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«Un braccialetto elettronico per tenere lontani gli stalker», di Fiorenza Sarzanini

Cancellieri: mai più scarcerazioni come a Reggio Emilia.
Un dispositivo elettronico per tenere sotto controllo lo stalker sottoposto a provvedimento interdittivo. E così evitare che possa nuovamente avvicinarsi alla propria vittima. È una delle misure allo studio del governo per fermare le aggressioni di donne e così affrontare l’emergenza del femminicidio. Ma non l’unica. Perché l’azione coordinata tra i titolari dell’Interno, della Giustizia e delle Pari Opportunità dovrà proteggere chi ha già presentato denuncia e prevedere interventi per aiutare chi non ha il coraggio di uscire allo scoperto e ha bisogno di assistenza.
I pool specializzati
Lo dice chiaramente il ministro Anna Maria Cancellieri che annuncia la volontà di «rendere efficaci tutte quelle misure attualmente già previste dalla legge, spesso non applicate per mancanza di risorse». E poi spiega: «Parliamo di “braccialetto” per semplificare e dare l’idea di quello che dovrebbe essere lo strumento da utilizzare. Abbiamo la necessità di impedire a chi ha già mostrato comportamenti aggressivi di poter colpire e questa — al termine di un’approfondita indagine — potrebbe essere una soluzione efficace».
Non è l’unico provvedimento allo studio del suo dicastero: «Mi confronterò con i magistrati al fine di creare dei pool specializzati all’interno delle procure. Non dovrà mai più accadere che una persona indagata per reati così gravi possa tornare libera per errore come è accaduto a Reggio Emilia».

Soldi e personale
Cinque donne uccise in una settimana, altre aggredite, picchiate, violentate. L’appello al governo e al Parlamento lanciato da «Feriteamorte», il progetto curato da Serena Dandini e Maura Misiti, e rilanciato sul Corriere della Sera, trova risposte immediate. Due giorni fa il titolare del Viminale Angelino Alfano ha annunciato la discussione al prossimo consiglio dei ministri. Poi ha sottolineato la necessità di «trovare tutti i soldi che servono perché non può essere un limite di spesa o un vincolo di bilancio che possa fermare un governo che vuole difendere le donne». Una promessa che adesso dovrà essere messa in pratica. Perché non sono le leggi a mancare, ma i fondi. E questo sta provocando la chiusura di numerosi centri antiviolenza.
Nella relazione che lo stesso Alfano porterà a Palazzo Chigi sarà evidenziata la necessità di proporre al Parlamento la ratifica della Convenzione di Istanbul, in modo da ottenere proprio lo sblocco dei fondi attraverso la Convenzione «NoMore» che impone tra l’altro interventi per la formazione del personale e per la creazione di una banca dati che possa consentire la valutazione dell’entità del fenomeno per predisporre le misure di contrasto, del resto già prevista nel piano nazionale antiviolenza finora attuato solo in parte.
Procedura d’ufficio
Tra le misure allo studio di Cancellieri e Alfano c’è anche una modifica alla legge per prevedere l’arresto obbligatorio anche quando non viene presentata una denuncia da parte della vittima. Non è un mistero che le persone sottoposte a soprusi e abusi spesso abbiano paura di reagire. E talvolta arrivino addirittura a difendere il proprio aguzzino che le sottopone a una pressione psicologica alla quale non riescono a sottrarsi.
Gli «atti persecutori» sono puniti dall’articolo 612 bis del codice penale con «la reclusione da sei mesi a quattro anni per chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita». Questa pena «è aumentata se il fatto è commesso dal coniuge legalmente separato o divorziato o da persona che sia stata legata da relazione affettiva alla persona offesa».
La norma ha però un limite evidente: si procede solo di fronte «alla querela della persona offesa» che ha sei mesi di tempo dal momento del fatto per rivolgersi alle forze dell’ordine oppure alla magistratura. Proprio su questo si proverà adesso a intervenire con una modifica che invece dia all’autorità giudiziaria la possibilità di procedere anche se la vittima non ha presentato la denuncia. Se davvero il governo proporrà al Parlamento questa modifica, sarà sufficiente la segnalazione dei familiari oppure un referto medico per far scattare l’inchiesta e le eventuali misure interdittive per l’indagato.
Il Corriere della Sera 09.05.13

"La legalità e la politica", di Claudio Sardo

La Corte d’Appello di Milano ha confermato la condanna a Berlusconi per frode fiscale, compresa l’interdizione dai pubblici uffici. A questo punto è lecito sperare che l’iter giudiziario si completi prima della prescrizione, e che la Cassazione riesca a pronunciare la sentenza definitiva: se la condanna verrà confermata, il Cavaliere decadrà da parlamentare. Del resto, la frode fiscale è un reato grave, non compatibile con un ruolo pubblico. I giudici facciano il loro dovere. Nessuna persona seria tiferà per la condanna o per l’assoluzione. Si accerti in giudizio la verità, almeno quella che l’ordinamento consente.

E poi si rispetti la legge. Che deve valere per tutti. Non ci sono soluzioni ad personam compatibili con uno Stato di diritto. Non ci sono maggioranze che possano sostituirsi al giudice naturale. Non ci sono accordi politici che garantiscano salvacondotti. Dura lex sed lex.

Berlusconi dimostri qui il suo senso di responsabilità. Perché finora, di fronte al governo Letta, è sembrato più attento a curare le proprie convenienze tattiche e a tenersi aperte tutte le porte, compresa quella che conduce al voto anticipato. Si è candidato alla presidenza della Convenzione per le riforme, e poi ci ha spiegato che la Convenzione non serve a nulla. Ha minacciato di far cadere l’esecutivo senza l’abolizione completa dell’Imu, anzi la restituzione dell’Imu del 2012, ben sapendo che questa è impossibile e che nessun governo che abbia a cuore l’interesse del Paese può collocare i diktat berlusconiani davanti alla vera priorità, che è il lavoro. Ha voluto Nitto Palma alla presidenza della commissione Giustizia del Senato per piantare una bandierina e far crescere la tensione nel centrosinistra.

Abbiamo l’impressione che questo resterà il suo stile, almeno per questa fase. La sinistra, alle prese con la propria crisi, è portata oggi a sopravvalutare il Cavaliere. In realtà dovrebbe riacquistare fiducia in se stessa e anche quel senso delle istituzioni che talvolta smarrisce. Berlusconi non ha più la forza, né la qualità per guidare questo Paese. I numeri parlamentari consentono di tenere dritta la barra della legalità e della dignità istituzionale: non c’è più la maggioranza della «nipote di Mubarak» e non ci saranno ricatti di governo che possano indurre a derogare i principi costituzionali. Detto ciò, resta il fatto che la vittoria politica su Berlusconi va conquistata nel campo della politica e che il campo giudiziario non surrogherà mai un progetto carente verso il Paese.

L’Unità 09.05.13

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“Ma il Cavaliere non farà saltare il governo”, di MARCELLO SORGI

Attesa e in qualche modo scontata (l’avvocato-deputato Ghedini ci aveva pure scommesso su), la condanna in appello di Silvio Berlusconi nel processo per frode fiscale sui diritti cinematografici Mediaset appesantisce, certo, l’insieme delle pendenze giudiziarie del super-imputato leader del Popolo della Libert à. Ma non altrettanto, e non necessariamente, il quadro politico e il percorso del neonato governo delle larghe intese.

Da una settimana, infatti, il Cavaliere ha inaugurato un nuovo corso della sua condotta processuale.

La chiamata, al fianco dei suoi abituali legali impegnati anche in politica, del professor Franco Coppi, un professionista puro, legale di Andreotti nel «processo del secolo» per le accuse di mafia, dovrebbe preludere (ma con Berlusconi non si sa mai) a un maggior rispetto per i magistrati chiamati a giudicarlo e alla fine della commistione tra ruolo politico e condizione giudiziaria, che aveva portato, solo due mesi fa, il Pdl all’occupazione del Palazzo di Giustizia di Milano.

Berlusconi insomma non farà saltare il governo, come pure erano in molti a temere, in attesa della sentenza, nei corridoi di Montecitorio, e come lui stesso aveva minacciato martedì, dopo il doppio siluramento del suo candidato Francesco Nitto Palma alla presidenza della commissione giustizia del Senato. Ottenuta la quale, seppure con un giorno di ritardo, si metterà invece ad aspettare l’esito della Cassazione. Al proposito circolano una voce maliziosa e un dato di fatto. La prima è che la nomina, decisa con una spaccatura del Csm, al vertice della Suprema Corte, del dottor Giorgio Santacroce, magistrato che in passato era stato sentito, in relazione ai suoi rapporti con l’ex ministro berlusconiano Cesare Previti, dalla principale inquisitrice di Berlusconi Ilda Boccassini, non sarebbe affatto una cattiva notizia per il leader del centrodestra. E il secondo è che la Cassazione, prima di esaminare la sentenza d’appello, dovrà prendere atto di un altro giudizio della Corte costituzionale, che potrebbe concludersi a breve con l’annullamento parziale o totale del lavoro fatto fin qui dai giudici di Milano. Il complicato intreccio di competenze e interventi delle diverse magistrature porterebbe, o a rifare da capo interamente il processo, o almeno in secondo grado. E Berlusconi, in caso di nuova condanna, potrebbe ancora rivolgersi alla Cassazione, aspettando la scadenza dei termini di prescrizione il prossimo anno.

Questo spiega perché, malgrado la sentenza porti con sé anche la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici, che se confermata chiuderebbe d’imperio la carriera parlamentare, se non proprio quella politica, del Cavaliere, la reazione dello stato maggiore del centrodestra, salvo qualche acuto della Santanchè, è stata controllata. Niente manifestazioni, nessun tavolo è stato rovesciato. E i legali del Pdl, Ghedini in testa, hanno accolto il verdetto con rassegnazione.

Berlusconi, in altre parole, si sta innamorando del suo nuovo ruolo: è diventato l’azionista di riferimento del governo, non passa giorno che chieda e ottenga quel che vuole, ieri s’è concesso il lusso di cancellare, dichiarandola inutile, perfino la Convenzione per le riforme istituzionali. I ritardi e gli intoppi che inevitabilmente si presentano, di tanto in tanto, sulla strada del governo, li mette in conto al Pd. Un partito impallato nei propri guai, in difficoltà a scegliersi un segretario, dopo le dimissioni di Bersani, e diviso al contempo sull’atteggiamento da tenere nei confronti dell’esecutivo guidato dal proprio vicesegretario. Il Cavaliere assiste gongolando alle contorsioni dei suoi ex avversari, divenuti nuovi alleati. Ai quali, tra l’altro, se non vogliono essere loro a mettere nei guai Letta, adesso toccherà digerire anche la sua ultima condanna. A denti stretti, senza applausi né esultanza, al contrario di tutte le volte precedenti.

La stampa 09.05.13

"Aldo Moro, la dimensione umana della politica", di Pierluigi Castagnetti

Mi chiedo perché, almeno per gli uomini della mia generazione, continui la necessità di farne memoria. Siamo soliti, ormai da 35 anni, ricordare Aldo Moro in due date, il 16 marzo giorno della sua cattura e dell’assassinio dei cinque uomini di scorta, e il 9 maggio giorno del suo sacrificio. In mezzo cinquantacinque lunghi giorni di prigionia in una cella lunga tre metri e larga uno. Mi chiedo perché, almeno per gli uomini della mia generazione, continui la necessità di farne memoria.

Penso che la ragione si trovi tutta nel presente. In una delle 97 struggenti lettere dalla prigionia che conosciamo vi è una drammatica promessa da molti vissuta come una maledizione: «Io risarò ancora come un punto irriducibile di contestazione e di alternativa». Contestazione e alternativa. Quante volte nei momenti di crisi della nostra democrazia e soprattutto di agonia del suo partito, la Democrazia Cristiana, questa invettiva è stata riesumata come spiegazione di cose che ci si rifiutava di capire e spiegare.

Più responsabilmente è capitato, al professor Valerio Onida poche settimane fa nel commemorare il venticinquesimo anniversario dell’ultima vittima delle Brigate Rosse, Roberto Ruffilli, e a tanti di noi chiamati a celebrare il sessantasettesimo anniversario del 25 aprile, constatare – proprio ora che sembriamo essere alla vigilia di un ennesimo tentativo di riforma della Carta costituzionale – che “quel modello” di democrazia, nonostante l’intrinseca fragilità, resse la prova terribile del terrorismo, mentre la cosiddetta seconda repubblica rischia di essere travolta da quella ben più vincibile del qualunquismo e dell’antipolitica. Scrisse infatti Tony Judt, uno dei maggiori storici delle vicende europee, «l’affare Moro è stata la prova indiscutibile dell’incompetenza dello stato italiano… (e tuttavia) non è cosa da poco che in quegli anni la democrazia e lo stato di diritto siano sopravissuti».

Vi è poi un’altra grande ragione per cui Moro resta sempre lì, in mezzo alla storia della repubblica come segno di contraddizione, che chiamerei il “rimorso” di una generazione. «Non siamo riusciti in quell’occasione a conciliare il senso dello stato con quello della vita» osservò Riccardo Misasi, destinatario di una delle lettere dalla prigionia più laceranti.

Qual è il prezzo della vita, anche di una sola vita, e quale quello dello stato? Qual è il confine fra il diritto personale individuale e quello della comunità? Domande difficili che hanno alimentato un dibattito che ha contribuito a dare senso alla politica. Domande riaffacciatesi in anni successivi quando si trattò di decidere la partecipazione dell’Italia in diversi teatri di guerra, domande che hanno diviso e nello stesso tempo unito un popolo, diviso nelle risposte ma unito nelle domande che sapeva porsi. Oggi di che si alimenta il dibattito pubblico, e poi: c’è un dibattito pubblico, come può vivere una comunità se non si ritrova intorno a grandi questioni? Allora si disse che questioni così intense avrebbero dovuto trovare risposta in una Seconda repubblica. La Seconda repubblica è arrivata ma le domande sono state smarrite.

È difficile nascondere il disagio di parlare di queste cose e di Aldo Moro in questo tempo apparentemente tanto leggero e nevrotico, sembra di parlare di un personaggio della storia antica e non di uno dei maggiori protagonisti di quella contemporanea, di una tragedia e di un uomo cioè che hanno determinato la svolta più importante nella vita della repubblica, quel giro di boa necessario che però sembra aver fatto smarrire la storia in quell’“altomare” da cui ancora non riesce a rientrare. Ecco perché ha senso continuare a parlarne non foss’altro per cercare di rinvenire in quella vicenda frammenti di mappa ancora utili.

Baget Bozzo ad esempio parlò allora di Moro come di un uomo «di troppa autorità e di troppo poco potere». Trovo suggestiva questa immagine. La democrazia – se guardiamo ai processi in atto in ogni angolo del pianeta forse è più giusto dire: le democrazie – appare oggi governate invece da un potere senza autorità, rischiando di trasformarsi e mimetizzare forme subdole di neotirannia, seppur “soffice” per dirla con Tocqueville. Ma chiediamoci: è possibile governare senza autorità, cioè senza il riconoscimento collettivo del possesso delle virtù pubbliche e private che fanno di un capo una autorità? C’è vera libertà in un paese in cui i cittadini sono costretti a farsi guidare, per scarsità di alternative o per impossibilità di percepirle, da capi senza virtù?

Non sembrino interrogativi fuori tempo e fuori luogo poiché colgono l’essenza della crisi politica di questo tempo. Può soccorrerci di nuovo un pensiero di Moro, esposto nel mezzo del ’68, al tempo di quella crisi di legittimazione della politica che in altre forme riappare anche oggi e, io temo, non ha ancora finito di manifestarsi: «Si affaccia sulla scena del mondo l’idea che al di là del cinismo opportunistico, ma che dico, al di là della stessa prudenza e dello stesso realismo, una legge morale tutta intera, senza compromessi, abbia ad affermarsi… perché la politica non sia ingiusta, né tiepida e tardiva, ma intensamente umana». E, noi potremmo aggiungere, intensamente responsabile e veritiera.

Sappiamo bene che di tutto ciò è ben consapevole più di ogni altro il nuovo presidente del consiglio, Enrico Letta, che non a caso ha deciso di promuovere parallelamente all’azione di governo, un processo profondo di revisione costituzionale che aiuti il paese ad uscire dalla morsa di una crisi di efficienza e di legittimazione. A prescindere in questa sede da ogni valutazione sui contenuti, gli strumenti e i tempi di tale itinerario che era già presente del disegno moroteo di passaggio alla terza fase della vita della repubblica, non v’è dubbio infatti che prima ancora di tali riforme vi è una grave crisi etica, culturale e antropologica a cui anche le forze politiche, non solo esse ovviamente, dovranno cercare di mettere attenzione, intelligenza e iniziativa. Nell’ottica morotea del ritrovamento di quella dimensione “intensamente umana” della politica, appunto.

da Europa Quotidiano 09.05.13

Modena – Incontro con iscritti ed elettori Circolo PD Buon Pastore

Pd Buon Pastore, sabato pomeriggio incontro con l’on. Ghizzoni

L’incontro è programmato a Modena presso la sede di via Dalla Chiesa dalle ore 16.30

E’ la neo vice-presidente della Commissione Cultura, Scienza e Istruzione della Camera dei deputati Manuela Ghizzoni l’ospite dell’incontro pubblico organizzato dal Circolo Pd Buon Pastore per il pomeriggio di sabato 11 maggio. Appuntamento a Modena in via Dalla Chiesa, a partire dalle ore 16.30.

Un confronto-dibattito sulle prospettive del nuovo Governo Letta che lo stesso premier ha definito di “servizio al Paese”: è quanto organizzato dal Circolo modenese del Pd Buon Pastore per il pomeriggio di sabato prossimo. Interverrà la deputata Pd Manuela Ghizzoni, appena nominata vice-presidente della Commissione Cultura, Scienza e Istruzione della Camera dei deputati. L’appuntamento è quindi per sabato 11 maggio presso la sede del Circolo di via Carlo Alberto Dalla Chiesa, a partire dalle ore 16.30.

"Un decreto contro il pocellum", di Gianluigi Pellegrino

La legge elettorale è un’emergenza democratica ed anche il banco di prova sulle reali intenzioni di questo governo. Vuole essere conseguente con lo stato di eccezione che lo ha generato oppure ha voglia di tirare a campare? Se l’emergenza nazionale è insieme economica, politica ed istituzionale, mettere rimedio al porcellum non è meno urgente delle misure che si impongono per rilanciare lavoro e investimenti.
Un Paese senza un sistema elettorale conforme a Costituzione e riconosciuto dai cittadini è semplicemente privo di agibilità democratica. Orfano delle stesse precondizioni di una democrazia occidentale.
E sarebbe davvero grave se il nuovo esecutivo dovesse cedere alla tentazione di affidare la propria durata non all’utilità degli interventi urgenti cui è chiamato, ma alla oggettiva impossibilità di rimandarci alle urne con l’attuale legge elettorale. Grave ed odioso: ci sentiremmo sudditi- sequestrati più che cittadinigovernati.
Enrico Letta ne sembra consapevole avendolo messo tra le priorità nel discorso programmatico. A prescindere da eventuali e più complessive riforme meglio è comunque togliere di mezzo questa legge elettorale inguardabile e incostituzionale e far rivivere quella precedente (il mattarellum) che aveva dato buona prova di sé. Il nuovo premier ha ripetuto l’obiettivo anche nella sua prima apparizione televisiva intervistato da Fabio Fazio davanti a milioni di italiani.
Ora però si tratta di passare dalle parole ai fatti.
Purtroppo le ragioni per diffidare dei buoni propositi non mancano. I partiti tradizionali hanno dato prova di predicare bene e razzolare malissimo sul tema. Si è fatto finta di lavorare alla riforma per poi offrire pannicelli caldi come improbabili primarie ridotte a foglie di fico per scelte di apparato che infatti gli elettori non hanno in alcun modo sentito come proprie. E si è finiti come apprendisti stregoni, paralizzati e sconfitti da quel porcellum di cui si sperava di approfittare.
Quanto ai nuovi arrivati, anche della effettiva volontà del Movimento Cinquestelle è lecito dubitare perché in realtà il porcellum calza a pennello a Beppe Grillo, in quanto azzera l’importanza dei candidati sul territorio ed esalta il ruolo del guru e padre- padrone.
Ed allora, contrariamente a quel che dice una superficiale retorica, la materia non sta nelle esclusive mani del Parlamento, ma all’iniziativa del governo che qui si gioca la carta preliminare della sua credibilità. Non è difficile intuire che ad agitare i sonni di ministri e sottosegretari vi sia che un cambiamento urgente delle legge elettorale finisca con l’agevolare un sollecito ritorno alle urne, ponendo ulteriormente in luce la scarsa legittimazione di un Parlamento di nominati, scempiato da un premio di maggioranza abnorme che alla Camera ha dato il 55 per cento dei seggi a partiti bocciati da oltre due italiani su tre.
Ma provvedere subito si deve perché alla fine ricondurre il Paese ad una normalità democratica dovrebbe essere la prima e più ambiziosa missione di questo esecutivo, pur coincidendo con l’esaurimento del suo compito di eccezione. Peraltro, come espressamente ammonito dal Consiglio di Europa, l’intervento sulle norme elettorali trova maggiore legittimazione proprio quando non ci si trova all’estremo ridosso di un ritorno alle urne, atteso che altrimenti è come cambiare le regole in corsa, per non dire che qualsivoglia ipotesi verrebbe a quel punto guardata con le sole lenti deformanti dei sondaggi di giornata.
Anche per questo il governo ha il dovere di garantire immediatamente, diremmo prima di ogni cosa, l’abolizione del porcellum. Che non può più essere bloccato dal dibattito su quale diverso sistema adottare. Nè può essere il paravento per forzare riforme costituzionali palingenetiche quanto confuse.
L’evidente incostituzionalità della norma attuale (segnalata di recente anche dal presidente della Consulta) giustifica pienamente un intervento con decreto d’urgenza che se non può spingersi a fare opzioni su sistemi diversi, può senz’altro abolire la norma-porcata ripristinando il mattarellum e costringendo il Parlamento a pronunciarsi nei 60 giorni imposti per la conversione del decreto.
Nessun tecnicismo elettorale è perfetto. Ed è decisiva la concreta prassi applicativa che ne fanno i partiti. Ma è certo che nessun sistema è peggiore di quello che noi abbiamo oggi. Superarlo è un obbligo prioritario di un governo che vuole essere di salvezza nazionale e che peraltro solo in questa fase di avvio può sperare di imporsi a partiti riottosi. Salvo non voglia replicare, persino in brutta copia con l’aggravante della spartizione partitica, la parabola non proprio esaltante del governo Monti.

La Repubblica 09.05.13

"Norme tutte nuove scritte e riscritte per poter ripartire", di Serena Fregni

Tecnici e dirigenti regionali hanno incontrato i cittadini di Cavezzo in una affollata assemblea per dare informazioni su ordinanze, norme e modulistica. Il sindaco Stefano Draghetti ha aperto il dibattito ricordando come si sta procedendo verso la ricostruzione: «A distanza di un anno – ha detto – ci sono dati che portano a considerare positivamente le prospettive future. Nel nostro Comune per il ripristino delle abitazioni private ad oggi sono stati emessi oltre un milione di euro di contributi e quindi possiamo confermare che una pluralità di cittadini possiede già le risorse per ripartire. Il percorso è ancora lungo e complesso e riguarda ancora tante edifici ma riusciamo già a garantire il diritto ad avere i fondi». Presente anche Morena Diazzi, direttore generale delle attività produttive, che ricorda il lavoro svolto in Regione: «C’ è stata e c’è tuttora molta intraprendenza da parte di tutti. Ci siamo mossi cercando di agire per dare vita ad un insieme di norme e azioni in grado di consentire al meglio il ripristino di aziende e abitazioni. I danni stimati sono oltre i dodici miliardi di cui cinque solo per attività produttive. È stata affrontata da tutta la collettività l’emergenza e abbiamo assistito a delocalizzazioni temporanee, come Cavezzo, dove è nato il centro provvisorio nella piazza, consentendo e garantendo i servizi minimi in tempi record. Inoltre si è cercato di derogare norme in tempi rapidi e a giugno dell’anno scorso abbiamo ottenuto anche la deroga dell’Ue per intervenire e ospitare attività temporanee. C’è ancora tanta strada da fare ma a livello regionale c’è un forte impegno a fare tutto ciò che ci concerne e a mantenere vive l’attività nella zona, che è una delle nostre priorità». Luigi Costi, dirigente regionale ed ex sindaco di Mirandola, ricorda la difficoltà iniziale da parte della Regione a dover affrontare il tema del sisma senza alcuna legge in merito. «Ci siamo trovati a dover scrivere ogni singola norma e ordinanza – ha affermato Costi – e questo ha portato ad un’ulteriore lentezza ma abbiamo cercato con tutti i mezzi possibili di accorciare le tempistiche ». Costi ha anche elencato le risorse rese disponibili da gennaio che sarebbero sei miliardi, ma soprattutto ha quantificato le imprese coinvolte in domande finanziarie tra attività commerciali, agricole e artigianali che ad oggi sarebbero circa 1186 e altre 100 in domande per delocalizzazione. Tante domande anche dai cittadini che chiedono chiarificazioni su come compilare i moduli per le richieste di finanziamento e molti dubbi anche sulla cambiale Errani che però, come hanno assicurato Diazzi e Costi, è funzionale, già attiva e molto sicura. Diazzi: «Siamo consapevoli che la burocrazia ha provocato lentezza e problemi, ma stiamo cercando di semplificare e abbiamo creato diversi sportelli, a Novi, Mirandola e Sant’Agostino dove tecnici e impiegati sono a disposizione del cittadino per qualsiasi quesito. Sono tante le aziende che vengono in Regione per presentarci i progetti e siamo sempre disponibili».

La Gazzetta di Modena 09.05.13

"Gli uomini e il mare", di Piero Ottone

Il porto della città di Genova esiste almeno da due millenni. Si tratta di un porto naturale. E ha da sempre una buona reputazione. Perchè ha funzionato, attraverso i secoli, secondo le regole. Però nella notte fra martedì e mercoledì, una notte tranquilla, una nave in manovra finisce su una banchina, distrugge la torre dei piloti, fa morti e feriti. Una tragedia. Come è stata possibile?
Si cercano precedenti. Ci sono state altre sciagure? Certo: la London Valour, anno 1970. Una nave da carico ancorata fuori del porto, investita da una libecciata improvvisa che la fa derivare, metro dopo metro, fino a sfasciarsi sulla diga foranea. Marinai che si tuffano nel mare agitato dal libeccio, in un pomeriggio primaverile, per mettersi in salvo: chi si salva e chi annega. Un elicottero lotta contro il libeccio, per salvare il salvabile. Ma quella è una tragedia fuori del porto, il porto non è chiamato in causa: la responsabilità è tutta del povero capitano, che è stato sorpreso dalla burrasca, e perde la vita, con molti marinai, in una giornata radiosa (la ricordo, io c’ero: splendeva il sole), ma tragica per il vento.
Tragedie del mare? Si pensa inevitabilmente alla Concordia, la gigantesca nave da crociera naufragata davanti all’isola del Giglio, gennaio 2013. Ma in quel caso c’era un uomo al comando, un singolo uomo, il capitano, e l’errore fu suo: la rotta, di cento metri troppo a ridosso dell’isola, era stata decisa da lui. L’episodio dell’altra notte, nel porto di Genova, è un’altra cosa. C’era il capitano sul ponte di comando; c’era il pilota per assisterlo nella manovra in porto, come sempre. Cielo sereno, calma di vento, una bella notte di primavera. La manovra era tranquilla, di routine, non dava adito a esibizionismi. E allora?
La dinamica dell’evento è semplice. La nave avanza di poppa, in retromarcia, verso l’uscita del porto, per prendere il largo. È assistita dai rimorchiatori. È previsto che a un certo momento cambierà marcia, passerà dalla marcia indietro alla marcia avanti, per girare su se stessa e uscire dal porto di prua, come sempre si fa. Una manovra semplice, eseguita mille volte, centomila volte, un milione. Il cambio di marcia non ha funzionato? Invece di perdere velocità, invece di rallentare gradatamente, poi fermarsi, infine avanzare di prua, la nave ha continuato a indietreggiare. Fino allo sfracello. Perché?
Lo spiegheranno gli esperti. Sorprese della meccanica, che funziona sempre, ma una volta su un milione, chi sa, può anche fallire: la marcia indietro può non rispondere ai comandi, rimanere innestata.
Non succede mai: ma una volta può succedere. Oppure, un momento di ritardo nel cambio di marcia: un errore umano di per sé incredibile, tanto più che gli uomini in plancia sono più di uno. E allora?
Qualcuno può dire: navi troppo grosse, quelle di adesso, per i porti costruiti in altri tempi. Ma allora il processo si estende ai tempi moderni, non al porto di Genova, non all’armatore, né al comandante o al pilota che erano, in quella tristissima notte, sul ponte di comando. Che possiamo solo compiangere, con le
famiglie delle vittime innocenti.

La Repubblica 09.05.13