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"E lunedì riparte il processo Ruby in aula l’atto d’accusa di Boccassini", di Piero Colaprico

La sentenza di ieri, pronunciata alle 19.15, grazie agli avvocati che hanno finito in mattinata le arringhe, è quella che incute a Berlusconi una paura immediata. Può fargli perdere, nel giro di qualche mese, ogni scudo politico. Difficile dimenticare, però, che sinora la sua strategia del ritardo ha ampiamente pagato. I guai penali di Silvio Berlusconi cominciano infatti con All Iberian, la società del comparto estero della galassia Mediaset, e con i soldi che attraverso quella società passano di mano tra lui e Bettino Craxi, segretario
del Psi (e suo nume tutelare). Erano gli anni di Tangentopoli, era il 1994.
Da allora l’imputato Berlusconi si lamenta moltissimo, ma in realtà fugge dai processi e dagli interrogatori. Questi sono semplici fatti, e basta ricordarne uno per tutti. L’avvocato inglese David Mills, ben pagato con soldi Fininvest per non dire la verità ai magistrati italiani sull’uso dei paradisi fiscali da parte dei manager del Biscione, è stato condannato per corruzione in atti giudiziari. Ma per Berlusconi, il corruttore di Mills secondo tutte le ricostruzioni, è scattata la prescrizione: il suo processo, grazie alle modifiche legislative volute dai suoi parlamentari e ministri, s’è come disintegrato.
E adesso? Su Berlusconi pendono a Milano tre processi, a Napoli c’è solo una richiesta della procura. Il processo meno noto, ma «rivelatore » di un metodo, riguarda una chiavetta usb con la registrazione della voce dell’ex leader Piero Fassino, il famoso «Abbiamo una banca». Era stato il titolare di una società, berlusconiano di ferro,
a consegnargli l’intercettazione, e Berlusconi che fa? La dà al fratello, il fratello la passa al «Giornale». È stato condannato a un anno, per ricettazione. «Si tratta dell’unico caso in Italia di condanna per un’intercettazione », protestavano i suoi, per dimostrare l’accanimento della magistratura contro l’innocente Berlusconi. Ma c’è una differenza abissale che viene taciuta: le fughe di notizie riguardano materiale già «depositato», cioè nelle mani di magistrati, avvocati, imputati. In quel caso, Silvio Berlusconi aveva ricevuto l’omaggio di un materiale segreto, e nessuno era autorizzato ad averlo, tantomeno lui.
Questo «metodo Berlusconi» s’è visto anche durante il sequestro del ragionier Giuseppe Spinelli, denunciato in ritardo. O con i pagamenti, prima occulti e poi palesi, alle numerose testimoni dei processi per prostituzione che lo riguardano. O con il suggerimento che Berlusconi dette Piero Marrazzo, ds, ex presidente della Regione Lazio, quando aveva saputo che tra Roma e Milano girava un video da ricatto: e cioè,
non di denunciare i ricattatori, ma «acquistare » il filmato. Un uomo delle istituzioni dovrebbe comportarsi così per stare «dentro » la legalità? È una domanda che non si riesce a rivolgergli.
Il prossimo autunno questa vicenda dell’intercettazione cadrà in prescrizione, quindi su questo versante Berlusconi non corre rischi. A differenza di quanto accade con la sentenza emessa ieri dal collegio presieduto da Alessandra Galli. Conferma la condanna a quattro anni di carcere, cinque anni d’interdizione dai pubblici uffici, e tre anni dalle cariche sociali. Non è facile che si spappoli nel nulla, la prescrizione scatta nell’estate 2014. Vale a dire che la Cassazione fa in tempo, almeno in teoria, a confermare la terza volta quanto già stabilito in due sentenze. E se anche i supremi giudici confermano, Berlusconi non può più stare in Parlamento. Come successo, in passato, per esempio, a un suo grande amico, consigliere ed elettore lombardo, il democristiano Gianstefano Frigerio.
Ai berlusconiani, allarmatissimi, sulla
frode fiscale restano al momento due mosse. Una è il ricorso alla Corte Costituzionale, perché il tribunale di primo grado non aveva concesso a Berlusconi un «legittimo impedimento»: era fissato da tempo l’interrogatorio di testi che arrivavano dagli Stati Uniti e l’allora premier aveva convocato, all’improvviso, una riunione del consiglio dei ministri. Bisognava aspettare un imputato che in aula non s’è mai visto? O si poteva andare avanti? L’altra mossa è stata aver aggiunto al tandem Ghedini-Longo, un penalista di chiara fama, Franco Coppi: sarà lui a difendere l’imputato sul reato di frode fiscale davanti alla Cassazione.
Nel frattempo, lunedì torna a casa il processo Ruby. E comincia nel modo peggiore per l’imputato unico. Dov’eravamo rimasti?
L’ormai lontano 5 marzo il pubblico ministero Antonio Sangermano aveva cominciato la requisitoria. Aveva detto che il processo aveva dimostrato il «sistema prostitutivo» di Arcore, aggiungendo: «È falso che le “cene” di Arcore fossero degli ordinari convivi, al più arricchiti da qualche goliardica scenetta di “burlesque”». E stava cominciando a parlare di Ruby minorenne scappata di casa nella villa dell’ultrasettantenne miliardario. C’era stata una pausa, la requisitoria sarebbe stata ripresa pochi giorni dopo. Ma prima l’uveite, poi il legittimo impedimento, poi le elezioni avevano tenuto Berlusconi lontano dall’aula. Ma il tempo dei ritardi è scaduto e il procuratore aggiunto Ilda Boccassini sta per chiedere, tra quattro giorni, la sua condanna. È vero, le difese e lo stesso imputato hanno l’ultima parola, ma entro giugno sarà messa la parola fine al primo grado di un processo per fatti avvenuti nel 2010: e qui la prescrizione non è a portata di mano.

La Repubblica 09.05.13

"Staffetta fra generazioni". La carta di Giovannini, di Lorenzo Salvia

Un lavoratore anziano, meno di cinque anni alla pensione, accetta il part time fino alla fine della carriera. Meno stipendio ma anche meno ore in ufficio. In cambio la sua azienda assume un giovane con un contratto a tempo indeterminato. Si chiama staffetta generazionale, l’espressione è stata usata anche dal premier Enrico Letta nel suo discorso di insediamento. E sarà uno degli argomenti di discussione nel ritiro del fine settimana previsto per la squadra di governo. Un esame che partirà da un disegno di legge già pronto, sul quale lo stesso Letta ha messo gli occhi, e presentato da Giorgio Santini, ex segretario aggiunto Cisl ora senatore del Pd.
Il part time sarebbe incentivato. Pur stando in ufficio meno ore il lavoratore non intaccherebbe la pensione futura: i suoi contributi sarebbero comunque pieni con la differenza pagata dallo Stato. L’anziano potrebbe poi chiedere un anticipo dell’assegno pensionistico, che nell’immediato limiterebbe il taglio dello stipendio, ma sarebbe poi scalato al momento della pensione vera e propria. E potrebbe svolgere il ruolo di tutor della persona al di sotto dei 35 anni che l’azienda dovrebbe assumere in cambio. Alle imprese il progetto piace: avrebbero più dipendenti, ma risparmiando sul costo del lavoro. Anche la domanda interna potrebbe risentirne positivamente. Ma tutto questo, naturalmente, ha un costo: per pagare la differenza di contributi il disegno di legge mette sul piatto mezzo miliardo di euro l’anno. Basterebbero per 50 mila part time, portando quindi a 50 mila assunzioni. Ma non sarà facile trovare quei soldi, un terzo della somma che i ministri dell’Economia e del Lavoro, Saccomanni e Giovannini, stanno faticosamente cercando per rifinanziare la cassa integrazione. «D’accordo — dice Santini — ma in questo modo potremmo far ripartire l’occupazione giovanile». Ad aiutare il dibattito nel governo sarà anche la sperimentazione partita proprio in queste settimane.
Alla fine dell’anno scorso era stato il ministro del Welfare Elsa Fornero a firmare un decreto che, anche se con paletti più stretti, regola proprio la staffetta generazionale. La prima regione a raccogliere l’opportunità è stata la Lombardia con un progetto che in tre anni dovrebbe portare a 250 staffette. Secondo Paolo Reboani — presidente di Italia lavoro, il braccio del ministero che segue la parte tecnica del progetto — è una «nuova solidarietà che prova a superare quel dualismo fra ipergarantiti e precari». Chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori: un muro antico che la recessione ha reso ancora più alto. E che in realtà si prova ad abbattere da più di 20 anni. Il primo a fissare per legge questo meccanismo fu nel 1991 il ministro del Lavoro Franco Marini. La differenza rispetto ad oggi è che il part time era senza incentivi: stipendio pi ù basso, pensione più bassa. Punto e basta. Non accettò nessuno e non è una sorpresa.

Il Corriere della Sera 09.05.13

"Una Pmi su quattro sfida la recessione", di Luca Orlando

«In effetti ci stiamo chiedendo se non sia il caso di rallentare. Vede, non bisogna strafare, esistono comunque dei cicli». Il problema di Luciano Sanguineti vorrebbero averlo tutti, perché si chiama crescita. Le valvole sottomarine per impianti offshore che la sua Atv piazza in tutto il mondo dalla remota Colico in provincia di Lecco, stanno continuando a macinare commesse, già oggi in grado di sostenere più di un anno di lavoro. Tra gennaio e marzo i ricavi balzano del 30% a 20 milioni, da anni si battono costantemente record di vendite, nel 2013 l’organico è già salito di nove unità, altre 20 arriveranno nei prossimi mesi. Davanti a 42 fallimenti al giorno, produzione in calo da 18 mesi consecutivi, export europeo in ritirata, boom di disoccupazione e cassa integrazione, Atv per l’Italia sembra un’eccezione, una realtà piovuta da Marte. Ma per fortuna non è proprio così. Anche in questo disastrato 2013 c’è infatti una discreto numero d’imprese che riesce ancora ad aumentare in modo rilevante i propri volumi, quota stimata in Lombardia al 25%. L’analisi per distretti effettuata da Intesa-Sanpaolo, indica numerose aree del Paese ancora in grado di competere su basi di eccellenza, con ben 43 specializzazioni che nel 2013 sono arrivate al record storico di export, con performance positive anche in questi mesi. ra i distretti più robusti – quelli con esportazioni superiori ai 500 milioni di euro – ve ne sono 30 che tra ottobre e dicembre 2012 hanno ancora aumentato le vendite oltreconfine, spesso con incrementi a doppia cifra. Nell’elenco si trova di tutto: dalla farmaceutica alla meccanica, dai beni strumentali al tessile, dagli alimentari all’aeronautica, dai mobili alla rubinetteria. Settori diversi, dove però le singole storie di successo sono accomunate spesso da una ridotta dipendenza dal mercato interno, da una forte spinta innovativa, dalla ricerca continua della qualità, dal presidio di una specifica nicchia di mercato. Ricetta sintetizzata proprio da Advanced Technology Valve, capace di risolvere i problemi di sicurezza delle trivellazione del Golfo del Messico dopo l’incidente Bp ideando una nuova valvola di sicurezza per le trivellazioni. «Esportiamo il 99,9% dei ricavi – spiega l’imprenditore Luciano Sanguineti – e alla ricerca dedichiamo fino al 4% dei nostri ricavi».
Export e innovazione, dunque. Perché si vincono commesse solo con prodotti all’avanguardia e si può investire in innovazione solo se i volumi lo consentono, dunque se il mercato è il mondo. E gli esempi per fortuna non mancano. Per le macchine da imballaggio in Italia nel 2012 c’è il nuovo record storico di ricavi a 4,45 miliardi e lo sprint del 10,4% tra gennaio e marzo, con una quota di export che vale il 90% delle vendite. «Le maggiori aziende – spiega il direttore generale di Ucima Paolo Gambuli – si stanno sempre più specializzando nella fornitura di specifiche tecnologie per particolari settori: in queste nicchie diventano così le migliori al mondo».
Un esempio di eccellenza di nicchia, in un altro settore, è la bergamasca Clay Paky, leader nelle illuminazioni professionali con 60 brevetti attivi, capace di conquistare forniture di impatto globale come Olimpiadi, Superbowl, notte degli Oscar, concerti di Paul Mc Cartney. L’export vale il 95% dei ricavi, arrivati lo scorso anno al record di 70 milioni, il 25% in più rispetto all’anno precedente, una crescita che quest’anno ha portato dieci nuove assunzioni. Altro distretto in salute è la pelletteria fiorentina, dove l’export è ai massimi di sempre mentre cresce il numero di multinazionali e griffe che decide di riportare in Toscana la propria produzione. «Lo ha fatto Montblanc – spiega il presidente della sezione pelletteria di Confindustria Firenze Franco Baccani – e lo faranno altri a breve. La filiera qui è vitale, nella mia azienda esporto quasi tutto, è dal 2010 che i ricavi aumentano». Tra i motivi vi è anche il salto di qualità realizzato dalle aziende locali, capaci di ridurre i tempi di lavorazione, migliorando il servizio e convincendo i “big” a sfruttare la flessibilità delle proprie linee produttive.
In crescita oltreconfine anche il tessile di Como, spesso proprio grazie all’innovazione. Per la tessitura Taiana, che resiste sui livelli del 2012, determinante è stato l’inserimento della nuova linea tecnica di costumi da nuoto, capace di “vincere” a Londra ben 46 medaglie, vestendo anche la nazionale cinese di tuffi. Ma la sfida è dura, e nessuno regala nulla. Le rubinetterie Paini, nel novarese, per vincere una maxi-commessa Ikea si sono dovute sottoporre a tre anni di “check-up” da parte dei manager svedesi, con l’indicazione precisa dei fornitori e la richiesta di prezzi da “discount”. Il risultato è un ordine che offre margini all’osso ma che vale quasi il 10% dei ricavi. «E lo scorso anno – spiega l’ad Marco Paini – l’azienda ha avuto il nuovo record di vendite con una crescita del 7%, aumentando anche gli addetti. Con i tempi che corrono direi che non è male..». Personale che aumenta anche alla Same Deutz-Fahr di Treviglio, in grado di riportare lo scorso anno i ricavi ai livelli pre-crisi a 1,2 miliardi con il nuovo record di utili, in parte redistribuiti ai dipendenti con un premio di risultato da 4.600 euro per tutti gli addetti di Treviglio. La ricetta?
Investimenti raddoppiati, ricerca aumentata del 25% a 24,5 milioni, 89% di export. La crescita, oggi, si può fare solo così.

Il Sole 24 Ore 09.05.13

"Emergenza femminicidio, ripartiamo da scuola e Tv", di Lorella Zanardo

Gentile Presidente Boldrini, Gentili Ministre Carrozza e Idem, in questi giorni il Corpo di noi Donne, pare stia diventando popolare. Ci sono voluti più di 100 donne ammazzate l’anno passato e un trend in ascesa anche quest’anno per convincere i media a dare risalto al femminicidio, neologismo che sta a significare omicidio di una donna in quanto donna. In molte stiamo lavorando su questo tema da anni, a partire dalle donne attive nei centri per le Donne maltrattate alle migliaia di attiviste ignote che con pazienza svolgono un ruolo fondamentale in rete, luogo prezioso di innalzamento del livello di consapevolezza, frequentato dalle e dai giovani e quindi luogo di formazione ed educazione quando ben utilizzato. È forse ridondante ricordare qui quanto il nostro Paese sia arretrato su questo tema e su quello della valorizzazione di genere in generale, il nostro 80esimo posto nella classifica del Gender Gap stilato dal Wef, o le raccomandazioni inevase della rappresentante della Cedaw-Onu ne sono testimonianza. Questo è il punto di partenza ed è inutile guardare al passato. Possiamo decidere che oggi sia l’inizio di un nuovo percorso. Mi permetto di consigliare alcune iniziative necessarie la cui richiesta arriva dalle migliaia di ragazze e di giovani uomini che incontriamo ogni anno nelle scuole. Il cambio che auspichiamo è culturale, vogliamo un Paese realmente paritario dove anche per le donne sia valido quella bellissima parte del terzo articolo della Costituzione che ci ricorda come ognuno – e immagino ognuna – debba essere messa in grado di esprimere al meglio il proprio potenziale di persona. I luoghi idonei da cui iniziare il cambiamento sono i due più importanti agenti di socializzazione attivi nell’età formativa: i media e la scuola. Si stanno raccogliendo firme, si moltiplicano appelli ed è certo bene innalzare l’attenzione. Ricordo però con preoccupazione che l’anno scorso partì una campagna contro il femminicidio promossa tra l’altro anche da noi. Alta fu l’attenzione, anche i calciatori si attivarono, nomi noti si dissero d’accordo. Ma non successe poi molto di più. È la bellezza e il limite del web, lo constatiamo nelle scuole: firmiamo un appello, scriviamo il nostro “mi piace” sui social network e crediamo di avere fatto il nostro dovere, mentre è solo il primo, importante, ma solo il primissimo passo. “Non esco più con le amiche al pomeriggio” mi confidava una ragazzina al termine di una lezione a scuola. “Il mio ragazzo è geloso, non vuole”. Inizia da lì il bisogno di educazione prima che alla sessualità, alla relazione sia per le ragazze che per i ragazzi. È urgente spiegare, confrontarsi e mettersi in ascolto perché moltissimi parlano di giovani ma pochi si mettono in reale relazione con loro. “L’ho uccisa perché mi ha lasciato” è la motivazione più frequente che danno gli uomini di tutte le età e di tutte le estrazioni sociali. Il colpo di coda del patriarcato, lo definisce qualcuna. E c’è del vero perché i femminicidi sono tanti anche nella civilissima Norvegia dove le donne sono occupate, dispongono di welfare di qualità, ma faticano a compiere l’ultimo passo verso una reale e definitiva emancipazione: prendere decisioni che potrebbero anche influire sulla vita del proprio partner. Ciò che noi donne abbiamo imparato ad accettare da secoli. Un cambio culturale che parta dalle scuole e quindi un tavolo interministeriale. Sarebbe importantissimo coinvolgere anche il ministero dell’Istruzione perché si faccia promotore di corsi di aggiornamento per gli insegnanti, che si trovano spesso a gestire una tematica per la quale non ricevono supporto formativo. Lascio per ultimo il tema più spinoso, quello della responsabilità dei media per la rappresentazione oggettivizzata e irreale che propongono delle donne. Le tv private e pubbliche propongono giornalmente l’immagine di un modello di donna unico, passiva, spogliata, spesso muta. Non è un corpo nudo che offende, il corpo nudo può avere una capacità rivoluzionaria di comunicazione, spieghiamo nelle scuole, ma un corpo passivo e indagato in ogni dettaglio in modo umiliante e voyeuristico ci umilia tutte.
È necessario chiedere che nelle redazioni di giornali e tv si compia un passo importante verso il rispetto costituzionale dei nostri diritti che passa anche, e forse soprattutto, da come veniamo raccontate. Non di censura stiamo parlando, bensì di rispetto indispensabile per crescere, affermarsi ed esistere pienamente. Un percorso articolato dove promuovere anche nuove trasmissioni televisive divulgative che propongano modelli femminili a cui le ragazze possano ispirarsi e attraverso i quali i ragazzi comincino a conoscerci. Avviene in altri Paesi europei, chiediamo che avvenga anche qui da noi. L’Art Directors Club che riunisce le maggiori agenzie pubblicitarie italiane, ha iniziato un percorso di riflessione e cambiamento su questo tema, giornali e tv possono fare altrettanto. Da ultimo è mio compito ricordare come l’emergenza femminicidio sia stata tenuta viva attraverso la fatica e il lavoro instancabile di migliaia di giovani attiviste e attivisti che non hanno mai dimenticato di denunciare, di ricordare, di scrivere alle redazioni, di accompagnare le vittime ai processi. A queste giovani “attiviste anonime” che hanno impedito che il femminicidio restasse fatto di cronaca perché sanno comunicare con efficacia ai loro e alle loro coetanee. Onoreremo così con gratitudine il patto intergenerazionale, base per una indispensabile coesione sociale.

da Il fatto Quotidiano 08.05.13

"Rimettere il Pd con i piedi per terra", di Pietro Spataro

Con la forza della disperazione Elena ci sbatte in faccia la realtà. Dice, in diretta tv a Piazza Pulita, dietro il cancello della sua fabbrica in crisi: «Non abbiamo nemmeno dieci euro per pagare i ticket».Poi aggiunge: «State distruggendo la nostra dignità, si sono spenti tutti i nostri sogni…». È una storia, una delle tante, di un Paese che vive in modo drammatico un passaggio difficile e che misura la distanza tra la realtà e l’immaginazione, tra la vita vera e le alchimie di certi discorsi pubblici. Sembra di vedere un’Italia sottosopra, dentro la quale le immagini reali sbiadiscono: chi ha perso il lavoro o non lo trova, chi ha chiuso la sua azienda e chi ha scoperto una condizione che allude a un moderno esodo. In questa lunga transizione italiana si sono persi i punti cardinali. Il voto di febbraio non ha fatto che accentuare questa anomalia. A una campagna elettorale che pure aveva messo al centro i problemi del Paese con la speranza di un cambiamento possibile, è seguita la stagnazione con le sue piccole guerre di posizione e i tranelli, in segreto o in diretta streaming. Il governo Letta è il risultato di necessità di questo stallo. Per il nuovo premier – e per il Pd sia nel governo che in Parlamento, dove ha la maggioranza – la scommessa si gioca sulla capacità di rimettere il Paese con i piedi per terra. O si riesce o si fallisce. E si riesce solo se si è capaci di parlare a quelle come Elena. Se ci si sporca le mani con la realtà e si trovano le soluzioni giuste per ridare fiato al riscatto nazionale.
La sinistra è nata per questo, non per farsi imbrigliare nei giochi di società dei salotti buoni, dove non siedono mai né i disoccupati, né gli esodati, né gli imprenditori falliti. Se l’unico metro per definirsi sinistra diventa il pur importante destino giudiziario di Berlusconi o le sue vicende personali, non ci sarà rifondazione che possa fermare il declino. La sinistra ha un senso perché deve rappresentare un blocco sociale, ma se quel blocco sociale si assottiglia, se nella comunità progressista non entrano nuove figure e nuovi mondi non sarà possibile ritrovare la strada. Qui sta il cuore del rilancio del Pd: bisogna affrontare il tema dello «scarto tra l’immagine che si ha di sé e la condizione reale» di cui parla Franco Cassano in queste pagine, oppure si continuerà a girare a vuoto. Bisogna domandarsi – e poi darsi risposte credibili – perché molti giovani non scelgono la sinistra, perché i lavoratori autonomi se ne tengono alla larga e tanti operai preferiscono altre strade per esprimere il loro disagio. Perché, alla fine, questi soggetti non si fidano e la sinistra rischia di restare senza popolo.
Forse la sinistra ha smesso di ascoltare le voci dei suoi referenti sociali (quelli vecchi e quelli nuovi) e ha preferito cullarsi nell’immaginazione del potere. A volte ha pensato che bastasse qualche abile mossa per condurre alla vittoria. In altre occasioni ha creduto che un buon leader potesse sistemare ogni cosa. E in questo viaggio ha perduto il senso del reale e non è stata capace di produrre idee forti per il futuro del Paese che contrastassero il pensiero unico liberista. Non è stata in grado di fronteggiare il cambiamento che la globalizzazione e il dominio della finanza hanno prodotto sulle dinamiche sociali. È un deficit serio di egemonia politica e culturale. Non a caso lo scontro che si è aperto nel Pd riparte dalla domanda inziale: chi siamo e che cosa vogliamo?
Questo è il vero nodo che la sinistra deve sciogliere. Evitando di oscurarlo per il bene del partito o costringendo alla convivenza posizioni contrastanti attraverso gli equilibrismi. Deve rimettere il Paese con i piedi per terra, usando la propria forza nel governo e in Parlamento per ottenere risultati visibili e imporre i temi del lavoro, dell’emergenza sociale, del destino dei giovani. E rimettere il Pd con i piedi per terra. Al di fuori di questo l’esperienza della sinistra rischia di diventare una nobile testimonianza. Ma la sinistra non è nata per testimoniare, anzi contro il «settarismo dei testimoni» ha condotto le sue più belle battaglie. È nata, invece, per cambiare un mondo disordinato con le armi della giustizia sociale e dell’uguaglianza, dando rappresentanza agli ultimi, conducendo sulla scena la forza di cambiamento di chi lavora, produce, porta nuove idee. Non ci sarà mai funzione nazionale del Pd senza una nuova «immersione sociale» e una altrettanto nuova capacità progettuale. Ecco, vorremmo che l’assemblea nazionale del Pd discutesse anche di questo e non si dividesse solo in una battaglia sui nomi. Nomina sunt consequentia rerum, dicevano i latini. Dietro i nomi devono esserci le cose. Altrimenti, non basterà un bel nome a far ritrovare la spinta per rialzare la testa.

L’Unità 08.05.13

"Se l’è andata a cercare", Massimo Gramellini

Mentre il consiglio regionale della Lombardia rendeva omaggio al fantasma di Andreotti, il capo dell’opposizione Umberto Ambrosoli è uscito dall’aula. Suo padre, l’avvocato Giorgio, fu ammazzato sotto casa in una notte di luglio per ordine del banchiere andreottiano Sindona: aveva scoperto che costui era un riciclatore di denaro mafioso. Trent’anni dopo Andreotti commentò l’assassinio di Ambrosoli con queste parole: «Se l’è andata a cercare».

Il perdono è una cosa seria. E’ fatto della stessa sostanza del dolore e si nutre di accettazione e di memoria, non di ipocrisie e rimozioni forzate. La morte livella, ma non cancella. Con buona pace del quotidiano dei vescovi che ieri titolava: «Ora Andreotti è solo luce». Per usare una parola alla moda, Andreotti era divisivo. Lo era da vivo e lo rimane da morto. Purtroppo anche Ambrosoli. Perché esistono due Italie, da sempre. E non è che una sia «buona» e l’altra «cattiva», una di destra e l’altra di sinistra (Giorgio Ambrosoli era un liberale monarchico). Semplicemente c’è un’Italia cinica e accomodante – più che immorale, amorale – che non vuole cambiare il mondo ma usarlo. E un’altra Italia giusta e severa – più che moralista, morale – che cerca di non lasciarsi cambiare e usare dal mondo. Due Italie destinate a non comprendersi mai. Un’esponente lombarda del partito di Berlusconi ha detto che il figlio di Ambrosoli ha mancato di rispetto al morto. Non ricorda, o forse non sa, che anche Andreotti aveva mancato di rispetto a un morto. Quell’uscita dall’aula se l’è andata a cercare.

Ghizzoni e Vaccari “Una legge che riconosca le scuole di musica”

Sono 4mila in tutta Italia, per lo Stato non esistono. Proposta iscrizione ad Albo regionale. I parlamentari modenesi del Pd Manuela Ghizzoni e Stefano Vaccari hanno presentato, nei due rami del Parlamento, una proposta di legge per riconoscere e valorizzare il ruolo delle scuole di musica. Sono 4mila in tutta Italia, 750 solo tra l’Emilia-Romagna e la Toscana. Una realtà culturale importante in grado di rappresentare anche l’identità di un territorio come capita nell’Area Nord della nostra provincia dove la locale scuola di musica, risorta dopo il sisma grazie alle tante donazioni, si esibirà il 26 maggio in piazza a San Possidonio, proprio in occasione del primo anniversario del terremoto, insieme alla Simphony Orchestra della Regione Veneto.

Il 26 maggio prossimo, in occasione del primo anniversario del terribile sisma che ha sconvolto parte della provincia modenese, i giovani delle scuole di musica dell’Area Nord si esibiranno in piazza a San Possidonio insieme alla Simphony Orchestra della Regione Veneto. La Fondazione Andreoli ha ripreso la propria attività dopo il terremoto grazie alle tante donazioni arrivate da tutta Europa: “Eppure per lo Stato non esistiamo – commenta il direttore Mirco Besutti. In Italia sono 4mila le scuole di musica, organizzate in modi anche molto differenti tra loro. Il loro riconoscimento potrebbe presto essere possibile grazie alla proposta di legge dal titolo “Disciplina dell’accreditamento delle scuole di musica” presentata alla Camera dalla deputata modenese del Pd Manuela Ghizzoni e al Senato dal senatore modenese del Pd Stefano Vaccari. “E’ una legge davvero costruita dal basso – spiega Manuela Ghizzoni – voluta con forza dalla rete di scuole di musica. Tra l’altro la sua attuazione non comporterebbe oneri per lo Stato”. Si tratta di un’ampia fetta di società civile che attende, da tempo, un riconoscimento. Secondo una recente indagine, ad esempio, tra l’Emilia-Romagna e la Toscana, sono attive 750 scuole che seguono 70mila studenti per un totale di 5.800 insegnanti. La proposta di legge si suddivide in quattro articoli. Con il primo si riconosce la necessità di valorizzare le scuole di musica avendo riguardo alle esperienze di altri Paesi dell’Unione europea, alle esigenze di sviluppo e di integrazione della società multiculturale, al raggiungimento di un pieno diritto dei disabili alle opportunità di formazione musicale, alla promozione e alla diffusione della musica e alla previsione di costituire un sistema nazionale di orchestre e di cori giovanili. L’articolo 2 prevede che lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano riconoscano la funzione formativa delle scuole di musica anche favorendone l’integrazione nei sistemi regionali e delle Province autonome. L’articolo 3 elenca i requisiti per l’accreditamento delle scuole di musica stabilendo, in particolare, che esse dispongano di personale qualificato e di adeguate strutture, che garantiscano un percorso formativo differenziato in base alle attitudini degli allievi, che propongano attività laboratoriali, che documentino costantemente l’intera attività didattica e che siano in possesso di uno statuto o di un regolamento che stabiliscano l’organizzazione interna. L’articolo 4, infine, interviene sulla copertura finanziaria stabilendo che agli eventuali oneri derivanti dall’attuazione della legge provvedano le Regioni e le Province autonome.