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"Austerità ed effetti collaterali sulle imprese", di Carlo Buttaroni*

Disoccupazione e imprese che chiudono. Sono questi gli effetti più devastanti della crisi. E la relazione tra i due fenomeni è evidente. Rispetto al 2007, il tasso di disoccupazione è raddoppiato e solo un giovane su cinque trova lavoro. Tra gennaio e marzo di quest’anno, secondo i dati Unioncamere, hanno chiuso i battenti quasi 150mila attività. Un dato peggiore persino rispetto a quello del primo trimestre 2009, l’anno nero della crisi. Con un saldo di -3lmila unità, i primi tre mesi del 2013 hanno registrato risultati negativi sia dal lato delle iscrizioni di nuove imprese che delle cessazioni delle attività. È il terzo peggior risultato del decennio. A pagare il prezzo più caro sono gli artigiani: 21.185 le attività che tra gennaio e marzo sono mancate alla contabilità del settore. Il Nord-Est registra la battuta d’arresto più forte. Alla fine di marzo, il numero complessivo d’imprese iscritte alle Camere di Commercio è pari a 6.050.239 unità, lo 0,51% in meno rispetto al 31 dicembre 2012. Di queste, 1,4 milioni sono artigiane. Tra i settori che stanno vivendo le riduzioni più consistenti le costruzioni (-12.507 imprese), il commercio (-9.151) e le attività manifatturiere (5.342 le imprese che mancano all’appello, 1’87% delle quali artigiane). Il tessuto imprenditoriale italiano sta sprofondando. E l’austerità forgiata a Bruxelles, oltre all’inefficacia, sta mostrando tutti i suoi drammatici effetti collaterali. Bisogna ancora chiedersi se è vero che il rigore produce espansione, oppure se aveva ragione Keynes quando, ne11937, scriveva al Presidente Roosevelt «il momento giusto per l’austerità al Tesoro è l’espansione, non la recessione»? La storia del 20° secolo ha dato risposte che non devono essere necessariamente replicate, ma neanche dimenticate. Sono stati gli ingenti investimenti pubblici a rendere gli Usa e l’Europa leader economici mondiali. L’erogazione diretta di beni e servizi, di ricerca e innovazione, di servizi sociali, hanno orientato gli investimenti privati e i consumi, rafforzando tutto il processo economico. In Italia, negli anni Sessanta, le aziende di Stato sono state i «campioni nazionali» che hanno aiutato la crescita e la competitività del sistema Paese. L’inversione avvenuta negli anni ’80 – quando si è assistito a un costante arretramento del ruolo pubblico e alla progressiva deregolamentazione dell’economia – ha avuto come risultato il sopravvento della finanza sull’economia reale. Con i danni che, oggi, sono sotto gli occhi di tutti. Sono stati i Paesi che hanno conservato una forte presenza pubblica, quelli che hanno risentito meno della «tempesta perfetta» della crisi. Tanto che l’Economist, a gennaio del 2012, ha dedicato una copertina sull’ascesa del capitalismo di Stato. L’accusa che lo sviluppo (dell’Italia in particolare) sia stato fatto a scapito delle generazioni future, facendo crescere in maniera abnorme il debito pubblico, contiene solo una parte di verità. Perché una buona spesa pubblica tende a ripagarsi da sola, mentre la crescita incontrollata del debito dipende dalle degenerazioni, dall’uso inefficiente o addirittura criminale della spesa. Non c’è alcun dato che suffraga l’idea che l’austerità porti a un «secondo tempo» di espansione economica. D’altronde se il Pil e occupazione dipendono dalla domanda, occorre incrementarla, non comprimerla. E per far crescere la domanda occorre aumentare la dotazione economica dei cittadini, in particolare delle fasce a basso reddito. Aumentare di cento euro il reddito di un lavoratore che guadagna mille euro significa incrementare la domanda di circa novanta euro, mentre aumentare della stessa quota chi ha un reddito di un milione non produce effetti rilevanti. In una fase recessiva, occorre che lo Stato faccia ciò che l’economia privata, da sola, non riesce a fare. Bisognerebbe investire in banda larga, assetto del territorio, energie verdi. Investimenti che non solo farebbero crescere la domanda, ma occuperebbero anche svariate migliaia di persone. Per uscire dalla crisi occorre che lo Stato torni a occuparsi di ciò che il privato non ha convenienza a fare, con un piano d’investimenti che riequilibri il sistema economico tramite l’iniezione di domanda aggiuntiva. Ma, oltre a una buona spesa pubblica, occorre anche riequilibrare le leve di governo dello sviluppo verso i territori, dopo che per anni si è andati in direzione opposta, attribuendo loro competenze ma sottraendogli risorse per poterle esercitare. E ciò è avvenuto nel momento in cui è stata proprio la globalizzazione ad aver cambiato i paradigmi di governo dei processi economici, spingendoli verso il basso, anziché verso l’alto. La prima novità riguarda, infatti, l’integrazione verticale, cresciuta lungo la filiera dei poteri pubblici, che ha generato una stretta interdipendenza tra governo locale, nazionale e comunitario. Non c’è, ormai, un processo rilevante che non veda la partecipazione congiunta di tutti i livelli istituzionali. La seconda novità riguarda l’integrazione orizzontale. Dal punto di vista degli interessi economici, si è ormai passati, infatti, dalla concezione di territorio come confine, al territorio come spazio, sul quale ricadono e convergono interessi economici e sociali che vanno di là dei perimetri amministrativi. Oggi anche i Comuni più piccoli sono un «pieno» di livelli sovrapposti di regolazione, di relazioni dirette con reti e attori globali, di cooperazioni verticali e orizzontali, di politiche generali e di settore. Tutto ciò lascia presupporre, come naturale conseguenza, che l’analisi e l’interpretazione dei bisogni di un territorio, la cura degli interessi generali, la stessa proposta di soluzioni e politiche pubbliche non possano essere monopolio di una politica nazionale che, da sola, non è in grado di farvi fronte. il passaggio alle «politiche dei luoghi» si fa sempre più impellente per uno sviluppo economico a prova di futuro, le cui «chiavi» si collocano sulla dimensione orizzontale del capitale sociale, rappresentato dai fattori culturali e sociali, parte dell’identità delle comunità, e su quella verticale della capacita’ di connettersi alle reti globali. Si tratta di elementi cruciali, perché è proprio su questi temi, e sul modo di affrontarli, che si gioca quella «convenienza all’interazione » fra i vari attori economici e istituzionali che costituisce il nocciolo del modello di sviluppo economico del futuro. Con la buona notizia, non del tutto marginale, che quest’approccio richiede risorse non strettamente finanziarie ma in larga parte regolative, di analisi, d’impulso e innovazione funzionale, dando all’Italia la possibilità di non essere più una società a responsabilità limitata, ma un luogo dove politica nazionale, attori economici e territori agiscono e interagiscono sulla base di buon senso, idee e volontà.

*Presidente Tecnè

L’Unità 06.05.13

"Denunce ignorate e processi lumaca ecco perché siamo diventati il Paese dove il maschio ha licenza di uccidere", di Maria Novella De Luca

È dopo la denuncia che arriva il momento peggiore, una paura cupa che segue il coraggio. Perché l’aggressore è braccato ma la vittima è sola. E possono passare centinaia di giorni prima che la giustizia si attivi, fermando il primo, proteggendo l’altra, ed è proprio in queste settimane che spesso accade l’irreparabile. Michela Fioretti ad esempio. Da anni, invano, denunciava le violenze del suo ex marito, guardia giurata, tre settimane fa lui l’ha uccisa, con la pistola d’ordinanza, su un viadotto di Ostia, litorale di Roma. «Tutti sapevano, nessuno ha agito», hanno detto sconsolati i suoi colleghi. Perché il 15% dei “femminicidi”, (quasi un omicidio di donne ogni sei) è preceduto da denunce per stalking, un persecutore su 3 torna a colpire, ma ci vogliono almeno 6 anni di tribunale per vedere uno stupratore in carcere, e se l’aggressore è minorenne allora anche il processo si ferma, pure se si tratta di un branco, l’ha deciso la Cassazione, due anni fa, con una discutibile e discussa sentenza.
«Se avessi saputo che finiva così non li avrei mai denunciati», ha raccontato Maria, stuprata a 15 anni da otto coetanei (tutti in libertà) nella pineta di Montalto di Castro nel 2007. Tre donne su 10 per stanchezza ritirano le denunce, meno del 20% di mariti e coniugi violenti vengono allontanati dal domicilio familiare, mentre in tutta Italia esistono soltanto 127 centri antiviolenza, e di questi pochissimi (61) sono “case rifugio”, dove donne e bambini spesso in pericolo possono trovare riparo e salvezza.
C’è un triste conteggio fatto di tagli ai servizi e di giustizia che non funziona, di lentezze amministrative e di cecità burocratiche, dietro il bollettino di guerra delle aggressioni alle donne. Perché le leggi ci sono, ma poi il territorio è scoperto, la prima linea è sguarnita, come avvertono da anni le operatrici del centri antiviolenza, unici presidi sul territorio dove madri e figli costretti a nascondersi trovano pace e salvezza. Dice senza remore l’avvocato Giulia Buongiorno, ex presidente della Commissione Giustizia della Camera: «Almeno il 50% delle segnalazioni per stalking e violenza viene accolta come fosse un atto isterico da parte di una donna. Ci sono commissariati che agiscono con un’efficienza straordinaria, altri che invece sottovalutano. Un panorama a macchia di leopardo. E poi l’incertezza della pena: nella lunghezza dei processi il 40% delle donne si scoraggia o viene costretto a ritirare la propria denuncia. E spesso le condanne sono troppo miti». Impunità cioè. Fondi, risorse, politiche concrete. C’è ben poco di tutto questo nel grande coro di sdegno contro la violenza sulle donne. Spiega Anna Costanza Baldry, psicologa, responsabile di “Astra” sportello antistalking dell’associazione “Differenza donna”. «Denunciare vuol dire esporsi, far sapere a colui che perseguita che si è deciso di reagire, e questo scatena una rabbia ancora maggiore. In questa fase le donne sono sole: o riescono a nascondersi nei centri antiviolenza, oppure sono davvero a rischio, perché nell’attesa che la giustizia attivi la sua rete di protezione, potrebbe essere troppo tardi».
I centri appunto. Dove le donne arrivano di notte, di nascosto, con i figli al collo. E raccontano: «Sono scappata scalza, mentre lui dormiva», «quando mi ha tirato l’olio bollente mi sono buttata sulle scale e ho corso senza fermarmi più», «lui ha puntato il coltello alla gola di mio figlio, mi ha chiuso in casa, ho chiamato i pompieri e sono fuggita ». Ma i presidi antiviolenza sono allo stremo. Ce ne sono 127 in Italia, concentrati tra Emilia Romagna, Lazio, Toscana e Lombardia, 500 posti letto in tutto, una goccia nel mare, visto che soltanto nell’ultimo anno più trentamila donne hanno bussato alle loro porte. Ne servirebbero 5.700, a seguire le raccomandazioni della Ue, che ne ritiene necessario uno ogni 10mila abitanti. Titti Carrano, presidente di Dire, (Donne in rete contro la violenza) che rappresenta 60 centri, lancia un vero e proprio Sos: «Noi siamo l’unica risposta alla solitudine delle donne, quando decidono di ribellarsi ai loro carnefici. Eppure gran parte delle case rischia la chiusura, abbiamo pochissimi posti letto, servono finanziamenti subito, ma finora c’è stata una totale insensibilità politica. Invece i centri sono dei laboratori sociali: qui non solo le donne e i loro figli trovano rifugio, ma ricevono assistenza legale, sanitaria, recuperano se stesse, dignità e imparano a riconoscere la violenza».
Non è poco. Lo sappiamo, l’amore malato non è sempre facile da individuare, da togliere via dal cuore. Altrimenti non si spiegherebbe come mai soltanto una donna su due riesce a lasciare il proprio aguzzino. Aggiunge Titti Carrano: «Questo governo sembra voler fare qualcosa. La prima azione potrebbe essere la ratifica della Convenzione di Istanbul. Quel trattato internazionale che finalmente definisce la violenza contro le donne una violazione dei diritti umani».

La Repubblica 06.05.13

"I pericoli nascosti nella Convenzione", di Alessandro Pace

Chi abbia ben chiara la specificità storica e giuridica di quegli atti normativi che sono le costituzioni e, nel contempo, si riconosca nei valori della nostra Carta fondamentale non può non essere preoccupato per l’intenzione – esplicitata dal presidente Letta nel suo discorso programmatico – di promuovere l’istituzione di una Convenzione «aperta alla partecipazione anche di autorevoli esperti non parlamentari» per la redazione di un testo di riforma di svariate norme costituzionali da presentare successivamente al Parlamento, il quale – come auspicato da tre dei quattro Saggi nominati dal presidente Napolitano – dovrebbe limitarsi ad approvarlo o respingerlo. Senza quindi la possibilità di apportarvi emendamenti.
Le preoccupazioni sono di ordine sia giuridico che politico. Le prime derivano dalla protervia con la quale le forze politiche insistono, quando si tratti di leggi di revisione costituzionale, nel metodo, contrario agli articoli 72 e 138 della Costituzione, di demandarne la redazione a Commissioni ad hoc.
La nostra Costituzione, nel caso delle revisioni costituzionali, prevede invece il normale procedimento legislativo nel quale le stesse Commissioni parlamentari hanno soltanto la funzione referente (non redigente o deliberante).
Come autorevolmente sottolineato da Valerio Onida – il più titolato dei quattro Saggi, non a caso contrario all’attribuzione alla Convenzione di poteri redigenti su così tante norme – l’istituzione di un tale organismo rischia infatti «di innescare un processo “costituente” suscettibile di travolgere l’insieme della Costituzione, che è bensì opportuno modificare in punti specifici, attraverso il procedimento di cui all’articolo 138, ma mantenendo fermi i suoi principi, la sua stabilità e il suo impianto complessivo; e si rischierebbe di favorire progetti di revisione “totale” da votare “in blocco”».
Un rischio che consegue, per l’appunto, da ciò, che la riforma modificherebbe, con una sola legge costituzionale, una pluralità di disposizioni ancorché diversissime tra loro. Per contro, come risulta ormai condiviso dai più autorevoli studiosi, l’articolo 138 della Costituzione, sistematicamente interpretato, prescrive che le leggi di revisione costituzionale debbono avere contenuto “omogeneo”. Se infatti è vero che, in materia di referendum abrogativo di leggi ordinarie, la Corte costituzionale nega che la libertà di scelta dell’elettore possa essere limitata da un quesito referendario che pretenda di abrogare una pluralità di disposizioni eterogenee, la libertà di scelta dell’elettore non può essere limitata quando gli si chiede di approvare, con un referendum confermativo, una legge di revisione costituzionale che modifichi materie disparate. Con la conseguenza che i cittadini sarebbero costretti a votare sì o no all’intero
testo ancorché siano ad esso favorevoli o contrari solo in parte.
La soluzione corretta è invece data dalla predisposizione di tanti progetti di legge costituzionale quante sono le materie incise dalla riforma, quand’anche il Parlamento ritenesse di affidare i poteri redigenti ad una Convenzione. Né si dica, in critica alla tesi qui sostenuta, che la deroga al procedimento previsto dall’art. 138 sarebbe prevista da una legge costituzionale ad hoc.
Le deroghe contenute in leggi costituzionali sono infatti ammissibili sempre che i loro effetti siano limitati nel tempo, e non proiettati nel futuro come appunto una riforma della Costituzione.
Passo adesso alle preoccupazioni d’ordine politico. Queste provengono, ancora una volta, dalla varietà delle disposizioni costituzionali che, secondo la Relazione dei quattro Saggi, potrebbero essere oggetto di modifica da parte della Convenzione: vi si accenna alle disposizioni in tema di forma di governo e di rapporti Parlamento-governo, al bicameralismo paritario, al numero dei parlamentari, al funzionamento delle Camere, ai poteri e alle funzioni delle Regioni, al federalismo fiscale, all’amministrazione della giustizia civile e penale, all’ordinamento delle magistrature e così via.
Ebbene, se la Convenzione mettesse davvero mano a tutti questi temi, e se lo spirito ispiratore delle modifiche fosse antitetico a quello che attualmente
pervade la nostra Costituzione, ne scaturirebbe una palingenesi del nostro ordinamento costituzionale. Saremmo in presenza di un vero e proprio «processo costituente » (come improvvidamente qualificato dal presidente Letta nelle sue dichiarazioni programmatiche), che coinvolgerebbe indirettamente anche la Parte prima della Costituzione, data l’interrelazione tra le due parti (i “Diritti e i doveri dei cittadini” sono infatti condizionati dall”Ordinamento della Repubblica”).
Non a caso, proprio per questa evenienza eversiva, l’onorevole Berlusconi ha manifestato il suo immediato interesse per la presidenza della Convenzione. Il fatto che l’ex premier abbia però più volte etichettato come “bolscevica” la Costituzione che ora pretenderebbe di modificare, nega però ogni legittimità a tale pretesa. La revisione costituzionale è infatti prevista, nel titolo VI della Costituzione, tra le “Garanzie costituzionali” della Costituzione insieme con la Corte costituzionale. In altre parole, il procedimento di revisione previsto dall’articolo 138 ha lo scopo di adeguare la Costituzione ai mutati tempi, non già di sovvertire i valori su cui essa si basa.
Ciò che invece avverrebbe se ci si trovasse di fronte alla manifestazione di un potere costituente.

L’autore è presidente dell’Associazione “Salviamo la Costituzione: aggiornarla non demolirla”

La Repubblica 06.05.13

"Il governo ideale per gli italiani", di Ilvo Diamanti

È significativa la rabbia degli italiani contro la “politica”. In particolare, contro il governo che ci governa. Contro la maggioranza che lo sostiene. Contro il Parlamento. È significativo il ri-sentimento degli italiani contro i “rappresentanti” e contro le istituzioni che li “rappresentano”. Perché, in fondo, è come se gli elettori si ponessero davanti allo specchio. Visto che raramente, come in questa occasione, il Parlamento ne offre una “rappresentazione” fedele. Certo: questa legge elettorale “orrenda” impedisce ai cittadini di scegliere i propri “rappresentanti”. Di esprimere un giudizio e un controllo sui singoli parlamentari. Combinato con il bicameralismo perfetto, ostacola ogni maggioranza stabile e autosufficiente. Ma, nell’insieme, la composizione del Parlamento ricalca fin troppo fedelmente gli orientamenti politici degli italiani. I quali si dividono in tre grandi minoranze, non troppo diverse, per misura. Una di Centrodestra, l’altra di Centrosinistra, la terza “al di fuori”. Esterna ed estranea. Dove si rifugiano “quelli che non ci stanno”. Senza contare un piccolo polo di Centro. Che, in effetti, non conta molto. Perché è stato spinto a Margine, dagli elettori.
In altri termini, se questo Parlamento non favorisce la formazione di una maggioranza politica, non è per colpa di una legge che distorce e deforma le scelte degli elettori. Semmai, al contrario, è perché le riproduce in modo fin troppo fedele. Accentuandone le distanze, più delle affinità.
Così oggi il governo è sostenuto da una coalizione precaria. Perch é i partiti e i parlamentari che vi partecipano fanno a gara nel marcare il proprio distacco. Reciproco. Le proprie differenze. Berlusconi e il Pdl: impegnati a promuovere i “propri” prodotti di bandiera. L’Imu sopra tutti. Ma anche a “difendere” i territori critici, per il Leader Imprenditore: la giustizia e le telecomunicazioni. Il Pd: impegnato a dimostrare il proprio impegno, ma senza troppo impegno. Per rispetto verso la responsabilità che spetta ai vincitori – che in effetti non hanno vinto – le elezioni. E per evitare un nuovo voto ravvicinato, a cui oggi non sarebbe pronto. Infine: il M5S, impegnato a esibire il proprio dis-impegno. Ma con impegno. Come se fossero gli altri a non volerne sapere di lui. E non lui a non volersi confondere e contaminare, con gli altri.
Fuori dal Palazzo, intanto, la piazza rumoreggia. E i cittadini esprimono, in ogni modo, la loro insoddisfazione. La loro rabbia. Ogni gesto di disperazione. Ogni atto di follia individuale. Ogni esplosione soggettiva estrema. Tutto diventa – tutto viene interpretato come – un segno di ribellione contro la Politica, i Politici, i Partiti, il Parlamento. Lo Stato. E la Politica, i Politici, i Partiti, il Parlamento, lo Stato: diventano – a loro volta – i mandanti, anzi, i veri responsabili. Di ogni suicidio e omicidio, di ogni aggressione. Di ogni atto disperato commesso da disperati. Per disperazione. Come se noi non c’entrassimo. Come se la colpa fosse solo “loro”. Dei Politici, dei Partiti, del Parlamento. Come se questo governo – e questa maggioranza che non piace quasi a nessuno (a me di certo no) – uscissero dal nulla. Come se questo Parlamento fosse stato eletto “a nostra insaputa”.
Non è così. Purtroppo. Il problema, semmai, è che questa legge elettorale orrenda ha prodotto un Parlamento che rispecchia in modo fedele gli orientamenti e le differenze dell’elettorato.
Dove coabitano tre Grandi Minoranze che non si sopportano. Due Soggetti Politici e uno Antipolitico. O meglio: premiato dal voto di molti elettori (due terzi, almeno) per risentimento contro “i partiti”. Contro la Casta.
Così oggi si ripropone una scena nota, in Italia. Il “governo nonostante”. Subìto perfino dal premier, Enrico Letta. Il quale, ospite di “Che tempo che fa”, ieri sera, ha ammesso che «questo non è certo il governo ideale per gli italiani». A torto, perché riflette gli umori degli “italiani nonostante”. Ai quali non piace perdere. Ma nemmeno vincere. Perché non amano la concorrenza, né la competizione. Come in economia e negli affari. Tutti liberisti, tutti contro le corporazioni e contro i privilegi di gruppo e di categoria. Tutti contro il familismo. Tutti per il merito. Eppure quasi tutti coinvolti in – e tutelati da – corporazioni e gruppi. A nessuno verrebbe in mente di escludere figli e parenti dalla successione — nell’azienda e nel mercato del lavoro. In nome del merito. Della società aperta.
Così oggi siamo guidati da un “governo di necessità” perch é viviamo in uno “Stato di necessità”. Sostenuto da una “maggioranza di necessità”. Composto da partiti e politici che non si sopportano. Con un’opposizione “estranea”. D’altronde, è dal novembre 2011 che il Paese è governato da un Governo del Presidente. Voluto e garantito da Napolitano. Anche oggi, l’unico presidente possibile.
Per l’incapacità del Parlamento di trovare l’accordo su un altro. Da quasi due anni il Paese è guidato dal Governo del Presidente. Per Stato di Necessità. Anche oggi. Perché il primo garante di Enrico Letta è Napolitano.
D’altronde, per quasi cinquant’anni, dal 1948 ad oggi, gli italiani hanno votato liberamente per eleggere le stesse forze politiche. Al governo e all’opposizione. Visto che la Dc ha sempre governato. Con il Pci sempre all’opposizione. Anche se tutte le leggi e le riforme che contano sono state votate all’unanimità. Secondo il modello consociativo. Dove maggioranza e opposizione coesistono e collaborano. Anzi, di pi ù: co-governano. Come nella società, fra i cittadini. Dove tutti sono divisi. Ma anche uniti. Quando serve. Nelle emergenze. Cioè: sempre, visto che in Italia l’emergenza è perenne. Permanente.
Questo governo e questa maggioranza, dunque, sono “rappresentativi”. Perché “rappresentano” fedelmente gli italiani. Ai quali piace stare “dentro” e “fuori”, al tempo stesso. Al governo, ma senza impegno. D’accordo con Monti, ieri, e con Letta, oggi (secondo i sondaggi, il politico più popolare in assoluto). Perché ci impongono sacrifici che nessun governo “di parte” potrebbe imporre. Ma pronti a prenderne le distanze, appena risulti utile e opportuno. Come ha fatto Berlusconi. Che ha scaricato Monti, quando gli è parso vantaggioso. Gli italiani: un po’ Berlusconi e un po’ grilli. Di governo e di opposizione – secondo il momento. E, talora, un po’ di sinistra. Perché “bisogna saper perdere”.
Ma il problema non è che “la Politica è lontana da noi”. Al contrario: è fin troppo vicina. Troppo simile a noi. Questo è il problema. Più facile cambiare la Politica che gli italiani.

La Repubblica 06.05.13

"La “base” da macello del PD", di Cecilia Alessandrini

Sono stata settimane dure queste per noi segretari di circolo del PD e per la base del nostro partito. Riunioni, incontri, un susseguirsi di eventi e di situazioni da gestire a cui fare fronte nonostante il morale rispecchi esattamente quello dei “nostri” militanti: depresso e abbattuto. Così stamattina avevo deciso che la mia presenza al circolo oggi non era necessaria, pensavo, erroneamente, che la fase peggiore fosse superata e di potermi prendere una mattinata di “vacanza” dal mio impegno politico che in queste settimane ha di gran lunga superato tutto il resto. Gongolavo a casa tra un libro e un po’ di musica quando ricevo una telefonata dal numero del mio circolo. Il circolo apre alle 11,00 sono le 11,08. Dall’altra parte del filo due dei militanti storici mi dicono “Cecilia abbiamo aperto il circolo ma passa la gente e ci urla “vergogna!” “vergognatevi tutti”, cosa facciamo? Noi non ce la sentiamo di stare qui a prendere gli insulti…”. Salgo in sella alla bici e in 10 minuti arrivo al circolo. Li trovo lì con le facce di chi in questi anni si è già preso un sacco di schiaffi e un pugno sulla faccia già gonfia proprio non riesce ad accettarlo. Sistemo come posso la situazione, provo a rassicurarli, faccio forza a loro e in fondo a me stessa e mentre noi siamo in questa condizione penosa si affaccia alla porta del circolo uno dei tanti ex iscritti di questi anni che ora, guarda tu che strano caso proprio nell’anno del congresso, ha deciso di iscriversi nuovamente dopo anni di mancati rinnovi. Mi chiede quando può venire a rinnovare la tessera, neanche solo per lui ma anche per sua moglie a nome della quale parla lui ovviamente, e sta per andarsene in tutta fretta quando gli faccio la domanda che faccio a tutti i militanti, simpatizzanti, elettori che passano per il circolo in questi giorni, e cioè cosa pensano di ciò che sta accadendo. Grave errore. Infatti dall’alto del suo ruolo di prof. universitario con la verità in tasca mi risponde praticamente che va bene così, provo a dire che sono appena passati ad urlarci “vergogna” e che quindi forse proprio “bene così” non va, mi dice che bisogna spiegare e che “noi dirigenti” ci siamo apposta per spiegare alla nostra base cosa è giusto o non giusto fare. Provo a dire che io non spiego proprio niente a nessuno e che anzi credo che qualcuno dovrebbe spiegare a me e a tutti i nostri elettori cosa è successo in questi giorni e perché senza neanche un dibattito serio dentro al partito si sia deciso un cambio netto della linea politica votata alle primarie prima e alle elezioni poi, rompendo anche l’alleanza con SEL. Ne nasce una piccola discussione sugli ormai mitologici errori della campagna elettorale ecc. e quando faccio presente che nell’ultima assemblea fatta poco meno di una settimana fa la maggioranza delle persone pensava che si stesse facendo un errore nel fare questo governo con il PDL e mostrava un livello di indignazione per l’accaduto piuttosto alto lui mi risponde con un evidente disprezzo per il ruolo che esprimo e per come l’interpreto (e forse anche per l’età che ho e perché sono una donna): “Capirai cosa vuoi che conti quello che dice la base qui dentro! Saranno stati i 10 frequentatori del bar qui davanti!”. Questa frase getta nello sconcerto esistenziale e politico più totale me e i presenti al circolo che dopo anni di impegno pratico e fattivo si sentono dire da un semisconosciuto quasi mai visto che in fondo il loro pensiero non conta nulla e che la loro segretaria sbaglia a non “indottrinarli” abbastanza. Da questo discorso mi pare quindi chiaro che non siamo noi la “base” che conta nel partito, noi che con le nostre pretese di coerenza e giustizia sociale siamo evidentemente troppo fuori moda per un partito di centro sinistra in Italia. Così come è fuori moda la nostra militanza costante, sono fuori moda i nostri banchetti e le nostre feste dell’Unità se non quando servono per raccogliere soldi e voti nei momenti opportuni. Non voglio aggiungere altro all’escalation di sdegno che questo episodio ha risvegliato in me, chiudendomi di nuovo lo stomaco dopo giorni di già nervosa inappetenza, ma una cosa la voglio chiarire a tutti quelli che stanno nel mio partito qualsiasi sia la loro corrente di appartenenza : io non accetterò mai di fare da “carne da macello” per questa gente, non in silenzio almeno.

da unita.it

L'Aquila "invasa" da storici arte. Settis: «La vita torni qui»

Almeno 800 se non mille storici dell’arte in corteo nel centro storico dell’Aquila per vedere con i propri occhi l’abbandono pur se da un anno si sono aperti, grazie all’ex ministro Barca, oltre 20 cantieri. Il 5 maggio 2013 diventa una giornata particolare per il nostro patrimonio artistico. Lo storico dell’arte Tomaso Montanari e Italia Nostra hanno convocato gli specialisti della disciplina, sono venuti studenti, laureati, professori, funzionari pubblici, soprintendenti e – con un gesto molto apprezzato – il neo ministro per i beni culturali Massimo Bray. Senza scorte, senza bagagli formali all’infuori di se stesso.
“ Sarebbe facile dire fermo tutto – commenta a caldo il ministro – Il ministero ha tutte le competenze necessarie, appena capirò esattamente cosa bisogna fare agirò. Posso garantire questo: il massimo impegno”. E vedere i palazzi ancora vuoti, chiusi, il centro pieno di ponteggi? “MI ha turbato. Ovviamente le persone vorrebbero tornare nelle loro case, ai loro ricordi, a quella che era la loro vita. Abbiamo di fronte qualcosa che è stato come strappato dà proprio l’idea di una città invisibile ed è molto doloroso”.

E Nicoletta Barro, aquilana da 33 anni che lavora con i Solisti aquilani e non c’entra con l’organizzazione della giornata, commenta: “Siamo felici che siano venuti tanti a vedere con i propri occhi. Questa è la punta di un iceberg. E la presenza del ministro fa piacere: perché è venuto e soprattutto perché non ha affatto un profilo mediatico. Dà la sensazione di autenticità quando abbiamo visto troppe passerelle”.

Montanari, docente all’università di Napoli, fiorentino, è contento dell’esito. Al corteo segue un convegno in una chiesa restaurata e strapiena. “Vogliamo che l’Aquila diventi davvero un problema nazionale, che entri nella coscienza nazionale e intellettuale del paese. Il vero fine della città è far crescere i cittadini attraverso i monumenti: ci vuole una ricostruzione materiale che è cominciata grazie agli organismi di tutela ma ci vuole anche una ricostruzione civile, bisogna riportare i cittadini all’Aquila e il centro non deve diventare un luna park ma ridiventi una città”. E lancia una proposta: “Sarebbe bello che accanto all’Opificio delle pietre dure di Firenze e all’Istituto centrale del restauro di Roma, i due istituti nazionali, nascesse un nuovo centro di formazione per restauratori qui: questo sarà il più grande cantiere di restauro d’Europa per decenni, perché non fare qui un nuovo centro di formazione, Visto che formiamo ragazzi ai massimi livelli per poi condannarli a non lavorare o ad andar via dall’Italia?

A suggellare il senso della giornata è Salvatore Settis, lo storico dell’arte e archeologo che tanto si batte per la difesa del patrimonio artistico e paesaggistico e culturale inteso come bene comune e asse portante della nostra civiltà come attesta l’articolo 9 della Costituzione. A l’Unità dice: “Spero che oggi all’Aquila si verifichi una presa di coscienza. Gli storici dell’arte già essendo qui hanno dimostrato una grandissima attenzione al centro storico abbandonato. Spero ne ricavino la possibilità di dire a tutti gli italiani che le città non si abbandonano così, un centro storico così prezioso deve continuare a essere il luogo della vita civile. Gli aquilani devono tornare, mentre new town sono luoghi di disgregazione sociale”.

da unita.it

"Di un colore bellissimo", di Enrico Grazioli

Brilla, nera e fiera, chiara e limpida, la stella di Cécile Kyenge nei primi giorni del complicato governo Letta. Splende di una luce così particolare che da sola (e sola, per ora) dà il segno di una novità, di una possibile svolta anche in una fase politica così affannosa. Le sono bastate poche parole, il suo semplice essere così come è per dare speranza da un lato e mettere invece paura a chi il nuovo, il progresso, la civiltà non li vuole mai. La peggio Italia le si è scagliata contro: contro il suo colore, ma anche contro la sua compostezza, la sua preparazione, il suo impegno al servizio di una comunità che fa del rispetto dei diritti le fondamenta per presente e futuro. E anche contro una forza politica, un’area di pensiero per quanto scomposto e a volte contradditorio, che nel momento più travagliato e deludente della sua storia ha saputo cogliere in lei, scegliendola per il Parlamento e poi per il governo, il segno della responsabilità, della passione civile, il meglio di questa Italia immiserita. Vederla e ascoltarla in tv l’altra sera ha stupito molti, quelli che non la conoscevano: non i soliti fiumi di parole vacue e sguaiate di politici e sottogovernanti di ogni parte, ma la pacatezza di chi conosce i problemi, ne ha attraversati e ora vuole che chi vive nel suo Paese abbia le stesse opportunità, riceva lo stesso rispetto da chiunque. Difficile che una stella così non dia fastidio agli occhi già accecati di chi la invita a far visita a una donna stuprata da due congolesi. Perché il problema nella mente sofferente di questa Italia è la provenienza del criminale, il colore della sua pelle, non il crimine su una donna, né la donna vittima del crimine: rimandiamoli a casa, neri e ferini, che le nostre donne se le stupriamo tra di noi fa meno notizia, fa meno male… Coraggio, Cécile: non tornartene mai “a casa”, rimani tra noi perché siamo noi che dobbiamo fare tanta strada. E la tua stella di un colore bellissimo continui a mandare un po’ di luce anche a Modena: che hai scelto anni fa come la tua Italia e che ancora oggi ha bisogno del tuo aiuto per essere all’altezza di quella scelta.

La Gazzetta di Modena 05.05.13