Latest Posts

"Tutti ai remi per salvare la nave", di Eugenio Scalfari

Domandiamoci anzitutto che cosa vuole la gente, le persone che incontriamo o di cui sappiamo tutti i giorni e che appartengono alle più diverse categorie: lavoratori, consumatori, giovani, anziani, occupati, disoccupati, indignati, disperati, civicamente impegnati, indifferenti, antipolitici.
Quelli che chiamiamo la gente e che un tempo chiamavamo il popolo, il “demos”, sostantivi nobilitanti perché ne sottolineano la sovranità, non hanno più una visione del bene comune perché sono schiacciati sul presente dai loro bisogni immediati, dalla loro povertà o dal timore di sprofondarvi dentro, circondati da una nebbia che gli impedisce di costruire il futuro.
La gente altro non è che un popolo degradato dagli errori e a volte dai crimini commessi da una classe dirigente anch’essa degradata; ma anche per colpa propria perché ha subìto quel degrado senza reagire e addirittura sguazzandovi dentro. Le colpe non stanno mai da una parte sola, chiamano in causa ciascuno di noi sicché – come diceva il Nazareno che parlava per parabole – chi è senza peccato scagli la prima pietra.
Dunque la gente, simulacro sconcertante del popolo sovrano. Che cosa vuole? Vuole un immediato sollievo dai propri disagi, vuole il recupero di almeno una parte del benessere perduto e un po’ più di giustizia sociale; vuole che si diradi la nebbia e si riaccenda la speranza di futuro.
Questo vuole la gente. Detesta la disperazione e per questo è disperata. Ha bisogno d’essere governata ma non si fida. Un nuovo governo finalmente c’è e il Parlamento gli ha votato un’ampia fiducia ma la gente aspetta di vedere i primi fatti. Le promesse non bastano, gli impegni neppure, quante volte furono traditi?
Ma attenzione, gente: molto dipende anche da te. Se ancora una volta cadrai nell’inganno della demagogia, se ti lascerai sedurre dal canto delle sirene, se non vorrai e non saprai ritornare popolo, sarà poi troppo tardi per piangere perché qui e
ora si gioca il tuo destino.

***
Molti temono ed altri sperano che questo appena costituito sia un governo “balneare”. Altri si augurano che rappresenti una svolta: dopo la guerra civile durata vent’anni tra berlusconismo e antiberlusconismo, finalmente la pacificazione.
Abbiamo già detto che la gente non è interessata a nessuna di queste ipotesi, ma soltanto (e non è poco) al recupero d’una parte del suo benessere, a tutele sociali e al rilancio del lavoro e della crescita. Gli obiettivi sono questi; al governo spetta di trovare gli strumenti e metterli in opera. Può sembrare paradossale, ma i mercati pensano la stessa cosa e la loro risposta finora è positiva. Perciò la natura di questo governo è chiarissima: stato di necessità per oggettiva mancanza di alternative. Dovrà durare fino a quando quei risultati non saranno stati raggiunti.
Un governo balneare non corrisponde a questo mandato perché non è in pochi mesi che gli obiettivi assegnati potranno essere raggiunti. I partiti che lo appoggiano debbono averlo ben presente.
Le provocazioni di sapore pre-elettorale che Berlusconi continua a lanciare ogni giorno, non giovano affatto, inaspriscono una conflittualità che rende friabile una compagine tenuta insieme con gli spilli. Forse il Cavaliere pensa di consolidare in questo modo il ruolo di “kingmaker” cui aspira e di attrarre almeno in parte i sei milioni di voti perduti. Quando vorrà, staccherà la spina come ha fatto con Monti; ma commette un grave errore a coltivare queste ipotesi. Napolitano non ha alcuna intenzione di sciogliere le Camere fino a quando la legge elettorale e le altre riforme da lui ritenute indispensabili per avviare il Paese verso una solida ripresa non saranno state effettuate.
Chi pensa che in quel caso lo scontro avverrà tra Berlusconi e Letta si sbaglia, lo scontro contrapporrebbe il Cavaliere a Napolitano, che avrebbe con sé le Cancellerie europee, i mercati e soprattutto la gente. L’immagine del “meno male che Silvio c’è” andrebbe in frantumi nel breve spazio d’un giorno, perfino tra le file dei suoi fedeli. Forse qualcuno di loro dovrebbe avvertirlo prima che sia troppo tardi.
Quanto ai partiti, dovrebbero riformarsi e rifondarsi perché così come sono ridotti hanno perduto ogni capacità di rappresentanza. Tutti, movimenti compresi. Spetta ai loro militanti di provvedere e alla pubblica opinione di stimolarli mettendoli di fronte alle loro responsabilità. Viviamo in un Paese dove non è mai esistita una destra liberal-moderata e una sinistra riformatrice e non trasformista. La destra dovrebbe ripudiare il populismo e la sinistra il frazionismo nascosto sotto il mantello dell’utopia.
Se così non sarà, avrà avuto ragione chi ci definì un’espressione geografica. Sono passati duecento anni da allora, ma con scarsissimi progressi.

***
L’abolizione e il rimborso dell’Imu sono richieste prive di senso salvo per quanto riguarda i proprietari di case con redditi bassi. Per il resto l’Imu altro
non è che un’imposta progressiva sul patrimonio ed è bene che come tale sia mantenuta. L’economia reale ha bisogno di tutele sociali estese e robuste, alleggerimento del cuneo fiscale, incentivi al consumo e alla creazione di posti di lavoro.
Le risorse disponibili e quelle che l’Europa dovrà mettere a nostra disposizione nel quadro delle trattative in corso vanno canalizzate in questo modo. La lotta all’evasione va continuata con decisione. Le vendite di patrimonio pubblico debbono finalmente essere intraprese; i debiti della pubblica amministrazione liquidati, se ne parla da un anno, che cosa si aspetta? La “spending review” ha dato ben poco finora, eppure l’obiettivo è di palmare evidenza: la burocrazia, cioè la semplificazione amministrativa mai fatta. Questo dovrebbe essere uno dei compiti primari del governo, altro che balneare!
Walter Veltroni sostiene che anche la lotta contro la criminalità organizzata – a cominciare da quella che domina il settore dei videogiochi – è un obiettivo economico di essenziale importanza, ed ha perfettamente ragione. Dai un seguito in questo senso, caro Enrico Letta, sarebbe benvenuto.
E meno male che Draghi c’è. Qualcuno – a cominciare dalla Bundesbank ma non solo – ha dato un’interpretazione riduttiva della diminuzione del tasso di interesse della Bce ed ha trascurato altre parti dell’intervento preannunciato da Draghi: l’accelerazione dell’unione bancaria, i prestiti trimestrali illimitati alle banche europee e il tasso negativo sui loro depositi presso la Bce. Si tratta di iniezioni di liquidità della massima importanza, che sono all’origine del buon andamento dei mercati e dello “spread”. La ripresa dell’occupazione in Usa e la politica di liquidità della Federal Reserve sono altrettanti elementi positivi della situazione. Forse siamo veramente all’inizio della ripresa a cinque anni dallo scoppio della crisi.

***
Un altro sparo a salve di Berlusconi riguarda la sua candidatura alla presidenza della Convenzione indicata nel programma di governo.
Non starò a ripetere quello che è stato già detto da persone non sospettabili di faziosità sulla impossibilità di dare al Cavaliere un ruolo di “terzietà”. Fa ridere la sola idea.
Ma il problema è un altro: creare questa Convenzione non ha alcun senso. Poteva averne quando Bersani la indicò come uno strumento utile per discutere i temi delle riforme costituzionali, distinte da un governo formato dal Pd al di fuori della logica delle larghe intese. Ipotesi rivelatasi ben presto irrealizzabile. Ma ora non ha senso alcuno, espropria le commissioni parlamentari e propone una sorta di Assemblea costituente del tutto sconsigliabile.
Noi non abbiamo affatto bisogno di una generale rilettura critica della Costituzione vigente, tantomeno con l’obiettivo di passare dalla Repubblica parlamentare a quella presidenziale.
Abbiamo bisogno di specifiche e limitate riforme di stretta competenza del Parlamento sulla base dell’articolo 138 della Costituzione: la riforma del senato federale e del bicameralismo perfetto, la diminuzione del numero dei parlamentari, la riforma del finanziamento dei partiti, l’abolizione delle Province.
Questi sono i temi; per realizzarli la prevista Convenzione è una via sbagliata. Ho visto che anche Stefano Rodotà è su questa linea e me ne rallegro.
Ed ora, come disse l’ammiraglio Nelson a Trafalgar, faccia ciascuno il proprio dovere. Lui purtroppo ci rimise la pelle ma la battaglia fu vinta. Noi speriamo che la vinciamo restando in piedi sul cassero della nostra nave che batte le insegne dell’Italia e dell’Europa.

La Repubblica 05.05.13

Fassina «Il Pd punta a lavoro e sviluppo Ma serve un’Europa diversa», di Bianca Di Giovanni

«Non è l’Europa che non va, è questa Europa che non funziona». Stefano Fassina è appena stato nominato viceministro all’Economia. Proprio nel giorno in cui da Bruxelles arrivano gli ultimi numeri della recessione e della disoccupazione nel Vecchio Continente. Qui non si salva nessuno. Eppure si continua a insistere su pareggio di bilancio, su rigore, su procedure d’infrazione. Enrico Letta e il suo governo si dichiarano autentici europeisti. Parlano di Europa come occasione per l’Italia ma da Bruxelles continuano a parlare come gendarmi dei conti. Per di più concedendo più tempo a Francia e Spagna e negando invece flessibilità al nostro Paese.
Onorevole Fassina, c’è un problema tra l’Europa e l’Italia?
«Non è corretto parlare dell’Europa come se fosse un’entità omogenea. C’è l’Europa egemonizzata dai conservatori, quella che oggi ha la maggioranza nella Commissione, nel Consiglio e nel Parlamento. Poi c’è l’Europa dei progressisti, che individua la civiltà del lavoro come fattore propulsivo. L’Italia ha sofferto prima per la scarsa credibilità di Berlusconi, poi per la sostanziale sintonia di Monti con l’egemonia conservatrice. Per questo non siamo riusciti ad affermare il nostro punto di vista, che è l’unico in grado di salvare l’Unione europea, l’unico che punta allo sviluppo».
Crede che Saccomanni sia molto diverso da Monti?
«È molto diverso il governo in cui Saccomanni ha l’incarico di ministro dell’Economia, è diverso il contesto in cui agisce e anche quello europeo. Persino un ultraortodosso come Olli Rehn ha messo in discussione l’austerità, questo vuol dire qualcosa. Ci sono le condizioni per una correzione di rotta. Il fatto che il governo italiano oggi sia sostenuto da un’ampia maggioranza è un punto di forza». Oggi Rehn continua a chiedere riforme strutturali.
«Con questa storia delle riforme si cerca di coprire il fallimento delle politiche di austerità. Dopo 5 anni di manovre, l’Europa è più indebitata di prima, e si continuano a invocare mitiche riforme strutturali. Certo, l’Italia ha bisogno di un nuovo fisco e una pubblica amministrazione più eficiente, ma la priorità di oggi è la domanda interna. Se continuiamo a insistere con il rigore di bilancio e le riforme andiamo a sbattere, sul piano economico e sulla tenuta democratica».
La coabitazione Pd-Pdl non è facile. Come ne uscirà il Pd?
«Dipende dai risultati del governo. Un punto fondamentale è comprendere che si tratta di un compromesso tra due visioni, due programmi, due progetti e tra interessi che sono alternativi. Ne usciremo indicando chiaramente quali sono le posizioni e quali i compromessi accettabili. È stato molto più dannoso quanto avvenuto con il governo Monti, perché si proponeva come unico programma possibile la linea conservatrice prevalente in Europa. Oggi dobbiamo far riconoscere i nostri punti, e ricostruire la politica come terreno di scelta».
Il compromesso in economia somiglia a una compromissione. Si pensi all’Imu. «Prima di tutto dobbiamo spiegare che in un momento d’emergenza si può raggiungere solo una parte degli obiettivi. Al compromesso sul fisco si sta lavorando. Sull’Imu il Pd proponeva una detrazione di 500 euro che esenterebbe il 70% di famiglie. Sarebbe una misura che si iscrive in un quadro in cui bisogna evitare l’aumento dell’Iva e quello dei ticket che scatta a gennaio. Se una famiglia paga 100 euro in meno di Imu, ma 200 in più di Iva, non l’abbiamo certo aiutata. È questo che va spiegato. In questa fase la riduzione delle disuguaglianze si raggiunge favorendo consumi e crescita. Su questo c’è accordo». Sull’Imu però il Pdl riesce a mettere in ten- sione il governo e lo stesso Pd.
«Si tratta solo di propaganda. Quando il governo si sarà assestato e si vedrà la direzione di marcia indicata dal premier. Poi per mille ragioni le posizioni di alcuni si vedono di più di altri».
Il Pd potrebbe arrivare alla scissione?
«No, perché le ragioni fondative del Pd oggi sono più vive che mai. Abbiamo bisogno che le storie e le energie dei riformismi si incontrino per trovare risposte adeguate alla crisi».
Lei non vuole Berlusconi presidente della Convenzione per le riforme.
«Certo, perché serve una personalità che sia punto di riferimento di tutte le forze politiche».
Che ragione c’è di fare la Convenzione?
«Bisogna che un gruppo di lavoro si concentri su questo tema per un certo periodo di tempo, per giungere a conclusioni definite da presentare in Parlamento».

L’Unità o4.05.13

******

“Tagli a Irap e Irpef. Ecco il piano del governo”, di Bianca Di Giovanni

Sul tavolo del ministro dell’economia Fabrizio Saccomanni c’è una lunga lista di richieste, a partire dalla più volte sbandierata eliminazione dell’Imu. Ma quello che si appresta a consegnare in Europa è un piano per la crescita e per il lavoro. Così annunciava ieri una nota di via Venti Settembre.

È già pronta una serie di dossier che rispondono alle richieste dei giovani disoccupati (a cui più volte Enrico Letta ha fatto riferimento) e delle imprese, soprattutto quelle più innovative. Naturalmente c’è la questione risorse da affrontare all’interno della maggioranza. Per ora si parte dai 7 miliardi che garantirebbe la flessibilità europea una volta usciti dalla procedura d’infrazione (che sembra vicina), così come prevedono le nuove regole sul patto di Stabilità.

Ma altre risorse potrebbero arrivare in primo luogo dalla revisione delle agevolazioni fiscali (2-3 miliardi) e dalla riorganizzazione della macchina dello Stato, che porterebbe risparmi ma soprattutto crescita.

Un’ipotesi allo studio è quella di raddoppiare la deduzione Irap già introdotta nel Salva-Italia, che a sua volta riprendeva gli sconti voluti da Romano Prodi con il taglio del cuneo. Costerebbe un miliardo, e andrebbe a tutto vantaggio delle imprese e dei lavoratori under 35, delle donne e dei disoccupati del sud.

Le norme prevedono infatti una esenzione di 10.600 euro per ogni occupato a tempo indeterminato di sesso femminile o sotto i 35 anni. A Sud il contributo arrriva oggi a 15.200 euro. In questo modo le imprese risparmierebbero e si favorirebbe l’occupazione stabile. Nel Salva Italia è anche previsto che le aziende possono dedursi interamente l’Irap pagata sul costo del lavoro dall’Ires e dall’Irpef. Con un incremento che va dall’attuale 10% al 100% le imprese godranno di uno sgravio stimato in 1,5 miliardi annui per il triennio 2012-2014. Il cuneo tuttavia potrebbe essere abbassato anche con una manovra generalizzata sull’Irpef, evitando la segmentazione del mondo del lavoro che in questo momento è tutto in sofferenza. Per questo si studia i, taglio di un punto della prima aliquota Irpef, cioè quella dei redditi fino a 15mila euro, dal 23 al 22%. Lo aveva già proposto Vittorio grilli nella sua ultima legge di Stabilità, poi modificata per evitare in parte la stretta sull’Iva. Questa mossa ha il vantaggio di favorire sia le imprese, che le famiglie di ceto medio-basso, molto colpite dalla crisi.

Insomma, sarebbe un modo per favorire la domanda interna e i consumi, in calo da troppo tempo. L’operazione costerebbe circa tre miliardi. Grilli aveva sforbiciato anche la seconda aliquota (da 15mila a 28mila euro di reddito annuo) dal 27 al 26%, per una manovra complessiva di 5 miliardi. Questi interventi ricalcano in sostanza quello che da tempo imprese e sindacati chiedono. Ma per Grilli dovevano essere finanziati dall’aumento Iva, il cui incremento invece Letta vuole stoppare. Il costo è pesante: 2,1 miliardi quest’anno e il doppio l’anno prossimo.

E infine c’è l’Imu prima casa, che da sola costa 4 miliardi. Si sa che l’Imu è una priorità del Pdl, che comunque pretenderà un intervento se non di abolizione, comunque di «superamento» come dice Letta. L’ipotesi di creare un’unica tassa comunale che includa tutti i servizi potrebbe non portare vantaggi ai cittadini, o al contrario potrebbe svuotare le casse dei Comuni. A questa «lista» bisognerà aggiungere tutte le spese indifferibili, come la Cig in deroga (almeno 1,5 miliardi da aggiungere alle risorse già stanziate), gli esodati, le missioni all’estero. Il «tetto» di 10 miliardi si sfonderà sicuramente. Ma in questo caso molto dipende dai tempi di attuazione delle misure. Per ora i margini non esistono.

A giugno potrebbero «spuntare» 7 miliardi di flessibilità dalle regole del nuovo patto, inoltre si guadagnerebbe più flessibilità nel cofinanziamento dei fondi europei 2013-15. A settembre, dopo le elezioni tedesche, l’Italia potrebbe puntare alla cosiddetta «golden rule», cioè l’esclusione delle spese per investimenti dal computo del deficit, magari con un pressing sulle istituzioni europee da effettuare insieme a Francia, Spagna (che hanno ottenuto più tempo per il taglio del deficit), altri Paesi periferici, e magari (perché no?) l’Olanda, che si ritrova con i conti in disordine.

Naturalmente ottenere tutto questo non è facile per un paese con un debito al 127% del Pil. Ancora ieri Olli Rehn è tornato a chiedere all’Italia riforme strutturali. Qui entrerebbe in gioco una vera spending review, cioè non più tagli lineari, ma una riorganizzazione e innovazione di tutta la macchina pubblica, con risparmi di circa 2 miliardi e benefici per la crescita.

L’Unità 04.05.13

"Le favolette di Travaglio su Grillo", di Cristoforo Boni

Tra le favole di Marco Travaglio la più stupida è quella su Beppe Grillo, che generosamente ha tentato in questi due mesi di formare un governo Pd-Cinque stelle e che, poveretto, è stato travolto dalla ferrea determinazione all’«inciucio» di Bersani, Letta e Berlusconi. Travaglio l’ha raccontata su il Fatto del primo maggio scorso. E, nel disperato tentativo di rendere credibile l’asino che vola, ha anche accompagnato la storiella con dolci rimproveri al suo leader di riferimento, che dimenticò – errore veniale, s’intende – di ordinare ai suoi capigruppo di pronunciare i nomi di Settis, Zagrebelsky e Rodotà (nomi che pure avevano «in tasca») nel secondo giro di consultazioni al Quirinale, quando avrebbero potuto mettere a verbale la disponibilità ad un governo di coalizione.
Travaglio sa bene quanto costano al Pd le sconfitte subite in queste settimane, comprese quelle inflitte dalle divisioni interne, e su questo tenta di lucrare da par suo. Ma avverte un’insidia nelle ricostruzioni di queste settimane tra le elezioni politiche e quelle presidenziali: affinché a pagare sia solo il Pd, è necessario occultare, anzi capovolgere, atti e intenzioni dei Cinque stelle. La verità è che Grillo non ha mai avuto la minima intenzione di partecipare, né di collaborare, né di favorire un governo senza Berlusconi. Lo dimostrano tutti gli atti formali compiuti prima al Quirinale, poi alla Camera durante il tentativo di Bersani.
Grillo aveva diverse possibilità di indebolire Berlusconi e ridurne il potere contrattuale. Non l’ha fatto. E non certo per distrazione. Se avesse adottato il «modello Sicilia» – un esecutivo diminoranza del centrosinistra, che cerca in Parlamento i numeri sui singoli provvedimenti – avrebbe consentito la nascita del governo Bersani, pur senza entrarvi. Se avesse posto come condizione un diverso presidente del Consiglio, avrebbe potuto dirlo in occasione dell’incontro al Quirinale, o farlo dire ai suoi nell’incontro in diretta streaming con Bersani: il segretario del Pd si era detto pronto al passo indietro.
Se Grillo avesse cercato un governo organico con il Pd, sia pure con un premier esterno, avrebbe dovuto semplicemente dichiararlo in una sede ufficiale (ma, al di là delle balle di Travaglio, non l’ha mai neppure pensato). In realtà Grillo ha perseguito una ed una sola strategia: rendere il governo Pd-Pdl una necessità. Il potere che gli elettori gli hanno conferito, lo ha utilizzato per favorire Berlusconi e il suo potere d’interdizione sul Pd. Il suo è stato un vero e proprio «patto» con ilCavaliere, sebbene i calcoli e le convenienze siano opposti.
Naturalmente, persino Travaglio si sarebbe vergognato a raccontare la sua favoletta, se la vicenda di queste settimane non avesse incrociato le drammatiche, sconcertanti convulsioni del Pd durante le elezioni presidenziali.
Ma il fatto che il Pd e i suoi gruppi parlamentari non meritano giustificazioni per l’accaduto, non basta a trasformare una balla in una verità. Il nome di Stefano Rodotà, figura prestigiosa della sinistra, non è stato lanciato da Grillo per costruire una maggioranza di governo che a lui, in tutta evidenza, fa orrore. È stato lanciato per dividere, per colpire il Pd. E l’impresa è in parte riuscita. Se avessero voluto costruire qualcosa, checché ne dica Travaglio, i Cinque Stelle avrebbero votato Romano Prodi alla quarta votazione. Con i 160 voti del M5S Prodi sarebbe stato eletto presidente e Berlusconi avrebbe subito una sconfitta cocente. Ma Grillo non vuole che Berlusconi perda. Vuole giocare di sponda con il Cavaliere per colpire il Pd e la sinistra. È questa la sua priorità strategica.

L’Unità 04.05.13

"Quattro risposte sull'Europa", di Ulrich Beck

Il prefisso “post” è la parola-chiave del nostro tempo: postmoderno, post-democrazia, costellazione post-nazionale. “Post” è il bastone per ciechi degli intellettuali – la piccola parola del grande disorientamento che regna ovunque.
Lo spettro della “post-grande nation” si aggira per la Francia e per l’Europa. La narrazione del ruolo peculiare della Francia in Europa e nel mondo, che ha formato l’autocoscienza della grande nation a partire dal 1945, perde il suo senso storico. All’interno l’orgoglio francese si fondava sul “modello sociale” dello Stato forte e centralizzato. L’industria dell’energia nucleare organizzata e controllata dallo Stato era considerata il museo del futuro, nel quale potevano essere ammirate le conquiste del progresso dello Stato moderno. Nella politica estera la potenza globale della Francia era costruita sulla base della posizione eccezionale del Paese nell’Unione Europea e perpetuata nel motore franco-tedesco dell’europeizzazione. La forza persuasiva di tutti e tre questi progetti viene meno. Il modello sociale è eroso poiché il regime neoliberista del mercato mondiale domina ovunque. La catastrofe di Fukushima che cova ancora sotto la cenere ha spezzato l’orgoglio nucleare dei francesi. E non c’è bisogno di ripeterlo: l’Unione Europea versa in una crisi profonda. Di più: l’idea che le faccende europee vengano regolate in una coalizione franco-tedesca dominata dalla Francia viene messa in crisi non soltanto dalla cattiva performance politica della Francia, ma soprattutto anche dal fatto non più dissimulabile che la politica di risparmio viene progettata a Berlino e che “Merkiavelli” detta legge in Europa. Nello stesso tempo, però – ecco la schizofrenia – essa si rifiuta di assumere la responsabilità per il bene comune europeo.
Sicuramente, il primo anno del presidente François Hollande è stato deludente. Ma questo comporta forse il pericolo che il presidente debba finire sotto la ghigliottina, come suggerisce Le Point?
Certo non si può dire che in questo primo anno la fortuna abbia baciato il presidente. Occorre riconoscere che egli ha quasi sistematicamente deluso le aspettative suscitate nella campagna elettorale. Dopo essere stato eletto per respingere l’isteria della politica del risparmio e per fare accomodare alla cassa i ricchi, non è riuscito – almeno finora – a fare né l’una né l’altra cosa. Il governo si è dedicato a praticare tagli drastici al bilancio. Nel frattempo la tassa sui ricchi è diventata una farsa dopo che la Corte costituzionale l’ha respinta e lo scandalo Cahuzac ha diffuso il suo devastante messaggio sulla doppia morale dei governanti.
Tuttavia, il desiderio dei commentatori, nutrito da un misto di disorientamento e disperazione, di decapitare François Hollande sulla ghigliottina dei titoli di giornale, è del tutto esagerato ed eccessivo. Gideon Rachman, confrontando la situazione della Francia con quella della Gran Bretagna e dell’Italia, giunge alla conclusione che la Francia non sta poi così male. Il deficit di bilancio di quest’anno ammonterà al 3,7%, mentre quello della Gran Bretagna corrisponde al 7,4%. Il saldo passivo della Francia ammonta ora a più del 90% – ma il debito italiano è più del 125%. Il tasso di disoccupazione è dolorosamente aumentato al 10,6%, ma in Spagna ha raggiunto un insostenibile 26%. A differenza dalla Spagna e dall’Italia i francesi possono ancora ottenere crediti a tassi convenienti. E l’economia francese è pur sempre la quinta del mondo. Hollande non entusiasma e attualmente la sua presidenza è turbata da incidenti di percorso. Ma è indubbiamente intelligente, serio ed è consapevole che la Francia deve reinventarsi in Europa e nel mondo globalizzato.
Quando le tempeste dei rischi globali scuotono un paese, sono possibili tre reazioni: la ritirata, l’apatia o la trasformazione. La prima – la ritirata – è tipica dell’alleanza tra la cultura moderna e il nazionalismo. I rischi vengono negati. E si noti il paradosso: il nazionalismo è diventato nemico delle nazioni europee perché non fa che acuire tutti i problemi delle nazioni e dell’Europa. Nelle ultime elezioni presidenziali in Francia il nazionalismo di destra e quello di sinistra hanno ottenuto circa il 30% dei voti – e, stando ai sondaggi, sono ancora in crescita. Qui sta la vera sfida per la Repubblica francese! Non vedo nessuno oltre al presidente Hollande, attualmente così in difficoltà, in grado di superarla e di salvare la grande nation.
La seconda reazione – l’apatia – è il nichilismo postmoderno, che in tutti i paesi ha radici più profonde della disillusione nei confronti della politica attuale, benché le élite politiche abbiano perduto in misura spaventosa qualsiasi credibilità agli occhi di molti cittadini.
La chiave per la terza risposta, la trasformazione, sta nel futuro dell’Europa – e non
nella tentazione di cercare una via di fuga nei grandiosi e turbolenti passati nazionali. Come potrebbe presentarsi questa visione del futuro europeo? Al riguardo è necessario un dibattito in tutta l’Europa: qual è il senso e lo scopo dell’Unione Europea? L’Unione Europea ha poi un senso? Perché l’Europa? Perché non il mondo intero? Perché la Francia non può starsene per conto suo, o perché non possono starsene per conto loro la Germania, l’Italia, la Spagna, la Grecia, eccetera? Per avviare questo dibattito estremamente urgente, vorrei abbozzare (per punti) quattro risposte parziali.
Il primo senso e il primo scopo dell’Ue, che sta riacquisendo importanza, consiste nell’esperienza per la quale i nemici sono diventati vicini; non sempre buoni vicini, magari vicini che litigano, si ignorano, coltivano stereotipi, ma non più spauracchi. Sullo sfondo della storia di violenza dell’Europa, di questa “storia clinica di folli” (Gottfried Benn), tutto ciò equivale a un miracolo. Occorre fare molta attenzione affinché l’ortodossia della politica tedesca del risparmio imposta all’Europa e i riflessi antitedeschi non continuino ad acuirsi. Per questa via, alla fine i vicini potrebbero ridiventare nemici.
Il secondo senso e scopo dell’Europa può essere sviluppato come risposta alla globalizzazione. L’Europa è una polizza di assicurazione contro il pericolo che le nazioni europee scompaiano nel buco nero dell’irrilevanza. Il futuro delle nazioni europee può essere riconquistato solo nell’Europa, non contro di essa. Una Francia post-europea sarebbe una Francia perduta, una Germania post-europea una Germania perduta, una Spagna e un’Italia post- europee una Spagna e un’Italia perdute, eccetera.
Il terzo senso e scopo può essere riassunto in questa formula: il futuro dell’Europa
sta nella risposta ai rischi globali. Il modello della modernità nazional-statale e industrial- capitalistica, che l’Europa e l’Occidente hanno imposto a tutto il pianeta, si è rivelato difettoso, anzi, autodistruttivo. L’Europa (per riprendere una metafora del sociologo francese Bruno Latour) si trova nella situazione di un’azienda automobilistica che constata che i suoi modelli di punta hanno freni malfunzionanti e producono emissioni di anidride carbonica nocive per la salute dei guidatori e dei passeggeri. Cosa fa l’azienda? Ritira il suo prodotto! L’Europa deve riportare in un’officina di riparazione il suo modello di modernità autodistruttiva – ossia: ripensarlo e ricollaudarlo politicamente.
La mia quarta risposta alla domanda sul senso e lo scopo dell’Europa vuol essere un sussulto liberatorio, per così dire. Tutti si interrogano sull’Europa, ma nessuno ribalta da capo a piedi la domanda sull’Europa. Non dobbiamo soltanto riflettere sulla visione di un altro futuro europeo, ma anche sulla visione di una “altra nazione”: come si possono liberare dall’orizzonte del XIX secolo e come si possono aprire al mondo cosmopolitico del XXI secolo l’autocomprensione della grande nation, del nazionalismo e la categoria dello Stato nazionale democratico? Occorre allora distinguere chiaramente tra un fondamentalismo nazionale non-patriottico, che si rifugia nella nostalgia e si chiude all’Europa e al mondo, e un nazionalismo cosmopolitico, che ridefinisce i suoi interessi nazionali aprendosi al mondo, nell’alleanza cooperativa con gli altri paesi europei. Che l’Ue abbia un futuro dipende da una Francia europea, una Grecia europea, una Germania, una Spagna, una Polonia, un’Olanda, ecc. europee.
Immaginiamo che in Gran Bretagna gli euroscettici prendano il sopravvento e che la Gran Bretagna esca dall’Ue. I britannici avrebbero allora un senso più chiaro della loro identità? Avrebbero più sovranità per decidere sulle loro faccende? No! Molto probabilmente gli scozzesi e i gallesi rimarrebbero nell’Ue; di conseguenza, si creerebbe una frattura dell’United Kingdom. E la Gran Bretagna – no, l’Inghilterra! – subirebbe una notevole perdita di sovranità, se per sovranità si intende il potere reale di influenzare le proprie faccende e le decisioni degli altri.
Credo che la situazione storica sia assolutamente inequivocabile: l’Unione Europea è in grado di realizzare gli interessi nazionali più di quanto potranno mai fare le nazioni da sole. Perché si affermi questa convinzione, è necessario battersi in Europa per l’Europa.
(Traduzione di Carlo Sandrelli) Dell’autore è appena uscito in libreria
Europa tedesca. La nuova geografia del potere, Laterza. Per un approfondimento di questi temi è anche disponibile il recente volume La crisi dell’Europa, il Mulino

La Repubblica 04.05.13

"Imu: il Paese e la propaganda", di Ronny Marzocchi

Con la nomina di viceministri e sottosegretari si è chiusa la fase di formazione del nuovo governo e si è aperta quella delle scelte politiche, soprattutto in campo economico. Proprio ieri la Commissione europea diramava un quadro a tinte fosche per il nostro Paese. Rivedendo ulteriormente al ribasso le già scoraggianti stime di crescita per l’anno in corso. Con un’economia che ormai da tempo conosce solo la marcia indietro e con davanti agli occhi il dramma di milioni di persone senza reddito e senza prospettive, è davvero curioso che il dibattito pubblico sia monopolizzato dalla cancellazione dell’Imu. Certo, l’imposta sulla casa, così come tutte le tasse, è una gabella sgradevole e la sua introduzione in un contesto di forte crisi economica ha senza dubbio costituito un salasso per molte famiglie. Ma, rispetto ad altre forme di tassazione, l’Imu presenta almeno due vantaggi.

Innanzitutto è molto difficile da evadere, per l’ovvio motivo che è difficile occultare case e terreni. A pagarla sono tutti, sia quelli che conducono una vita da onesti contribuenti sia quelli che abitualmente le tasse tendono a non pagarle. Ed è forse per questa sua caratteristica che è particolarmente odiata. In secondo luogo, l’Imu rappresenta una forma di tassazione che è leggermente progressiva, ovvero tende a colpire proporzionalmente di più i ricchi. Le persone meno abbienti, infatti, difficilmente possiedono un immobile soggetto a tassazione. Quelli che vivono in affitto non pagano l’Imu e le famiglie che sono proprietarie di una abitazione modesta, grazie alla presenza di una detrazione costante, o riescono ad evitare il pagamento dell’imposta o contribuiscono in maniera proporzionalmente inferiore a quanto invece fanno i proprietari di immobili di pregio o di grandi dimensioni. A conti fatti, circa un terzo delle famiglie italiane non paga l’Imu. La scelta di eliminarla totalmente, così come vorrebbe il Pdl, potrebbe essere una opzione praticabile se da Bruxelles arrivasse il via libera all’allungamento dei tempi di risanamento dei nostri conti pubblici, oppure se si trovasse nelle pieghe del bilancio italiano un corposo tesoretto. Non è però questa la situazione in cui ci troviamo. Nonostante le aperture di Olli Rehn e le deroghe concesse ad alcuni paesi, nulla si è ancora mosso per quanto riguarda l’Italia. Di tesoretti non se ne vedono all’orizzonte e l’alternativa per trovare risorse, ovvero un immediato e corposo taglio della spesa pubblica, non sembra essere un’opzione praticabile né per i tempi ristretti – che ci spingerebbero inevitabilmente verso l’ennesimo pacchetto di tagli lineari – né per le conseguenze che questi avrebbero sulla già difficile situazione della nostra economia.

Gli enti locali sono stati messi in ginocchio dai ripetuti tagli ai trasferimenti previsti nelle ultime finanziarie. La scuola e l’università sono da tempo allo stremo e un’ulteriore riduzione degli stanziamenti finirebbe per allontanarci ancora di più dagli obiettivi dell’Agenda Europa 2020. Gli stipendi dei dipendenti pubblici sono bloccati ormai da anni e mostrano una preoccupante erosione del potere d’acquisto. Il fondo per le politiche sociali è stato pressoché azzerato. A questo si aggiungono le emergenze lasciate in eredità dal governo Monti: il problema degli esodati, la cassa integrazione in deroga, le agevolazioni fiscali per rilanciare l’edilizia, il rinnovo dei contratti temporanei per coloro che lavorano nei servizi pubblici essenziali, i contratti di servizio delle aziende pubbliche e le missioni internazionali. Infine, non bisogna dimenticare che per il gennaio 2014 è già in calendario un inasprimento dei ticket sanitari e per luglio di quest’anno un ulteriore aumento dell’Iva di un punto percentuale.

Quest’ultimo vale da solo circa 4 miliardi. Si tratta dello stesso ammontare di risorse che si dovrebbero trovare per cancellare l’Imu di quest’anno. L’Iva però colpisce tutti, ricchi e poveri allo stesso modo. Andrebbe a gravare pure su quel 30% di famiglie che l’Imu non la paga o perché non ha una casa o perché ce l’ha piccola. Soprattutto l’Iva avrebbe un inevitabile effetto negativo sui consumi, azzoppando una ripresa che già sembra lontana e mettendo in ulteriore difficoltà famiglie e imprese del nostro Paese. Evitare l’aumento di questa imposta avrebbe invece ricadute benefiche per tutti. Eppure si parla solo di Imu. Davvero la propaganda di Berlusconi deve valere più dell’interesse generale?

L’Unità 04.05.13

"Tre omicidi in poche ore. Il senso malato del mondo", di Sara Ventroni

Non ce la caveremo con un minuto di silenzio, in nome delle donne. Non ce la caveremo con una corona di fiori o un rosario di nomi sgranato come un bollettino di guerra. La trama è ormai prevedibile, come un format. Una liturgia quotidiana. E le pagine di cronaca nera non sono certo un anticipo di gloria.
Qualcuno piange lacrime asciutte per Ilenia Leone diciannove anni strangolata a mani nude, con i vestiti da cuoca ancora addosso, calati sulle gambe. Il suo corpo senza vita è stato ritrovato in un uliveto silenzioso, a Castagneto Carducci, vicino Livorno.
Qualcuno piange per Alessandra Iacullo, trent’anni, accoltellata alla gola, ritrovata accanto al suo motorino, in un luogo desolato, tra Ostia e Acilia: la Riserva del Pantano.
Periferie. Campagna. Alberi come testimoni muti. Oppure una camera da letto, un salotto, una cucina. La location non conta. È solo una variazione su tema. Lo sanno tutti che l’assassino ha le chiavi di casa. Lascia sempre le impronte, prima del delitto: centinaia di messaggi, telefonate. O qualche livido nero sul braccio. Ma non chiamatelo amore. E non chiamatela passione.
Non ci è concessa alcuna commozione. L’empatia lascia il tempo che trova. E non dobbiamo appassionarci alla saga.
Non ce la caveremo con la foto-tessera di lei che sorride: non immaginava certo che proprio quello fosse il momento per finire nel numero indistinto delle statistiche: ogni due giorni una donna viene uccisa, per mano di un ex marito, un fidanzato geloso, uno spasimante rifiutato, un passante pieno di voglia. E avanti il prossimo.
Non ce la cavermo con un racconto minuzioso del contesto: gli amici che si stringono nel dolore, portando a spalla la bara, e i negozianti dei paraggi che mai se lo sarebbero aspettato. Serrande abbassate. Lutto cittadino.
Non ce la caveremo con un’intervista al fratello dell’assassino o un reportage di costume, infiorato di dettagli sempre più crudeli, perché l’opinione pubblica ha fame di novità. È già assuefatta. E la morte, da sola, non basta più.
Non ce la caveremo con gli esperti. Gli psicologi, i criminologi, gli opinionisti: come se tutto si potesse spiegare con una psiche fragile e labile, una relazione andata in malora, finita con un discreto spargimento di sangue.
Perfino la presidente della Camera, Laura Boldrini donna senza corona e senza scorta – assalita ogni ora da anonime fantasticherie omicide sessiste, si sente in dovere di richiamare l’attenzione come se, al netto dei mitomani messi in conto dal suo ruolo, la questione fosse più che personale.
L’unico gesto possibile – in assenza di risarcimento morale è solo politico. E passa per le parole. Dare un nome alle cose è un buon inizio: non si tratta di uxoricidio o di amore molesto. È femminicidio.
Questa parola nuova di zecca nel vocabolario comune racconta di noi, del nostro Paese, molto di più di quello che vorremmo sapere. È un’espressione che viene da lontano. Ci parla degli uomini che portano i pantaloni, che siedono a capo tavola. Che non conoscono rifiuti.
Femminicidio è un sostantivo che sta sulle nostre spalle contadine, più di quanto la nostra cattiva coscienza possa immaginare.
La morale è ancora la stessa: ti uccido perché non vuoi essere mia, come dovresti essere, per destino e per natura. Mentro ti uccido so che gli altri, un pochino, mi capiranno.
Non possiamo stupirci: fino a qualche anno fa, un marito o un fratello potevano chiedere lo sconto di pena, in nome dell’onore salvato. Le donne erano proprietà privata dei maschi di casa.
Ci giriamo intorno, ma il pensiero inconfessabile è sempre lo stesso. Non esplode all’improvviso. È un senso del mondo. Non si chiama raptus, né amore. Il disegno è lì. Elementare. Come un palinsesto primitivo. Così semplice agli occhi, eppure così difficile da interpretare. L’impeto che precede il gesto violento non viene dal nulla. Non esiste il vuoto della mente.
Nella cronaca nera quotidiana c’è, al fondo, un segreto inconfessabile. Qualcosa che ancora resta da raccontare. Per questo non saremo assolti dal silenzio, ma dalle parole.

L’Unità 04.05.13

"La convenzione ad personam", di Massimo Giannini

La democrazia è limite. Per saperlo non c’è bisogno di aver letto Montesquieu. Perché non si abusi del potere, occorre un altro potere che lo possa arrestare. Il Ventennio di Berlusconi, purtroppo, è una storia di abusi di potere. Una seducente accumulazione di conflitti di interesse e di conflitti tra poteri dello Stato. Esecutivo contro giudiziario, attraverso l’uso strumentale del legislativo. Governo contro organi di garanzia, dal Quirinale alla Consulta. Basterebbe già questo, cioè la pura e semplice cronaca dei fatti di questi anni, per capire e giustificare l’ovvio. E cioè che affidare proprio al Cavaliere la presidenza della Convenzione per le riforme istituzionali e costituzionali è sommamente dissennato. Ha fatto bene Massimo D’Alema a dirlo per primo, in un’intervista al Corriere della Sera, parlando di una candidatura «non inammissibile», ma di una «forzatura inopportuna». E hanno fatto ancora meglio Stefano Fassina e Matteo Renzi a ribadirlo, in una dichiarazione al nostro giornale: «Ora non esageriamo: un conto è fare un governo con il Pdl perché non ci sono alternative, altro è dare la Convenzione a Berlusconi. Non possiamo arrivare a trasformarlo in un padre costituente». Meglio di così non si poteva dire. Ed è significativo che una riflessione così netta e inequivocabile sia arrivata proprio dal sindaco di Firenze, stimato dal centrodestra e non certo sospettabile di appartenere alla schiera degli “odiatori dell’arci-nemico”, cioè degli anti-berlusconiani in servizio permanente effettivo.
Qui non sono in gioco le trite categorie ideologiche del berlusconismo e dell’antiberlusconismo, con le quali troppe volte una propaganda culturale egemone e corriva ha provato a liquidare in questo arco teso del tempo l’alternativa tra destra e sinistra, oppure quella tra sinistra riformista e sinistra radicale. È in gioco la storia italiana di questi anni, che per quanto anomala non si può curvare fino al punto di farla coincidere con la vicenda umana del Cavaliere. Di fronte a un risultato elettorale che non ha prodotto vincitori e vinti, e al “male necessario” di un governo di Grande Coalizione di cui il Cavaliere detiene oggettivamente la golden share, è comprensibile che il leader risorto della destra populista sia irresistibilmente attratto dalla prospettiva di una palingenesi finale, di un riscatto definitivo, etico e politico, che lo ri-legittimi agli occhi del popolo (e non solo del “suo” popolo) e lo proietti finalmente nella dimensione che lui stesso insegue da sempre, e inutilmente: quella dell’Uomo di Stato. Una dimensione che non gli appartiene e non gli è mai appartenuta. Gli è stata semmai più congeniale quella opposta: il campione paradossale e rappresentativo di un’élite in perenne rivolta, il simbolo vivente e combattente, se non dell’anti-Stato, sicuramente di un “altro Stato”.
La Convenzione è già di per sé una scorciatoia impropria verso un’improbabile Terza Repubblica. Non serve nemmeno rievocare i precedenti, infausti perché praticamente improduttivi (dalla Commissione Bozzi in poi) o nefasti perché potenzialmente consociativi (l’ultima Bicamerale). Per fare le riforme basterebbe il coraggio di un Parlamento responsabile e la forza dell’articolo 138 della Costituzione. Ma ammesso comunque che l’Italia di oggi abbia bisogno di uno strumento del genere, affidarne la guida proprio al leader che più di ogni altro ha diviso il Palazzo e il Paese, e che più di ogni altro ha picconato le istituzioni, sarebbe davvero incomprensibile. Per tutti, eletti ed elettori. I “falchi” rinvigoriti della destra berlusconiana reagiscono a sproposito, evocando il veto infamante agli “impresentabili” o parlando di «pregiudiziali inaccettabili». La vera questione è un’altra, e chiama in causa la coerenza e la decenza.
Come ha giustamente ricordato Stefano Rodotà, già nel 2006 il Cavaliere presentò e fece approvare a maggioranza al Parlamento una “sua” riscrittura della Costituzione e della forma di governo, che fu bocciata da sedici milioni di italiani con tanto di referendum confermativo. Come testimoniano le cronache politiche di questi anni, il Cavaliere ha più volte teorizzato la sua idea di “Repubblica presidenziale”, e propugnato l’elezione diretta del capo dello Stato, candidandosi pubblicamente a rivestire anche quel ruolo. Ora, senza alcuna acrimonia personale e politica, e con buona pace del suo Dottor Stranamore per le vicende giudiziarie Niccolò Ghedini, Berlusconi non merita il laticlavio di senatore a vita. Ma meno che mai merita il profilo di padre della Patria, che invece conquisterebbe sul campo se fosse proprio lui a guidare l’organismo deputato alla riscrittura di un gioco democratico che ha troppo spesso manipolato, falsato, stravolto. La “Convenzione ad personam” sarebbe davvero troppo. Persino per questa nuova, stupefacente “epifania” delle larghe intese.

La Repubblica 04.05.13