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"Piazza contro i giudici, un vicepremier non può", di Michele Prospero

E’ del tutto incompatibile, per un Vice premier che per aggiunta occupa anche il dicastero degli interni, la presenza in una piazza che urla contro la magistratura. Anche se con il codice di procedura penale del 1989 il Viminale non ha più nelle mani il controllo della polizia giudiziaria, Alfano non può permettersi di manifestare contro l’operato di un legittimo potere dello Stato.
La certezza del diritto nell’esperienza italiana (diverso è il caso di Francia o Spagna) è stata congiunta dal legislatore alla rigida sottrazione di ogni possibilità di condizionamento da parte del governo. L’esecutivo non può interferire nell’andamento del processo penale e intromettersi nella piega delle indagini svolte dalle toghe che possono districarsi in un regime di piena autonomia.
La bestia nera della destra sinora erano stati i pubblici ministeri politicizzati di alcune procure calde. Adesso il grido di rivolta coinvolge tutta la magistratura, inquirente e giudicante. È la separazione dei poteri, come solido principio costituzionale, che in realtà viene aggredito. Le sentenze, in uno Stato di diritto, non possono essere oggetto di mobilitazioni di piazza a sostegno o a contestazione degli atti dei tribunali.

Il giudice non risponde alla piazza dei contenuti delle proprie decisioni, adottate nella correttezza formale e secondo le procedure vigenti. Proprio mentre indica nella magistratura politicizzata il cancro da estirpare, la destra auspica l’avvento di una magistratura del tutto prona alle ragioni del ceto politico. L’opinione pubblica infatti non c’entra nulla con il merito delle sentenze già emesse o con quelle in procinto di essere adottate. E quindi l’appello al popolo radunato, visto come tribunale supremo della nazione, introduce una forzatura politica che stravolge le delicate funzioni ritagliate per un autonomo potere dello Stato. La destra denuncia la scarsa indi- pendenza della magistratura e poi però organizza manifestazioni di piazza che di fatto lasciano scivolare le competenze delle toghe nel piano delle crude opportunità politiche. Né il consenso né il dissenso di massa verso l’operato di un tribunale possono essere oggetto di una iniziativa politica di piazza che, in quanto tale, altera le prerogative e le specifiche attribuzioni dell’autorità giudiziaria. Nel sistema giudiziario italiano ci sono tutte le condizioni legali per lo svolgimento di un giusto processo che, nell’accertamento rigoroso delle responsabilità individuali, si svolga con il rispetto pieno delle tutele dell’imputato e dei necessari vincoli procedurali. Solo chi aspira ad un comando politico sui poteri, che la Costituzione disegna come separati, può dipingere i magistrati, lo ha fatto Berlusconi ancora ieri a Brescia, come «accecati dal pregiudizio politico, dall’invidia e dall’odio verso le classi sociali imprenditoriali».

Che un politico fresco di condanna proprio per la divulgazione a mezzo stampa di intercettazioni senza alcun rilievo penale (quelle di Fassino con Consorte) si scagli contro il circuito mediatico e giudiziario e invochi misure esemplari a tutela della riservatezza e del segreto istruttorio fa parte della consueta com- media berlusconiana. Che però dei ministri partecipino al rito di piazza che accusa i magistrati di «fare del male », di voler decapitare un partito di governo, di perseguire un giustizia di classe, rivendica una immunità al leader perché unto dal popolo è un evento inaccettabile.

Berlusconi non può indossare in piazza gli abiti di Tortora: chi si rifugia nell’impunità del più forte non può paragonarsi ad una vittima sacrificale. La proposta di una separazione delle carriere con concorsi diversi per liberare il giudice dall’influenza nefasta dei magistrati inquirenti è del tutto strumentale (il 40 per cento dei processi finiscono in un modo diverso da quello richiesto dal pubblico ministero). Anche l’idea di trasformare il pubblico ministero in un «avvocato dell’accusa », come lo ha definito ieri il Cavaliere, urta con il quadro normativo vigente (il pubblico ministero non può essere una figura privata reperibile nel mercato, ha infatti la polizia alle sue dipendenze). Le funzioni di accertamento della verità e le garanzie per le parti in un processo non arbitrario sono già disponibili nell’ordinamento italiano. Lo spirito di fazione di chi con cortei e appelli al popolo si scaglia contro le libere istituzioni della repubblica è difficilmente compatibile con un ruolo di governo entro una coalizione sorta solo per uno stato di necessità.

L’Unità 12.05.13

"La paura, il dolore e i pavlov leghisti", di Michele Serra

A Milano un giovane uscito di senno aggredisce i passanti impugnando un piccone. Ne uccide uno, ne ferisce gravemente altri due. Il crimine è gratuito e orribile. L’uomo non è italiano. È un africano, non ha permesso di soggiorno, ha precedenti con la giustizia. È in Italia dal 2011, in attesa di risposta alla domanda di asilo. Vive – diciamo così – nelle smagliature di una rete giudiziaria e poliziesca che non è in grado (anche per i costi molto elevati) di espellere chi non ha diritto, ma neppure di legalizzare chi lo avrebbe.
Nella rudimentale dialettica della politica italiana, niente è più prevedibile del riflesso pavloviano che l’evento scatena. Passano poche ore e la responsabilità di quel sangue viene scaricata addosso al ministro per l’integrazione del governo Letta, l’afroitaliana Cécile Kyenge: «Quei clandestini che il ministro dice di voler regolarizzare ammazzano la gente a picconate», dice il capo dei leghisti milanesi Matteo Salvini. Proprio così, dice. “Quei clandestini”, proprio quelli “che il ministro dice”, ammazzano la gente a picconate.
È una volgarità e una scempiaggine, come tutte le attribuzioni di colpa che esulano non solo dalle responsabilità personali (comprese quelle politiche), ma anche dai più elementari nessi di causa ed effetto: non tutti i clandestini sono assassini; non tutti gli assassini sono clandestini; il ministro Kyenge non ha mai dichiarato, in nessuna sede, che intende “regolarizzare” tutti i clandestini né tutti gli stranieri, men che meno quelli assassini e pazzi; tutt’altro è il dibattito che verte sul riconoscimento della cittadinanza ai figli di stranieri nati qui e qui residenti in modo continuativo, eccetera eccetera eccetera.
Ma non è questo il punto, ovviamente. Non interessano, là dove attecchisce la pianta della paura dello straniero e dove la si mette a frutto, né gli argomenti né le discussioni. Il punto è che Cécile Kyenge è un’italiana nera; peggio, è un’italiana nera diventata ministro. E come dimostrano le orribili scritte murali di questi giorni, e le infinite lordure razziste, segregazioniste, naziste consegnate al web, è considerata un affronto da vendicare o una bizzarria della quale ridere; donna, nera e ministro è uno scandalo intollerabile, come mostrare il nudo a un bacchettone, o la croce al vampiro. E si scatena la canea. Nella più affettuosa delle ipotesi la scelta di nominare ministro una donna nera viene dileggiata da polemisti di destra come “buonista”, una delle parole più stupide e di conseguenza più fortunate impresse (da polemisti di destra) nel vocabolario politico-mediatico nazionale; così stupida che, per esempio, trascura di riflettere sul fatto che una signora che da molti anni lavora sull’integrazione magari ha qualche attitudine o conoscenza in più (rispetto, per esempio, a Matteo Salvini) per fare, appunto, il ministro dell’integrazione.
Se poi un ministro di origine congolese (Africa centrale) si insedia poco prima che un clandestino di nazionalità ghanese (Africa occidentale) impazzisca e uccida, alla paranoia etnica che soprattutto nel Nord Italia sta vivendo una lunga e fortunata stagione non pare vero di poter sommare “negro” con “negro”. Come se un belga e un greco, un tedesco e un portoghese fossero, in quanto “bianchi”, la stessa cosa e magari la stessa malerba da estirpare. Nella geografia per sentito dire, le migliaia di chilometri di distanza diventano pochi palmi, nel mazzo generico e detestabile dell’invasore straniero i neri sono solo un mucchietto indistinto.
Ne sentiremo purtroppo delle brutte, nelle prossime ore, nei prossimi giorni e mesi. La paura dello straniero, specie sotto crisi economica, è un bacino inesauribile per chi fa politica. La Lega governa ancora la Lombardia e ha governato, per molti anni, il Paese: ma la retorica sulla “responsabilità di governo” non regge il confronto, a conti fatti, con l’irresistibile istinto originario, il richiamo della foresta. Ormai albanesi e rumeni, che a turno si videro attribuire il primato della pericolosità sociale, sono in buona parte integrati o ritornati nei loro paesi, che hanno economie in ascesa. I lavavetri polacchi, che parevano orde inarrestabili, sono appena un ricordo: rincasati anche loro, per migliore fortuna. Una ministra nera, che trama per aprire le porte di casa nostra ad altri neri armati di piccone, è una eccellente new entry nel campo della speculazione xenofoba. Chissà se Cécile Kyenge, quando ha accettato il suo incarico, ha messo nel conto l’odio che avrebbe catalizzato, così immeritatamente, così assurdamente eppure così prevedibilmente.

La Repubblica 12.05.13

"L’ombra del Caimano sul caos della sinistra", di Curzio Maltese

Cento anime e nessuna identità. Il dramma pirandelliano del Pd, il «caro defunto» lo chiama qualcuno, prosegue con toni e riti sempre meno comprensibili al comune cittadino. Anche ieri, nel giorno dell’elezione di Epifani, si sono fatti rubare la scena da Berlusconi, nel bene o nel male. Tumulti da prima pagina a Brescia, minuetti dal palco della Fiera di Roma. Nella lunga lista degli intervenuti, a rappresentare con tutele da manuale Cencelli tutte le correnti interne, non se n’è trovato uno capace di stare sul fatto del giorno. E magari dire con chiarezza che un condannato in appello per evasione fiscale dovrebbe dimettersi, insieme ai ministri manifestanti, invece di arringare le folle in piazza. Così, per dare un contentino ai poveri elettori. I quali, al solito, stanno da un’altra parte. Sono in piazza a Brescia, a contestare Berlusconi, l’innominato dell’assemblea Pd. Quello che i dirigenti del partito debbono fingere di considerare davvero uno statista, un alleato affidabile, una sponda per le riforme necessarie a rilanciare il Paese. Non un caimano che pensa ai troppi affari suoi, convoca l’ennesima piazza eversiva e vi raduna i ministri appena nominati a fare da claque per i soliti attacchi alla magistratura.
L’unico che aveva intenzione di dirlo, il sindaco di Bari Michele Emiliano, non l’hanno neppure fatto entrare nella sala dell’assemblea. È rimasto fuori a masticare amaro: «Ci stiamo mettendo una vita per nominare un camerlengo. Berlusconi per scegliere il suo (Alfano ndr)
ha impiegato due minuti».
Questo è più o meno il senso di un’altra giornata vissuta come in un acquario. Con qualche momento patetico, come la salita sul palco di Pierluigi Bersani, salutato con uno svogliato tentativo di standing ovation, subito abortito. «Si vince insieme, si perde da soli» ha detto l’ex futuro premier, guardando dalla parte dei dalemiani, i quali naturalmente applaudivano. Per quattro anni avevano fatto finta di essere bersaniani e un minuto dopo la sconfitta su Prodi intorno a Bersani non c’era più nessuno.
Nel caos calmo del Pd, il blocco dei dalemiani e quello dei popolari, in pratica i post comunisti e i post democristiani, costituiscono l’unica certezza. Sono stati loro i registi delle ultime scelte del partito. Il boicottaggio della candidatura di Prodi, l’affossamento della linea Bersani, il ripescaggio di Napolitano e l’alleanza con la destra. La nuova «svolta di Salerno» dicono dal palco. Una bella inversione a U in autostrada, secondo altri. Sono passati vent’anni e comandano sempre loro. Hanno usato Veltroni contro Prodi e poi Bersani contro Veltroni, adesso Letta contro Bersani. Ora la strategia prevedeva la nomina di un reggente di scarso peso, Guglielmo Epifani, per traghettare il partito fino all’autunno, in attesa di farsi venire una buona idea per far fuori Matteo Renzi.
Il sindaco di Firenze, persona sveglia, l’ha capito. Nel suo intervento, uno dei pochi comprensibili e perfino affascinanti, si è permesso di ricordare a chi da vent’anni elabora vecchie soluzioni per nuovi problemi che il mondo cambia in fretta, senza aspettare i tempi del centrosinistra italiano. Si è permesso pure qualche soddisfazione personale e qualche brillante battuta da esperto di twitter: «Se non si prendono i voti degli elettori delusi del centrodestra, poi tocca prendere i ministri della destra». Renzi è l’unico in grado di dare una nuova e moderna identità a un partito mai nato e aggrappato a due identità vecchie e ormai inutili, ex Pci ed ex Dc. «Una sinistra che da decenni non conosce e quindi non riconosce il nuovo mondo del lavoro che dovrebbe rappresentare », spiega il sociologo e neo eletto Franco Cassano. Per queste ragioni gli oligarchi del Pd, dalemiani ed ex popolari, ora cercano di usare Enrico Letta contro il sindaco di Firenze. La scelta inconsueta di far finire l’assemblea del partito con le conclusioni del presidente del Consiglio in carica è significativa. La strategia è far durare il governo il tempo necessario per rottamare il rottamatore e presentare alle elezioni Letta candidato premier del centrosinistra. Più tardi, con calma, dalemiani e popolari penseranno anche a come far fuori Letta, come hanno fatto con ben sette leader del centrosinistra. Un merito che è limitativo attribuire al vanesio Berlusconi. Hanno già deciso tutto. Poi però le cose cambiano, il mondo corre in fretta come dice Renzi, Berlusconi torna a rivelare la natura di caimano. La politica e la vita alla fine sono quel che accade mentre elabori progetti sbagliati.

La Repubblica 12.05.13

"Il punto di ripartenza", di Claudio Sardo

L’elezione di Guglielmo Epifani a segretario offre l’opportunità di runa ri-progettazione del PD. Di una ripartenza dopo il collasso. Di un confronto aperto sul futuro dopo le dra matiche divisioni e le rivolte nella base. È una chance, ma nulla è scontato in questa crisi italiana che mescola la sofferenza sociale con la paralisi del sistema politico. Epifani ha detto ieri giustamente che il declino economico porta sempre con sé una crisi anche morale. Per questo ha chiesto al Pd, da subito, di prepararsi a un congresso serio – fatto di idee e non solo di nomi – e al tempo stesso di assumere una responsabilità nei confronti del governo Letta.

Sui temi concreti, sulla priorità del lavoro, sulle emergenze sociali, sulla scuola e la cultura, il Pd può e deve dire la sua. Deve incalzare l’esecutivo, dargli energia, trascinare le soluzioni. Sarà la cartina al tornasole del suo radicamento negli interessi e nei conflitti: condizione di esistenza in vita e di un legame con gli ideali e le passioni che animano il suo popolo. Non serve a nulla la retorica della «pacificazione», tanto meno nel giorno in cui Berlusconi convoca la piazza contro un potere dello Stato, la magistratura, consapevole di contribuire in questo modo alla delegittimazione dell’intero sistema. Il governo di Grande coalizione è invece un terreno nuovo di competizione politica tra destra e sinistra, che deve produrre i progetti alternativi di domani ma anche riparare gli strappi istituzionali della seconda Repubblica. Senza una nuova legge elettorale non si può tornare al voto. E sarebbe una follia per l’Italia fare le elezioni senza aver rafforzato (con correttivi costituzionali) quel sistema parlamentare, che la saggezza dei padri costituenti ci ha consegnato. È in questo passaggio stretto che la sinistra deve ripensare se stessa, radicare un partito nuovo, presentare all’Italia e all’Europa un progetto che porti lavoro e crescita sostenibile. Per meno di questo, la sinistra rischia di non essere utile al Paese e di perdere se stessa. Invece l’Italia ha bisogno di una sinistra nazionale ed europea: perché è oggi la sola che può svolgere quel ruolo di cerniera in una società lacerata e sfiduciata. Ma di fronte a noi c’è, appunto, il Berlusconi centauro. Per metà responsabile, per metà eversore. Un giorno veste i panni da statista, l’altro giorno esprime violenza istituzionale. La manifestazione di ieri a Brescia è stata inquietante per molti aspetti. Un vicepremier (e ministro dell’Interno) che marcia contro il potere giudiziario è una scena incompatibile con la civiltà politica di un Paese occidentale. Non meno di quella di un ex premier che incita il suo popolo contro una sentenza e contro il giudice naturale. A queste aberrazioni si è sommata anche l’aggressione violenta in strada contro alcuni manifestanti: la violenza è sempre ingiustificabile e, purtroppo, di questi tempi si sta pericolosamente alzando la soglia della tolleranza. Le parole rischiano di trasformarsi in pietre. E Berlusconi per un verso, Grillo per un altro, rischiano di trasformarsi in stregoni.
Tutto ciò rende più arduo il compito del Pd. La tenaglia Berlusconi-Grillo ha già funzionato in questo breve scorcio di legislatura ai danni della sinistra. Il punto è che il Pd non può ridursi solo a uno spazio di interposizione, ad una mera difesa dell’esistente. Il Pd è un partito oggi debole. Sradicato in molte parti del Paese. E percorso da una forte domanda di cambiamento, senza corrispondere alla quale tutta l’impresa rischia di finire nel nulla. Non basterà certo alla sinistra italiana immaginarsi come un nuovo centro. Non basterà la politologia a surrogare la società. L’impresa del Pd passa da un partito nuovo, battagliero, capace di rischiare le sue riforme: altrimenti la tenaglia lo stritolerà. E la pluralità interna lo disarticolerà.
Epifani ha detto che il Pd deve saper distinguere il coraggio necessario dall’incoscienza politica. Il governo è oggi guidato da un uomo del Pd e composto da diversi uomini di sinistra: non è il governo che volevamo, ma sarebbe un suicidio non rispondere attraverso il governo ai bisogni vitali dell’Italia che soffre e regalare a Berlusconi le buone cose che Letta, auspicabilmente, farà. L’impegno serio, senza riserve, è la prova di umiltà per il Pd che vuole ricostruire se stesso nel vivo dei conflitti sociali (e non in un luogo separato dalla società). Ma un governo non si fa ad ogni costo, e non sarà Berlusconi a stabilire il limite. Non abbiano paura Letta e il Pd a dire i sì e i no. A cominciare dal no senza tentennamenti alla vergognosa manifestazione di ieri a Brescia, e alla presenza in essa di ministri del Pdl. Questa è una battaglia politica decisiva, altro che inciucio. Anche Vendola ha manifestato a Roma, dicendo giustamente che «la sinistra non può morire di berlusconismo». Purtroppo si resta vittime di Berlusconi anche quando l’opposizione al Cavaliere sopravanza e oscura le priorità sociali e l’azione di governo per risolvere i problemi veri degli italiani. Il vero cambiamento parte da qui e non dall’ordine giudiziario. Stefano Rodotà ha fatto bene ad avvisare la piazza di Vendola: pensare di costruire una sinistra vincente nella divisione è un errore, o forse addirittura una maledizione. A sinistra c’è sempre qualcuno che pensa di sottrarsi alle responsabilità e di trarre così vantaggi marginali nei passaggi più difficili. Noi non abbiamo cambiato idea sul valore regressivo, anzi distruttivo, della teoria delle «due sinistre ».

L’Unità 12.05.13

"L'esecutivo appena nato a Brescia rischia il crac", di Eugenio Scalfari

L’uscita in piazza di Silvio Berlusconi a Brescia per attaccare la magistratura e i giudici che l’hanno condannato in appello a pene severe, commisurate alle malefatte da lui ripetutamente commesse, si è svolta – e questo è l’aspetto politicamente più grave – con la presenza e la partecipazione di Angelino Alfano, vicepresidente del Consiglio e ministro dell’Interno, e dei ministri Gaetano Quagliariello (Riforme) e Maurizio Lupi (Trasporti e Infrastrutture). Enrico Letta, parlando nella mattinata di ieri all’assemblea del Pd, aveva già manifestato il suo dissenso dalla presenza di ministri del suo governo all’iniziativa di Berlusconi. Parleremo più dettagliatamente nel seguito di questo articolo delle conseguenze che quel che è accaduto a Brescia può avere, ma intanto ne segnaliamo la gravità e la necessità assoluta che mai pi ù si ripetano fatti analoghi.
Fatta questa premessa che tra poco svilupperemo, seguiamo ora i fatti accaduti ieri e le loro implicazioni secondo l’ordine cronologico in cui si sono svolti.
È la prima volta che un ex leader della Cgil diventa segretario del maggior partito della sinistra italiana che è in qualche modo l’erede del Pci.
Non ci riuscì Giuseppe Di Vittorio né Bruno Trentin né Luciano Lama e neppure Cofferati sebbene ne avessero tutti i numeri. Ce l’ha fatta invece Epifani, sindacalista al cento per cento ma di fede socialista nella corrente guidata allora da Antonio Giolitti.
Epifani governerà fino al prossimo ottobre, quando avrà luogo il congresso del partito. A stretto rigore nulla impedisce che il ‘traghettatore’, come molti lo chiamano per indicare il compito che gli è stato assegnato, si candidi alla successione di se stesso, ma i concorrenti sono molti, a cominciare da Matteo Renzi, la Bindi, Speranza, Cuperlo, Civati, Orfini, Zingaretti, Franceschini, per non parlare di Fabrizio Barca.
Comunque Epifani oggi c’è. Guider à il partito nei prossimi cinque mesi con compiti estremamente impegnativi che lui stesso ha indicato ieri nel suo discorso di presentazione.
Il primo sarà di assicurare la compattezza del Pd nell’appoggiare il governo Letta; il secondo di far sì che quell’appoggio sia attivo e non di rimessa, cioè intessuto di proposte che restituiscano al Pd la primogenitura e quindi la forza per disputare a Berlusconi il ruolo d’ispiratore numero uno del governo. L’appoggio attivo presuppone che il governo sia vissuto come necessario, utile e senza alternative in questa fase di crisi economica e sociale che l’Italia e l’Europa stanno attraversando.
Infine il terzo compito che riguarda la ricostruzione del partito, la partecipazione della base, il rinnovamento della squadra che affiancherà il segretario e, nei limiti
del possibile, lo smantellamento delle correnti che ne sono da tempo diventate altrettanti tarli, altrettanti feudi, altrettante confraternite di potere.
Cinque mesi, durante i quali Epifani dovrà attraversare le fiamme a piedi scalzi. Se ci riuscirà, quei cinque mesi diventeranno una fase essenziale nella storia della sinistra italiana e lui meriterà un oscar per averla guidata.

* * *
Enrico Letta è consapevole di quanto è accaduto all’assemblea del suo partito: se a partire da domani il Pd non gli assicurerà quell’appoggio attivo del quale abbiamo già detto, Letta vedrà aumentare il ruolo di Berlusconi e le sue pretese, la principale delle quali è che le promesse da lui fatte in campagna elettorale costituiscano la base dell’attuale governo. L’indipendenza del governo Letta e la stessa sua credibilità europea ne risulterebbero fortemente diminuite.
È pur vero che l’iniziativa del Pd che abbiamo chiamato appoggio attivo al governo non deve
andare al di là del limite implicito in un governo definito di larghe intese.
Ma su questo punto diventa preminente il ruolo del presidente del Consiglio poiché è a lui che spetta di stabilire e tradurre in atti esecutivi il programma del governo.
L’ha già fatto nel discorso di presentazione alle Camere, ma il discorso non basta anche perché in esso erano delineati due distinti piani di lavoro e due distinte finalità che hanno già suscitato pericolosi equivoci e inquietanti strumentalizzazioni che a nostro avviso debbono esser chiariti con la massima urgenza.
I due piani di lavoro sono da un lato gli interventi di politica economica e sociale necessari per avviare una concreta politica di crescita e di equità in Italia e in Europa nel rispetto degli impegni già presi con le autorità di Bruxelles e con i governi degli altri Paesi a cominciare dalla Germania.
Dall’altra parte le riforme costituzionali e istituzionali senza le quali la politica economica non avrebbe a sua disposizione gli strumenti adeguati e la democrazia italiana rischierebbe un tracollo già in parte verificatosi.
Quanto alle due (pericolose) finalità, esse sono gli scopi concreti per adempiere i quali è nato questo governo e la “pacificazione” auspicata tra le forze politiche che lo sostengono.
Se la pacificazione è limitata all’esistenza di questo governo, è ovvio che essa sia un requisito indispensabile d’una maggioranza parlamentare, sia pure di necessità; non significa buttarsi con le braccia al collo gli uni con gli altri, ma rispettare i legittimi interessi, l’equa ripartizione dei compiti, lo spirito di servizio e di squadra per i rappresentanti dei partiti chiamati a far parte del governo. Il che vuol dire che i ministri e sottosegretari, come pure i presidenti delle commissioni parlamentari, debbono avere rispettivamente come referenti primari il governo stesso e i presidenti delle Camere.
Ma se invece il concetto di pacificazione viene visto come un definitivo oblio di quanto ha diviso e divide le forze politiche presenti in Parlamento e nel Paese, se si tratta d’una definitiva cancellazione dell’incompatibilità tra le parti in questione; allora va detto che quest’obiettivo non è accettabile e non lo sarà fino a quando il centrodestra sarà guidato da Silvio Berlusconi.
Si è fatta molta polemica sulla parola “impresentabilità” ma francamente il vocabolario non ne contempla un’altra per esprimere un dato di fatto oggettivo. Un personaggio con una biografia come quella di Berlusconi non può avere il ruolo che da vent’anni riveste senza che lo spirito stesso della vita pubblica e delle istituzioni ne siano profondamente deturpati. In nessuna delle democrazie occidentali quest’elemento di degradazione sarebbe mai stato accettato e infatti nessun governo occidentale ha accettato Berlusconi e l’Italia da lui rappresentata come un partner credibile e affidabile.
Non si tratta d’una questione personale e soggettiva, ma politica e oggettiva: Berlusconi non è presentabile e non si tratta di un giudizio morale ma politico. Purtroppo il partito da lui fondato non ha saputo né potuto n é voluto uscire dalla minorità ed è tuttora, dopo vent’anni, di sua personale proprietà. Ecco perché una pacificazione non è possibile. Chiederla al Partito democratico significa precludere che esso partecipi ad un governo reso necessario dall’esito delle elezioni dello scorso febbraio e questo è il punto che Enrico Letta deve al più presto chiarire; se non con le parole, con i fatti.
Con le parole l’aveva in parte già chiarito nel suo discorso d’insediamento parlamentare quando, ricordando il pensiero di Nino Andreatta che fu il suo maestro, disse: «Questo governo non si propone di fare la politica ma le politiche, cioè le cose concrete delle quali la gente ha necessità e bisogno». Dunque un governo di scopo come lo fu quello Ciampi del 1993 e poi quello Dini del 1994.
Del resto l’incompatibilità di Berlusconi è stata plasticamente riconfermata da quanto è avvenuto a Brescia con l’aggravante che a quella manifestazione contro la magistratura milanese, accusata d’avere emesso una sentenza sfavorevole a Berlusconi, hanno partecipato non solo tutti i dirigenti del Pdl ma anche il vicepresidente e ministro dell’Interno, Angelino Alfano. Nello stesso contesto (Alfano sempre presente e partecipe) Berlusconi ha anche definito la Corte costituzionale come un’istituzione infeudata alla sinistra politica. Ripeto: ad una pubblica manifestazione di piazza contro la magistratura. Cioè i rappresentanti del potere esecutivo che interferiscono sull’autonomia del potere giudiziario. Berlusconi, imputato e privo di cariche di governo, può spingere la sua protesta fino al ricorso alla piazza, ma i membri del governo no. Sarebbe intollerabile che questo “vulnus” si ripetesse.
Crediamo dunque indispensabile che il presidente Letta intervenga ancora con la massima ed esplicita chiarezza al riguardo. Un aut-aut è indispensabile se il governo vuole continuare ad esistere con l’appoggio del Pd e della pubblica opinione democratica.

La Repubblica 12.05.13

"Nuove ricette per creare lavoro", di Laura Pennacchi

Per qualunque Governo oggi la priorità delle priorità è il lavoro. Finalmente anche l’Unione europea sta arrivando alla consapevolezza che alla straordinarietà – per natura, profondità, durata – della crisi economica e del suo impatto occupazionale occorre rispondere con politiche altrettanto straordinarie, come la Youth Garantee (Garanzia Giovani) di cui si parla da mesi e su cui dovrebbe gravitare il Consiglio del prossimo giugno. Mentre la disoccupazione americana è scesa al 7,5%, il minimo dal 2008, in conseguenza delle politiche espansive di Obama che hanno portato alla creazione nel 2013 di un numero medio mensile di posti di lavoro di 200.000 unità, nel vecchio continente la disoccupazione rimane ai massimi storici, i112,2%, che vuol dire 26 milioni di disoccupati di cui 5 milioni giovani. Alle punte del 27% raggiunte in Spagna e Grecia fa riscontro l’Italia, con una disoccupazione (ora all’11,8%) destinata a salire, in assenza di interventi, al 12,2% nel 2014. Di fronte a tale eccezionale criticità non appare adeguata l’inerziale ripetizione di misure che già in passato si sono dimostrate insufficienti, misure utili – quali gli incentivi fiscali all’assunzione di giovani ventilate dal governo Letta – ma pur sempre tradizionali, volte a sollecitare in modo incrementale l’occupabilità e l’attivazione dei soggetti, o addirittura interne all’armamentario di quella supply side economics (flessibilizzazione del mercato del lavoro, concorrenza, liberalizzazioni e privatizzazioni) che è stato uno dei pilastri dell’austerità autodistruttiva di marca tedesca. Non deve sfuggirci che gli Usa invertono il trend della occupazione americana grazie agli investimenti pubblici che Obama ha collocato al centro delle sue politiche espansive, quegli investimenti pubblici che da noi il duo Berlusconi-Tremonti ha pervicacemente e sistematicamente tagliato per anni, fino al punto di azzerarli come è avvenuto con il Fondo per le politiche sociali. La «non convenzionalità » che Obama ha impresso alla politica economica governativa americana – associandola alla «non convenzionalità » della politica monetaria della Fed, la quale inonda mensilmente i mercati di 85 miliardi di dollari di liquidità – è ciò che consente agli Usa di sostenere la crescita e rigenerare l’occupazione. Il loro esempio viene solo parzialmente seguito dalla Bce europea – per i vizi di impostazione originaria che hanno presieduto alla creazione dell’euro mentre è enfatizzato dal Giappone e dallo stesso Regno Unito. Dunque, per poter tornare a generare lavoro, dobbiamo prendere atto di tre cose: 1) servono politiche, macroeconomiche e microeconomiche, «non convenzionali» che rompano con il paradigma dominante; 2) la «non convenzionalità» ha un compito duplice, rilanciare la crescita e cambiarne in corso d’opera la natura e la qualità mettendo le basi di un nuovo modello di sviluppo; 3) il motore di questa «non convenzionalità » non può che essere che pubblico e valersi del big push degli investimenti pubblici, traducendosi in primo luogo in un grande Piano del lavoro che contempli anche progetti di creazione diretta di occupazione, facendo uscire dal dimenticatoio nobilissimi strumenti dell’eredità keynesiana, tra cui la figura del «lavoro socialmente utile». Se ieri la teoria e la politica economica hanno fallito nel prevenire un eccessivo indebitamento privato rivelatosi alla fine insostenibile, oggi la principale sfida macroeconomica scaturisce dagli effetti deflazionistici del deleveraging (riduzione dell’indebitamento) del settore privato, il quale – essenziale per riconquistare la stabilità finanziaria di lungo termine – crea un ambiente macroeconomico immensamente rischioso, in quanto le sofferenze della bassa crescita possono durare non per anni ma per decenni. In condizioni di balance sheet recession (recessione indotta da riequilibrio dell’indebitamento) aumenta considerevolmente l’inelasticità degli operatori dell’economia reale, si approfondisce la «trappola della liquidità» in cui siamo entrati e in cui ogni nuova sostituzione di moneta con titoli ha effetti minimi sui comportamenti, la distruzione di valore patrimoniale netto e una paradossale illiquidità feriscono tutti gli operatori, i profitti flettono e gli investimenti privati crollano. L’esigenza di un motore pubblico per gli investimenti e la possibilità di generare occupazione tornano a configurarsi come un binomio inscindibile. Per questo Obama si ispira al New Deal e riscopre l’attualità di Keynes, il quale giunse a parlare di «socializzazione dell’investimento », nell’analisi di Minsky spinta fino a comprendere la «socializzazione della banca» (e Obama crea una banca pubblica per le infrastrutture) e la «socializzazione dell’occupazione ». Beni sociali, beni comuni, green economy possono essere l’orizzonte strategico complessivo dei singoli progetti: «il mondo ha fame di beni pubblici», dice Martin Wolf. I campi di estrinsecazione di questa progettualità possono essere molteplici, dalle reti alla ristrutturazione urbanistica delle città, dalle infrastrutture alla riqualificazione del territorio, dai bisogni emergenti – attinenti all’infanzia, l’adolescenza, la non autosufficienza – al rilancio del welfare state, per il quale, invece, vanno contrastate le persistenti intenzioni di privatizzazione (che albergano anche tra le componenti di destra del governo Letta). La creatività istituzionale del New Deal di Roosevelt è un antecedente a cui ispirarsi, come lo sono il Piano del lavoro della Cgil del 1949 e l’antiveggente proposta di Ernesto Rossi di innestare la generalizzazione del servizio civile nella creazione di uno straordinario «esercito del lavoro». Si dirà: ma l’Italia non è un Paese grande e potente come gli Usa, utilizzanti tra l’altro la forza del signoraggio del dollaro. Eppure non è un’obiezione valida. Intanto è ovvio che la battaglia cruciale si combatte oggi in Europa. Ma allargamenti delle possibilità di manovra sono possibili anche a scala nazionale e anzi sono la leva su cui spingere per indurre più incisivi cambiamenti a scala continetale. Che cosa impedirebbe oggi all’Italia, se non una diversa visione – segnata da quella discriminante destra/sinistra che è ben lungi dall’essere scomparsa – di destinare una parte dei proventi di una eventuale tassazione patrimoniale a finanziare un grande Piano per la creazione di lavoro per giovani e donne basato sulla green economy, i beni comuni, i beni sociali?

L’Unità 11.05.13

Lettera aperta al ministro Carrozza

Gentilissima Ministra Maria Chiara Carrozza,
siamo un gruppo di insegnanti da tempo impegnati, attraverso convegni e contatti fra noi sistematici, a far sì che la scuola possa assicurare a tutti gli studenti che vi accedono i diritti costituzionalmente sanciti.
La scuola italiana, signora Ministro, versa in una condizione di forte disagio, alimentato da continui tagli e da mancato investimento di risorse. Siamo molto preoccupati per il futuro dei nostri giovani a causa della scarsa qualità del sistema, del continuo e repentino cambiamento introdotto da politiche per lo più miopi sotto il profilo pedagogico, più attente ad economizzare piuttosto che a “scommettere” sulla concreta rinascita che non può realizzarsi se non si darà vitalità e linfa alla scuola stessa. Ripartire dalla scuola è quanto mai necessario: è un imperativo!
Siamo convinti che, per la funzione docente, professionalità e competenza siano qualità imprescindibili, in quanto determinanti per la formazione e per il futuro dei nostri giovani.

Le questioni che ci permettiamo di sottoporre alla Sua attenzione sono numerose e racchiuse in principi per noi irrinunciabili:

• assicurare l’accesso a tutti i cittadini a tutti gli ordini e gradi di scuola, senza selezione e senza sbarramenti;
• assicurare interventi pedagogico-didattici coerenti e di qualità a ciascun alunno, concretizzando il successo formativo;
• implementare e potenziare il sistema pubblico, nato per rispondere ai bisogni formativi dei futuri cittadini e alla loro integrazione;
• assicurare competenza e professionalità attraverso corsi di aggiornamento e di formazione per il personale docente e dirigente scolastico in servizio, in modo che sappiano rispondere alla molteplicità di bisogni presenti nelle classi;
• assicurare competenza e professionalità per gli aspiranti docenti (formazione iniziale), in modo che sappiano rispondere alla molteplicità di bisogni presenti nelle classi;
• assicurare agli alunni luoghi accessibili e spazi adeguati in strutture sicure;
• assicurare agli alunni la massima partecipazione, in contesti classe non sovraffollati;
• assicurare agli alunni “insegnanti stabili” fin dal primo giorno di lezione e per la durata di ciascun ciclo scolastico (certezza e non precariato);
• assicurare la piena integrazione degli alunni con disabilità con risorse adeguate e attraverso una formazione coerente del personale scolastico.

In qualità di insegnanti siamo consapevoli della difficoltà di dirigere e di governare il “sistema scuola” in un momento tanto delicato; ma proprio perché il momento è particolarmente complesso, riteniamo fondamentale che siano assicurate alla scuola adeguate risorse e, al tempo stesso, che venga restituita fiducia e dignità al sistema di istruzione e ai suoi insegnanti. Investire in una scuola “pubblica” e “di qualità” è la scelta più coerente per un Paese capace di guardare “oltre”, di progettare a partire dal presente, di capitalizzare le sue risorse.

Pur consci dei Suoi numerosi impegni ci farebbe piacere poterLa incontrare per confrontarci con Lei sulle tematiche sopra elencate e per portare alla Sua attenzione il nostro contributo, in quanto persone che “vivono la scuola e nella scuola” e che credono in essa quale agenzia primaria per lo sviluppo e per la formazione.

Consapevoli che è nostro compito operare per assicurare alla scuola italiana qualità, competenza, equità, professionalità al fine di favorire il successo formativo di ciascun studente, rimaniamo fiduciosi in attesa di una Sua cortese risposta.

Il comitato promotore
Caterina Altamore, Palermo
Brunello Arborio, Terni
Evelina Chiocca, Trento
Paolo Fasce, Genova
Maria Rita Gadaleta, Reggio Emilia
Paolo Lombardi, Ravenna
Antonella Trupia, Palermo