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"Salari, nuova scure sugli Ata", di Franco Bastianini

Sul personale amministrativo, tecnico ed ausiliario in servizio nelle scuole statali starebbe per abbattersi un altro taglio alla retribuzione nonostante sia già la più bassa tra i lavoratori del pubblico impiego. Questa volta il taglio riguarderebbe il compenso percepito dal 2011 dal personale che ha avuto accesso, a decorrere appunto dal 2011, alla prima o seconda posizione economica, come espressamente previsto dall’art. 50 del contratto collettivo nazionale di lavoro in vigore e dagli specifici contratti nazionali integrativi.
Per accedere a tali posizioni i collaboratori scolastici e il personale amministrativo di ruolo hanno dovuto frequentare, con esito favorevole, un apposito corso di formazione e, successivamente, hanno svolto compiti qualitativamente e quantitativamente superiori a quelli previsti dall’apposito mansionario.

Il rischio che possa essere chiesto al personale interessato la restituzione delle somme percepite in quanto titolari di una delle due posizioni economiche nasce principalmente dal parere negativo formulato dal Dipartimento per la Funzione Pubblica all’ipotesi di accordo intervenuto tra il ministero dell’istruzione e le organizzazioni sindacali del comparto scuola proprio sulle attribuzioni delle posizioni economiche previste dal contratto scuola in vigore. Un parere negativo, quello del ministero guidato da Gianpiero D’Alia, motivato dalla considerazione che l’accordo non rispetta il disposto dell’art. 9 del decreto legge n. 78/2010. La norma in questione disponeva che, per gli anni 2011, 2012 e 2013, il trattamento economico complessivo dei dipendenti pubblici non superasse quello in godimento nell’anno 2010. L’altro punto del parere negativo deriva dalla tesi sostenuta dal Dipartimento secondo la quale l’attribuzione di una posizione economica equivarrebbe ad una progressione economica di carriera, progressione asclusa appunto dall’art. 9 citato. Alcune organizzazioni sindacali ( si conoscono al momento le opinioni di Cgil e Uil) ritengono tuttavia che una eventuale richiesta di recupero della somme sarebbe una pretesa inaccettabile sia perché le somme sono state percepite «in buona fede dal personale», sia perché non sarebbe costituzionalmente corretto: le somme in questione sono state percepite quale corrispettivo di una attività lavorativa regolarmente svolta.

da ItaliaOggi 14.05.13

I sindacati: il governo dimentica la scuola. "Manca nel programma dei 100 giorni", di Salvo Intravaia

Scuola “dimenticata” tra le priorità dei primi 100 giorni di governo. E scoppia la polemica di sindacati e pezzi del Pd che ricordano al premier Letta i sacrifici che scuola e insegnanti sono stati costretti a fare negli ultimi 5 anni. Il primo a rompere gli indugi è il segretario generale della Cisl scuola, Francesco Scrima, che parla di grandi assenti, riferendosi a istruzione e formazione. Scrima ricorda al governo come “cento giorni, o poco più, sono anche quelli che ci separano dall’avvio di un nuovo anno scolastico, che vorremmo si aprisse in un clima finalmente nuovo e diverso”.

“Non chiediamo – continua i l leader della Cisl scuola – soltanto un recupero di giusta considerazione per una categoria che ha visto negli ultimi tempi diminuire i riconoscimenti e aumentare enormemente i fattori di disagio; è il paese ad aver bisogno di una politica che consideri istruzione e formazione come leve strategiche per la ripresa della crescita”. E “occorre dare un segnale forte ed esplicito di considerazione”, almeno sulle grandi emergenze “edilizia scolastica, stabilizzazione del lavoro, adeguato riconoscimento delle professionalità”, se davvero, citando lo stesso premier, si vuole “ridare entusiasmo e mezzi idonei agli educatori che in tante classi volgono il disagio in speranza”.

Dopo 132mila posti di lavoro e 3 miliardi tagliati nella scuola, la Flc Cgil è ancora più esplicita. “Il governo – dichiara Mimmo Pantaleo – non può ignorare tra le priorità la scuola pubblica. Dopo i tagli epocali della Gelmini e quelli della spending review del governo Monti è necessario investire in istruzione, formazione e ricerca”. La Cgil chiede al governo di fare retromarcia su scuola e formazione perché “l’effetto dei tagli e delle controriforme di questi anni rischiano di avere effetti devastanti anche nel futuro”. Lunghissimo l’elenco delle priorità per la scuola segnato da via Serra: “aumento degli organici, piano di stabilizzazione per i precari, edilizia scolastica, rinnovo dei contratti nazionali e lotta alla dispersione scolastica”.

“Non è più tempo di annunci ma di fatti!”, dichiara Pantaleo che invita la ministra Maria Chiara Carrozza ad “attivare immediatamente il tavolo di confronto con le organizzazioni sindacali su questi temi che hanno bisogno di condivisione”. Anche per la Uil scuola l’istruzione deve entrare tra le priorità del governo. Ma a tirare per la giacca i premier Letta sull’istruzione ci pensano anche i suoi compagni di partito. Per l’ex ministro della Pubblica istruzione, Beppe Fioroni, “è indispensabile aggiungere tra le priorità del governo anche la scuola”. Se si saltano, infatti, i prossimi cento giorni – continua il parlamentare del Pd – se ne dovrà riparlare direttamente nell’anno scolastico 2014/2015″. E la scuola non può più aspettare.

“La scuola – ricorda Fioroni – ha bisogno di discontinuità e interventi: in queste ore si stanno concretizzando ulteriori tagli decisi ben prima del governo Letta, tagli che rischiano di mettere in discussione persino il diritto alla scuola materna”. Invito, ripreso anche dalla neosenatrice del Pd, Francesca Puglisi, capogruppo in commissione Istruzione a palazzo Madama. “Un governo di servizio deve intervenire anche sulle emergenze che sta vivendo la scuola dopo 5 anni di tagli dissennati. Il Pd le ha individuate da tempo con la propria elaborazione programmatica. Le offriamo al governo e il contributo concreto arriverà anche dal Parlamento”.

Per la parlamentare “occorre rendere effettivo il passaggio all’organico funzionale, stabilizzando coloro che lavorano su posti vacanti” e utilizzare i pensionamenti dei prossimi anni per stabilizzare 10mila giovani insegnanti”. E ancora “tempo pieno alla primaria e tempo scuola nella secondaria di primo e secondo grado per accompagnare tutti, non uno di meno al proprio successo formativo e scolastico”. Per “lo sviluppo di un paese – dichiara la senatrice Pd, Rosa Maria Di Giorgi – è fondamentale tornare a investire subito su scuola, formazione e università”. “Siamo ultimi in Europa – conclude – per fondi spesi in cultura e penultimi per quelli destinati all’istruzione”

La Repubblica 14.05.13

"Così possiamo fermare il femminicidio", di Roberta Agostini

La strage silenziosa delle donne nel nostro paese continua, raccontata con il clamore dei casi di cronaca. Ilaria Leone, Alessandra Iacullo, Chiara di Vita, Michela Fioretti sono state le ultime, in ordine di tempo a perdere la vita uccise da mani maschili.
Nonostante le apparenze, il primo punto da tenere bene a mente è questo: non si tratta di un’emergenza ma di un fenomeno radicato, pervasivo e strutturale, che ha bisogno di essere letto e considerato come tale.
Ci si interroga di fronte all’ennesimo caso e ci si chiede il motivo dell’esplosione di tanti delitti. Massimo Recalcati qualche tempo fa ha scritto che la violenza non è una regressione dall’uomo all’animale, ma accompagna da sempre, come un ombra, la storia dell’uomo. Nasce dall’incapacità (maschile) di accettare il proprio limite, il proprio fallimento, «la ferita narcisistica subita dalla propria immagine» in una miscela esplosiva di narcisismo, appunto, e depressione. Totalmente immersi in una cultura che insegue il «nuovo» ed il «successo» il ricorso alla violenza esorcizza vulnerabilità ed insufficienza.Qui, credo, dobbiamo registrare l’andamento di un dibattito pubblico che è, anche se solo in parte, cambiato. Fino a qualche anno fa non era un dato acquisito ricercare la causa della violenza nelle relazioni sbagliate tra uomini e donne, in una concezione maschile di dominio, in un’incapacità di accettare libertà ed autonomia femminile. Forse non lo è neppure ora, ma il piano dell’ordine pubblico e della sicurezza (che pure è importante per la vivibilità delle città) è stato dominante in molti passaggi cruciali. Ricordo gli argomenti branditi come una clava durante la campagna elettorale di cinque anni fa di fronte alla terribile morte della signora Reggiani a Roma. La sicurezza urbana va garantita, ma questa garanzia non è condizione sufficiente per battere la violenza.
Abbiamo nominato quello che, sotto gli occhi di tutti, senza un nome non veniva visto e riconosciuto, il femminicidio. Queste morti non le possiamo più catalogare in modo indistinto nella cronaca nera: le donne sono uccise in quanto e perché donne, in quanto appartenenti ad un genere, fatte oggetto di discriminazioni, ingiurie, offese e lesioni fisiche, economiche, psicologiche.
Non è una parola solo italiana. Viene dal Messico e arriva fino in India dove grandi manifestazioni contro le barbare uccisioni attraversano il Paese. È il risultato di un movimento mondiale che lavora in molti modi diversi per affermare il ruolo e difendere la dignità delle donne: nelle forze sociali e politiche, nelle associazioni, nelle università, nelle case e nei centri antiviolenza. Molte delle uccise avevano precedentemente denunciato il loro aguzzino. Cosa è successo, perché non sono state ascoltate e protette da chi aveva il compito di farlo? Cominciamo a ricercare le responsabilità. E poi rilanciamo politiche concrete, sappiamo cosa fare ce lo dicono documenti ed esperienze, nazionali ed internazionali.
È indispensabile in primo luogo conoscere il fenomeno attraverso un Osservatorio e poi rafforzare la presenza dei centri antiviolenza e dei servizi, pubblici e convenzionati, luoghi dove si può chiedere aiuto e dove le donne possono essere ascoltate e prese in carico da altre donne. Ed è indispensabile che i centri siano nodi di una rete territoriale che connetta servizi sociali, ospedali, forze di polizia.
È necessario formare tutti gli operatori ed i soggetti che accolgono, sostengono e soccorrono le donne vittime di abusi; attivare campagne di prevenzione e sensibilizzazione a partire dalle scuole, educando i bambini al rispetto tra i sessi; introdurre norme per la tutela della vittima nella fase più delicata del procedimento penale ovvero quella delle indagini; assegnare carattere prioritario per i procedimenti penali per i reati sessuali o contro la personalità individuale per consentire alle vittime di vedere nel più breve tempo possibile soddisfatti i loro diritti.
Servono risorse ed un fondo stabile appositamente dedicato. E quale migliore occasione di un Parlamento fortemente rinnovato e con il 30% di presenza femminile? Chiediamo da tempo che il Parlamento ratifichi la Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa per la prevenzione ed il contrasto della violenza domestica e sulle donne. Ora è possibile farlo. Sosterremo senza esitazioni la proposta della ministra Idem di una task force contro il femminicidio. Altrettanto importante sarebbe se tutte le elette si facessero portatrici di un percorso di condivisione con le associazioni e con i centri anti violenza per formulare una proposta di legge sul femminicidio che segua e dia attuazione alla Convenzione, da approvare il prima possibile. C’è uno strumento ancora che abbiamo per sconfiggere la violenza, che è politico e simbolico. Riguarda la forza e l’autorevolezza delle donne che ricoprono ruoli decisionali, che siedono ai vertici delle istituzioni, che guidano l’economia. Le offese e le minacce alla presidente Boldrini ci parlano anche di questo, ancora una volta della difficoltà di accettare il fatto che una donna ricopra un ruolo tanto importante. Le donne devono tornare a fidarsi dello Stato e delle istituzioni e lo Stato deve affidarsi di più alle donne . Il nostro impegno di elette sarà essenziale affinché le cittadine italiane possano sentirsi rappresentate e sentano la nostra presenza utile per la loro quotidianità.

L’Unità 14.05.13

"Le superscuole che comandano il mondo", di Federico Rampini

Perfino in un paese come il nostro, le cui università non figurano in cima alle classifiche mondiali, esistono comunque degli atenei percepiti come “élitari”, abituati a sfornare pezzi di classe dirigenti, e quindi a creare una mentalità da “clan”, reti di amicizie, cordate utili per fare carriera nella politica o altrove.
Le polemiche divampano anche in Francia. Le fortune politiche declinanti di François Hollande vengono sottolineate con una sorta di insulto: «Enarca». Se questo presidente socialista ha deluso le aspettative degli elettori, e la sua popolarità è crollata, per i suoi detrattori la causa è anche quella: come troppi “grand commis” dello Stato francese, Hollande è un tipico prodotto dell’Ecole Nationale d’Administration (Ena), la fucina della classe dirigente. Un corpo separato, insomma, una sorta di palestra dei leader troppo avulsa dalla società civile, dall’economia reale. È un paradosso, perché l’Ena venne fondata nel 1945 dal presidente Charles de Gaulle e dall’intellettuale- ministro Michel Debré, proprio con la missione di «democratizzare l’accesso ai vertici della pubblica amministrazione». Attraverso regole di reclutamento puramente meritocratiche, l’Ena doveva spalancare le porte del governo ai francesi più bravi, indipendentemente dal ceto sociale di origine. In parte c’è riuscita, ma il suo successo ha un prezzo. L’Ena è diventata il simbolo di un establi-shment auto-referenziale, abituato a promuovere i propri simili. Fino a formare un suo “pensiero unico”, una serie di valori e di regole condivise dai gollisti ai socialisti. Nella storia della Quinta Repubblica, l’Ena ha sfornato tre presidenti della Repubblica, sette primi ministri, la maggioranza assoluta dei prefetti, e anche tanti Présidents Directeurs Généraux, chief executive di multinazionali e banche. A lungo questa sembrò una forza del sistema francese: da una parte la sua attenzione alla formazione delle classi dirigenti; dall’altra una certa omogeneità tra destra e sinistra, su alcuni valori comuni fondamentali della République. Oggi, in tempi di recessione e con una società civile disillusa sui governanti, anche l’Ena finisce sul banco degli imputati.
Se questa storia ha un inizio, bisogna cercarlo qui in America. Perché nessun’altra nazione al mondo ha costruito la sua leadership investendo così tanto nel sistema universitario. E nessun’altra superpotenza ha mai innalzato, glorificato, idolatrato a tal punto gli “esperti” al governo. Chiamateli tecnocrati, se preferite il neologismo corrente. Negli anni Trenta, il presidente Franklin Delano Roosevelt si circondò delle celebri “teste d’uovo”, professori universitari usciti dai migliori atenei d’America, per concepire le politiche anti- depressione del New Deal.
Sotto John Kennedy li ribattezzarono “the Best and the Brightest”, i migliori e i più brillanti. Erano gli uomini incaricati di elaborare la politica estera della Casa Bianca. Spesso il presidente li reclutava dalla stessa università dove si era laureato lui. E questa tradizione non si è mai interrotta. L’unica differenza, rispetto all’Ena francese o al fenomeno degli “etoniani” in Inghilterra, è che negli Stati Uniti la schiera delle superscuole è più vasta e concorrenziale, a immagine e
somiglianza della nazione. C’è una rivalità antica in questo campo: fra Harvard e Yale. In vantaggio rimane Harvard, con otto presidenti degli Stati Uniti che vi si sono laureati, oltre a 75 premi Nobel, e 62 imprenditori miliardari (tra questi ultimi contando solo i vivi). Da Harvard sono usciti con un diploma i presidenti John Adams, John Quincy Adams, i due cugini Theodore e Franklin Roosevelt, John Kennedy. Ma più di recente Barack Obama, pur avendo preso la sua prima laurea alla Columbia University di New York, finì col conseguire il diploma di Law School anche lui a Harvard. Mentre Yale ha formato i due George Bush padre e figlio, nonché (alla sua Law School) Gerald Ford e Bill Clinton. Il panorama americano è più competitivo grazie a Princeton, Stanford, Berkeley, Johns Hopkins, e vari altri super-atenei che hanno prodotto anch’essi generazioni di vip, dirigenti politici o
economici. E tuttavia anche negli Stati Uniti questo sistema viene messo sotto accusa. A riprova, il direttore delle relazioni esterne di Harvard, Jeff Neal, è stato costretto a scrivere una lunga lettera al New York Times, per rispondere alle critiche sempre più pesanti sul suo sistema di selezione degli iscritti. «Harvard accoglie studenti di talento da ogni ambiente etnico e sociale — ha scritto Neal — e noi garantiamo un esame olistico, completo, che guarda ai risultati accademici, alla leadership, alle referenze, al carattere, alle esperienze di lavoro». Questa lettera, che dovrebbe placare le polemiche sulla iper-selettività di Harvard (meno del 10% delle domande di ammissioni ricevono una risposta positiva), al contrario le ha rinfocolate. Perché è proprio dietro l’approccio “olistico” che si nascondono ingiustizie, discriminazioni, favoritismi. I figli di “alumni”, rampolli di buona famiglia i cui padri e nonni già uscirono da Harvard e ne sono generosi donatori, hanno delle corsie preferenziali implicite. Lo stesso vale per tutte le università di élite: non si spiega altrimenti il fatto che George W. Bush fu accettato nell’università del padre pur essendo (per sua stessa ammissione) uno studente mediocre. Il vantaggio per Yale, di avere un figlio di presidente? Sta tutto in una parola: “Networking”. Nelle superscuole non si va soltanto per ricevere un’istruzione di alta qualità dai migliori docenti del pianeta, ma anche per conoscere le persone “giuste”. Networking, cioè letteralmente “lavoro di rete”, è l’investimento in relazioni umane, conoscenze: spesso il più redditizio nel lungo termine. Questo spiega perché perfino i rampolli dei presidenti cinesi finiscono a Harvard… Ma il pericolo è identico a quello che si corre nella vecchia Europa. Una requisitoria implacabile è nel saggio “Perché le nazioni falliscono”, di Daron Acemoglu e James Robinson (tradotto ora in Italia dal Saggiatore). Il declino colpisce quelle nazioni che si trasformano da “società inclusive” a “società estrattive”. Ovvero, quando diventano oligarchiche, governate da élite che si auto-perpetuano. Il rischio di un mondo dominato dalle superscuole è proprio questo: società ingessate, incapaci di ricambio, dove la mobilità sociale si blocca.

La Repubblica 14.05.13

"Invalsi, primo test per Carrozza", di Alessandra Ricciardi

Il decreto non è ancora stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale. É questo dato di fatto giuridico che aprirebbe la strada a una revisione delle regole del nuovo sistema di valutazione delle scuole. Un regolamento che è stato fortemente voluto dall’ex ministro dell’istruzione, Francesco Profumo, alla vigilia della fine del proprio mandato e su cui il successore, Maria Chiara Carrozza, è chiamata a decidere se e come andare avanti.
Lo sciopero indetto dai Cobas contro le prove Invalsi in corso (oggi per la scuola secondaria di primo grado e il 16 maggio per quella di secondo grado) ha riscosso una percentuale minima di adesioni da parte degli insegnanti, meno dell’1%. Ma è l’umore nelle scuole a pesare negativamente. Perché se è vero che somministrare i test è obbligatorio, è anche vero che molti docenti non ne condividono le finalità (si finirebbe per piegare la didattica al successo ai test e non a lavorare sull’apprendimento in quanto tale, critica la Flc-Cgil) e molti genitori sottolineano il nuovo aggravio di impegni per i ragazzi, che si sono visti recapitare anche la richiesta di un contributo per l’acquisto di test di preparazione. Il ministro al momento è prudente: va ridimensionato l’impatto che si attribuisce al test Invalsi, ha detto, «è un test di valutazione che verrà usato anche per finalità conoscitive, per capire il mondo della scuola e le sue peculiarità territoriali».

Il grimaldello da utilizzare per riaprire il provvedimento che disegna il sistema nazionale è dato da quei rilievi sollevati dalle commissioni parlamentari, dal Consiglio di stato e dal Cnpi e che il governo Monti, in sede di approvazione del decreto, ha in larga misura ignorato. Per esempio il ruolo dell’Invalsi, la marginalizzazione degli ispettori, e la scarsa revisione degli obiettivi di apprendimento che valorizzino la personalizzazione degli apprendimento. Ma anche la confusione tra valutazione del sistema e valutazione dei dirigenti delle scuole. Quale debba essere il prossimo futuro della valutazione in Italia è ancora da definire.

da ItaliaOggi 14.05.13

"La verità e la fiction", di Natalia Aspesi

Ilda Boccassini, con voce ferma e stentorea, ha lapidato l’illustre imputato con una imponente valanga di tutte le testimonianze, tutte le intercettazioni, tutte le prove raccolte in questo lungo processo, il sedicesimo per il vivace, dal punto di vista della legge, Silvio Berlusconi, in questo caso accusato di concussione e prostituzione minorile. Nel Palazzo di Giustizia di Milano ieri è echeggiata la verità processuale, cioè la verità, quindi l’opposto di quello che la sera prima la trasmissione “La guerra dei vent’anni” aveva proposto agli spettatori di Canale 5, proprietà dell’imputato. Nell’aula i fatti, in video la Delly. In aula l’austerità del luogo, delle tre donne giudice, delle toghe, della parola, del silenzio, in video un signore disinvolto in maglioncino blu, con in mano i soliti fogli che non guarda mai e devono quindi essere o un tic o un portafortuna, in ginocchio a far domande tremule un giornalista stipendiato dall’imputato, come tutte le signorine, Ruby compresa, che dell’imputato hanno parlato come fosse l’Abbé Pierre, dedito sia alla castità che alla beneficenza e forse anche al cilicio. In aula dure panche, vecchie poltrone di plastica, lo scranno dei giudici; in video un divano damascato, più i deliranti arredamenti di una villa un tempo sontuosa, ora con salone da pranzo e tavolone con tovaglia di broccato rosso e oro per le famose “cene eleganti” e un teatrino tutto foderato di moquette per i giocondi “burlesque”. Però non si sa mai come reagiscono gli italiani: si immaginava che il gigantesco spot pro imputato (che non tutti gli imputati possono permettersi), proprio la sera prima della requisitoria che aspettava da più di due mesi di essere conclusa, avrebbe mandato in delirio gli appassionati di Canale 5, videoprocessi, soap opera, belle ragazze tutte uguali causa naso bocca guance sedere seno rifatto, pessimo arredamento e, soprattutto, di Berlusconi, invece niente.
Anche i nove milioni di italiani che l’hanno votato e che vengono usati come un mantra quando il capo ne fa una grossa, se la sono data a gambe, chissà, persino preferendo Report: infatti quel simpatico cartone animato fantasy che processava il processo, privato della realtà, l’ha sopportato meno del 6 per cento dello share, cioè meno di un milione e mezzo di spettatori. E se mai a qualcuno venisse l’idea bizzarra di paragonare il processo a una trasmissione televisiva, è proprio alla crudezza convincente di Report cui bisogna pensare. La requisitoria ha illustrato l’itinerario di precoce prostituzione di Ruby, che Boccassini chiama sempre «la minore», ancor prima di essere offerta dai soliti Fede e Mora all’allora premier. Poi ha confermato la certezza che l’imputato sapeva che la bella ragazzina
era minorenne, facendo comunque sesso con lei. Del resto la supposta nipote marocchina di Mubarak, pace all’anima sua, era certo una vittima della incontenibile lascivia presidenziale, però usciva da quella casa esagerata carica di bigliettoni da 500 euro. Tanto che il vetusto e ultradovizioso innamorato risulterebbe averle dato 4 milioni e mezzo di euro, anche direttamente di tasca sua, non solo attraverso il buon ragionier Spinelli, cui ricorrevano o forse ricorrono ancora, le svelte olgettine comunitarie ed extracomunitarie, colpite dalla fortuna dei canuti e ritinti appassionati di bunga bunga.
Ruby, che nel video pro Berlusconi appariva, l’altra sera, come una suora laica missionaria tra i lebbrosi o tra quelli che Bossi chiamava appunto i bongo bongo, ha lamentato la Boccassini, «è stata vittima del sogno italiano che hanno le ragazze delle ultime generazioni, entrare nel mondo dello spettacolo e fare soldi». Ma a sentire dalle loro telefonate il disgusto delle olgettine per certi corpacci da soddisfare tra uno spettacolo e l’altro, forse quel tipo di sogno lì è adesso più raro, almeno si spera. In quella specie di postribolo che con i rigori della legge, la pm riesce ad evocare, primeggia la Minetti, una «rappresentante delle istituzioni che si barcamenava in un doppio lavoro, di consigliere regionale e di responsabile delle case prestate alle olgettine». Le cene eleganti erano ancora più eleganti per la presenza delle parlamentari Rossi e Ronzulli, il cui impegno disimpegnato forse si fermava agli antipasti. Ma certo Ruby continua ad essere la protagonista, nella ricostruzione della Boccassini: «Era la preferita, la più gettonata, partecipava a tutte le serate». E il presidente approfitta pure delle feste comandate, anche di quelle che non gli piacciono, tipo il 25 aprile e il primo maggio.
Sembra fredda la pm, ma è così emozionata che si lascia sfuggire due gaffe, attribuendo alla furba Ruby «una furbizia orientale» apriti cielo, come sarà questo tipo di furbizia, tenendo poi conto che il Marocco è in Nordafrica? Proteste inferocite. Boccassini alla fine dopo tanta precisione e calma, ha un momento di fragilità e confessa come, il giorno in cui i parlamentari berlusconiani hanno invaso il palazzo tentando di entrare in aula, si sia «sentita smarrita», certamente ferita per il colpo inferto alla solennità della magistratura. Alla fine si lascia sfuggire, «il pubblico ministero condanna», anziché chiede la: comunque va giù pesantissima, 6 anni di carcere e mai più pubblici uffici. Gli avvocati difensori ridono beffardi, sono già scoppiati i tumulti pdl, sempre uguali, si attendono le arringhe dei difensori il 3 giugno e se Berlusconi non ha uno dei suoi colpi di genio di appassionante illegalità, il 24 giugno c’è la sentenza.

La Repubblica 14.05.13

"La sottile lastra di ghiaccio", di Alfredo Reichlin

Insieme all’augurio più affettuoso vorrei trasmettere con questo scritto alcune mie idee a Guglielmo Epifani. Il segno dello smarrimento del Partito demoocratico io lo vedo nell’incapacità di mettere i piedi per terra. Di collocarsi (questo voglio dire) al centro del conflitto vero, là dove si decide, là dove si vince o si perde nel mondo degli interessi reali e a vantaggio di chi e di che cosa. La cosa più triste è che ci siamo impantanati in polemiche, rotture e rese dei conti interni e non riusciamo a misurarci con la questione più grande e la più carica di interrogativi. Quale? Con ciò che uno storico come Massimo Salvadori considera ormai come il profilarsi di una crisi di regime: del regime democratico e parlamentare italiano. Che poi – aggiungo io – è parte di una crisi più ampia che investe l’Europa: una crisi dell’economia che si sta trasformando in crisi della sovranità e della cittadinanza.

Dico questo non per sfuggire al «qui e ora» ma perché solo se ripartiamo da una comprensione della realtà che sta fuori di noi possiamo affrontare in modo serio i guai che sono dentro di noi. E ritrovare, al tempo stesso, il «cosa fare», gli spazi nuovi che si offrono a una sinistra moderna e quindi i compiti che le cose le impongono.

Rileggiamo bene il voto di febbraio. Esso dice molte cose. Intanto, che noi non solo perdiamo voti ma li perdiamo soprattutto tra i giovani e gli operai. Il segnale è chiaro. La crisi del Pd è il riflesso di fratture sociali e culturali che sempre più si approfondiscono e che nessuno governa. Non si illudano i nostri «concorrenti». Più di metà del Paese si astiene oppure vota per un partito (Grillo) che esprime non solo una protesta ma una vera e propria estraneità rispetto alle Istituzioni democratiche. Ma non è nemmeno vero che la destra vince. Essa resta un coacervo di forze e di interessi tenuti insieme da un «padrone». E proprio qui sta la sua debolezza. L’eterno ritorno di Berlusconi la dice lunga sulla mancanza di identità del mondo moderato italiano e sulla sua incapacità di guidare l’Italia in Europa.

Il problema è capire come siamo arrivati a questa situazione. Se ne discuterà al congresso. Sarà il nostro banco di prova. Io dico la mia. Penso che il problema principale nostro, se vogliamo ritrovare radici e farci capire dalla gente anche sulle tattiche e i compromessi che sono necessari (la questione del governo, per esempio), e se vogliamo stare dentro i movimenti sociali e capire le nuove soggettività, se quindi vogliamo svuotare di senso il correntismo, il nostro problema, dicevo, è tornare al centro dello scontro reale che scuote il mondo, e lo trasforma. Parlo della necessità di misurarci con il fatto che si è venuto a creare un pericoloso intreccio tra la crisi delle tradizionali sovranità democratiche e il più gigantesco spostamento di risorse, sia dall’Europa ai Paesi nuovi sia dai «poveri» verso i «ricchi» forse mai visto. È in questo modo che settori essenziali delle classi medie sono state spinte verso la miseria e che il lavoro è stato ridotto e una condizione servile. Al tempo stesso la ricchezza si è concentrata in modi tali quali non si erano più visti dopo il Medioevo e la rivoluzione francese. Questo da un lato. Dall’altro il fatto che le tradizionali sovranità popolari (nazione, cittadino, diritti) e l’antico potere decisionale dei parlamenti nazionali sono stati colpiti. A ciò bisogna aggiungere il fallimento del mercato come garante dei beni pubblici e della salvaguardia dell’ecosistema. Mi domando: si è mai parlato di cose come queste – di assoluta evidenza – nelle riunioni tra i nostri gruppi dirigenti? Eppure non stiamo parlando solo dell’economia ma della morale. Della condizione dell’uomo. Stiamo parlando di qualcosa che ha cambiato le menti. È il problema che in diversa misura sta tormentando tutto il riformismo europeo. E che la Chiesa cattolica – stiamo attenti – avverte più di noi come dimostra la scelta del nuovo papa.

Naturalmente, a noi spetta occuparci dell’Italia e non possiamo sfuggire alle nostre responsabilità per il fatto che l’Italia non fa da decenni le riforme necessarie e quindi più di altri Paesi viene investita dagli effetti di questo stato di cose. Nel frattempo una potente ideologia (ecco il paradosso) dice alla gente che non c’è niente da fare perché l’economia è una legge naturale. E quindi è inutile protestare né tantomeno votare a sinistra. Sono i «mercati» che comandano. Intendiamoci bene. Non è il fascismo, ciò di cui sto parlando. È il fatto (come io stesso ho scritto già molte volte) che i mercati governano, i tecnici amministrano e i politici vanno in televisione a farsi beffeggiare. Non è il fascismo. È ciò che la politologia chiama la «post-democrazia». Vogliamo farci i conti?

Il congresso deve dare una nuova identità al Pd. Giusto. Evidentemente una identità che non rinneghi ma rinnovi il nostro essere una forza riformista e di governo. Ma qui è la difficoltà che non possiamo fingere di non vedere. Come è possibile farlo senza misurarci con la «post-democrazia»? Io penso che se il Pd non ha decollato e se ovunque la vecchia sinistra entra in crisi (vedi la Francia) è perché non abbiamo un pensiero politico all’altezza di questo sistema-mondo. Ricordiamoci (ecco perché la crisi della democrazia è il problema centrale) che il riformismo funziona in quanto presuppone una democrazia che decide, e un sistema parlamentare che non solo rispecchi i diversi progetti politici e sociali che si sono espressi nel voto ma che abbia il potere di renderli realizzabili. E che quindi renda «utile» il voto anche agli occhi dei ceti subalterni. La sfiducia nasce da qui.

È evidente quindi di quale riforme abbiamo bisogno. Abbiamo bisogno di un partito che non combatta solo dall’alto (a livello del governo), ma che sappia scendere anche nel «basso» là dove si forma un nuovo protagonismo della società. Dobbiamo essere noi gli interpreti di quel vasto mondo di diritti, di bisogni, di persone che il sistema e la rivoluzione scientifica della comunicazione non ha solo sfruttato ma ha messo in movimento. È alle menti che bisogna parlare. Non sottovalutiamo l’impressionante martellamento quotidiano di tv e di giornali volto a dirottare la rabbia della gente contro la «casta» politica e non contro i loro padroni.

Stiamo pattinando su una lastra sottile di ghiaccio. La democrazia è in pericolo e i prossimi mesi saranno decisivi. Il Pd deve combattere.

L’Unità 14.05.13