi della messinscena: precari contro anziani e contro sindacalisti. Non come avrei potuto immaginare io, legislatori e datori di lavoro. Con l’aggiunta, magari, nei panni del rappresentante dei lavoratori anziani (sempre nella mia ipotesi) di qualche compagno di quei portuali morti nell’ennesimo tragico incidente sul lavoro a Genova. Onde spiegare come siano precarie anche le loro anziane esistenze «privilegiate». Non resta che sperare in un ripensamento e in una correzione. Anche alla luce delle proteste avviate dal post di Ilaria Lani. Che ha scritto: «Mi chiedevo se ci sono volontari che vogliono andare a Rai 3 (e dico Rai 3!) per spiegare che non proviamo risentimento verso gli “anziani” che hanno avuto un posto fisso (e che oggi rischiano di perderlo o lo hanno già perso e vedono la pensione con il binocolo)… ma verso le scelte politiche condotte negli ultimi 30 anni che hanno svalorizzato e umiliato il lavoro e protetto la rendita e il malaffare». C’è poi qualche giovane che commentando il post di Ilaria racconta come suo padre abbia 58 anni e sia disoccupato, con tutta probabilità tra i licenziati (un milione) del 2012, difficilmente catalogabile come garantito. Un altro intervento spiega che il 20 maggio gli finirà la mini Aspi prevista dal ministro Fornero, la protezione in termini di reddito e non saprà come campare. Cosi le voci dei giovani precari si mescolano alle voci dei precari anziani. Un esercito che non ha certo bisogno di veder rinfocolate guerre intestine di poveri contro poveri. Oltretutto molti, come hanno dimostrato ricerche e studi, nella stessa moltitudine degli addetti ai lavori atipici, con contratti ballerini, vivono da numerosi anni, queste situazioni di flessibilità estrema, queste vere e proprie trappole. Sono giovani già anziani, poco splendidi ultra-quarantenni. Commenta ancora una ragazza, Rita: «Adesso si lucra anche su un inesistente scontro generazionale. Qualcuno dica loro che ai nostri genitori non è stato regalato niente. È alla nostra generazione che è stato tolto, in termini di diritti e dignità. Vergogna! Non ce l’abbiamo con i nostri genitori ma con chi ci ha governati fino ad oggi e con chi non ha intenzione di rimettere le cose a posto». Siamo certi che il loro appello, conoscendo la sensibilità di David Parenzo, non rimarrà inatteso.

L’Unità 13.05.13

"Il Cavaliere si assolve su Canale 5", di Concita De Gregorio

C’è pochissimo da scherzare e ancor meno da ironizzare sul fatto che il principale partner del governo Letta abbia aperto le porte di casa sua a giornalisti della sua rete tv ammiraglia per rifare il processo Ruby senza giudici, con se stesso in maglionicino blu al posto di Ilda Boccassini. C’è poco da scherzare sul format di Canale 5. La guerra dei vent’anni, un ibrido fra Un giorno in pretura, una versione made in Arcore di Report (la versione padronale del concetto di inchiesta giornalistica) e una versione soap della Piccola fiammiferaia dove una povera ragazza marocchina che «non induce nessun sentimento diverso dalla commiserazione », dice Berlusconi, racconta una storia terribile mostrando cicatrici sul suo corpo, fa piangere i commensali, chiede 57 mila euro per aprire un centro estetico in via della Spiga e salvarsi così — un modo come un altro — da una vita di assalti costanti da parte di uomini incessantemente animati da “cattive intenzioni” e trova un benefattore che, commosso, glieli dà.
C’è pochissimo da sorridere degli arredi stile tavernetta della “sala cinema” di villa San Martino e della storia della statuetta africana e dei “cannibali” da cui è nata la storiella del Bunga Bunga: per ogni scettico ci saranno venti telespettatori rapiti dalla telenovela, per ogni indignato ce ne saranno cinquanta convinti delle buone ragioni dell’ex premier, oggi rappresentato al governo dal suo vice Alfano reduce dalla manifestazione di piazza di Brescia. Per ogni spettatore sarcastico ce ne saranno cento che diranno ah però, in fondo, povera ragazza, che brutta storia, in fondo in fondo non c’è niente di male.
L’offensiva mediatica condotta in prima serata su Canale 5 è efficacissima, parla a un pubblico che non ha l’abitudine di leggere i giornali, soprattutto non “certi” giornali, e che di questa vicenda ha orecchiato qualcosa di vago, in fondo non di così grave, dalle ultim’ora che scorrono sui teleschermi nella metro, alla stazione, nei bar. Nei locali pubblici e privati, ovunque nel paese, il canale sempre acceso — è facile da verificare — è Canale 5. Una moltitudine di persone, la stragrande maggioranza degli italiani, attinge da lì le informazioni su quel che accade. Uno speciale di due ore dove la ragazza Ruby, il vero nome Karima, dice tirando su col naso «mi hanno definita prostituta ma io non mi sono prostituita mai» e racconta, vestita di un maglioncino e pettinata con coda di cavallo, di suo padre
ambulante e del suo primo viaggio senza biglietto, in treno, a Milano, è una storia commovente. Punto. È la storia di una povera ragazza che mente costantemente «perché dire bugie era la mia unica difesa per difendermi da uomini di cui avevo paura». Di seguito la visita guidata in Villa, dove è del tutto chiaro che non poteva avvenire nulla di meno che innocente, Berlusconi cantava «le canzoni del suo repertorio giovanile ». Magistrati ossessionati dal sesso che fanno domande in apparenza assurde su rapporti simulati con statuette africane, testimoni che a frotte smentiscono, solo cinque che — confuse — confermano, la senatrice Maria Rosaria Rossi, assistente personale di Berlusconi, che interroga i magistrati, di nuovo Ruby che dice «ho mentito sull’età per lavorare, non volevo finire in comunità».
Chi non capisca che tutto questo valga più di cento inchieste, che raggiunga milioni di persone in modo convincente, non ha ancora imparato niente, dopo vent’anni, della forza d’urto di Silvio Berlusconi. Che oggi mette in campo uno pseudo-speciale giornalistico, in tutto simile alle inchieste degne di questo nome, e sbaraglia di nuovo la concorrenza sul piano dell’audience, del risultato, dell’efficacia. Lo fa alla vigilia di un’udienza decisiva, all’indomani di una manifestazione di piazza contro i giudici alla quale hanno partecipato ministri del governo in carica e nello stesso giorno in cui il presidente del Consiglio Letta chiede ai ministri di non andare né in piazza né in tv, per cortesia, almeno fino alle prossime amministrative. La sproporzione di forze tra l’appello di Letta dal convento e l’offensiva mediatica del suo alleato in tv è qui, sotto i nostri e i vostri occhi. Ci parla non solo del processo Ruby e del caso di Karima, ovviamente. Ci parla piuttosto di come si costruisce il consenso, di come si manipola l’opinione pubblica. Di quello che è successo in Italia negli ultimi due decenni grazie all’assenza di una legge che regoli l’accesso in politica di chi ha la proprietà dei mezzi di informazione, grazie a chi non l’ha scritta, e ci dice — soprattutto — di quello che ci aspetta. Perché questa storia non è finita. Siamo solo all’intervallo. La riscossa, ha detto ieri Silvio Berlusconi nella sua duplice versione di lotta e di governo, è alle porte.

La Repubblica 13.05.13

"Stipendi statali, lo stop agli aumenti ha fatto perdere 200 euro al mese", da La Tecnica della Scuola

La denuncia è della Cgil: dal 2010 ai dipendenti pubblici sono stati sottratti circa 3mila euro lordi. Ed altri 600 circa si perderanno nel 2013. Inoltre, se il blocco fosse confermato nel 2014 sfumerebbero ulteriori 500 euro. Ci sono poi blocco del turn over e calo del personale. La scuola sinora ha ridotto i danni mantenendo gli scatti fino al 2011, ma pagando di tasca propria. Sta assumendo proporzioni più che visibili lo stop agli aumenti stipendiali imposto negli ultimi tre anni ai dipendenti statali. Il 12 maggio Michele Gentile, responsabile settori pubblici Cgil, ha reso pubblico uno studio realizzato dal sindacato Confederale: ebbene, a partire dal 2010 i dipendenti pubblici hanno perso in tre anni nel complesso circa 3mila euro lordi. Ed altri 600 circa si perderanno nel 2013. Inoltre, se il blocco fosse confermato nel 2014 sfumerebbero ulteriori 500 euro.
In termini mensili, a regime le retribuzioni, sempre secondo il sindacalista della Cgil, perderanno a fine 2013 in termini reali (a causa del mancato adeguamento rispetto all’inflazione in questi anni) circa 200 euro. In particolare, tra il 2010 e il 2012 le retribuzioni dei “travet” non hanno recuperato l’8,1% di aumento dei prezzi che si è registrato nel periodo (insieme allo scarto tra inflazione programmata e reale che c’é stato nel biennio precedente). La stima per il costo del lavoro tra il 2011 e il 2014 è di un calo di sette miliardi con il passaggio da 169 a 162 miliardi.
“E’ ora – dice Gentile – di dare forti segnali di discontinuità nelle politiche relative al lavoro pubblico. Parlare di semplificazione e di snellimento delle pubbliche amministrazioni senza affrontare e rimuovere contemporaneamente i gravi effetti distorsivi delle politiche sin qui seguite verso il lavoro pubblico, significa non voler occuparsi veramente di riforma”.
Ma i dipendenti pubblici non hanno affrontato solo un sacrificio in termine di buste paga reali più leggere. Nel periodo, gli statali hanno fatto i conti anche con il blocco del turn over e quindi con il calo del personale (ne sa qualcosa la scuola). Tra il 2007 e il 2011, secondo i dati del Conto annuale della Ragioneria generale dello Stato i dipendenti pubblici sono diminuiti di 150.000 unità (da 3,43 milioni a 3,28 milioni) con un -4,3%. Ma la diminuzione dovrebbe essere ancora più consistente negli anni successivi con una stima della Cgil di 400.000 lavoratori pubblici in meno tra il 2007 e il 2014.
Resta irrisolto inoltre il problema del precariato con circa 200.000 tra contratti a termine, lsu, interinali e collaborazioni nel complesso delle amministrazioni.
“Chiediamo al Governo – dice Gentile – di congelare il decreto con il quale si proroga il blocco della contrattazione nazionale al 2014 e di riaprire su questo tema un confronto con i sindacati per far ripartire la stagione contrattuale. Chiediamo misure urgenti sul precariato nelle pubbliche amministrazioni che impediscano la perdita del lavoro alla scadenza dei contratti ; nuove e mirate politiche di assunzione nelle amministrazioni con le quali affrontare anche il problema dei tanti giovani vincitori di concorsi pubblici che ancora non hanno lavoro; la riapertura di una stagione contrattuale nella quale affrontare il problema delle retribuzioni e di progetti mirati di nuova qualità del lavoro e misure che favoriscano i processi di riforma garantendo il lavoro”.
E la scuola? Certo, è un discorso a parte. Anche se numericamente limitati, i concorsi ci sono stati. E pure gli scatti automatici, pur tra tante difficoltà e trovando parte dei fondi all’interno dello stesso comparto, alla fine sono arrivati (quelli del 2010 e di recente per il 2011). Pure per docenti e Ata, comunque, le buste paga si sono “alleggerite”: il mancato rinnovo del contratto e il ritarda di attuazione degli stessi aumenti stipendiali automatici cominciano a farsi sentire. Quel che preoccupa è che la situazione di stallo potrebbe protrarsi: il Consiglio di Stato, tranne che per lo stop all’indennità di vacanza contrattuale, ha già dato il suo via libera. Ora si attende il parere delle Camere. E poi la decisione finale sarà, comunque, del Governo Letta. Non è escluso che la “palla” verrà girata agli stessi Ministeri: se vorranno evitare il blocco stipendiale, dovranno arrangiarsi da soli sottraendo risorse in seno allo stesso comparto. La Scuola è già abituata: l’anno scorso sono saltati i fondi destinati al merito, quest’anno il 25% del Miglioramento dell’offerta formativa. Probabilmente sarebbe il male minore: gli scatti stipendiali sono un incentivo importante e bloccarli creerebbe non pochi scompensi nella categoria.

La Tecnica della Scuola 13.05.13

"Si allarga il gap tra generazioni", di Francesca Barbieri

Sono senza dubbio più istruiti, ma i giovani d’oggi lavorano solo nella “metà” dei casi rispetto ai padri, con un tasso di disoccupazione monstre, che esplode al Sud. Non c’è partita con i propri genitori alla stessa età: il match tra le due generazioni messe a confronto evidenzia un risultato netto a favore dei senior.
Lungo un arco trentennale – ricostruito dal centro studi Datagiovani per Il Sole 24 Ore con i parametri medi del mercato del lavoro degli under 25 dal 1980 al 1982 e con quelli dei pari età nel 2012 – le nuove leve hanno visto sgretolarsi le certezze che garantivano a tanti padri l’indipendenza economica prima dei 25 anni. Con il risultato che oggi i lavoratori “green” sono meno della metà di quelli di 30 anni fa e che il tasso di occupazione si è dimezzato (dal 36% al 18,6%).
Se i ragazzi senza un impiego nei primi anni Ottanta erano molti di più in termini assoluti (oltre un milione contro i 611mila attuali) – fenomeno che si spiega con il calo demografico degli ultimi decenni –, il tasso di disoccupazione è schizzato dal 25% al 35,3% del 2012 (e a marzo di quest’anno è arrivato al 38,4%).
Per i giovanissimi trovare un impiego è sempre più difficile, soprattutto per quelli del Mezzogiorno, dove la già elevata disoccupazione storica (32,5%) è realmente esplosa, passando all’attuale 46,9% e raddoppiando il gap rispetto al Nord.
Inoltre, il titolo di studio più elevato non aiuta. In 30 anni il peso dei diplomati è quasi raddoppiato (dal 23% al 44%) e i laureati, da marginali, sono arrivati al 3,5 per cento. Gli ingressi sul mercato, però, si sono “diradati” anche per la scelta di percorsi formativi più lunghi e si registra un forte spostamento nel “limbo” dell’inattività (dal 51,9% al 71,3%).
Anche il cambiamento della struttura produttiva del nostro Paese e la necessità di diverse e sempre più specifiche competenze possono aver inciso nel rapporto tra i giovani e il mercato del lavoro nei due periodi messi a confronto: negli anni Ottanta l’industria occupava quasi la metà degli under 25, spesso e volentieri in mansioni non qualificate che non richiedevano particolari titoli di studio, i servizi il 44% è l’agricoltura il 7 per cento. Oggi, il settore primario ha dimezzato la quota di posti di lavoro occupati dai giovani e, con lo sviluppo di servizi avanzati alle imprese e alle persone, del commercio e del turismo, il terziario arriva a occupare ben due terzi dei giovani, mentre l’industria è scesa al 29 per cento.
Analizzando l’universo femminile, alcune differenze si amplificano. Ad esempio, la crescita dell’inattività è più marcata rispetto alla media generale, passando dal 54,6% degli anni Ottanta al 76% del 2012. La disoccupazione, invece, ha segnato un percorso meno rapido di quello dei giovani nel complesso: partiva già da un livello elevato (30,8%) ed è salita di meno di sette punti (37,5%). Come a dire che le figlie faticano a trovare lavoro quasi quanto le loro madri quando erano giovani.

Il Sole 24 Ore 13.05.13

Da Stalin a Silvio quando il leader diventa un “papà”, di Filippo Ceccarelli

Se il sistema politico è davvero, come si dice, impazzito, è anche possibile, anzi assai probabile, che i giornalisti e gli osservatori prendano degli abbagli, anche questi di natura psicopatologica. Ma quando il presidente dei senatori del MoVimento Cinque Stelle Vito Crimi con voce piana ed espressione persino giudiziosa teorizza, nell’intervista a Lucia Annunziata, che Beppe Grillo «è come un padre che accompagna un bambino che sta camminando carponi e lo guida affinché faccia un percorso lontano dai pericoli, a cominciare dai soldi», ecco, ce n’ è quanto basta per prendere sul serio questa storia del Padre e del Bambino che gattona, anche verso il denaro della diaria e dei rimborsi.
Con il che, rivelatisi del tutto superflui quarant’anni di cronache partitocratiche, scartati i sacri testi di sociologia della leadership e l’irresistibile tentazione è di concentrare lo sguardo, per quanto possibile, sull’oscuro orizzonte della psicoterapia e delle dinamiche famigliari. Magari incrociando la disputa sugli scontrini con i codici affettivi dell’analisi transazionale: il M5S come “Bambino Naturale”, o “Bambino Adattato (sottospecie “sottomesso” e “ribelle”), “Bambino Astuto”, detto anche “Piccolo Professore”, e infine, se Dio vuole, “Bambino Libero”.
Come pure, sempre osservando il povero Crimi ormai entrato a far parte dell’intrattenimento televisivo della domenica, ci si sorprende a valutare se per caso l’accusa di fare «la cresta» rivolta da Grillo ai deputati che lamentano di alloggiare in tre per stanza in albergucci vicino alla Stazione Termini, o peggio di nutrirsi chi di pizza al taglio e chi solo di kebab, ecco, viene da chiedersi se non sia per caso da mettere Grillo in relazione con la figura tutta freudiana del “padre dell’orda primitiva” che da spietato despota si riservava il possesso di tutte le donne uccidendo e cacciando i figli — fino a quando questi si scocciarono e gli fecero finalmente la festa, culminata nel “banchetto totemico”.
E insomma, sarà che a un certo tipo di politici, da Stalin a Mao, da Gheddafi fino a Berlusconi comunque piace un sacco di chiamarsi o di farsi invocare “padre”, “grande padre”, “piccolo padre”, “padre padrone”, “buon padre di famiglia” e in alcune circostanze addirittura “papi”. E anche sarà, come pure proclama Crimi, “la rivoluzione”. E però è anche vero che mai finora era risuonata una più compiuta dottrina regressiva, mai si era espressa con parole tanto semplici, famigliari, una relazione infantile di consapevole servitù, tale da spegnere ogni facoltà critica — in cambio di cosa è già più difficile dire.
E la novità purtroppo non assolve nessuno, tantomeno gli avversari di Grillo e dei grillini, perché nel merito delle insidie l’improvvido Crimi non ha tutti i torti. Perché così come la smaniosa partecipazione ai talk-show non ha certo migliorato la qualità della democrazia, per giunta degradando il discorso pubblico a vaniloquio e omologando il ceto politico in un’unica litigiosa compagnia di giro, i soldi sono davvero “un pericolo”. E a parte le ville, gli appartamenti, le barche, le vacanze, i diamanti, i rolex, le lauree albanesi, le escort, ma anche le feste di cresima, i Redbull, i gratta&vinci e perfino l’orsacchiotto di peluche acquistato a spese della regione Basilicata, il fatto che oggi si vogliano cancellare per legge finanziamenti e “rimborsi” è la prova provata che il rischio esiste, e per tutti, anzi più per gli altri che per i grillini.
Ma questa storia del Padre e del Bambino, francamente, questa rassegnata rivendicazione della propria minorità, questa specie di cupidigia di paternalismo non è che poi sembri molto sana. E anche sulla specifica paternità di Grillo, come pure dello zio Casaleggio, che insieme atterrano e suscitano, affannano e consolano, ci stanno, però non ci stanno, ogni tanto si degnano, e comunque o si fa così o loro se ne vanno, è lecito nutrire qualche dubbio.
Chi ha osservato i sistemi “democratici” in voga per anni e anni nella Lega di Bossi o nel partitoazienda berlusconiano sospetta che Grillo li abbia, piuttosto che sovvertiti, portati a evoluto compimento. Ed è chiaro che, dopo troppe buffonate, il Grande Buffone non solo se lo meritano, ma se lo sono chiamato loro, e ora che c’è sarà meglio trarne il bene — che poi sarebbe il fine della politica.
Ma negli anatemi volgari, intanto, nei capricci insensati, nei sondaggi misteriosi e retrattili, come nel piccolo dettaglio di imbarcare deputati senatori in un pullman senza nemmeno dirgli la destinazione, si intravede una davvero curiosa figura di padre, ben al di là del modello edipico che ne fa il simbolo della Legge. Un padre anarchico e al tempo stesso tiranno, un padre-adolescente che si manifesta con insulti e immagini apoca-littiche, e si veste e si esprime come i suoi figli che salva dai pericoli, ma su cui non cessa di esercitare la sua assoluta proprietà — con buona pace dei giornalisti politici che non capiscono e degli psicoterapeuti che capiscono troppo.

La Repubblica 13.05.13