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"Boom della cassa integrazione, difficile anche il 2014", di Giuseppe Caruso

Nuovi record per la cassa integrazione. Ieri l’Inps ha comunicato che ad aprile sono state autorizzate complessivamente 100 milioni di ore di cig, pari al 3,1% in più rispetto a quelle autorizzate nel precedente mese di marzo, che si erano fermate a 97 milioni. Prendendo invece in considerazione il mese di aprile 2012, nel quale furono autorizzate 86,1 milioni di ore, si registra un incremento pari a +16,05%. Ad aumentare sono sia gli interventi ordinari che quelli straordinari. I primi sono passati dai 34 milioni di ore di marzo 2013 ai 35,7 milioni di aprile, con un aumento del +4,9%. Si evidenzia un aumento più marcato, pari al +30,9%, se si confrontano i dati di quest’anno con quelli di aprile dello scorso anno, quando furono autorizzate 27,2 milioni di ore. L’incremento è da attribuire, in egual misura, alle autorizzazioni riguardanti il settore industriale e il settore edile, che hanno registrato un aumento rispettivamente del 30,3% e del 32,8%. Analizzando gli interventi straordinari, i 57,5 milioni di ore autorizzate ad aprile fanno registrare un aumento del +33,4% rispetto allo scorso mese di marzo, con 43,1 milioni di ore. Rispetto allo stesso mese dell’anno precedente, le ore autorizzate sono aumentate del 92,2%, essendo passate dai 29,9 milioni di aprile 2012 agli attuali 57,5 milioni. Ma le cattive notizie sul fronte della mancanza di lavoro non riguardano soltanto il presente, ma anche il futuro prossimo. L’Istat ha infatti previsto che la situazione di crisi sul mercato del lavoro continuerà ad aggravarsi fino al prossimo anno, con un tasso di disoccupazione che registrerà «un rilevante incremento » nonostante il miglioramento del ciclo economico.

CRESCITA SENZA LAVORO Nello studio dell’Istat si può leggere come «nel 2013 il mercato del lavoro continuerà a manifestare segnali di debolezza con un rilevante incremento del tasso di disoccupazione all’11,9% (+1,2 punti percentuali rispetto al 2012). Nel 2014 il tasso di disoccupazione continuerà a crescere fino a raggiungere il 12,3% a causa del ritardo con il quale il mercato del lavoro risponderà alla lenta ripresa dell’economia». Elena Lattuada, segretario confederale della Cgil, commentando gli ultimi dati su cig e crescita della disoccupazione, ha parlato di una situazione «sempre più preoccupante nel mercato del lavoro, che sembra ormai fuori controllo. La continua crescita della cassa integrazione, senza adeguate e urgenti contromisure, ci porterà a sforare quota un miliardo di ore anche per il 2013. Il sistema produttivo è in una caduta senza freni, una valanga che investe il mondo del lavoro, che colpisce con violenza l’apparato produttivo e la condizione di centinaia di migliaia di lavoratrici e lavoratori, e che trascina, senza al momento incontrare alcun argine, l’intero Paese». Luigi Sbarra, segretario confederale della Cisl, sottolinea come «i dati della cig sono perfettamente in linea con le previsioni economiche diffuse oggi dall’Istat, per le quali il mercato del lavoro continuerà a manifestare segnali di debolezza. Non è sufficiente avere fiducia nei piccoli segnali di ripresa attesi per sperare in una crescita dell’occupazione, ma va immediatamente messo in moto un meccanismo che faccia crescere consumi e investimenti attraverso un alleggerimento del prelievo fiscale su famiglie e imprese. Ci vogliono anche alcuni mirati investimenti in infrastrutture materiali e immateriali e misure specifiche che favoriscano le nuove assunzioni». Il segretario confederale della Uil, Guglielmo Loy, è convinto che «i numeri sulla cassa integrazione e sulla disoccupazione in aumento, ci mostrano l’allargarsi del bacino delle aziende in crisi profonda: non si può che lanciare l’ennesimo allarme. Le tante domande di disoccupazione indicano il passaggio verso l’inoccupazione di molti lavoratori espulsi dalle aziende in difficoltà. Fare presto e bene per stimolare la crescita e proteggere i lavoratori non è più un’opzione ma una necessità».

L’Unità 07.05.13

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“CENTO MILIONI DI ORE DI CASSA”, di Claudio Tucci

Continua a crescere la richiesta di cassa integrazione da parte delle imprese. Ad aprile le ore autorizzate raggiungono la soglia dei wo milioni, con un aumento del 3,1% rispetto a marzo, e del 16,05% su base annua. Ma l’incremento sarebbe ancora più «sensibile », ammette 1’Inps, senza i «noti problemi di finanziamento» della cassa integrazione in deroga che hanno tenuto ferme le autorizzazioni (ma non le richieste da parte delle aziende che giacciono inevase in grande quantità, incalzano i sindacati). Un ulteriore «segnale di debolezza » del nostro mercato del lavoro, sempre più fiaccato dalla crisi. I12013, stima l’Istat, si chiuderà con un tasso di disoccupazione all’u,9% (+1,2 punti percentuali rispetto al l0,7% del 2012); e con «inevitabili effetti di trascinamento» anche nel 2014 dove la percentuale di disoccupati prevista salirà addirttura al 12,3% nonostante un ritorno in terreno positivo del Pil (il Prodotto interno lordo) stimato per il prossimo anno. Le fotografie scattate ieri da Inps (cassa integrazione, mese di aprile) e Istat (stime della disoccupazione 2013 e 2014) mostrano la necessità di interventi urgenti e mirati sui temi del lavoro. Nei primi 4 mesi dell’anno (valori comulati gennaio-aprile) le richieste complessive di cassa integrazione crescono del 13,07%

L’ANALISI I problemi di mancanza di finanziamenti hanno tenuto ferme le autorizzazioni per la Cig in deroga (sull’anno), con un vero e proprio picco per quanto riguarda la cassa integrazione straordinaria (la Cigs, per crisi più strutturali) «che indica l’allargarsi del bacino delle aziende in crisi profonda », sottolinea il segretario confederale della Uil, Guglielmo Loy. Nel solo mese di aprile sono state autorizzate 57,5 milioni di ore di Cigs (+33,4% rispetto a marzo e +92,2% nel confronto tendenziale – aprile 2012). Una impennata che può spiegarsi anche «con diverse imprese che non potendo più contare sulla cassa in deroga si spostano nuovamente sulla cassa straordinaria», evidenzia il neo sottosegretario al Lavoro, Carlo Dell’Aringa. Sempre nel mese di aprile infatti gli interventi in deroga si sono fermati a quota 6,8 milioni di ore autorizzate, con una riduzione di ben il 65,7% su marzo, e del 76,5% sull’anno. Anche nei primi quattro mesi 2013 si assiste a una contrazione delle richieste di Cigd (50,5 milioni di ore, -54,41% a livello tendenziale). A differenza invece dell’andamento degli interventi ordinari (la Cigo, per crisi temporanee): sul mese si registra un aumento del 4,9% rispetto a marzo, e del 3o,9% rispetto ad aprile 2012, frutto di una crescita «in egual misura delle autorizzazioni riguardanti il settore industriale e il settore edile, rispettivamente +30,3% e +32,8%». Il calo delle autorízzazíoní per quanto riguarda la Cigd «è solo apparentemente in controtendenza rispetto all’aumento di Cigo e Cigs – commenta il presidente dell’Inps, Antonio Mastrapasqua – dovuto com’è sostanzialmente ai noti problemi di finanziamento dello strumento». Che aggiunge: «Dal punto di vista dei numeri finisce per mitigare il complessivo incremento delle richieste e autorizzazioni, che sarebbe più sensibile de13,1% su base congiunturale e del 16,05% su base annua. E ciò dimostra come purtroppo i segnali dal mondo delle imprese e del lavoro continuano a essere assai critici». Nei primi 4 mesi del 2013 le richieste complessive di cassa integrazione salgono (nel confronto tendenziale) del 25,34% nel settore dell’edilizia e del16,01% nell’industria. Nell’artigianato l’incremento è del 19,17%, mentre nel commercio si assiste a un calo dell’u,19%. A livello territoriale (ma il confronto è tra aprile e marzo 2013) le autorizzazioni crescono del 40,6% al Centro, del 2,3% nel Nord Ovest, del 2,6% nel Nord Est; e diminuiscono del 22,7% nel Mezzogiorno. Sull’anno invece (aprile 2013 su aprile 2012) le ore autorizzate di cassa integrazione hanno un balzo del 15,35% per gli operai e del 18,06% per gli impiegati. La cassa integrazione ormai cresce in continuo, evidenzia il segretario confederale della Cgil, Elena Lattuada: «Senza adeguati e urgenti contromisure si sforerà quota un miliardo di ore anche nel 2013». Sempre quest’anno, del resto, stima l’Istat, ci sarà una contrazione dell’occupazione dello 0,1% (per il 2014 la stima è +0,1%). Le retribuzioni per dipendente cresceranno dell’i% e dell’1,3% nel 2014, a tutto discapito della produttività del lavoro destinata a scendere quest’anno per tornare a crescere ma «debolmente » nel 204.Di qui la necessità di cambiare passo. Mettendo in campo un meccanismo che punti tra l’altro «a far crescere consumi e investimenti attraverso un alleggerimento del prelievo fiscale su famiglie e imprese; accanto a misure specifiche che favoriscano le nuove assunzioni », sintetizza il segretario confederale Cisl, Luigi Sbarra.

Il Sole 24 Ore 07.05.13

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“SONO FINITI I SOLDI” CROLLANO LE ORE DI CASSA IN DEROGA, di Raffaello Masci

La cassa integrazione in deroga crolla nel mese di aprile, non perché le cose vadano meglio per chi ha perso un lavoro, ma perché stanno per finire i soldi. Crescono, invece, la cassa integrazione ordinaria e straordinaria. Quanto al futuro, aspettiamoci il peggio, perché il tasso di disoccupazione che già sfiora il 12% crescerà di un ulteriore 0,4% nell’anno venturo.

Come tutte le cifre, quelle diffuse ieri dall’Inps (sulla cassa integrazione) e dall’Istat (sulla disoccupazione) sono gelide, noiose da leggere e anche un po’ complicate, ma trasmettono una valutazione a tutti comprensibile: in Italia c’è sempre meno lavoro e cominciano a scarseggiare anche le risorse a sostegno di chi l’ha perso.

Dunque le ore di cassa integrazione in deroga hanno subito una contrazione molto rilevante in aprile, sia rispetto al mese precedente che rispetto allo stesso mese dello scorso anno: «Le ore autorizzate ad aprile 2013 dice l’Inps – pari a 6,8 milioni, registrano una riduzione del -65,7% se raffrontati al mese di marzo 2013, nel quale erano state autorizzate 19,9 milioni di ore, mentre il decremento è del -76,5% se si confrontano i dati con quelli del mese di aprile 2012, con 29 milioni di ore autorizzate». Ma il dato, ha spiegato il presidente dell’Istituto Antonio Mastropasqua è tutt’altro che rassicurante, in quanto «il calo delle autorizzazioni è solo apparentemente in controtendenza rispetto all’aumento di cigo e cigs (cassa integrazione ordinaria e straordinaria, rispettivamente – ndr) , dovuto com’è sostanzialmente ai noti problemi di finanziamento dello strumento».

Quanto alla cassa ordinaria – l’indicatore più prossimo della crisi delle imprese – continua a crescere: ad aprile le ore autorizzate sono state 100 milioni, con un aumento del 3,1% rispetto al precedente mese di marzo (97 milioni) e del 16,05% rispetto ad aprile dell’anno scorso (86,1 milioni) – comunica l’Inps – Quasi raddoppiata la cig straordinaria in un anno: 57,5 milioni di ore, +92,2%. «Una continua crescita – ha commentato la segretaria confederale della Cgil Elena Lattuada – che, senza adeguati e urgenti contromisure, ci porterà a sforare quota un miliardo di ore anche per il 2013».

In questo frangente, l’Istat ha diffuso anche le prospezioni della disoccupazione per l’anno venturo: «L’aumento delle persone in cerca d’occupazione determinerà una crescita sostenuta del tasso di disoccupazione nel 2013 (+1,2 punti percentuali rispetto al 2012, raggiungendo il livello dell’11,9% in media d’anno). Ciò avrà inevitabili effetti di trascinamento anche nel 2014 con il tasso di disoccupazione previsto al 12,3% nonostante la crescita positiva del Pil. Tale persistenza è, appunto, associata al ritardo con il quale il mercato del lavoro si adeguerebbe alla ripresa economica e ai fenomeni di allungamento della durata della disoccupazione».

Non meraviglia, poi, che in questo quadro di debolezza del mercato del lavoro, le retribuzioni per dipendente potrebbero registrare – secondo l’Istat – un incremento così moderato da non riassorbire neppure l’inflazione: +1%, nel 2013 e +1,3% nel 2014. Come risultato di questi andamenti la produttività del lavoro diminuirebbe ulteriormente nel 2013 per tornare a crescere debolmente nel 2014. In base a questo scenario il costo del lavoro per unità di prodotto risulterebbe in decelerazione durante l’intero periodo di previsione.

Il sottosegretario al Lavoro Carlo Dell’Aringa assicura che il tema è una delle priorità del governo: «Penso che alcuni provvedimenti di urgenza verranno presi e fra questi senz’altro ci sarà il rifinanziamento della cassa integrazione in deroga – ha detto – che permetterà alle Regioni di realizzare quegli interventi di cassa integrazione che hanno dovuto in parte sospendere in queste settimane mettendo i lavoratori in grande difficoltà».

La Stampa 07.05.13

"Il primo obiettivo è creare lavoro", di Ruggero Paladini

Fabrizio Saccomanni, parlando alle Commissioni Speciali di Camera e Senato, ha invitato ad approvare il Def a saldi invariati, rinviando la Nota di aggiornamento al momento in cui avverrà la chiusura della procedura per disavanzo eccessivo, prevista per metà giugno. L’obbiettivo del governo è quello di mantenere il deficit sotto il 3%. L’uscita dalla procedura di disavanzo eccessivo, nel quale si trovano la gran parte dei paesi europei, costituisce un obiettivo «alla nostra portata». Da esso il governo si attende un atteggiamento di maggiore flessibilità da parte di Bruxelles. Che si dovrebbe tradurre nella possibilità di escludere alcune spese d’investimento di interesse europeo (corridoi ferroviari e autostradali) dal calcolo del deficit, nonché nell’utilizzo di risorse comunitarie aggiuntive rivolte specificamente ai giovani, secondo il programma «youthguarantee» varato dalla Commissione. Si può comprendere che questa sia considerata una strada molto meno rischiosa di quella di andare ad uno scontro frontale con la Commissione (e con Berlino), dichiarando di voler attuare subito tutti i punti del programma delineato da Enrico Letta nel suo discorso alle Camere. Oltre ad un atteggiamento benevolo delle autorità europee, il governo conta in una significativa riduzione dello spread e quindi su risorse aggiuntive dovute alla minore spesa per interessi. Nell’immediato e nei prossimi mesi comunque bisogna reperire le risorse che riguardano la cassa integrazione in deroga (un miliardo e mezzo), la sospensione dell’Imu sulla prima casa (due miliardi), nonché la sospensione dell’aumento dell’Iva dal 21% al 22% (due miliardi e mezzo). Al di là di questo breve orizzonte, il governo deve impostare una politica economica che abbia chiari gli obiettivi da perseguire, in una situazione nella quale il rispetto del vincolo del 3% di deficit, al netto di quanto Bruxelles potrà concedere, pone dei limiti stringenti alle risorse disponibili. L’obbiettivo non può che essere uno: il lavoro, ovviamente, in particolare a livello giovanile. Il Def consegnato in eredità da Monti indica che nel 2016 il nostro Pil sarà ancora del 4% più basso di quello del 2007. In queste circostanze la tendenza spontanea dell’economia sarà quella di espellere forza lavoro. Pertanto le risorse vanno utilizzate mirando specificamente a favorire l’assunzione di giovani da parte delle imprese. Vanno ripresi strumenti che erano stati utilizzati dai due governi Prodi, rivolti particolarmente al sud e alle donne. L’incentivazione, quando avviene in un contesto macroeconomico di recessione o di bassa crescita, ha un costo minore, in quanto la percentuale di assunzioni che sarebbero comunque state effettuate anche in assenza di incentivi è più bassa. Pertanto gli incentivi possono essere più generosi. Anche la sospensione dell’aumento dell’Iva s’inserisce bene nel quadro della manovra macroeconomica, perché l’aumento dell’imposta indiretta impatta pienamente sulla domanda interna; così gli interventi a favore dei cassa-integrati e degli esodati, perché l’aumento del reddito disponibile si tradurrà quasi integralmente in consumi. Per quanto riguarda l’Imu invece la richiesta di Berlusconi non è per nulla coerente con l’obbiettivo del lavoro. L’Imu sulla prima casa è stata versata in misura rilevante da nuclei familiari a reddito medio-alto. Su 18 milioni di contribuenti, 1’85% ha versato meno di 400 euro ed il 10% oltre 500. L’Imu ha un grado di progressività maggiore della vecchia Ici. Ma non è questo il punto: la questione è che l’eliminazione proposta dal Cavaliere implica un utilizzo di quattro miliardi con un impatto limitato sui consumi. Dal punto di vista macroeconomico sono soldi in buona misura sprecati, per il limitato sostengo della domanda aggregata. Sostenere poi che l’eliminazione serve ad alleviare i costi delle imprese è una delle tante barzellette che Berlusconi ci ha sempre generosamente elargito. L’Imu sulla prima casa pesa per un 17% sul totale del prelievo. Ed infatti il mondo delle imprese chiede la riduzione del cuneo fiscale, lo stimolo alla domanda, ma si guarda bene dal chiedere qualcosa sull’Imu, e certamente non sulla prima casa. Questo non significa che l’Imu sia da conservare così com’è. Ci sono vari punti critici che vanno affrontati, e la sospensione può essere l’occasione per farlo. Tra l’altro quando l’Imu era stata disegnata, nell’ambito delle leggi attuatrici del federalismo, non includeva la casa d’abitazione, per cui era prevista la Tares, alla quale veniva affidato il compito di tassare non il proprietario ma l’inquilino di se stesso. Pertanto una riformulazione dei due prelievi può essere opportuna.

L’Unità 07.05.13

"Maturità, basta con il lassismo", di Alessandra Ricciardi

Da quest’anno si cambia. Gli studenti che faranno i prossimi test per l’accesso alle facoltà a numero chiuso, medicina, odontoiatria, veterinaria e architettura, potranno contare su un bonus per il voto di diploma, disciplinato a livello nazionale. Ma sarà corretto, ovvero «rapportato alla distribuzione in percentili dei voti ottenuti dagli studenti che hanno conseguito la maturità nella stessa scuola nell’anno scolastico 2011/2012…I voti di maturità riferiti ai percetili di riferimento sono pubblicati sul sito del ministero entro il 31 maggio 2013».

La precisazione spunta all’articolo 10 del decreto sull’accesso alla facoltà a numero chiuso, uno degli ultimi atti (è del 24 aprile scorso) firmati dall’ex ministro dell’istruzione, università e ricerca, Francesco Profumo, prima del passaggio di consegne al successore, Anna Maria Carrozza. Il bonus per la maturità, da 4 a 10 punti (il massimo è pari al 10% del voto finale del test), era stato previsto da Beppe Fioroni e Fabio Mussi nel 2007, ed è rimasto sempre inattuato.

La Lega Nord ha duramente attaccato il bonus: penalizzerà gli studenti del Nord. Al ministero spiegano invece che il meccanismo è stato pensato per tutelare i migliori contro ogni lassismo. In pratica, un voto di 100/100 varrà meno in una scuola dove la media è alta rispetto a un’altra dove la media dei voti di diploma è più bassa. L’algoritmo studiato dovrebbe evitare che i ragazzi che frequentano scuole con standard più bassi e voti finali più alti siano insomma favoriti rispetto a quelli che frequentano istituti dove i prof non sono di manica larga. Il correttivo ministeriale dovrebbe così far recuperare il gap che separa il Nord dal Sud, dove i voti di maturità sono in media più alti. Con il paradosso però di istituti di qualità, presenti in tutto il territorio, in cui magari ci sono tanti ragazzi nell’anno di riferimento a primeggiare. Il criterio adottato «alla fine non basta a garantire equilibrio a fronte della disomogeneità di valutazione tra una scuola e l’altra», spiega l’ex capogruppo istruzione al senato della Lega, Mario Pittoni.

Intanto il ministero è impegnato nella definizione della nuova macchina, non solo politica ma amministrativa. Nominati i sottosegretari: Gianluca Galletti, ex Udc, assai vicino a Pier Ferdinando Casini, è stato assessore al Bilancio del Comune di Bologna e componente dell’Alta commissione per la riforma della finanza pubblica; Gabriele Toccafondi, pdl, dirigente, è stato membro del consiglio di amministrazione dell’Università di Firenze; confermato Marco Rossi Doria, maestro di strada, in quota Pd. In queste ore dovranno essere decise anche le presidenze delle commissioni istruzione e cultura, in pole Andrea Marcucci al senato e Fioroni alla camera. Per i vertici amministrativi di viale Trastevere è scattato lo spoils system di ogni cambio di governo. Confermato al momento solo il capo di gabinetto Luigi Fiorentino. Dato per certo il cambio dei due capi di dipartimento: Lucrezia Stellacci dovrebbe lasciare per la pensione; Giovanni Biondi è dato verso il nuovo incarico di presidente dell’Indire, l’istituto di ricerca da cui proveniva e la cui procedura di nomina si è conclusa proprio negli ultimi giorni di fine mandato di Profumo. Risulta bloccata invece l’altra procedura, quella di nomina del presidente dell’Invalsi, che vedeva in pole Luciano Modica, ex ds ed ex sottosegretario all’università. C’è chi ha fatto pesare che per guidare l’Invalsi, l’istituto che si occupa della valutazione del sistema scolastico, sarebbe stato opportuno un curriculum meno connotato politicamente.

da ItaliaOggi 07.05.13

"Università, l’appello delle associazioni per i ‘Primi 100 giorni’ di Governo", di A.G. da La Tecnica della Scuola

Le organizzazioni di docenti, ricercatori, personale e studenti chiedono d’incontrare Carrozza: la situazione è gravissima, serve una gestione democratica, più diritto allo studio, un rafforzamento del valore legale delle lauree, uno straordinario reclutamento dei prof, la valorizzazione del dottorato e del ruolo svolto dai tecnico-amministrativi. Poi rivedere il ruolo dell’Anvur e finanziamenti in linea Ue. L’impegno appare improbo. Ma già invertire la tendenza sarebbe importante.
Si allunga la lista delle associazioni e delle rappresentanze che operano nel campo dell’istruzione e che attraverso le loro esternazioni tentano di incidere sulla politica del nuovo ministro Maria Grazia Carrozza. Stavolta a dire la loro, chiedendo anche un incontro urgente con il responsabile del Miur, sono le organizzazioni rappresentative di docenti, ricercatori, tecnico-amministrativi, dottorandi, precari e studenti universitari: attraverso un documento unitario (firmato da ADI, ADU, ANDU, CIPUR, CISL-Università, CNRU, CNU, COBAS-Pubblico Impiego, CoNPAss, CSA-CISAL Università, FLC-CGIL, LINK, RETE29Aprile, SNALS-Docenti, SUN, UDU, UGL-INTESA FP, UIL RUA, USB-Pubblico Impiego), le rappresentanze accademiche chiedono a Carrozza “di poterla incontrare al più presto”: l’obiettivo è illustrargli “un gruppo di richieste per i ‘Primi 100 giorni’, la cui accettazione e attuazione dipendono direttamente dallo stesso Ministro”.
Nella missiva, le associazioni ricordano alla Carrozza che negli ultimi tempi l’università italiana “è stata ridotta in una situazione gravissima”. Nel documento unitario, le organizzazioni universitarie hanno, tra l’altro, “fortemente auspicato che il nuovo Parlamento e il nuovo Governo, a differenza dei precedenti, non ascoltino soltanto coloro che hanno interesse allo smantellamento dell’Università statale. La forte domanda di cambiamento che emerge anche dall’Università, certamente porterà il nuovo Governo e il nuovo Parlamento a considerare seriamente l’alta formazione e la ricerca come prime emergenze del Paese e, quindi, ci si aspettano immediati atti legislativi e ministeriali che – come richiesto dalla stragrande maggioranza del mondo universitario – rendano democratica la gestione degli Atenei, assicurino il diritto allo studio e rafforzino il valore reale e legale delle lauree, prevedano uno straordinario reclutamento nel ruolo della docenza da rendere unico, valorizzino il dottorato di ricerca, riconoscano maggiormente il ruolo svolto dai Tecnico-amministrativi, rivedano radicalmente il ruolo e la composizione dell’ANVUR, prevedano un finanziamento che sia non inferiore alla media europea”.
Molte delle richieste appaiono condivisibili. E anche già chiare al Ministro, visto che proviene da un contesto accademico. Resta da capire quante delle istanze saranno recepite. E, soprattutto, se vi saranno la volontà (bipartisan, vista la composizione del Governo) e i finanziamenti (elemento imprescindibile ma tutt’altro che sicuro) per condurli in porto.

La Tecnica della Scuola 07.05.13

"La leggenda di Belzebù", di Eugenio Scalfari

Giulio Andreotti è stato il vero – e mai risolto – mistero della prima Repubblica. Una cosa è certa: Andreotti è stato un personaggio inquietante e indecifrabile, l’incrocio accuratamente dosato d’un mandarino cinese e d’un cardinale settecentesco. Ha tessuto per quarant’anni, infaticabilmente, una complicatissima ragnatela servendosi di tutti i materiali disponibili, dai più nobili ai più scadenti e sordidi. È stato lambito da una quantità di scandali senza che mai si venisse a capo di alcuno. L’elenco è lungo: lo scandalo del Sifar (era ministro della Difesa all’epoca dei dossier di De Lorenzo e di Allavena).
E poi lo scandalo Montedison-Rovelli (allora era presidente del Consiglio), lo scandalo Eni-Petromin (di nuovo presidente del Consiglio), quello Caltagirone, l’arresto del direttore generale della Banca d’Italia, Mario Sarcinelli, e l’incriminazione del governatore Paolo Baffi (che furono ricondotti ad una sua vendetta), lo scandalo Sindona al quale era legato da una dubbia amicizia, quello del Banco Ambrosiano, quello del comandante della Guardia di Finanza in combutta con i contrabbandieri del petrolio e, infine, lo scandalo della P2 che in un certo senso tutti li riassume.
Ciascuno di questi casi può assumere l’aspetto geometrico di una piramide tronca di cui non si riesce a vedere il culmine. Ci sono indizi, amicizie, legami, luogotenenti che mantengono contatti e in caso di necessità si assumono in prima persona le responsabilità (vedi il caso Evangelisti che diede le dimissioni da ministro quando si scoprì che aveva ricevuto denari da Caltagirone). Tutti questi elementi ruotano attorno ad Andreotti e lasciano intuire che potrebbe essere stato lui il Grande Protettore, il Padrino, comunque il punto di riferimento, ma niente di più.
Quest’uomo così discusso esercitò una grandissima influenza ma non dette mai ordini. Suggeriva, consigliava, incoraggiava, proteggeva. Aveva una memoria tenace, una zona segreta della mente nella quale annotava gli sgarbi ricevuti e i favori resi, i nemici e gli amici. Quegli occhi leggermente obliqui sembravano due fessure attraverso le quali entrava tutto ciò che doveva entrare senza che ne uscisse nulla, non un moto d’ira o di gioia, non un risentimento percepibile né di odio né di riconoscenza. Quelle labbra sottili, quella testa incassata tra le spalle ingobbite, quel colorito giallognolo, quell’immagine fisica di fragilità non disgiunta da una certa eleganza, una vita privata senza ostentazione alcuna, quel tratto al tempo stesso alla mano ma distante da tutti, ne fanno un
enigma vivente. Se indossasse un kimono di seta e babbucce ai piedi e aggiungesse ai radi capelli un posticcio codino, Andreotti sarebbe l’immagine d’un alto consigliere della Città Proibita dell’impero celeste. Ma con una sottana violetta e la berretta cardinalizia in capo potrebbe essere un personaggio ritratto di scorcio dal Tiziano, tra un cardinal de’ Medici e un cardinal Barberini. Oppure, in talare nera e fascia di seta alla vita, un potente generale dei gesuiti del diciottesimo secolo.
Nel partito ebbe sempre scarso seguito, la sua corrente numericamente non era forte, i grandi del capitale, sia pubblico che privato, non sono mai stati suoi alleati: Mattei, Petrilli, Cefis, Schimberni, Cuccia, nessuno di questi uomini ha mai avuto con lui rapporti organici mentre alcuni di loro ne hanno avuti con altri leader politici magari anche meno dotati.
Non so se sia stata un’inclinazione o una necessità, ma Andreotti si è sempre posto come il leader di forze eterogenee e minoritarie con l’obiettivo di riunirle intorno a sé trasformandole in una maggioranza sia pure provvisoria. Qualche esempio. È stato il protettore di Rovelli contro Cefis, di Sindona contro Cuccia, del Banco di Roma contro la Commerciale e il Credito Italiano. Di Roberto Calvi contro tutti. Ha avuto in mano per molti anni l’importantissima Procura della Repubblica di Roma, attraverso Claudio Vitalone. Gelli ha lasciato più volte intendere di considerarlo il suo referente principale. Il generale Maletti, capo dei servizi del controspionaggio, gli fu devotissimo. Orazio Bagnasco non mosse passo nella finanza senza consultarlo.
In Vaticano, questo cardinale mancato non è mai stato nelle grazie dei Segretari di Stato in carica, a conferma di quell’inclinazione del carattere di cui abbiamo detto che lo spingeva a lavorare non di fronte ma di sponda; ma sempre mantenne contatti solidi e profondi con i capi di alcune potenti congregazioni, con lo Ior, con il Vicariato di Roma e con alcuni dei sostituti della Segreteria.
Il suo vero avversario a pari livello di intelligenza politica è stato Moro, non Fanfani. Moro privilegiava la strategia, Andreotti la tattica. Ma in alcune cose importanti i due si somigliavano. Per esempio nel radicarsi al centrodestra per meglio aprire sulla sinistra. Per esempio, nel servirsi di personaggi discutibili come procuratori d’affari: se Andreotti ha avuto i suoi Sindona e i suoi Caltagirone, non dimentichiamoci che anche Moro ha avuto i suoi Sereno Freato.
Ma Moro, proprio perché aveva il gusto della strategia, puntò fin dall’inizio sul partito come strumento indispensabile per attuarli. Andreotti invece sul partito non puntò mai. In un’ideale partita a quel classico gioco che è lo scopone, Moro può raffigurarsi come il giocatore che dà le carte e gioca per “apparigliare”, mentre Andreotti è il giocatore “sotto mano” che gioca per “sparigliare”.
Nella corsa al Quirinale sono caduti tutti e due. Ad eliminare il primo hanno provveduto le raffiche di mitra dei brigatisti, il secondo è malamente scivolato sul caso Gelli-P2.
Poi, nel 1992, cadde la prima Repubblica e ogni possibilità che il “divo” avesse ancora una prospettiva politica. Negli anni del berlusconismo è stato il testimone di un’epoca tramontata per sempre.
Che possiamo dire oggi di lui se non augurargli che riposi in pace? “Sic transit gloria mundi” oppure “Ai posteri l’ardua sentenza”, ma i posteri sono già tra noi e c’è da scommettere che molti di loro che hanno appena vent’anni non sanno neppure che sia mai esistito.

La Repubblica 07.05.13

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“Zio Giulio e gli aforismi di una piccola Italietta”, di FRANCESCO MERLO

State attenti: il monumento che in queste ore stiamo innalzando al caro estinto è il monumento che l’Italia fa a se stessa, al peggio di sé. E la lingua di Belzebù, che per sua natura è sempre biforcuta, diventa revival. «Meglio tirare a campare che tirare le cuoia» suona dunque come la sigla di Carosello. «I verdi sono come i cocomeri, rossi dentro e verdi fuori» è nostalgia, proprio come «e la pioggia che va» dei Rokes o «apro gli occhi e ti penso» dell’Equipe 84.
E INVECE quel linguaggio, quell’antologia di detti e contraddetti, al di là della solennità della morte, esprime solo l’impenetrabilità di quella lorda pozza che è stata la nostra storia politica nel dopoguerra.
E cominciamo col dire che non è vero che i suoi aforismi erano musiliani o spengleriani, da grande pensatore del Novecento. «Il potere logora chi non ce l’ha», per esempio era solo un’intelligente stupidaggine alla Catalano e non una profondità alla Junger, perché è ovvio che il potere fa bene alla salute e chi può non si logora, mentre al contrario stanno male quelli che non possono. Ancora più sciocca è «non basta avere ragione bisogna che ci sia qualcuno disposto a dartela». Eppure l’Italia rideva.
Sull’aereo per Palermo, Andreotti una volta mi disse «sono fiducioso in un’assurdità», ma io gli risposi, sia pur con grande gentilezza, che non sempre riuscivo a ridere alle sue battute «forse perché non sono andreottiano». E lui: «Neppure io». Poi ascoltammo insieme la canzone di Francesco Baccini: “Chi ha mangiato la torta? Chi ha sbagliato la manovra? Chi c’è dietro la piovra?”. E ogni volta il coro rispondeva: “Andreotti”. Ricordo bene come i suoi occhiali da presbite rendevano grandi quegli occhi naturalmente piccoli: «Mi piace. Sembra scritta da me. Ha messo in musica quello che io penso di me stesso e cioè che a parte le guerre puniche, perché ero troppo giovane, mi viene attribuito di tutto».
Andreotti copriva con l’arguzia realistica la pesantezza e l’infelicità sua e dell’Italia del dopoguerra, il Paese di cui era al tempo stesso lo statista e il diavolo. La sua ironia — «io sono una specie di mania nazionale» — esprimeva sempre ambiguità, complicità e complessità, evidenti ma imprendibili. E infatti ridacchiava. Perché ogni volta che confezionava una delle sue frasi si compiaceva di commettere un reato intellettuale: «Il generale Dalla Chiesa cambiava spesso programma. Era abituato, forse per mestiere, a non fare quello che diceva». La disse, questa frase, commemorando in un’intervista il suo grande amico Franco Evangelisti, quando appunto l’onorevole “a fra’ che te serve?” era appena morto, e ovviamente era morto anche il generale. E tutti in coro risero, di allegria e di tenerezza, come hanno poi riso e ancora ridono alle barzellette di Berlusconi. Risero perché l’Italia è sempre serva di risata ostello. Ma pensate a quanto ruminare da boss c’era in quella frase sul generale, quanta innocenza e al tempo stesso quanta colpevolezza conteneva, e quanto ammiccava alle polemiche, alle denunzie, al mistero mai risolto dell’omicidio Dalla Chiesa.
Giuseppe Alessi, storico e pulitissimo fondatore della Dc siciliana, il solo che non fu mai coinvolto e neppure sospettato di contiguità con la mafia, ci disse in un’intervista: «Dovevamo fermare il comunismo a qualsiasi costo, il comunismo pesante, quello che non avete conosciuto. Nell’immediato dopoguerra era meglio governare con i mafiosi piuttosto che consegnare il Paese ai comunisti di Stalin». Ebbene, per commentare questa terribile e rassegnata denunzia di Alessi, che partiva dalla guerra fredda e arrivava al processo di Palermo, Andreotti, che non perdeva mai il controllo di sé, si alzò in piedi: «Non credo che Alessi si sia espresso davvero in questo modo, ma sicuramente la storia d’Italia non è andata così. Anche perché così si coprono con la politica le eventuali responsabilità delle singole persone. La politica diventerebbe una specie di scudo stellare e la storia della Sicilia la notte in tutte le vacche sono nere». Di quella innegabile contiguità tra la mafia siciliana e la Dc, dell’innervatura dell’una nell’altra, sino ai cugini Salvo e a Salvo Lima, Andreotti diceva: «Ho cercato di approfondire quelle insinuazioni che sono state fatte. E non ho trovato mai nulla, nemmeno un indizio. Io mi sono sempre affidato al tempo. Ci creda anche lei: il tempo è galantuomo sul serio. E con il tempo, chi solleva polveroni vedrà la polvere ricadergli addosso ». Poi però, il suo realismo comico lo richiamava in servizio: «Non bisogna lasciare tracce».
Quali tracce ha lasciato Andreotti? Ogni volta che ho provato a tradurre i suoi aforismi a degli stranieri nessuno ha mai riso e non perché siano difficili da capire ma perché sono chiusi nel cortile-Italia, cifra stilistica di un mondo residuale. Anche il diavolo italiano all’estero è un povero diavolo di provincia,
e quel finto umorismo curiale si sfalda, non supera i confini e neppure dura nel tempo, come i merletti di donna Felicita. È la solita Italia dei baci perugina, dei pensierini che Andreotti infilava come prodigi di campagna di elettorale. Quando Craxi, presidente del Consiglio, andò in Cina con tutta la sua corte di nani e ballerine, Andreotti tirò fuori questa battuta: «Craxi è andato in Cina, accompagnato dai suoi … cari». Beppe Grillo, in quegli stessi giorni, ne fece una di pura dinamite: «Se in Cina sono tutti socialisti, a chi rubano?». L’Italia si complimentò con Andreotti, ma solo la battuta di Grillo può ancora essere tradotta e capita all’estero.
E invece l’insipida battuta sul «potere che logora chi non ce l’ha» è entrata nella leggenda nazionale e oggi ogni italiano che si vuol dare arie da cinico la ripete compiaciuto. Quell’altra, per esempio, «vorrei esserci alla mia riabilitazione» allude, al tempo stesso, alla malinconia e alla tracotanza, rimanda al dolore per i tempi della giustizia ma anche alla simpatia canagliesca per l impunità, esprime con falsa allegria la doppia presunzione di essere contemporaneamente un altro Tortora e un altro marchese del Grillo. Una volta disse: «Se si sparge la voce che davvero non invecchio, rischio seriamente la polpetta avvelenata». Ed era, quella battuta, la forma greve dell’elisir dell’immortalità che il dottor Scapagnini, pace all’anima sua, avrebbe qualche anno dopo somministrato a Berlusconi. C’era l’idea superandreottiana che il potere italiano può essere abbattuto ma non battuto: la morte innaturale, il caffè corretto, il veleno a Sindona, il nodo alla gola del banchiere Calvi, i colpi di pistola all’avvocato Ambrosoli, la mitraglietta Skorpion che il brigatista Germano Maccari scaricò sul povero Moro rannicchiato nel bagagliaio della Renault rossa nel garage di via Montalcini. Andreotti era intraducibile perché era il piccolo Machiavelli di un cortile bloccato dal fattore K dove la Dc era più forte delle bombe e dei morti per strada, del caffè corretto al veleno e delle stragi sui treni, della finanza criminale e delle trame dei servizi segreti stranieri, un piccolo bruttissimo mondo antico la cui storia per dirla con Luciano Cafagna era allogena, veniva decisa sempre altrove.
E Andreotti ha trafficato con la propria longevità di potente proprio come avrebbe fatto Berlusconi, che ricorreva anche alle medicine vitalistiche di don Verzé: qual era l’età biologica del cuore di tenebra? Una volta Oscar Luigi Scalfaro disse: «Le battute di Andreotti sono tutte accuratamente preparate. La sua genialità consiste nello spenderle al momento giusto». Chissà se era vero. Gli archivi sono pieni di andreottate e in queste ore di commemorazioni è tutto un rifiorire di quel linguaggio che aggirava il problema grazie a un umorismo che ti lasciava soddisfatto solo in apparenza, allusioni, elusioni e di nuovo battute: «Ci sono due tipi di matti, i matti matti e quelli che vogliono risanare le ferrovie ». Quando smettevi di sorridere ti accorgevi che Andreotti non aveva detto nulla, ma che il senso era comunque e sempre miserabile: «Bisogna sempre tenere un diario. Ed è bene che qualcuno lo sappia». Quando gli chiesero se era vero che Gelli, da capo della P2, gli telefonava tutti i giorni, Andreotti rispose: «Neanche con mia moglie, da fidanzati, ci sentivamo tutti i giorni».
Lo ricordo nel suo studio di San Lorenzo in Lucina e poi in quello di Palazzo Giustiniani, quando ripeteva, con sarcasmo, queste due parole: «Associazione mafiosa». E poi mostrava di fronte sé la collezione di campanelli, la libreria con il dono che gli aveva fatto Gorbaciov, le lettere di De Gasperi, la kefiah di Arafat, ma ogni tanto tornava a ripetere, senza cambiare espressione, «associazione mafiosa», e un poco si scaldava, se così si può dire, quando ricorreva, per nemesi, ai complotti che lo avevano visto per tutta la vita stratega, e ora lo vedevano vittima, i complotti americani, le misteriose vie attraverso le quali qualcuno nel mondo voleva fargli pagare chissà cosa… Ebbene, anche in quel momento, quando pareva finalmente curvo sugli anni profondi della sua e nostra Italia, sulla Sicilia lontana e detestata, quando pareva che stesse guardando il proprio riflesso nella acque torbide del passato, ecco che improvvisamente recuperava se stesso: «Nascosto nell’ombra c’è un Andreotti più Andreotti di me?». Ma come è possibile che lei sia amico di Gorbaciov e di Totò Riina? Risposta: «Credo che Totò Riina sarà inorgoglito dall’equiparazione con Gorbaciov». Di sicuro fu amico di Sbardella, di Lima, di Ciarrapico… È stato amatissimo dalla peggiore politica italiana ed è vero che a Palermo è stato assolto, ma gli incontri con Badalamenti ci sono stati, secondo quella stessa sentenza di assoluzione.
Forse è vero che Andreotti in un certo senso era “morto” quando è stato assolto, quando finì in modo così ambiguo anche il processo del secolo che dopo avergli allungato la vita, lo ha assolto e prescritto, reso per sempre imprendibile come il senso delle sue battute e come Roma, con la quale si identificava sin dagli anni trenta fra sacrestie e conferenze, quando andava a trovare a Rebibbia il suo amico comunista Adriano Ossicini e gli portava le torte di mamma Rosa e già frequentava la segreteria di stato di Pio XII: «Non processano me, processano Roma», disse più di una volta. Roma che come lui era circondata dalla storia, Roma che esprime il senso delle cose senza mai dannarsi l’anima, una Roma da osteria quando disse: «Amo così tanto la Germania da desiderare che ce ne siano due». Solo in un Paese come l’Italia uno statista poteva permettersi di rimpiangere il muro di Berlino, solo in Italia si poteva spacciare per arguzia la pesantezza di una frase così reazionaria.
Diciamo la verità: che cosa rimarrà di tutte le sue battute se non la terribile densità del processo del secolo, con la sua mezza assoluzione finale? Cosa rimarrà di lui se non quel che non è stato sin in fondo, cioè il colpevole? C’è qualche studioso che possa seriamente citare uno dei tanti libri che Andreotti ha scritto, o una legge che ci abbia cambiato, o una vittoria sociale, o una significativa opera pubblica, una reale gloria politica, una riforma, un orfanotrofio, un grattacielo, una nave? O non è stato invece Andreotti un pretesto per costruire questo vuoto chiacchiericcio, la lingua sbrindellata della politica italiana dove «a pensar male degli altri si fa peccato, ma spesso si indovina»?

La Repubblica 07.05.13

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“Andreottwitter”, di MASSIMO GRAMELLINI

Una volta Montanelli scrisse che in chiesa De Gasperi e Andreotti si dividevano i compiti: De Gasperi parlava con Dio e Andreotti col prete. «Sì, ma a me il prete rispondeva», gli replicò Andreotti. Forse ora toccherà a lui parlare con Dio e non se la potrà cavare con una delle sue battute. Ciniche, gelide, brevi: da star di Twitter prima di Twitter. Se Dio esiste, ci sono forti dubbi che sia democristiano (ecco, questa potrebbe averla detta lui) e meno che mai della sua corrente, per un pregiudizio anzitutto estetico (Sbardella, Vitalone, Evangelisti: più che ritratti sono foto segnaletiche).

Senza l’ambizione di rubare il mestiere al pubblico ministero celeste, un lungo soggiorno in purgatorio deve averlo messo in preventivo anche Andreotti. Fin dal giorno in cui, ancora imberbe, decise di sporcarsi le mani con il potere. Perché il potere logora chi non ce l’ha, ma sporca tutti coloro che lo toccano, e chi sostiene il contrario è solo un fanatico, o un ipocrita.

Resta l’ironia, molto andreottiana, della scomparsa di un uomo che dopo sessant’anni di vita pubblica sembrava incarnare la prova dell’immortalità: non dell’anima, ma del corpo. Se ne va col suo carico intatto di misteri, ma dopo averne chiarito almeno uno: non è vero che tirare a campare è sempre meglio che tirare le cuoia, come recita uno dei suoi tweet più celebri. Proprio perché a tutti succede di tirarle, prima o poi, tanto vale campare a testa alta e a cuore acceso.

La Stampa 07.05.13

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“Andreotti, gli storici si divideranno”, di LUIGI LA SPINA

Come al solito, è stato Napolitano a indicare la strada sulla quale si dovevano incamminare i commenti: bisogna riconoscere l’eccezionale ruolo svolto da Andreotti nelle vicende della nostra Repubblica, ma il giudizio su di lui va affidato alla storia.

Così, nella scia della duplicità, peraltro simbolo di una vita che per i suoi detrattori aveva l’accezione della doppiezza, si sono indirizzate quasi tutte le dichiarazioni d’ordinanza in occasione della sua morte. Eppure, questa volta il nostro presidente-bis della Repubblica potrebbe essersi sbagliato ad affidare con tanta fiducia al supremo tribunale del tempo. Se la politica, infatti, si è ritirata nel limbo dell’imbarazzo di fronte alla sua indecifrabile personalità, anche la giustizia, almeno quella terrena, non è riuscita, dopo anni e anni di indagini, a emettere una sentenza che non avesse, appunto, il carattere dell’ambiguità e della doppiezza: per metà assoluzione e per metà condanna. È possibile quindi, anzi è molto probabile, che anche gli storici futuri si divideranno sulla sua figura e finiranno per arrendersi, pure loro, di fronte al vero incrollabile muro di ingiudicabilità che impedisce di emettere il verdetto definitivo su di lui: il mistero.

L’uomo che per sessant’anni è stato sempre sul palcoscenico della vita pubblica, sempre in prima fila, sempre protagonista delle luci della politica e persino dello spettacolo, se ne è andato senza accendere neanche il più piccolo spiraglio sul retroscena di quella ribalta. Come per suggellare la sua vita nella definizione dell’uomo più misterioso della nostra Prima Repubblica e per lanciare, da accanito scommettitore alle corse quale era, l’ultima sua sfida, proprio alla storia: far breccia, finalmente, nel muro del suo mistero.

L’imbarazzo della politica d’oggi nei confronti di Andreotti non deriva, però, solo dall’indecifrabilità dello statista romano, ma da un sottile legame, forse persino un po’ inquietante legame, del nostro presente a quel passato. Come se il richiamo di quella presenza non si spegnesse neanche con la sua morte e, anzi, il momento della sua scomparsa segnasse, per una beffa della cronaca di questi giorni, una coincidenza di segni che riaccende il ricordo e l’attualità della sua esperienza politica.

Se Andreotti è stato l’essenza della cosiddetta «democristianità» nella storia della nostra Repubblica, è quasi banale osservare che Letta, con Alfano suo vice, sono i giovani dc a cui è affidato il rinnovamento della politica italiana, perché forse quel carattere è l’araba fenice della nazione. Meno ovvio dell’anagrafe partitica, è il metodo di governo proclamato dal neopresidente del Consiglio nel suo discorso di investitura alle Camere, la concretezza. Non è stata sempre questa la maniera con cui Andreotti ha definito il suo modo di governare gli italiani, fino a intitolare la sua storica rivista di corrente con il nome di «Concretezza», appunto? Da tutti i commentatori, poi, è stato rievocato il precedente storico delle «larghe intese» sulle quali si regge il governo Letta, il primo esperimento del genere, quello inaugurato nel ’76 proprio da Andreotti, definito della «non sfiducia» e proseguito, due anni dopo, sempre da lui a palazzo Chigi, con il ministero della solidarietà nazionale.

I brividi della memoria, però, non si fermano qui, perché, purtroppo, richiamano altri ricordi, più sanguinosi. Perché quel governo con cui Andreotti ebbe la fiducia anche dei comunisti, nel marzo ’78, nacque sull’onda del rapimento di Moro e dell’uccisione dei suoi uomini di scorta come l’esecutivo Letta è stato battezzato dalla sparatoria contro i carabinieri davanti al Parlamento.

Non bisogna, naturalmente, dar troppo peso a quelle che sono solo suggestioni di eredità partitiche e coincidenze di tempi molto diversi per formulare confronti, e meno che mai, previsioni del tutto ingannevoli. Ma la scomparsa dell’ultimo grande statista democristiano e i troppi chiaroscuri dei commenti di ieri una lezione utile la danno, invece. Fino a quando l’Italia non sarà capace di fare i conti con la sua storia, anche recente, di riconoscerne virtù e vizi senza sempre voler assolvere la propria parte e sempre condannare quella avversaria, ma ammettendo l’inestricabile partecipazione di tutti sia alle prime sia ai secondi, l’ombra di Andreotti e del suo mistero continueranno a incombere sulla politica italiana.

La Stampa 07.05.13

«Pd usato come un taxi. Ma noi non ce ne andremo», di Marco Ventimiglia

Il posto è in un quartiere di Milano non troppo distante dal centro. Non facciamo in tempo a varcare la porta ed intravvedere una trentina di persone sedute intorno a un tavolo che una frase fende l’aria: «Io, comunque, non me ne voglio andare dal Pd». Siamo nel Circolo democratico di «Romana-Calvairate», dove va in scena una delle molte riunioni, post elezioni, post Quirinale, e adesso post governo, organizzate dal partito nella provincia milanese. Ma per fortuna il buongiorno non si vede dal mattino, anche se il cielo plumbeo e piovoso non aiuta a tirar su il morale. La frase, come capiremo ascoltando i successivi interventi, non è l’acme di qualche dolorosa seduta di autocoscienza, che peraltro deve esserci stata qui come altrove, quanto un modo per dire: «Nonostante tutto, guardiamo al futuro». E per affrontare settimane che si annunciano ancora molto difficili, più di un partecipante vuole mettere una cosa bene in chiaro: «Ci hanno diviso scandisce le parole Gianni fra ex comunisti ed ex democristiani, fra giovani e vecchi, fra la corrente di D’Alema e quella di Renzi, e chi più ne ha più ne metta. Io non solo non mi riconosco in tutto ciò, ma soprattutto non ho intenzione di vivere i giorni che ci porteranno al Congresso in questo modo. Qui non ci siamo mai divisi guardando alle nostre esperienze passate, piuttosto bisogna continuare a confrontarci sul futuro del Partito democratico, specie in un momento così difficile».
PAROLE CHIAVE
Centouno, taxi e Congresso: sono le parole, non tutte prevedibili, che sintetizzano i temi della discussione. Un confronto, che al di là della sostanza verbale, colpisce per la compostezza degli interventi effettuati da donne e uomini per lo più nella fascia degli “anta”, anche se non manca qualche volto più giovane. L’impressione è che, appunto, dopo gli shock a ripetizione del recente passato, si cerchi adesso una qualche strada che consenta ai democratici di tornare a camminare nella stessa direzione. E anche l’evocazione di quel numero, 101 come i presunti franchi tiratori che hanno affossato la candidatura di Prodi al Colle, non è un modo per chiedere maxi epurazioni. «Io volevo e voglio sapere i nomi dei nostri parlamentari che non hanno votato per Prodi dice Corrado -. Non è per consumare chissà quali vendette, ma perché ho bisogno di capire. Se non so chi sono e che cosa hanno in testa queste persone, come posso fare affidamento sui vertici del partito nei prossimi mesi?».
Il taxi, perché il taxi? Perché trattasi di veicolo che più d’uno ritiene usato per salire e scendere dal partito a seconda dei tornaconti personali. Ragionamenti esplosi in tanti Circoli di fronte all’implosione del Pd nelle votazioni per il Quirinale. «Non vorrei che anche noi ragiona Claudio si sia stati permeati da vent’anni di berlusconismo, da un protagonismo fine a stesso supportato dai media di turno. Questo mi preoccupa anche in vista del Congresso. Barca, Cuperlo, adesso Civati: stiamo consumando nomi di presunti nuovi leader sulla base di un’intervista pubblicata su un giornale, piuttosto che di una comparsata televisiva. Per non parlare delle esternazioni sui social network…». Anche per questo, aggiunge Giuseppe, «da parte di chi si candiderà alla segreteria non mi aspetto tanto delle spiegazioni sul deludente risultato elettorale o su quello che è accaduto dopo il voto, quanto l’esposizione di un programma convincente, capace di rispondere alla crisi e di mostrare una visione dei prossimi vent’anni di questo Paese».
Quanto al Congresso, non ci si interroga solo sul quando ma anche sul come. «Mi chiedo dice Doris se non sia il caso di svolgerlo per tesi, con temi individuati dalla base del partito e poi selezionati e affinati sulla strada dei vari Congressi provinciali e regionali». E il nuovo governo? Per quanto possa sembrar strano se ne parla poco, per lo più con una sorta di rassegnata presa d’atto. Sentite il giovane Marco: «A chi mi ha detto che almeno alla mia età bisogna saper sognare ho risposto che poi bisogna pur sempre fare i conti con la realtà. E la realtà ci dice che non ci sono alternative a questo esecutivo». Infine, a fare uno sforzo di sintesi c’è Bruno, consigliere provinciale: «L’importante, adesso, è affrontare la strada per il Congresso con spirito costruttivo. Per andare avanti servono e serviranno delle mediazioni. Pensare che per guidare il Paese basti un grande partito di sinistra è pura illusione ».

l’Unità 06.05.13

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“Ora dirigano il Pd i giovani che occupano le sedi”, di Emanuele Del Giudice
Sono il segretario del circolo Pd di Stoccolma. Gli eventi che hanno visto protagonista il Partito democratico in queste ultime settimane hanno messo seriamente in discussione l’esistenza stessa del nostro circolo: l’adesione al partito non può essere pretesa come scelta acritica, scontata e data una volta per tutte. La gestione di questi mesi, già durante la fase elettorale, con una campagna timidissima e povera di contenuti forti ed innovativi («un po’ più di lavoro», «un po’ più di equità» sono slogan con i quali si sceglie in partenza di «non-vincere»), e soprattutto quella miserrima dell’elezione del presidente della Repubblica, il cui unico filo conduttore involontario è stato la ricerca di una Caporetto, ha portato molti all’esasperazione.
Le scelte della dirigenza ci hanno condotto, attraverso la ricerca di un accordo con la peggiore destra (dopo aver fino ad allora negato la volontà di patti politici con la stessa), alla candidatura di una figura come Marini che permettetemi di dirlo con chiarezza considero non adeguata a quel ruolo istituzionale così delicato e centrale per il funzionamento della Repubblica: una candidatura che impallidisce al confronto con la statura politica ed intellettuale di personalità come Napolitano e Rodotà.
Dopo questo primo suicidio politico si è candidato Prodi, per pugnalarlo per l’ennesima volta alle spalle (e con lui i nostri elettori); d’altronde incoronare leader per farli fuori è una «nostra» vecchia abilità che fa il paio con quella di rivendicare in maniera sfacciata, appena qualche giorno prima, la necessità di superare il «complesso dell’inciucio», asserendo che l’unico ostacolo al tanto desiderato accordo di governo con la destra era costituito da Berlusconi, come se quella italiana non fosse la sua destra.
Fatto fuori anche il fondatore del nostro partito nonché cosa di grande valore simbolico l’unico che fosse riuscito a sconfiggere il Cavaliere sul piano elettorale, ci siamo inginocchiati ai piedi di Napolitano non sapendo più che pesci prendere e rassegnandoci ad un accordo politico con Berlusconi, consegnando a quest’ultimo per l’ennesima volta la parte del protagonista: qualche mese fa era politicamente finito e ci siamo invece adoperati per farlo tornare in gara più forte di prima, come quei maratoneti o ciclisti sportivi che aspettano l’avversario in difficoltà passandogli l’acqua.
Il governo Letta non è che l’ovvia e inevitabile conseguenza dei fallimenti sopra elencati; la destra lo terrà in vita fin quando converrà, per poi staccare la spina al momento più propizio, come è stato fatto con Monti. E intanto veste i panni di chi vuole abbassare le tasse ad ogni costo, lasciando alla sinistra il ruolo impopolare di dire no o ni.
Ho sentito dire che la vera colpa di tutto quello che è accaduto è stata di Grillo, come se ci fossimo dovuti aspettare un aiuto da lui, al quale invece abbiamo consegnato il più facile dei rigori per le prossime elezioni: un governo Pd-Pdl. Ho sentito dire che il M5S è in calo, perché in Friuli ha vinto il Pd, quando in realtà in Friuli ha vinto la Serracchiani.
Ho sentito dire che le tessere del Pd le hanno bruciate dei figuranti e che nei circoli ci sarebbero file di aspiranti nuovi iscritti. Saremo forse in controtendenza solo qui a Stoccolma allora, dove tutti quelli che hanno deciso di lasciare il partito, hanno votato Pd da sempre e fondato il nostro circolo; alle primarie c’è chi ha votato Bersani, chi Renzi, chi Vendola, chi Puppato, ma la rabbia e la vergogna è stata trasversale. In molti sono giunti alla constatazione che il nostro partito ha abdicato alla funzione di interprete primario del necessario rinnovamento politico e sociale del Paese e che la sua stessa classe dirigente sia l’ostacolo principale al cambiamento (del partito e quindi del Paese), perché tale cambiamento comporterebbe inevitabilmente la sua scomparsa (o meglio la presupporebbe).
La base ha dimostrato di essere di gran lunga più lungimirante e proiettata in avanti rispetto alla dirigenza del partito. Il ragionare dei militanti non può essere oggetto di delega. E soprattutto: la base ha superato da anni la divisione tra ex-cattolici ed ex-comunisti, una distinzione che sopravvive ormai solo in chi guida il partito, ancorato a schemi del Novecento.
Il partito va rifondato dal basso, i giovani hanno occupato tante sedi: è ora che si prendano la direzione nazionale. Il Pd ai giovani!

L’Unità 06.05.13

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“Pd, pressing per il segretario subito”, di M. Ze.

A cinque giorni dall’assemblea nazionale il Pd è ancora diviso sul dopo-Bersani. Lo scontro è sul ruolo del nuovo leader (reggente o segretario) e sulle modifiche allo statuto che prevede la coincidenza di leader e candidato premier. Ma dalle città i segretari provinciali e regionali spingono per fare in fretta: ci vuole subito un leader a tutti gli effetti, il Pd deve ripartire.
Nessun candidato ufficiale e posizioni ancora divergenti: è questo il quadro che ancora ieri, domenica, si delineava rispetto all’elezione del prossimo segretario mentre dai territori e dalle segreterie regionali arriva la richiesta di una decisione forte e chiara già sabato prossimo. Già, perché adesso, nel partito si è aperto un altro fronte di discussione che tiene banco: se sia il caso di concentrare l’Assemblea nazionale di sabato prossimo sullo statuto e le relative modifiche, e rinviare l’elezione del successore di Pier Luigi Bersani di quindici giorni.
Il rischio sotto gli occhi di tutti è che si arrivi all’appuntamento spaccati, con un elezione a maggioranza e non unanime: un segnale che il Pd non può permettersi di inviare ad una base già in subbuglio per l’accordo di governo siglato con il Pdl e le fibrillazioni che si creano ogni giorno tra i due schieramenti politici. Per questo mercoled ì sera è stato convocato a Roma il coordinamento allargato a tutti i segretari regionali: si dovrà trovare una soluzione che tenga insieme il partito da qui al congresso d’autunno e dotarlo di una guida con pieni poteri che sia in grado di rimettere insieme i pezzi. A spingere per uscire dall’incontro con un nome condiviso ci sono, tra gli altri, Andrea Manciulli, segretario toscano e l’emiliano Stefano Bonaccini, come d’altra parte Nicola Zingaretti, Catiuscia Marini e il segretario bolognese Raffaele Donini.
Uno dei temi su cui il Pd rischia di spaccarsi è anche quello della modifica dello statuto in due punti: la coincidenza tra la leadership e la premiership e di conseguenza la modalità di elezione del segretario (solo tra gli iscritti o con primarie). Tra i molti sostenitori del segretario candidato premier ci sono Walter Veltroni e Paolo Gentiloni (tra i pochi parlamentari a schierarsi con Matteo Renzi alle primarie) convinti che questo sia l’unico modo per garantire coerenza tra la linea politica del partito e quella del governo, mentre tra chi ritiene che sia necessaria una modifica ci sono, tra gli altri, Gianni Cuperlo (che si è detto disponibile per la guida del partito fino al congresso) e Beppe Fioroni. Per Rosy Bindi, che è sempre stata contraria alla norma originaria dello statuto, «se ne può discutere ma stavolta voglio sapere chi fa la proposta e con quali motivazioni, altrimenti sa di scambio».
L’UOMO GUIDA
Chi dovrebbe essere l’uomo guida? Bella domanda. Il nome più forte in questo momento sembra quello di Gianni Cuperlo, ex dalemiano, rappresenterebbe quel ricambio generazionale che larga parte del partito chiede. Su di lui sembrano convergere, oltre a D’Alema, i Giovani turchi, molti segretari regionali e amministratori locali, lo stesso Beppe Fioroni. Resistenze dai veltroniani, a cui, come ha spiegato Walter Verini, non piace l’idea «che si debba dare a un ex ds la segreteria del partito per bilanciare Enrico Letta al governo ». Veltroni, che sente quasi quotidianamente il sindaco fiorentino, pensa ad una figura autorevole in grado di rappresentare tutto il partito, senza “ex” davanti, e chiede che si tenga conto di personalità come Pierluigi Castagnetti e Sergio Chiamparino, anche se è improbabile che l’ex sindaco di Torino accetti un incarico a termine.
Critico anche Gentiloni: «Non parlo dei nomi, soprattutto se si tratta di stimati dirigenti. Parlo del metodo spiega l’ex ministro del governo Prodi perché se noi sabato prossimo non partiamo dalle ragioni che ci hanno portato alla sconfitta elettorale, tanto più grave quanto più inaspettata, non adiamo da nessuna parte. Non abbiamo risolto con le dimissioni di Bersani, è la rotta che deve cambiare, non può esserci continuità con il passato, si deve dare un profilo politico al partito». E quel profilo per Gentiloni non può andare nella direzione opposta alla prospettiva del Pd che «è Matteo Renzi». Dunque non si può non tener conto, nell’elezione del segretario, che il futuro candidato premier è il sindaco di Firenze. Una delle ipotesi a cui si ragiona è la vicesegreteria a Matteo Richetti, neo-deputato renziano, anche se Renzi ufficialmente dice di non avere preclusioni sui nomi ma la linea della componente verrà decisa nelle prossime ore.
L’altro nome per la segretaria è quello di Gugliemo Epifani, ex segretario Cgil, soluzione che convince di più bersaniani. Areadem non ha ancora deciso, si riunirà probabilmente oggi. Bindi, presidente dimissionaria, dal canto suo ha una posizione diversa: «Siamo un partito in grande sofferenza c’è bisogno di ripristinare il metodo della collegialità, abbandonato nell’ultimo anno. C’è bisogno di una figura che rappresenti tutto il partito, ci metta attorno ad un tavolo per creare le condizioni per arrivare al congresso e alle eventuali modifiche statutarie». Una delle condizioni, secondo Bindi, è che il segretario che uscirà dall’Assemblea di sabato non si ricandidi al congresso. Di sicuro, entro mercoledì tutte le anime del partito prenderanno una decisione in vista dell’incontro previsto per la sera.
E intanto in vista del congresso il sindaco di Salerno Vincenzo De Luca, neo sottosegretario, dalla sua pagina Facebook lancia il suo «manifesto» in cinque punti (ripartire dai territori, un programma chiaro, smantellare correnti e correntismo, dare un’anima al Pd e cambiare tutto). «C’è bisogno, anche per noi scrive più di ritrovare i valori fondamentali, che di coltivare logiche curiali. Non ci salveremo se non offriremo al Paese e se non avvieremo nei fatti una svolta profonda: nel programma, nel linguaggio, nell’organizzazione, nello stile. Dobbiamo liberarci della nostra “presunzione di superiorità”».

L’Unità 06.05.13