Latest Posts

"Occupazione, quando la laurea non basta", di Christian Benna

L’università della vita boccia i dottori. Succede in Italia dove il pezzo di carta rimane nelle tasche di 200mila laureati fermi al palo della disoccupazione. Il record negativo è certificato dall’Istat: nel 2011 il numero di giovani a spasso con titolo di studio conseguito in un delle facoltà della Penisola è aumentato del 27%. Non stupisce quindi che nella nuova ondata migratoria, 100 mila italiani in fuga solo lo scorso anno, uno su tre possiede almeno una laurea. La crisi degli atenei, va a braccetto, in un valzer sul Titanic, con la crisi dell’economia e del lavoro. Le università italiane negli ultimi dieci anni hanno perso 58 mila studenti; con calo delle matricole pari al 17% sul totale della popolazione universitaria. Come se in un decennio — quantifica il Consiglio universitario nazionale — fosse scomparso un ateneo come la Statale di Milano. Un’emorragia che si traduce in tracollo nelle classiche Ocse in quanto a percentuali di laureati tra 30 e 34 anni: l’Italia scivola al 34esimo posto su 36 paesi, a quota 19% contro una media europea del 30%. Si riducono anche i professori, del 22% dal 2006 a oggi, i corsi di laurea (1.195 in meno in sei anni) e i dottorati (6.000 in meno rispetto agli standard europei. Come invertire la rotta? Se la demografia italiana non aiuta, se il valore del pezzo di carta incomincia ad ingiallire, i prossimi passi suggeriscono da più parti gli esperti — devono essere fatti proprio in direzione del lavoro. Il vicepresidente di Confindustria con delega all’Education Ivanohe Lo Bello, ha ribadito la necessità di «percorsi formativi all’interno della scuola che si devono incrociare con quelli delle aziende». E spiega: «Il Paese ha bisogno di un’università che crei più occupazione. Abbiamo bisogno di giovani più competitivi e in grado di innovare il sistema produttivo. L’università, in collaborazione con le imprese, deve offrire una formazione più concreta e aperta al mondo del lavoro. Come fare? Puntare sulle lauree triennali professionalizzanti; diffondere tirocini nelle facoltà tecnico-scientifiche; valorizzare i nuovi Its; utilizzare lo strumento dell’alto apprendistato che permette di svolgere il dottorato in partnership con le aziende». Intanto bisogna ridurre il gap tra lavoro e formazione. Nel 2011, infatti, il tasso di disoccupazione tra i 25 e i 29 anni raggiunge per i laureati il 16%, un livello superiore sia a quanto registrato dai diplomati nella stessa fascia d’età (12,6%) sia alla media dei 25-29enni (14,4%). Andrea Cammelli direttore di Almalaurea, invita a guardare i numeri con spirito critico. «Se si arriva alla conclusione che la laurea non serve più a nulla, affermiamo una sciocchezza che risulta pericolosa per il futuro del paese». Dati alla mano, Cammelli riconosce che l’avviamento al lavoro per i nostri neo — laureati è piuttosto problematico. Circa l’11% dei giovani a un anno dalla laurea non ha lavoro. Quota che però scende al 6% nel periodo successivo. «Nei primi anni di lavoro i coetanei non laureati hanno in media redditi più alti. È del tutto normale, perché si tratta di giovani che sono entrati molto prima nel mercato del lavoro. Nel tempo però non c’è partita. Studiare conviene». Secondo i dati di Almalaurea chi possiede un titolo di studio di un Ateneo italiano arriva a guadagnare nel corso della vita fino al 50% in più rispetto a un diplomato. L’università italiana, secondo Cammelli, deve sapere interpretare questi fenomeni, costruendo ponti con il mondo del lavoro, ma anche le aziende devono sapersi rinnovare. E dice: «La gran parte dei manager europei, 34 su cento, ha una laurea, in Germania la percentuale sale a 44. In Italia siamo appena a 15. Questo è uno spread educativo che dovrà essere colmato». Le università italiane che sfornato laureati con posto “assicurato” sono le solite note: medicina, economia e ingegneria. Sorprendono invece quelle in fondo alla classifica, chimica e geologia biologia. Se i risultati in termini di occupazione non sono buoni, a monte il mondo delle università appare ancora cristallizzato alle dinamiche del secolo scorso. La maggior parte dei laureati, il 49%, ha studiato nella propria città di appartenenza. Solo il 26% è di estrazione operaie. E appena l’8,4% ha completato gli studi lavorando. Andrea Lenzi, presidente del Cun, Consiglio universitario nazionale, «servono soldi veri e investimenti per garantire al diritto allo studio, borse di studio e college per studenti, spese senza le quali è difficile immaginare una ripresa». Il taglio di 400 milioni di euro al Fondo di finanziamento ordinario per l’anno 2013 ha indebolito le risorse delle Università, già in calo programmato del 5% annuo dal 2009. Tuttavia «ben consapevole delle ristrettezza economiche, almeno dobbiamo prendere dei provvedimenti per migliorare la qualità dello studio e dell’accesso all’università ». E spiega: «L’orientamento è uno dei pilastri dell’insegnamento. In Italia è quasi del tutto assente. Invece bisogna spiegare ai giovani delle scuole secondarie il loro futuro. E questo a partire da due argomenti: il primo è la conoscenza delle possibilità di studio, quando oggi ci si iscrive all’università spesso quasi per caso. E il secondo è dire chiaro hai ragazzi le opportunità di lavoro che una determinata facoltà offre. Il placement andrebbe scritto a fianco del nome del corso di laurea». Nel 2011 il numero dei giovani a spasso con titolo di studio conseguito in un delle facoltà della Penisola è aumentato del 27% per cento Il taglio di 400 milioni di euro al Fondo 2013 ha indebolito le risorse delle Università.

La Repubblica 06.05.13

"PA, corsa contro il tempo per i precari", di Gianni Trovati

I contratti precari nella Pubblica amministrazione è l’altra Imu del Governo Letta. Come per l’imposta municipale, il neo-premier ha posto nel suo discorso di insediamento l’obiettivo del «superamento» del precariato negli uffici pubblici, e come per l’Imu i tempi stringono: la proroga dei contratti fatta con l’ultima legge di stabilità scade il 31 luglio, e le regole in vigore non sembrano lasciare spazio a un rinvio ulteriore (il Dlgs 368/2001 fissa il principio della «proroga unica»), anche perché si supererebbe il limite dei 36 mesi. Per evitare un’uscita di massa, insomma, sembra indispensabile una legge. In fretta. Secondo l’ultimo censimento dell’Aran, l’agenzia nazionale che si occupa del pubblico impiego, i contratti «flessibili» nella pubblica amministrazione sono 317mila. Circa 2o3mila, però, sono i supplenti che lavorano in scuole, accademie e conservatori, per cui i precari “classici” della Pubblica amministrazione sono intorno ai u4mila. In gran parte (il 76%) sono titolari di contratti a tempo determinato, ma non mancano 18mila lavoratori socialmente utili, poco meno di10mila contratti di somministrazione e una sparuta rappresentanza di rapporti di formazione e lavoro. Scuola e università a parte, sono gli enti locali ad arruolare la maggioranza dei lavoratori flessibili, con circa 6omila contratti concentrati soprattutto nei servizi assistenziali ed educativi. Una quota di lavoro flessibile, comunque, è presente in tutte le Pubbliche amministrazioni, compresi settori piccoli come quello delle Autorità indipendenti (1.600 persone in tutto, precarie in quasi il 10% dei casi), e qualche decina di contratti flessibili è presente persino nelle stanze di Palazzo Chigi. Arrivare a131 luglio senza aver trovato una soluzione, insomma, significa creare un nuovo problema sociale ma anche creare nuovi buchi nell’attività di tutta la Pubblica amministrazione. La costruzione di un paracadute, in realtà, è stata tentata nei mesi scorsi all’Aran, all’interno di un tavolo coni sindacati perla definizione di un accordo quadro (solo per alcune categorie, però) che tuttavia si è impantanata per le incertezze del terreno e per la distanza di posizione fra le parti. Le chance per una svolta nella trattativa sono ormai ridottissime, anche perché un eventuale uovo di Colombo dovrebbe passare il vaglio della Corte dei conti e il tempo utile per il completamento della procedura sembra esaurito. Soprattutto, ormai, sembra rivolta altrove l’attenzione dei sindacati, che chiedono un intervento del Governo: la prima richiesta, che era stata rivolta anche a Monti, è quella di una proroga al 31 dicembre (il costo oscilla tra i io° e i 150 milioni a seconda dei calcoli), in modo da avere il tempo anche per trovare una soluzione a regime. Nelle audizioni sul Def, qualche parlamentare ha ragionato sull’ipotesi di intervenire subito con un emendamento al decreto sblocca-pagamenti, ma l’individuazione di una copertura e la ricerca di un’intesa con il Governo sono condizioni indispensabili. Anche perché una semplice proroga per legge non sarebbe sufficiente a chiudere la questione, perché occorre armonizzare la disciplina del pubblico impiego alle regole della legge Fornero e sulla gestione complessiva della flessibilità nella Pa le idee di sindacati e Pubblica amministrazione per ora faticano a convergere. I sindacati, in particolare, chiedono di accompagnare gli attuali precari verso il posto fisso e di rendere possibile solo in casi molto limitati la stipula di nuovi contratti a termine, con una «rigidità in ingresso» che però alle amministrazioni suona indigesta: anche perché c’è da fare i conti con i limiti al turn over e la limatura degli organici secondo le regole disegnate nel luglio scorso conia revisione di spesa, che proprio per Comuni e Province attende ancora di essere applicata con l’individuazione degli enti caratterizzati da organici fuori misura e di conseguenza chiamati a introdurre prepensionamenti e mobilità. In questa cornice, resta da capire che cosa può significare in pratica il «superamen- , to» evocato da Enrico Letta, che anche per l’Imu ha lasciato per ora il campo aperto a più di un’ipotesi.

Il Sole 24 Ore 06.05.13

Il lavoro in Commissione dei parlamentari modenesi del Pd

Domani si terrà la prima riunione delle Commissioni sia alla Camera che al Senato. L’ufficialità si avrà nella giornata di martedì 7 maggio quando sono programmate le prime riunioni delle Commissioni di Camera e Senato, ma intanto i gruppi politici presenti nei due rami del Parlamento hanno indicato i propri rappresentanti nelle diverse Commissioni. Ecco come e dove saranno impegnati i parlamentari modenesi del Pd:

Davide Baruffi – XI Commissione Lavoro della Camera dei deputati

Carlo Galli – IV Commissione Difesa della Camera dei deputati

Manuela Ghizzoni – VII Commissione Cultura, Scienza e Istruzione della Camera dei deputati

Edoardo Patriarca – XII Commissione Affari sociali della Camera dei deputati

Giuditta Pini – IV Commissione Difesa della Camera dei deputati

Matteo Richetti – I Commissione Affari costituzionali della Camera dei deputati

Stefano Vaccari – XIII Commissione Territorio, Ambiente, Beni ambientali del Senato

I parlamentari Pd “braccialetti bianchi” contro la corruzione

Baruffi, Ghizzoni, Patriarca, Richetti e Vaccari hanno aderito a “Riparte il futuro”. Ci saranno anche i parlamentari modenesi del Pd, martedì 7 maggio, a Roma, alla prima “Assemblea dei braccialetti bianchi” promossa da Libera e Gruppo Abele: l’appuntamento segna l’inizio della fase parlamentare della lotta alla corruzione. All’iniziativa saranno presenti i deputati Davide Baruffi, Manuela Ghizzoni, Edoardo Patriarca e Matteo Richetti. L’idea è quella di costituire una sorta di intergruppo parlamentare che abbia come primo obiettivo la riforma dell’articolo 416 ter del codice penale che sanziona lo scambio elettorale politico-mafioso. Si tiene, infatti, martedì 7 maggio, a Roma, a Palazzo Giustiniani, la prima Assemblea dei braccialetti bianchi, ovvero di quei parlamentari che hanno aderito alla campagna “Riparte il futuro” promossa da Libera e Gruppo Abele per combattere la corruzione. Tra i “braccialetti bianchi” ci sono anche molti parlamentari modenesi del Pd: hanno, infatti, aderito i deputati Davide Baruffi, Manuela Ghizzoni, Edoardo Patriarca e Matteo Richetti e il senatore Stefano Vaccari. A parte il senatore Vaccari, impegnato nella presentazione della marcia “Modena-L’Aquila”, tutti gli altri parteciperanno all’Assemblea i cui lavori saranno aperti dal presidente di Libera Don Luigi Ciotti e che vedrà gli interventi del presidente del Senato Pietro Grasso e della presidente della Camera Laura Boldrini, tra i primi ad aver sottoscritto gli impegni di “Riparte il futuro”

"Meglio il lavoro del reddito garantito", di Bruno Ugolini

C’è un dibattito aperto sulla possibilità di attuare anche in Italia, com’è avvenuto in altri paesi, forme di reddito garantito. Alcuni parlano di «reddito minimo garantito », altri di «reddito di cittadinanza». Questa ultima formula (più costosa) è una delle bandiere innalzate dal movimento 5 Stelle. Enrico Letta ha risposto promettendo un reddito minimo ma riservato solo a famiglie bisognose con figli. Una scelta, ribadita ieri dalla viceministra alle Politiche Sociali Cecilia Guerra e che comporterebbe, secondo i primi calcoli, un costo pari a dieci miliardi. I sindacati in generale non hanno mai sposato proposte di questo tipo, salvo la Fiom-Cgil che per la manifestazione a Roma del 18 maggio propone, tra gli altri ambiziosi obiettivi, proprio il cosiddetto «reddito di cittadinanza». Lo scarso entusiasmo di Cgil, Cisl e Uil per queste forme di sostegno finanziario non deriva solo, come qualcuno ha scritto, dal fatto che una simile impostazione ridurrebbe il potere contrattuale dei sindacati delegando a un dispositivo di legge una tutela dei lavoratori. Ben altre motivazioni sono state avanzate, nel passato, ad esempio, da un dirigente sindacale scomparso, Bruno Trentin. Nel suo libro Lavoro e libertà nell’Italia che cambia (Donzelli editore) scriveva: «Non ho mai condiviso le ricorrenti proposte di istituire un reddito minimo garantito, totalmente scollegato dalla quantità e qualità del lavoro». Tali proposte, ricordava «Hanno portato a esperimenti di esclusione e ghettizzazione dei lavoratori disoccupati». Sarebbe meglio, insomma, riuscire a garantire alle persone il lavoro e i suoi diritti, più che il salario, se si considera il lavoro fonte d’identità e libertà. E, certo, garantendo, nello stesso tempo, forme di sostegno sicure ma transitorie a chi perde il lavoro. C’è in Europa, del resto, una proposta, diretta in modo principale ai giovani, che porta appunto il titolo «Youth Guarantee», Garanzia Giovani. E la proposta di un percorso capace di impedire che l’esercito delle nuove generazioni che bussano invano alle porte dei sistemi produttivi, cadano nello scoramento, affollando le schiere dei Neet, i giovani che non lavorano e non studiano. Magari intenti a battersi per avere almeno qualche mancia attraverso il famoso reddito garantito. Il progetto è stato approvato lo scorso 28 febbraio dal Consiglio europeo e tradotto in una «raccomandazione» a tutti gli Stati membri. Esso dice: «Garantire che tutti i giovani di età inferiore a 25 anni ricevano un’offerta qualitativamente valida di lavoro, proseguimento degli studi, apprendistato o tirocinio entro un periodo di quattro mesi dall’inizio della disoccupazione o dall’uscita dal sistema d’istruzione formale». Alcune misure simili sono state adottate, informa Rassegna sindacale (www.rassegna.it), in Francia, Irlanda e Regno Unito. Ora, sostiene la Cgil, anche il nostro Paese «deve istituire rapidamente tale proposta con una legge quadro nazionale. L’incertezza politica in cui versiamo non può farci perdere anche questa occasione». I diversi Stati saranno sostenuti, per questa scelta, con i fondi del quadro strategico comune della Unione europea. Inoltre per le zone il cui tasso di disoccupazione giovanile supera il 25%, sono stati stanziati 6 miliardi di euro. Chi sarà beneficiato da tale intervento? Un documento della Cgil pubblicato sul sito Giovani non più disposti a tutto spiega come i più colpiti dalla crisi siano oggi i giovani «che non dispongono della copertura di un welfare familiare». Chiamano questo sistema «Ereditalia», ovverosia «un Paese ingessato, nel quale le fortune ereditate dalla famiglia di origine, siano esse beni, relazioni, professione o impresa, rendono ogni giovane socialmente predestinato». Il documento sindacale analizza poi i diversi aspetti (limiti di età, servizi all’impiego) onde tradurre nella realtà italiana le caratteristiche della «garanzia». La proposta è stata elaborata, con il contributo di un nutrito gruppo di ricercatori e ricercatrici. Tra questi Alessandro Rosina (demografo, Università Cattolica di Milano, autore di Non è un Paese per giovam), Martina Di Simplicio (ricercatrice, Fonderia Oxford), Paola Ricciardi (architetta, Associazione Iva Sei partita), Andrea Garnero (economista, Université Libre de Bruxelles, collaboratore Spazio della Politica) e molti altri. Farà strada la «Youth Guarantee»? C’è da aggiungere che lo stesso Enrico Letta parlando di una «generazione perduta» ha citato anche la strada europea tracciata dal Youth Guarantee. stata però una promessa, contenuta all’interno di molte altre aspirazioni, non precisate in impegni concreti. E la presenza, nella compagine governativa, di tante, diverse culture e sensibilità, non fa molto ben sperare. A meno che questo nostro Paese sia miracolosamente riuscito a superare, col nuovo governo, come qualcuno crede e spera, la presenza di schieramenti e di programmi di destra e di sinistra, incompatibili. Solo una seria mobilitazione popolare potrebbe, in tale contesto, costringere ciascuno a scoprire le proprie carte, portare chiarezza.

L’Unità 06.05.13

Carrozza: «Sud, più risorse per trattenere i migliori», di Adolfo Pappalardo

«La nostra priorità è il Sud», dice subito, senza tanti giri di parole, Maria Chiara Carrozza appena insediatasi sulla poltrona più alta del ministero dell’Istruzione e Ricerca scientifica che pesa le parole ma chiarisce come occorre ridare speranza agli insegnanti precari: «Un problema enorme. Ma chi ha tenuto in piedi per anni la formazione non può essere buttato via».
Ministro domani sarà a Napoli. A Città della Scienza e nella scuola media di Forcella per iniziare un tour. «Giusto partire da Napoli, un luogo simbolico del Mezzogiorno su cui occorre un’attenzione particolare. A cominciare da Città della Scienza dopo tutto quello che è avvenuto: il mio obiettivo è fare di tutto affinché ci sia una ripartenza della attività ma in questo momento occorre, soprattutto, la mia vicinanza e quella del governo alla comunità scientifica-accademica di Napoli. Questa visita è un modo simbolico per ricominciare a parlare di progetti concreti».
Poi a Forcella, un quartiere disagiato di Napoli, come però ve ne sono diversi al Sud. «Ne sono consapevole. Voglio essere presente, parlare con i docenti, con gli alunni e capire cosa c’è che non va. A Napoli, poi a Bari a Palermo e, via via, risalire verso Nord per visitare le realtà di tutto il Paese: occorre una ricognizione di quello che tutti gli esponenti pensano dello stato attuale dell’università e di quello che c’è da fare. Alla fine del percorso di incontri definiremo le priorità in accordo con il Governo. Ma la mia priorità è il Sud del Paese». Consapevole del gap enorme, dal punto di vista dell’istruzione, che esiste tra le due aree del Paese? «Intanto preferisco vedere i dati e studiarli: preferisco non parlare per luoghi comuni altrimenti sono tutti discorsi che non servono a nulla».
La riforma Gelmini non è stata da tutti digerita. «Già detto che la riforma del mio predecessore ha alcuni punti che probabilmente necessitano di un cambiamento. Ma vediamo: non è questa la mia priorità ora». Di certo la scuola sembra andare verso un sistema di. alutazione, vedi Invalsi, di tipo statistico. Troppo, forse. Lei asseconderà o intende frenare? «Sicuramente occorre fare una riflessione: è sempre importante una valutazione ed io l’ho sempre fatto da rettore e da professore ma non ci si può abbandonare solo ai numeri. Qualche giorno fa Giorgio Israel, in una lettera pubblica, spiega che sia meglio non rimuovere questo sistema ma operare una riflessione. Ecco, ho avuto l’impressione, che la scuola sia divisa su questo punto».
Anche sul voto alla maturità che da ora avrà un peso determinante sui punteggi per accedere alle università a numero chiuso. Con il paradosso che potrebbe essere privilegiato chi ha studiato in un diplomificio… «Sono contraria, da docente, a dare un voto sulla base di un altro conseguito in un’altra scuola. Il voto della maturità può essere utilizzato per i test universitari ma in minima parte. Io personalmente in questo caso non lo utilizzerei ma, tendenzialmente, se deve avere un peso che lo abbia in maniera limitata. Perché al di là dei voti noi abbiamo il dovere di dare ai giovani la possibilità di migliorarsi, non sbarrargli la strada».
Al palo è l’Agenda digitale. Qualcuno sostiene che la rincorsa verso l’elettronica può essere dannosa per la scuola. Senza contare che il Mezzogiorno ha un digital divide più accentuato. «Occorre non abbandonare l’agenda digitale. La scuola, ma anche la ricerca sono temi trasversali che uniscono il Paese. C’é un’ampia convergenza sul fatto che ricerca e innovazione siano fondamentali per il futuro dell’Italia e non bisogna averne paura perché il mondo, e quindi la scuola, vanno verso una complessità. Ma questo deve essere uno strumento pi ù ampio per portare a tutti internet e, quindi, servizi della pubblica amministrazione. Senza correre il rischio che qualcuno sia marginalizzato a causa della mancata copertura del territorio di internet. La digitalizzazione dei servizi puo’ rendere tutto piu’ trasparente e fruibile. Per abbattere costi e rispettare i diritti dei cittadini serve una struttura tecnologica adeguata. E solo così si potrà superare il gap tra le due parti del Paese».
L’ultimo concorso, ancora in fieri, arriva dopo 13 anni. E non assorbirà tutti i precari. Il suo sottosegretario Rossi-Doria propende per una precedenza ma così si rischia di sbarrare un giovane che vuole insegnare.. «Quello dei precari è un problema enorme. Per anni hanno tenuto sulle loro spalle la scuola senza avere alcuna certezza sul proprio futuro. Ora non possiamo abbandonarli, abbiamo un dovere morale verso di loro ma è chiaro che deve esserci un bilanciamento anche per i giovani. Il punto fondamentale è lo stesso: ci sono pochi ingressi nel mondo della scuola e dell’università e la priorità è affrontare questo problema. Una ricerca della Federico II è impietosa: meno del 30 per cento dei laureati lavora al Sud. Si spendono ingenti risorse per la formazione ma poi si fugge: cosa si può fare? «Occorre farlo, anzitutto. E concordo che dobbiamo investire su questo, per aumentare l’attrattività e le occasioni di lavoro ma purtroppo occorrono investimenti enormi. L’obiettivo c’è, il mio lavoro andrà in questo senso per cominciare ad invertire la tendenza ma non garantisco la rivoluzione».
Magari anche colpa dei concorsi vinti dai soliti noti: da qui l’Anvur che ora prevede criteri bíbliometrici. Sono da cambiare? «Anche qui si è fatto un lavoro enorme per un sistema con punti di forza e debolezza che non si può liquidare su due piedi. Di certo, e l’ho già detto, occorre dire basta con le regole assurde: introdurre troppi livelli significa deresponsabilizzare chi sceglie».
Servono risorse ma l’Italia è il Paese che per la ricerca investe di meno, in rapporto al pil, rispetto al resto d’Europa. S’invertirà la rotta? «Il mio obiettivo è aumentare le risorse. Di più non si può tagliare» “Il nostro sistema accademico è destinato al collasso”: parole sue del settembre 2010. Da ministro cosa ha trovato? «Un mondo molto vivo che ha voglia di ripartire. E deve ripartire».

Il Mattino 06.05.13

"Quei bambini cittadini a pieno titolo", di Nadia Urbinati

È difficile dire se ci riuscirò; per far approvare la legge bisogna lavorare sul buon senso e sul dialogo, trovare le persone sensibili». Così ha detto la ministra per l’Integrazione, Cécile Kyenge.
Bellissima considerazione che ha suscitato forti polemiche da parte di esponenti politici del Pdl come il senatore Renato Schifani, il quale ha rivolto un appello al premier Enrico Letta «affinché inviti i suoi ministri a una maggiore sobrietà, prudenza e cautela» perché, sottolinea il candidato Pdl alla presidenza della Repubblica, questi annunci «non rientrano nel programma» del governo. Segno evidente di una differenza non piccola, una delle tante probabilmente, tra i partner di questa complicata coalizione. L’onorevole Kyenge richiama l’attenzione su quelli che dovrebbero essere gli ingredienti del dialogo pubblico in una democrazia matura: buon senso e sensibilità. Ingredienti che hanno fatto difetto in questi ultimi anni di polemica politica la quale ha nutrito, invece che stemperare, pregiudizi antirazziali. Quello degli immigrati è uno status che va affrontato con buon senso e sensibilità. È questo che sta a cuore alla ministra e a molti italiani che si riconoscono nelle parole del presidente della Repubblica, il quale ha detto che è «una follia che i figli degli immigrati che nascono qui non siano italiani ». Una follia, l’opposto del buon senso e della sensibilità.
Perché è così difficile far sì che anche da noi come nella maggior parte delle nazioni occidentali a democrazia consolidata valga il principio dello
ius soli nell’attribuire la cittadinanza?
Ius soli significa una cosa di grandissima importanza: che il centro di gravità dell’appartenenza politica è la persona, non la sua famiglia, non la nazione o l’etnia di appartenenza, non il colore della pelle. Un fatto di coerenza con i fondamenti della democrazia, la quale ai suoi cittadini chiede solo una competenza: quella di essere attori responsabili delle proprie azioni, e per questo punibili. Se siamo responsabili delle nostre azioni allora siamo competenti abbastanza per decidere. Su questo ragionamento basilare riposa l’idea dell’eguaglianza politica. Già dall’avvento della democrazia moderna questa disposizione giuridica all’inclusione apparve chiara se è vero che durante la Rivoluzione francese fu deciso che bastava un anno di residenza per avere il diritto di voto.
Oggi in Italia, quanti sono coloro che, nati qui, sono costretti in un’identità che è a loro estranea, quella che corrisponde a una lingua che, in moltissimi casi, nemmeno conoscono o parlano più? Nelle scuole elementari studiano la storia del nostro paese “come se” fosse quella del loro paese: studiano di Garibaldi e Mazzini, di Cavour e della Costituzione della Repubblica italiana; eppure quando compiono la maggiore età non possono votare né hanno diritto a sedere nelle giurie popolari. Di quale paese è la storia che hanno studiato? Ecco perché la richiesta della ministra è di buon senso e sensibilità.
Lo è ancora di più in un paese che ha milioni di emigrati, i quali, loro sì, sanno quanto importante sia sentirsi parte attiva a pieno titolo del paese dove, per scelta o necessità, vivono. A milioni di nostri espatriati è riconosciuta la doppia cittadinanza — proprio per dare a loro e ai loro figli la possibilità di averne un’altra di cittadinanza, quella del paese dove vivono, come è giusto che sia. Eppure chi vive in Italia, addirittura nascendo qui, è dichiarato un paria. Votano gli italiani che vivono all’estero da quattro generazioni e che non parlano neppure più l’italiano. Eppure chi nasce qui e parla perfettamente l’italiano e studia la nostra storia e la nostra letteratura, e paga le tasse qui, non ha voce. La ministra dell’integrazione ha ragione a dire che è una questione di buon senso e di sensibilità che i figli degli immigrati che nascono in Italia debbano essere cittadini a pieno titolo.

La Repubblica 06.05.13