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"Cultura e conoscenza. Quel che è urgente fare" Carlo Testini

Un nuovo governo, un nuovo Ministro dei beni e delle attività culturali, una nuova politica per la cultura. o meglio, una politica, finalmente. Questo ci aspettiamo dalle prossime settimane da chi dovrebbe dare slancio al settore considerato il quarto pilastro di un nuovo modello di sviluppo.
Le dichiarazione del capo del governo sulle sue dimissioni in caso di nuovi tagli a cultura e scuola diminuiscono l’ansia ma certo non fanno presagire grandi investimenti. Vedremo. Nel frattempo proviamo a mettere in evidenza alcune delle priorità del vasto mondo che produce, organizza e promuove cultura. Per quel che riguarda la tutela dei beni culturali, rimandiamo a un bell’articolo di Salvatore Settis, che respinge l’idea di lasciare al privato la soluzione di tutti i problemi. È urgente difendere il paesaggio e definire provvedimenti per il riuso di stabili e aree industriali dismesse contrastando il consumo di suolo, sia nei centri urbani che nelle campagne. Le proposte sono tante e vengono dal «Forum Salviamo il Paesaggio», dalla «legge per la bellezza» promossa da Legambiente, dai comitati per la difesa del territorio in Toscana. C’è poi l ’ambito delle produzioni culturali contemporanee. Alcuni punti ci paiono essenziali. Il primo riguarda la promozione culturale. Le tantissime esperienze associative e di costruzione partecipata di percorsi culturali e creativi sono la grande ricchezza di questo settore. Solo se esistono le condizioni per sperimentare in modo diffuso, di creare relazioni e percorsi collettivi, di avere a disposizione spazi per attività creative, anche in co-working, potremo far crescere competenze e sensibilità. Per farlo c’è bisogno di un forte investimento del ministero per individuare progetti strategici insieme al ministero per lo sviluppo e al ministero per lo sport e i giovani, in stretta collaborazione con Anci, conferenza delle regioni e Forum del terzo settore, anche per sviluppare politiche organiche di sostegno alle forme partecipative del no profit culturale. C’è bisogno di defiscalizzare chi investe in cultura, ad esempio riducendo la tassazione sulle ristrutturazioni e messa a norma di spazi e riducendo l’iva al 10% su tutte le spese legate agli eventi culturali.

È urgente rivedere i meccanismi di funzionamento del Fondo unico dello spettacolo, strumento obsoleto e usato male. Vorremmo capire come la Siae possa ritornare ad essere «di tutti », utilizzando i fondi della copia privata per sostenere creatività e nuovi autori svincolandoli da iniqui meccanismi di ripartizione. Moltissimo c’è da fare per promuovere politiche attive di promozione della lettura. Bisogna finalmente approvare una legge per lo spettacolo dal vivo, tenendo conto di tutti gli attori in gioco, compreso il no profit culturale. Oltre a sostenere il sistema di tutto il cinema italiano (tenendo presente il problema dei costi per la digitalizzazione delle sale indipendenti), è necessario valorizzare l’associazionismo di promozione cinematografica che fa un lavoro straordinario di diffusione di opere altrimenti velocemente dimenticate e promuove attività di formazione di nuovo pubblico.

È in atto una battaglia durissima a livello europeo dove i tagli ai fondi per la cultura dell’Unione rischiano di penalizzare il già piccolo budget previsto per il programma «Europa Creativa». Si rischia il ridicolo. Per questo è urgente che ci si occupi anche dei ben più cospicui fondi strutturali che dovrebbero essere utilizzati per potenziare il futuro settore di punta del nostro Paese: quello della cultura, della conoscenza e della creatività.

L’Unità 08.05.13

Damiano«Subito la cassa integrazione poi finanziare il fondo pensioni», di Natalia Lombardo

Di «lavoro» Cesare Damiano si è sempre occupato, con il Pd, e ieri è stato eletto presidente della commissione Lavoro alla Camera, dopo essere stato ministro con Prodi e, nell`ultima legislatura, capogruppo in commissione. Allora, è stato eletto con 34 sì e nove astensioni. Un consenso ampio che legittimerà di più la sua presidenza, no?
«Sì, anche con qualche voto in più rispetto alla maggioranza che ero sicuro di avere, 34 su 43. Ora, non so, ma alcuni del Movimento Cinque stelle dicono di avermi votato, però non saprei, il voto era segreto».
L`Italia è sempre in una situazione di emergenza e le previsioni non sono rosee per quel che riguarda il lavoro. Quali sono le priorità da affrontare?
«Le cose fondamentali? Applicare il programma che Enrico Letta ha indicato nel suo discorso di insediamento. Io partirei dalla cassa integrazione in deroga. Bisogna coprire il secondo semestre del 2013».
Se non si interviene quante persone rischiano di restare senza reddito?
«Bisogna finanziare il 2013. Per quest`anno manca all`appello un miliardo e mezzo di euro. Se non facessimo questo intervento, aumenteremmo gli attuali disoccupati di altre 700 mila unità, sarebbe gravissimo».
Dove trovare un miliardo e mezzo?
«Bisogna trovarlo. Io non dò indicazioni di copertura, che spettano al governo, dò delle indicazioni di priorità assoluta».
Quindi il problema della cassa integrazione è il primo che dovrà risolvere il governo?
«Certo, è il primo provvedimento che il governo deve fare. Del resto mi pare che Letta abbia fatto un discorso importante e positivo, che ha assunto la questione del lavoro come fulcro dell`azione del suo governo».
Il ruolo della commissione sarà anche quello di facilitare l`azione del governo, o ci saranno anche delle proposte di legge dei parlamentari del Pd?
«Dobbiamo concentrare la nostra attenzione soprattutto sui temi proposti da Letta e che sono alla base del programma del governo».
Esclusivamente del governo?
«Perché dobbiamo portare a casa dei risultati. Noi non facciamo della propaganda elettorale, dobbiamo portare risultati che il Paese, la gente a casa, aspetta. Quindi la cassa integrazione in deroga è il primo, il secondo sono le pensioni».
Una revisione della riforma Fornero?
«Dobbiamo rifinanziare il fondo costituito con la legge di stabilità del governo Monti, approvata nella scorsa legislatura. Nell`ultima legge di stabilità abbiamo istituito un fondo per salvaguardare i lavoratori rimasti senza reddito in seguito alla riforma previdenziale del ministro Fornero».
Gli esodati, insomma.
«Non solo: esodati, esonerati, prosecutori volontari, licenziati individuali, mobilitati, fondi speciali… e così via. Quel fondo va rifinanziato. Io stimo che, se vogliamo coprire la situazione da qui al 2015, per salvare tutti quelli che hanno il diritto di andare in pensione con le vecchie regole, servono almeno 2 o 3 miliardi di euro».
Che si aggiungono a quelli per la cassa integrazione…
«Se la cassa integrazione è un problema immediato, questo fondo è urgente. Allo stesso tempo si può anche pensare, come ha detto Letta, di rivedere tutta la riforma Fornero sulla previdenza, introducendo una gradualità e una flessibilità. Ad esempio, per chi ha 35 anni di contributi consentire di scegliere in un range, per chi ha tra i 62 e i 70 anni, quando andare in pensione».
Come?
«Con disincentivi fino ai 65 anni, incentivi dopo i 66. Con quegli anni di contributi e di età le persone possono andare in pensione scegliendo il momento più opportuno per loro».
Come trovare i fondi?
«Certo, tutto costa, ma con incentivi e disincentivi non dovrebbe costare troppo».
Altre priorità, i giovani?
«Sì, il tema dell`occupazione giovanile: quindi una diminuzione strutturale del costo del lavoro per le nuove assunzioni di giovani».
Con che modalità?
«Quelle si trovano. Al tempo del governo Prodi abbiamo diminuito il cuneo fiscale di tre punti».
E ora?
«Io propongo la detassazione strutturale del costo del lavoro per le nuove assunzioni dei giovani a tempo indeterminato».
Fermando i contributi, come proponeva Berlusconi in campagna elettorale?
«Vedremo, ci sono varie proposte».
E le facilitazioni per le imprese, per le start-up di cui si parla tanto?
«Anche le piccole imprese con questa soluzione avranno la loro convenienza. Non mettiamo troppa carne al fuoco, stiamo all`essenziale, facciamo tre o quattro cose, altrimenti è non si realizza nulla».
Crede che si possano raggiungere risultati su questi temi?
«Secondo me si, perché vedo un convergenze con il Pdl su questi punti indicati da Letta e, se non facciamo propaganda, forse riusciamo».
Lei però non era d`accordo con questo governo, e ora che ne pensa?
«Io non ero favorevole al cosiddetto “governissimo”, come tutti sanno tutti. Ora il governo c`è, cerchiamo di farlo funzionare realizzando pochi punti, trovando le convergenze, sentendo le parti sociali, uscendo fuori da questa crisi economica e occupazionale. Poi con una nuova legge elettorale si può andare al voto».
Come vede il futuro del Pd?
«Il Pd attraversa una fase molto delicata e complicata. Usciamo da una sconfitta e da una fase turbolenta. Dobbiamo ritrovare la strada. Del resto il congresso non è lontano, a ottobre».

L’Unità 08.05.13

"L’equivoco della pacificazione", di Gad Lerner

Fra i compiti attribuiti dai sostenitori della “pacificazione nazionale” al governo Letta-Alfano primeggia l’archiviazione di quella che deprecano come la peggior malattia della sinistra: l’antiberlusconismo. Per uscire dalla paralisi che attanaglia il paese, i “pacificatori” si augurano che venga dato a Berlusconi il riconoscimento politico negatogli fin qui da cattivi maestri che per loro convenienza, e accanimento personalistico, sarebbero giunti a snaturare le finalità storiche della sinistra.
In effetti Berlusconi merita di essere riconosciuto per quello che è, tanto più oggi che la sua forza lo rende indispensabile al governo del paese. Ma se anche potessimo mettere tra parentesi la questione giudiziaria che lo attanaglia e le sue pretese di immunità, dare il giusto riconoscimento politico a Berlusconi può davvero limitarsi a una presa d’atto del suo consenso elettorale? Davvero l’antiberlusconismo può essere liquidato come uno stato d’animo immaturo, esacerbato, settario?
Colpisce che simili argomenti si facciano strada anche dentro al Pd, dove personalità distanti fra loro, da Emanuele Macaluso a Mario Tronti, si ritrovano unite nel lamentare “la centralità dell’antiberlusconismo come unico collante di un partito disunito. Eredi della realpolitik di vecchia scuola comunista — in non casuale sintonia col risorto pragmatismo governativo di matrice democristiana ��� essi ci sollecitano ad accettare Berlusconi come legittimo rappresentante della destra italiana, ci piaccia o non ci piaccia dotata di radici profonde nella nostra società. Vero. Ma si tratta per l’appunto della nostra societ à che per vocazione storica e per urgenze contemporanee la sinistra dovrebbe proporsi di trasformare. Con processi di redistribuzione del reddito, di rilancio economico e di riforme istituzionali che inevitabilmente mettono in discussione i suoi interessi consolidati.
L’antiberlusconismo, quindi, da tanti liquidato come uno stato d’animo nevrotico, merita invece di essere riconosciuto come conseguenza necessaria di un’analisi del sistema italiano. Anche a prescindere dalla personalità fortissima cui da un ventennio lo intestiamo.
Stiamo parlando di un sistema in grave declino che ha visto acuirsi al suo interno le distorsioni del libero mercato, accrescersi i fatturati dell’economia criminale e dilagare la tolleranza di pratiche illegali, consorterie opache, rendite di posizione, conflitti d’interesse. Non si tratta di un fenomeno solo italiano, ma nel nostro paese s’è imposto in misura tale da provocarne il dissesto e un impoverimento drammatico.
Adoperando un linguaggio marxista caro a Tronti, sarebbe poi così lontano dal vero definire il berlusconismo come malattia degenerativa del capitalismo italiano, con riflessi diretti sugli apparati dello Stato e sulla rappresentanza democratica? Ripeto. Non si tratta di indugiare sul ruolo di una singola figura, benché protagonista. Quante volte, sottovoce, abbiamo sentito dire: quando Berlusconi uscirà di scena tutto sarà più semplice. Ne siamo proprio sicuri? Cosa ci fa supporre che un Pdl nelle mani del suo plenipotenziario Verdini si avvierebbe verso la normalizzazione? Il berlusconismo è anche una forma di potere impersonale, una fisionomia assunta da comparti significativi dell’economia e dell’oligarchia, che non si esaurisce nel suo leader.
Per questo l’antiberlusconismo va riconosciuto come un���analisi del sistema italiano, presupposto di un’azione politica di cambiamento che non si riduca a manutenzione dell’esistente.
È interessante, a tal proposito, notare come Berlusconi abbia voluto enfatizzare l’analogia fra la sua vicenda e quella di Andreotti. In una fase storica precedente, anche l’andreottismo si configurò come sistema in grado di tenere assieme — all’ombra dei suoi misteri — interessi all’apparenza distanti come il Vaticano, gli apparati dello Stato, la cultura di massa, insediamenti di economia criminale. Si caratterizzò cioè come una forma del potere, al pari di quel che divenne il berlusconismo in seguito. Se proprio vogliamo sottolineare la diversità fra i due fenomeni, ricordiamo che l’andreottismo rappresentava solo una componente della Dc con cui Berlinguer tentò l’esperimento dell’unità nazionale, rimanendo per lo meno a parole asserita la lealtà del Divo Giulio ai principi costituzionali. Il berlusconismo viceversa si è impossessato di un intero versante politico e con esso di una parte vitale del sistema. Ciò che rende irrealistico un suo coinvolgimento in progetti di riforma strutturale, destinati a scontrarsi col suo istinto di sopravvivenza.

La Repubblica 08.05.13

“Un bimbo non si giudica con un quiz” la battaglia contro i test nelle scuole, di Corrado Zunino

Non ci sono gli studenti arrabbiati del 2011, arriveranno più avanti con i test Invalsi da somministrare alle superiori. E la Cgil, comunque critica sulla valutazione scolastica in base ai quiz, non ha scioperato togliendo batterie di fuoco al “Boikot Invalsi” versione 2013, iniziato ieri insieme alle prove per le scuole elementari (seconde e quinte). I Cobas, alfieri della protesta con balli e bandiere sotto il ministero, parlano del 20 per cento di maestri in sciopero. Gli organizzatori dell’Invalsi replicano che su 2.914 classi campione le prove non sono state effettuate nello 0,82% delle seconde e nello 0,75% delle quinte.
La distanza dei dati è in linea con le dichiarazioni degli ultimi tre anni, ma va sottolineato come il ministero consideri solo le classi campione quando, invece, gli scioperi ci sono stati anche nelle aule in cui i test non diventeranno prova statistica. In diverse scuole italiane, in realtà, i docenti si sono astenuti, alcuni genitori non si sono scientemente presentati e i presidi sono dovuti correre ai ripari ammassando alunni in una sola aula. Tra l’altro, la cifra delle classi vuote offerta dal ministero è tripla rispetto al 2011, a dimostrazione che, almeno tra gli insegnanti, il “no�� ai test resta forte e motivato.
Gli strateghi dell’Invalsi non retrocedono dalla loro posizione: «Le prove Invalsi stanno migliorando la scuola italiana». I Cobas invece, attraverso il leader Piero Bernocchi, definiscono il test a risposta multipla «una vergognosa scheda sugli alunni che spinge a giudizi sommari e discriminatorisu attitudini e personalità e attua una rilevazione di censo». Restando un po’ più sul pezzo, le maestre della Regina Margherita di Roma fanno sapere che le domande Invalsi «sono fuori dal contesto di un anno di lavoro e incapaci di cogliere la preparazione, tanto più la crescita ». All’Iqbal Masih di Roma molti genitori hanno fatto entrare i figli in ritardo scrivendo sulla giustificazione “causa Invalsi”. All’istituto Parini di Ostia sono saltate le prove in 4 quinte su 5. Da Pavia le insegnanti del Vallone ora sostengono: «Gli Invalsi sono frustranti per i bambini con un rendimento medio-basso, i quesiti troppo difficili. Si misura solo l’eccellenza, all’americana. Il test è diventato un addestramento e per le famiglie un nuovo fattore ansiogeno». Un’insegnante genovese conferma: «Le prove sono difficili, hanno una taratura molto alta». A Genova, ecco, l’elementare Ada Negri è rimasta chiusa perché tutti i bidelli hanno aderito allo sciopero. Alla Anna Frank dieci maestri si sono rifiutati di somministrare i test.
Quest’anno alcuni intellettuali (Moni Ovadia) si sono schierati contro la valutazione con la crocetta. Il filologo e storico Luciano Canfora ha firmato l’appello Cobas e ha definito la prova «una mostruosità che può servire a premiare chi è dotato di buona memoria, non chi ha spirito critico. È il trionfo postumo di Mike Bongiorno. Se tolgo allo studente che si sta formando l’abito alla critica, lo trasformo in un pappagallo dotato di memoria, un suddito ». Roberto Ricci, responsabile dell’area prove Invalsi, difende la sua opera: «Quest’anno abbiamo dato più spazio a domande aperte, che in matematica consentono risposte più ricche. Vogliamo capire il ragionamento compiuto dallo studente per dare la risposta, individuare il lettore più competente non quello erudito. Per far bene le prove Invalsi bisogna aver fatto bene la scuola». E per la prima volta il presidente del Consiglio d’istituto, un genitore, potrà visionare i risultati ottenuti dalla sua scuola.

La Repubblica 08.05.13

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“Ma sono indispensabili per migliorare in tutto il mondo valutano prof e alunni”

Il sottosegretario Marco Rossi Doria è l’unico politico dell’Istruzione sopravvissuto all’era Profumo, il ministro che ha spinto sui test Invalsi e sul principio di valutazione delle scuole italiane. Reinsediatosi in viale Trastevere, Rossi Doria, già maestro di strada, dice convinto: «I grandi paesi e quelli in via di sviluppo hanno modalità di valutazione. Tutti. Si valutano alunni, insegnanti, scuole. In Germania e negli Stati Uniti, in India, in Brasile, in Corea. Perché mai il sistema scolastico italiano, che promuove o boccia milioni di ragazzi ogni anno, non dovrebbe essere valutato?».
Corretto. Ma i quiz sono il modo migliore?«Non sono quiz, sono prove di conoscenza e di intelligenza prodotte da insegnanti che per decenni si sono cimentati a scuola, spesso nelle condizioni più difficili. I test Invalsi sono criticati da intellettuali che pensano alla centralità del voto in italiano, come nei Sessanta. Oggi servono prove strutturate. E poi, anno dopo anno, questi test sono migliorati».
A cosa servono davvero i test Invalsi?
«A farci capire i punti di forza e di debolezza del nostro sistema, offrono una quantità di dati straordinaria. In Puglia hanno fatto aumentare le ore di italiano e matematica nelle scuole, e oggi certifichiamo un miglioramento ».
Molti insegnanti protestano.
«Si sentono costretti a un lavoro ulteriore non riconosciuto. Bisogna pagare meglio maestri e professori, questo è il punto».

La Repubblica 08.05.12

Perché l’Asia ci condanna a un ruolo di comprimari", di Bill Emmott

Perplessi. Sconcertati. Sprezzanti. Compassionevoli. Ma alla fine, non veramente interessati. E�� questo il genere di parole e di frasi che mi è venuto in mente quando, nel corso di una visita a Delhi, ho chiesto a banchieri, funzionari, diplomatici e giornalisti che cosa ne pensassero della crisi europea.
Sono stato in India per tenere una conferenza sulle tendenze economiche globali a un pubblico prevalentemente asiatico, che s’incontrava a Delhi per la riunione annuale della Banca asiatica di sviluppo, l’agenzia di prestito pubblico regionale. Da patriota europeo avrei voluto essere positivo sull’Europa e scoprire che al pubblico importava dove stiamo andando. Sono stato deluso su entrambi i fronti.

In parte perché, com’è naturale, le preoccupazioni locali oscurano sempre quelle globali. L’India è in difficoltà per la deludente crescita economica, gli scandali legati alla diffusa corruzione, un governo inefficace e una sensazione generale di disfunzione politica. Un po’ come l’Italia, in effetti, tanto più che il ruolo politico di primo piano di Sonia Gandhi sollecita il paragone. Dietro al disinteresse per l’Europa, tuttavia, c ’è di più che semplici preoccupazioni locali.

Alcuni di questi motivi hanno a che fare con quella parola tedesca, Schadenfreude, il piacere che si prova per le difficoltà altrui. Gli indonesiani, in particolare, ricordano ancora con amarezza una fotografia che risale alla crisi finanziaria Est-asiatica del 1997-98, quando l’allora capo francese del Fondo monetario internazionale, Michel Camdessus, si fermò davanti al presidente di quel Paese, a braccia conserte, come un conquistatore imperiale, insistendo affinché gli indonesiani accettassero l’austerità fiscale come unica possibile soluzione.
La via d’uscita dalla crisi finanziaria dell’Est asiatico in conclusione dipese da alcuni Paesi asiatici che ignorarono o evitarono le prescrizioni fiscali del Fondo monetario internazionale, cercando di chiudere o rimettere in sesto le banche in difficoltà il più rapidamente possibile. La Corea del Sud, la Thailandia, l’Indonesia, la Malesia e altri passarono ancora anni difficili ma poi si ripresero alla grande.

Certo, furono aiutati da un’economia globale in piena espansione e in particolare dalla rapida crescita delle vicine Cina e India. Nel caso dell’Indonesia, l’instabilità politica e la guerra civile hanno fatto sì che ci sia voluto molto più tempo prima che la stabilità, e in effetti la democrazia, si affermassero e l’economia recuperasse. Tuttavia, quest’esperienza della propria crisi finanziaria, appena 15 anni o giù di lì, implica che gli asiatici sentano poca simpatia per la situazione in Europa.

Ammirano di più il modo in cui l’America, ampiamente accreditata come avviata a un inevitabile declino dopo il fallimento di Lehman Brothers del 2008, si è ripresa, ha ripulito le sue banche e ora è sulla via della ripresa, con un tasso di disoccupazione sceso a un livello di oltre un terzo inferiore a quello della zona euro (7,5% contro il 12,1%), una rivoluzione energetica in atto, e persino il settore manifatturiero in fase di recupero.

Sì, l’America ha un sacco di debito federale, ma il dollaro resta globalmente dominante e l’importante caso della California ha mostrato agli altri intorno alle coste del Pacifico come uno stato americano che appena un anno fa sembrava finanziariamente in bancarotta e politicamente paralizzato possa improvvisamente riprendere la rotta e persino equilibrare le sue finanze pubbliche. Allora, dove è l’equivalente europeo? La Grecia? No. L’Italia? No. La Spagna? No. Forse l’Irlanda, ma è troppo piccola per essere significativa, le sue dimensioni sono all’incirca quelle di un sobborgo di Pechino o Delhi. No, in Asia la storia europea è molto più difficile da raccontare di quella americana. È difficile spiegare perché gli europei, governo britannico incluso, pensino che la contrazione fiscale universale, indipendentemente dai fondamentali economici di ciascun Paese, possa condurre alla rinascita. Appare evidente agli asiatici come questo, unito a una moneta unica in una zona commerciale strettamente integrata, abbia ogni probabilità invece di rafforzare reciprocamente la recessione, che è proprio quello che sta accadendo.��

Il visitatore europeo risponde che c’è qualche speranza che quest’implacabile politica di austerità possa essere modificata dopo settembre, una volta che il cancelliere tedesco Angela Merkel sia stata rieletta o inaspettatamente sconfitta. Dopo tutto, il presidente Enrico Letta ha chiesto un cambiamento in questo senso. Ma non appare convincente in un momento in cui nel nostro continente le forze politiche in ascesa sono partiti anti-europei come il Movimento Cinque Stelle, Alternativa per la Germania e l’UK Independence Party, che si presentano come distruttori piuttosto che salvatori.

Ancora più difficile da spiegare è perché le economie europee abbiano, in molti casi da forse 20-30 anni, perso la capacità di evolvere e di adattarsi in modo flessibile ai cambiamenti della tecnologia, ai mercati globali e ai gusti dei consumatori, mentre l’America ha mantenuto quella capacità. Si usava rispondere che l’Europa rispetto agli americani ha privilegiato la stabilità sociale e così abbiamo organizzato le nostre società ed economie di conseguenza. Ma anche da un punto di osservazione distante, come Delhi, un asiatico vede che non vi è traccia di disordine sociale sul fronte americano dell’Atlantico mentre se ne scorgono molti segnali in Europa.

Se questo era il nostro sogno europeo, quindi, i miei interlocutori asiatici non ci hanno mai creduto troppo: sono usciti dalla povertà da troppo poco tempo per avere molta fiducia nel welfare e nella presenza forte del governo, anche se i politici indiani si avvicinano di più a questo modello. Ora, però, guardano l’Europa e si chiedono se il sogno non potrebbe presto trasformarsi in un incubo dove il contratto sociale diventa conflitto sociale e la conciliazione nazionale si dissolve tra reciproche recriminazioni. No, no, ha detto questo visitatore europeo. Come l’Italia, l’Europa forse è in coma, ma può risvegliarsi. La volontà di fare in modo che avvenga rimane forte, e le caratteristiche che in passato hanno fatto dell’Europa il leader mondiale – inventiva, volont à di abbracciare le nuove idee, capacità di dialogo, desiderio di esplorare il mondo – esistono ancora. Noi, come l’America, dobbiamo accettare un relativo declino dal momento che il meraviglioso sviluppo di Asia, Africa e America Latina lo rende aritmeticamente inevitabile. Ma non c’è ragione per cui dovremmo affrontare un assoluto declino, né esiste alcun motivo per cui l’Europa non debba rimanere tra i leader politici, tecnologici e culturali del mondo.

Forse, dicono i miei amici asiatici. Speriamo. Ma alla fine, come risulta evidente nella maggior parte delle discussioni in Asia, a loro non importa. Sì, visiteranno l’Europa per la sua storia e la sua cultura. Ma manderanno i loro figli più brillanti nelle università americane, piuttosto che in quelle europee che giudicano di secondo o terz’ordine. O li faranno studiare a casa nelle università asiatiche che stanno migliorando in fretta. L’Europa? Come cantava Doris Day: «Que serà, serà».

Traduzione di Carla Reschia

La Stampa 08.05.13

Camera, Ghizzoni vice-presidente Commissione Cultura

Negro “Felici per il nuovo riconoscimento al valore della squadra dei parlamentari Pd”. La parlamentare modenese del Pd Manuela Ghizzoni è stata eletta vice-presidente della VII Commissione Cultura, Scienza e Istruzione della Camera dei deputati. “Siamo felici per Manuela – ha commentato il segretario provinciale del Pd Paolo Negro – e per l’ennesimo riconoscimento, dopo il ministro Kyenge e la vice-ministro Guerra, del valore e delle competenze espresse dalla squadra dei parlamentari modenesi del Pd”.
Un altro riconoscimento per la squadra dei parlamentari modenesi del Pd. Dopo che Cécile Kyenge è stata nominata ministro per l’Integrazione e Maria Cecilia Guerra vice-ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, nel primo pomeriggio di martedì 7 maggio Manuela Ghizzoni è stata eletta vice-presidente della VII Commissione Cultura, Scienza e Istruzione della Camera dei deputati. Coadiuverà, insieme a Ilaria Capua di Scelta civica, il lavoro del presidente della Commissione, l’ex ministro per i beni e le attività culturali Giancarlo Galan. “Siamo davvero felici per Manuela, perché in questi anni di lavoro alla Camera ha dimostrato di avere capacità, competenze e grande impegno – ha commentato il segretario provinciale del Pd Paolo Negro – Questa elezione premia quindi la persona e l’esperienza acquisita, ma è anche l’ennesimo riconoscimento, dopo gli incarichi assegnati a Cécile Kyenge e a Maria Cecilia Guerra, del valore e delle competenze espresse dalla squadra dei parlamentari modenesi del Pd”.

"Pd, non si parli solo di nomi", di Alfredo Reichlin

Non ho nostalgia per il passato. Sbaglia chi pensa che, per affrontare una crisi così profonda, coloro che si considerano di sinistra (e io sono tra questi) devono tornare alla vecchia casa. Al contrario, più passa il tempo più io sento, in modo persino assillante, il bisogno di un partito nuovo. E, al tempo stesso, sento non l’ingombro ma la forza delle grandi storie da cui veniamo: quella del socialismo e quella del cattolicesimo sociale, una fede che si fa politica per realizzare qualcosa della missione del cristiano. Ma non scherziamo. Basta con gli sberleffi. Sono queste due correnti profonde che hanno fatto l’Italia moderna e che hanno dato al nostro popolo l’impronta più nobile e più umana. L’hanno trasformato da plebe in cittadini, hanno riconciliato gli sfruttati con la nazione. Di che cosa ci dobbiamo vergognare? Alziamo la testa e chiediamoci noi, seriamente e liberamente, perché da questo straordinario materiale di storia e di valori non è uscito un amalgama più forte.

La mia opinione è che sono mancate le idee forti. Le divisioni e i giochi di potere non sono la causa, ma la conseguenza. Ho sempre pensato, e ne sono sempre più convinto, che non si affrontano le sfide così grandi del nostro tempo se questo partito si schiaccia troppo sui notabili ossessionati dall’ultima dichiarazione dei giornali e dominati dall’ansia del gradimento elettorale. È dalle grandi cose che dobbiamo ripartire, cioè da una presa di coscienza più alta della realtà in cui viviamo. Le risse non servono a niente anche perché nessuno è innocente. Bisogna invece guardarsi intorno per capire che tutto chiede una soggettività e una cultura politica che vadano oltre i nostri vecchi confini. Basta leggere i risultati elettorali (il voto grillino sommato agli astenuti supera il 50 per cento) per capire quanto lo smarrimento sia profondo e per rendersi conto dei rischi per la democrazia.

Condivido quindi la scelta di non lasciare il Paese senza governo. Ma resta la necessità di calarsi nel tessuto dei valori e dei rapporti sociali e culturali che costituiscono l’unità della nazione. Governo e società: tenere insieme le due cose. Dare risposte a bisogni vitali di futuro e di affermazione di sé dei giovani e dei ceti laboriosi. Questo è il compito nostro.

Certo, l’intreccio delle cose è molto complesso. Prendiamo la gravità e la novità della questione sociale. Essa resta il nostro compito centrale, la ragione fondante del Pd. Ma una volta sapevamo chi erano i padroni e che per colpirli ci volevano gli scioperi e l’occupazione dei feudi. Chi sono oggi i padroni? È in larga parte il potere finanziario, il quale però si può muovere liberamente in uno spazio mondiale e ha un potere di ricatto enorme. Pensiamo alle banche da cui tutto dipende e all’immenso armamentario mediatico che martella le menti, tutti i giorni, dalla mattina alla sera con la grande menzogna, secondo cui chi strozza l’impresa e il lavoro non è l’attuale sempre più ingiusta distribuzione del potere e della ricchezza. No. È la corruzione della politica (che pure esiste). E perciò un povero disgraziato con chi se la deve prendere? Non con chi è anche il proprietario della tv che ci dileggia, bensì «con i politici che rubano». Ecco come politica, società, potere e informazione si sono intrecciate nel modo più perverso. Non basta essere contro Berlusconi. Bisogna affrontare la potenza di questo più vasto «blocco storico».

Non nego che il Pd abbia fatto molti errori. Ma ciò su cui dobbiamo essere d’accordo è che alla base della sua crisi ci sono i grandi cambiamenti in Italia e nel mondo che non abbiamo saputo fronteggiare. L’euro ci ha consentito di non rimanere fuori dall’Europa e, quindi, dalla lotta per i nuovi assetti del mondo scatenati da quella cosa fondamentale che è lo spostamento della ricchezza del Vecchio mondo verso i Paesi nuovi. Ma il fatto che il processo di integrazione politica dell’Europa non sia andato avanti ha penalizzato particolarmente l’Italia esponendola agli assalti speculativi dei mercati finanziari. Non sottovalutiamo il fatto che la cosiddetta «economia del debito», cioè del denaro fatto creando moneta virtuale ha eroso le basi stesse del patto sociale.

Nessuno lo dice ma è qui che sta l’origine della crisi morale. Ed è per questo che la crisi italiana è diventata tale da rimettere in discussione alcuni degli equilibri di fondo su cui si era costruita l’unificazione del Paese. Io non capisco come si possa parlare di politica senza parlare di queste cose. Di che politica parliamo se non riusciamo a diradare il buio profondo che è calato sulle nostre prospettive? Siamo al rischio di emarginazione dei nostri figli dal futuro, un futuro mondiale nuovo che in ogni caso si va costruendo, senza di noi, con evidenti conseguenze sulla tenuta della nostra compagine nazionale e uno smarrimento dell’identità stessa e del destino della Nazione.

Discuteremo di queste cose al congresso o parleremo solo delle persone? Stiamo attenti perché il congresso è anche una grande occasione. Noi siamo di fronte a problemi per certi aspetti analoghi a quelli in cui ci trovammo dopo il fascismo. L’analogia, ovviamente, sta solo in ciò: nel nesso molto forte tra rifondare il partito per ricostruire l’Italia, e ricostruirla ridisegnando in qualche misura anche il suo profilo. Di questo tipo di congresso abbiamo bisogno oggi. Di un grande congresso. Per carità, non voglio parlare del Pci. Penso al congresso di Napoli della Dc, il congresso di Moro che traduceva in disegno politico il lungo e straordinario lavoro di Andreatta, Saraceno e del convegno di San Pellegrino. So bene che la situazione di oggi è molto diversa e molto più difficile. Vorrei solo che il nuovo segretario – chiunque sia – abbia per lo meno questa idea in testa: rifondare il Pd per ricostruire l’Italia. Non facciamoci fare il congresso dai giornali. Noi non andremo da nessuna parte se non abbiamo l’orgogliosa convinzione che non si possono affrontare i problemi della società italiana se non sulla base di una nuova idea di solidarietà e di giustizia. L’Italia ha bisogno di un «patto civile» per un Paese più giusto, e un Paese più giusto è anche fondamentale per la crescita. Smettiamola quindi di piangerci addosso. I fallimenti della destra sono catastrofici. La vecchia idea berlusconiana dello sviluppo affidato alle scelte dell’oligarchia finanziaria e al consenso delle piccole imprese e dei ceti popolari ricercato con i bassi salari, l’evasione fiscale e la cultura televisiva ha portato l’Italia al disastro. È vero, Berlusconi conta ed esercita ricatti. Ma io temo che egli conti nella misura in cui noi parliamo solo di lui, e non diciamo la nostra sull’avvenire.