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"La Rete è lo specchio del nostro tempo", di Gianni Riotta

La rete siamo noi, la nostra vita globale è online, come persone e come cittadini. I nostri affetti più intimi sono su Facebook, il nostro lavoro appare su LinkedIn, le nostre foto non vanno nell’album come una volta ma su Instagram. Leggiamo online, scegliamo online i nostri viaggi, online si matura il dibattito politico e culturale.
Dieci anni fa il mondo digitale ha cambiato la musica, cinque anni fa i giornali, presto toccherà alle università trasformarsi, programmi come i Moocs o Coursera costringeranno gli atenei a confrontarsi con l’istruzione via Internet. Papa Francesco è su Twitter, ieri la Cei si interrogava sull’evangelizzazione online in Italia con una relazione di Monsignor Pompili. Il finanziere e mecenate americano Warren Buffett arriva sui microblog di 140 caratteri, senza tweet non raggiunge ormai l’americano medio.

La rete è specchio del nostro tempo, realtà del XXI secolo. Ci parla di libertà e oppressione, ci fa stampare merci con i printer tridimensionali, ci fa perdere posti di lavoro nei settori tradizionali. Nessuno sfugge al suo onnipresente network. Regolare il web sembra dunque indispensabile, perché nessun Far West resta senza steccati, sceriffi e bounty killer per sempre. Ma regolare la rete senza lacerarla, appesantirla con i piombi di leggi e filtri che ci privino della libertà digitale non è semplice.

Ora la presidente della Camera Laura Boldrini riapre il caso «responsabilità e web» dopo le minacce razziste subite da siti squallidi e pericolosi. Rete aperta non può implicare – come troppi illusi e furbi predicano, per ignoranza o interesse – che ognuno possa, protetto dall’anonimato personale e di website, ricattare, calunniare, infangare, minacciare leader politici e semplici cittadini. Negli Anni Settanta l’informazione italiana impose ai giornali di pubblicare i bilanci, perché conoscendo la proprietà di una testata è più semplice distinguerne gli interessi. Nel web non è così, di influenti siti non conosciamo bilanci, sponsors, proprietà.

Questo è un tema – trasparenza delle testate – su cui lavorare. Il resto, come purtroppo la presidente della Camera scoprirà, è assai complesso. Il blocco delle leggi Sopa e Pipa in America, e il fallimento delle velleità Onu di «regolare il web» lo dimostrano. È ovvio che minacce di morte, ricatti, violenza negli slogan vadano messi al bando dalla rete, ma se ci provate in concreto vedrete che non è semplice come mettere il lucchetto al garage. Ieri due dirigenti del centrodestra, Maurizio Gasparri e Antonio Palmieri, hanno preso sul tema posizioni opposte, Gasparri d’accordo con la Boldrini – che pure è stata eletta con la sinistra -, Palmieri contro.

Perché non si tratta più di dialettica Destra-Sinistra come ai tempi dell’Illuminismo, ma di valutazione sulla natura delle Rete. A Gasparri Palmieri spiega che la Rete non «risiede» in Italia, in America o in nessun luogo, regolarla non è semplice. Perfino i cinesi, che hanno un sistema di censura sofisticato e costosissimo, non riescono a fermare i dissidenti, figuriamoci noi in democrazia con gli invasati.

La presidente della Camera, del resto, denuncia anche i paparazzi che inseguono sua figlia 19enne mentre corre in motorino mettendola a rischio, o i miserabili che cercano di fotografare suo fratello, autistico. Anche gli old media, purtroppo e non solo il web, pullulano di guai, arroganze, materialismi da quattro soldi.

La tecnologia è, e resterà, più veloce del diritto. Le leggi sull’agricoltura e la sua proprietà ebbero millenni per regolare un settore che mutava pochissimo di generazione in generazione. L’industria classica ebbe un secolo, dallo sfruttamento dei bambini al welfare state, per trovare l’intesa con la legge. I primi giornalisti in Germania, dopo Gutenberg, vennero scuoiati vivi, e la loro carcassa impagliata e mostrata nelle fiere a monito contro l’informazione. Ci vollero secoli per una regola democratica ma alla fine arrivò.

Il web, che richiedeva prima un computer da tavolo, poi da borsa e oggi arriva in tasca con i cellulari, muta ogni sei mesi, i social media che scandiscono la nostra vita erano sconosciuti solo dieci anni fa. Oggi l’esercito israeliano e Hamas si insultano a vicenda su Twitter, portando l’odio in tasca a ciascuno di noi. Altro che Paradiso online!

Non è però il web a rendere feroci i siti, è la ferocia che c’è in giro ad animali. A Torino hanno inneggiato in corteo allo sparatore di Roma, come usava con le Br negli Anni 70 e allora il web non c’era. Una legge non fermerà il populismo violento, anche se, certo, chi minaccia online va punito: e fa male, molto, Beppe Grillo a illudersi di guidare la tigre della rete afferrandola per la coda e fingendo di credere che la Boldrini chieda censure. L’ex attore e oggi capo del M5S, che distruggeva un tempo i computer sul palcoscenico, si accorgerà presto che, scatenato, l’Apprendista Stregone non si riesce più a fermare.

Le leggi ci sono e si possono, lentamente, migliorare. Ma alla lunga la battaglia tra Tolleranza e Intolleranza, Equilibrio e Violenza, Ragione e Ricatto online la si vince su valori, argomenti, chiarezza, ideali. Il web non è arma del Male o Scudo del Bene: è il campo di battaglia tra Bene e Male, tra democrazia e populismo irrazionale. La repressione serve in casi estremi ma giorno dopo giorno ci serve una paziente opera di persuasione. Con l’umile consapevolezza che tanti lavoreranno contro e che, a guardare il web di oggi, non ci appare affatto un vincitore certo. Per vincere contro grassatori, razzisti, violenti online una legge non basta, servono intelligenza, forza d’animo e amore per la rete e la giustizia.

La Stampa 04.05.13

“Niente segni di ripresa per l’Italia ma il deficit è rimasto sotto il 3%”, di Andrea Bonanni

Il deficit pubblico italiano è tornato sotto il 3%. Ma per chiudere la procedura di infrazione aperta contro l’Italia, la Commissione vuole garanzie dal nuovo governo che le misure annunciate da Enrico Letta non incideranno sui saldi di bilancio. Anche perché il nostro debito pubblico continua ad ingigantirsi per effetto dello sblocco dei pagamenti della Pubblica amministrazione: arriverà al 131,4% del Pil quest’anno e al 132,2 nel 2014. Ma la priorità assoluta per il nostro Paese, secondo Bruxelles, è recuperare il deficit di competitività in modo da rilanciare le esportazioni, la crescita e l’occupazione.
E’ questo il senso delle previsioni economiche di primavera, che il commissario per gli Affari economici Olli Rehn ha presentato ieri a Bruxelles, dipingendo il quadro di un’Europa ancora in recessione (-0,4 per l’eurozona nel 2013), che allenta
la stretta del rigore ma che vede crescere sia la montagna del debito (dal 92 al 95%) sia quella, ancora più spaventosa, dei senza lavoro (dall’11,4 al 12,2%). Il Tesoro ha subito replicato a Bruxelles: «Il governo illustrerà prossimi giorni «le misure che saranno prese per sostenere la crescita e l’occupazione, pur restando su un sentiero di finanza pubblica sostenibile». Aggiungendo: «I dati della Commissione certificano
che il Paese può contare oggi e per i prossimi anni su un quadro di finanze pubbliche sane».
Secondo le stime della Commissione, l’Italia ha chiuso il 2012 con un deficit nominale del 3%, scenderà al 2,9 nel 2013 e al 2,5 nel 2014: cifre significativamente migliori di quelle pubblicate dall’Ocse. Siamo vicini al pareggio in termini strutturali, come promesso dal governo Monti, con un deficit strutturale che arriva allo 0,5% quest’anno solo per effetto dei pagamenti delle Pubbliche amministrazioni. Tuttavia Rehn rimane prudente. «Questi risultati facilitano una decisione di chiusura della procedura per deficit eccessivo aperta contro l’Italia — ha spiegato ieri in conferenza stampa — ma a condizione che la politica di bilancio sia confermata. Il nuovo governo si è impegnato a confermare gli obiettivi di quello precedente, ma Letta ha annunciato che intende adottare nuove misure per stimolare la crescita. Per questo aspettiamo di conoscerle prima di decidere la chiusura della procedura. Sono in contatto con il ministro Saccomanni per sapere i dettagli e le cifre. Una decisione comunque verrà presa entro maggio».
La Commissione, conformemente a quanto aveva promesso a Monti, è apparsa invece più elastica per quanto riguarda il debito e l’incremento che subisce a causa dello sblocco dei pagamenti: «Sappiamo che l’Italia ha un grosso debito e per questo è importante che continui il consolidamento dei conti pubblici. Ma oggi la principale priorità per il
Paese è migliorare la sua competitività con una serie di riforme strutturali per rilanciare la crescita economica e le esportazioni», ha detto ancora Rehn.
Complessivamente, su venti Paesi che si trovano sotto procedura per deficit eccessivo, tre ne usciranno sicuramente quest’anno: Lituania, Lettonia e Romania. Due, Italia e Ungheria, potranno uscirne se confermeranno gli impegni presi precedentemente. Per gli altri, la situazione non appare certo rosea. La Spagna, con un deficit 2013 al 6,5%, si è vista prorogare di due anni, fino al 2016, l’obiettivo del rientro sotto il 3%. E la Francia con un deficit al 3,9 e in salita, avrà tempo fino al 2015. Anche l’Olanda, campione del partito del rigore, fallisce l’obiettivo di rientrare sotto il tetto di Maastricht quest’anno e potrebbe avere bisogno di una proroga di un anno.
Tra i maggiori problemi di un’Europa la Commissione cita il circolo vizioso tra crisi bancarie e crisi dei debiti sovrani: un mix che ha messo in ginocchio prima l’Irlanda, poi la Spagna e infine l’Olanda e il Belgio. Il ritardo nel mettere in opera una vera unione bancaria, dovuto principalmente alle resistenze della Germania, è considerato da Bruxelles uno dei principali ostacoli sulla via della ripresa. Ai prossimi vertici di maggio e giugno, il pressing su Berlino si farà pesantissimo.

La Repubblica 04.05.13

"Bisogna uscire dall’austerità senza sbandare", di Stefano Lepri

Se c’è spazio per ridurre le tasse, prima tocchi a quelle sul lavoro. Bastava forse il buon senso ad arrivarci, ora ce lo raccomanda l’Ocse con corredo di analisi economiche. Perfino il nuovo Papa parla molto di lavoro. Invece la politica italiana rischia di portarci altrove. Se il lavoro manca, è anche perché le nostre imprese spendono molto per impiegare dipendenti ai quali in tasca arriva poco.

L’Ocse ci avverte che lo svantaggio rispetto agli altri Paesi è maggiore proprio per i lavoratori a reddito più basso; a favore dei quali avevano già suggerito di intervenire i «saggi» nominati dal presidente della Repubblica.

Nel discorso programmatico di Enrico Letta questo punto c’era. Ma l’impuntatura del Pdl, o forse di una parte del Pdl, sull’Imu, rischia di spingere verso un uso assai meno efficace delle poche risorse a disposizione. Tanto più che il voto amministrativo a Roma e altrove fra 3 settimane rende difficile agli altri partiti dire di no.

Ragioni economiche consigliano casomai di alleggerire l’Imu sulle case più modeste, non di toglierla a tutti. Ragioni di buona politica – esposte giorni fa anche dal Foglio, quotidiano vicino al centrodestra – consigliano di utilizzare la tassa immobiliare come prima fonte di finanziamento dei Comuni: i sindaci stanno più attenti a quanto spendono se gli elettori sanno di quali entrate fiscali chiedergli conto.

Sarebbe poi ora di riflettere su dove ci hanno condotto quindici anni di focalizzazione ossessiva della politica sulla questione delle tasse. All’inizio molti avevano sperato che fosse utile a contenere l’eccessiva spesa pubblica. Le cifre invece dimostrano che proprio quando più si ripeteva il ritornello «meno tasse» la spesa è cresciuta.

Sui contribuenti corretti la pressione tributaria non è calata mai; mentre i pretesti e le scappatoie per l’evasione sono aumentati. Ad esempio nel rapporto Ocse di ieri si legge che dall’Iva l’Italia nel 2011 ricavava (in proporzione al nostro reddito che è ovviamente più alto) pressappoco quanto la Turchia, dove l’aliquota principale dell’imposta era più bassa, 18%.

Proprio a causa del peso del passato oggi l’Italia non può reagire alla recessione con un energico calo delle tasse. Siamo arrivati alla grande crisi carichi di troppo debito. Noi stessi, noi italiani, di fronte al rischio di non vederlo più ripagato per intero sposteremmo in massa i capitali all’estero; i severi obblighi europei sono solo conseguenza di una fragilità che è nei fatti.

Non servono nuove manovre restrittive. Oltretutto è caduto il mito che l’austerità esercitasse da subito effetti benefici: quando Mario Draghi ieri ha detto di non averlo mai creduto, con garbo si distingueva dal suo predecessore Jean-Claude Trichet. Ma proprio per non rendere inutili i sacrifici fin qui compiuti, ha aggiunto, bisogna stare attenti a non creare nuovi fattori di instabilità.

Dall’austerità occorre uscire senza sterzare troppo in senso opposto. Tornare ad aumentare il deficit pubblico sarebbe pericoloso. Proposte davvero incisive per tagliare le spese non ne arrivano, quando in teoria una grande coalizione dovrebbe offrire il supporto ideale. Concentrandosi sulla casa – come, da altre parti politiche, sulle pensioni – si insegue un elettorato vecchio, mentre il lavoro manca ai giovani. Con i pochi soldi che ci sono, meglio aiutare chi davvero non arriva alla fine del mese, e invogliare le imprese ad assumere.

La Stampa 03.05.13

"Pd, la sindrome del rigetto", di Gad Lerner

L’episodio di lotta di classe intrapresa nel Pd dai volontari del servizio d’ordine torinese, che al corteo del 1° maggio si sono rifiutati di garantire la tutela dei parlamentari, va al di là della dialettica base-vertice.
I quadri più “fidati” della sinistra torinese – invitando i dirigenti a farsi proteggere dalla polizia anziché dalla struttura militante che in passato tutelò la sicurezza di personalità minacciate dai terroristi come Ugo Pecchioli e Luciano Violante, e che scortava Giorgio Amendola anche quando egli richiedeva “sacrifici senza contropartite” ai lavoratori – denunciano un’incompatibilità culturale senza precedenti: quasi che oggi esistessero non uno, ma due Partiti democratici. Mai prima d’ora avevano rotto una silenziosa disciplina. Si sono dichiarati al servizio dei lavoratori in corteo, ma non di chi dovrebbe rappresentarli. Hanno marciato con gli iscritti autonominatisi “Resistenti democratici” dietro a uno striscione inequivocabile: “No all’inciucio Pd-Pdl”; e con loro invocavano “Congresso libero e subito!”.
Guai a confondere questi militanti del movimento operaio con gli antagonisti che issavano uno striscione recante l’effigie di Luigi Prieti, detestabile apologia della violenza armata. Né li possiamo ascrivere al novero dei grillini che teorizzano l’indifferenza fra destra e sinistra. Diversamente che nel passato, quando si fronteggiarono in varie modalità riformisti e rivoluzionari, moderatismo e estremismo, stavolta la voragine si è aperta dentro al partito, o meglio fra partito e popolo democratico. A Torino come nel resto d’Italia.
È come se i dirigenti del Pd non avessero ben valutato le conseguenze delle procedure democratiche con cui avevano chiamato fino a pochi mesi fa l’elettorato e i tesserati alla partecipazione attiva. Dibattito libero, frequente ricorso alle primarie per sciogliere i nodi politici e selezionare i dirigenti. Con la democrazia non si scherza. Il rigetto diviene inevitabile e incontrollabile quando i dirigenti, anziché rivendicare uno spazio di autonomia decisionale, tramano nell’ombra; e una parte cospicua di loro vota contro Prodi al Quirinale, già considerando obbligata nei fatti l’alleanza di governo col Pdl che respingevano a parole. Doppiezza inaccettabile dacché l’epoca del centralismo democratico è archiviata. Un partito fondato sulla sovranità dei cittadini elettori non può tollerare un cambio repentino di strategia, votato da una Direzione durata meno di tre ore.
Così l’imboscata dei 101 franchi tiratori, nessuno dei quali ha avuto il coraggio di motivare la propria scelta, e la conseguente nascita del governo di coalizione con la destra berlusconiana, ripropongono la categoria (impolitica?) del tradimento. Di ben altro spessore fu il travagliato dibattito sul “compromesso storico” che, a partire dal 1973, preparò nel vecchio partito di massa il varo del governo di larghe intese, tre anni dopo. Le lacerazioni che pure allora si produssero nel popolo di sinistra, in particolare sui temi dell’austerità e dei sacrifici richiesti alle classi lavoratrici, furono certo dolorose. Ma le accuse di svendita e di “imborghesimento” — di tradimento, insomma — giunsero quasi solo dall’estrema sinistra: i militanti del Partito comunista non dubitavano dell’onorabilità dei loro dirigenti, garantita da biografie gloriose e stili di vita condivisi.
Oggi la percezione è drammaticamente mutata, come rivela anche l’ammutinamento di Torino. Non basta il prestigio di Napolitano – l’unico che ha parlato chiaro – a convincere i militanti che si possa/debba rifare il compromesso storico, con Berlusconi al posto di Moro. Non bastano le mezze frasi di D’Alema per giustificare l’affossamento della candidatura di Prodi. Illudersi che la politica segua il suo corso e che alla fine la base “digerirà” anche questo passaggio, significa ignorare non solo le tensioni sociali ma anche le legittime aspettative di condivisione che lo stesso Pd – novello apprendista stregone – ha sollecitato. Come si fa a predicare l’attuazione dell’articolo 49 della Costituzione e al tempo stesso rinnegare una linea politica democraticamente assunta?
“Congresso libero e subito!”, chiedevano il 1° maggio i rivoltosi di Torino. Lo si convochi immediatamente, prima dell’estate, riconoscendo non solo legittima ma preziosa questa richiesta che – per quanto ancora? – giunge dai quadri più generosi, quelli che sacrificano le notti per vigilare sulle feste del partito e che fino a ieri si sentivano in dovere di proteggere i dirigenti, meritevoli di rispetto sia pure nel dissenso. Quel patrimonio di rispetto è stato dissipato, il che renderà ancora più denso di incognite il percorso congressuale. Rimetterà in discussione la tenuta del governo Letta? È probabile. Di certo non sarà indulgente con i responsabili del disastro. Ma chi si illudesse di ridimensionare il travaglio in corso a malcontento sopportabile, non si rende conto che in poche settimane il Pd rischia di perdere il suo popolo. E la sua anima.

La Repubblica 03.05.13

"Come sarà la moratoria dell’Imu nel 2013. In vista del cambio di pelle e di nome", di Raffaella Cascioli

Baretta: possibile una mediazione tra le posizioni di Pd e Pdl. Ocse: «Ridurre le tasse sul lavoro è più importante che ridurre l’Imu». Potrebbe non chiamarsi più Imu, magari avere una soglia di esenzione elevata ed essere strettamente legata ai servizi offerti dal territorio. La soluzione del complicato ruzzle Imu potrebbe essere l’uovo di Colombo. Che consentirebbe a Berlusconi di salvare la faccia, contribuirebbe a placare la smania di visibilità di Brunetta e contemporaneamente a blandire la Lega con la sua pervicace volontà di mantenere le imposte sul territorio, senza per questo scontentare il Pd.

Se infatti l’Imu sembra impegnare la dialettica mediatica della maggioranza (e non) di questi giorni, il superamento dello scoglio dell’imposta sulla casa appare con il passare delle ore e dei giorni non impossibile. Anche se il tema è legato a filo doppio con quelle riforme, tra cui quella fiscale, sul quale il presidente del consiglio Enrico Letta ha battuto fin dal suo discorso di insediamento alla camera.

Tuttavia, prima di sciogliere il nodo dell’Imu c’è la necessità di rivisitare il Def, il documento di economia e finanza, che attualmente è ancora in parlamento dove è slittato per consentire a camera e senato di votare la fiducia al nuovo governo. I deputati di maggioranza si accingono la prossima settimana a votare una risoluzione sul Def che impegni il governo (e quindi il nuovo ministro) a riscrivere il Documento e a ripresentarlo in parlamento entro la fine di maggio. Tuttavia, spiega Pier Paolo Baretta, vicepresidente della commissione speciale di Montecitorio che si scioglierà la prossima settimana con la costituzione delle commissioni permanenti, nella risoluzione sarà chiaro che saranno approvati i saldi attuali del Def.

Un tema questo su cui è intervenuto ieri in parlamento lo stesso ministro dell’economia Fabrizio Saccomanni che ha annunciato la presentazione di «una nota aggiuntiva al Def» perché nel documento siano recepiti «gli obiettivi strategici espressi dal presidente del consiglio». Modifiche che, si è affrettato ad aggiungere Saccomanni, saranno a saldi invariati.

D’altra parte, se per l’Ocse le priorità italiane riguardano la crescita e l’occupazione tanto che «ridurre le tasse sul lavoro è più importante che ridurre l’Imu», per Baretta si può arrivare sull’Imu a un accordo con il Pdl: «Credo che il problema vero sarà la restituzione, non tanto il 2013 e il futuro. Le differenze tra le posizioni di Pd e Pdl ci sono, ma sono gestibili». Per Baretta, che ha lavorato lo scorso anno a stretto contatto proprio con Brunetta per la risoluzione del Def 2012, un punto di mediazione si può trovare: «Noi abbiamo proposto di arrivare a 500 euro di esenzione, che vuol dire togliere l’Imu a quasi il 90% delle prime case, il Pdl di toglierla tutta. In quel 10% di differenza ci sono anche i redditi alti, quindi penso che una valutazione di merito possa essere fatta e una soluzione trovata».

Tanto più che l’Imu potrebbe cambiare nome e pelle. In ogni caso Letta ha chiarito che deciderà insieme alla maggioranza le coperture per i tagli di tasse preannunciati in parlamento: «Ho indicato la direzione di marcia. L’Italia ha una pressione fiscale assolutamente insostenibile, a tutto tondo. In prospettiva la pressione deve scendere, senza però un rilassamento fiscale».

da Europa Quotidiano 03.05.13

“Io, minacciata di morte ogni giorno non ho paura e non voglio scorte ma dico basta all’anarchia del web”, di Concita De Gregorio

Laura Boldrini, seduta alla sua scrivania di Presidente della Camera dei deputati, legge attentamente i messaggi che la sua giovane assistente Giovanna Pirrotta le porge. Sono minacce di morte, di stupro, di sodomia, di tortura. Accanto al testo spesso ci sono immagini. Fotomontaggi: il suo volto sorridente sul corpo di una donna violentata da un uomo di colore, il suo viso sul corpo di una donna sgozzata, il sangue che riempie un catino a terra. Centinaia di pagine stampate, migliaia di messaggi. A ciascuna minaccia corrisponde un nome e un cognome, un profilo Facebook, l’indirizzo di una pagina Internet. Le minacce — tutte a sfondo sessuale, promesse di morte violenta — si sono moltiplicate nel giro di due settimane con il tipico effetto valanga che la Rete produce: al principio erano una decina, qualche sito le ha riprese e rilanciate, i siti più grandi le hanno richiamate dai siti più piccoli con la tecnica consueta: dichiarare in premessa l’intenzione di denunciare l’aggressione col risultato, in effetti, di divulgarla ad un pubblico sempre più ampio. In principio, quasi all’indomani della sua nomina, aveva preso a circolare una foto che a questo punto della vicenda pare addirittura innocente: una donna nuda, in spiagga, indicata come Laura Boldrini e affiancata da commenti machisti. Poi le prime minacce, altre e altre ancora sempre più gravi fino ad arrivare alle ultime, pochi giorni fa: una donna sgozzata, uno stupro. Siti di destra, razzisti e xenofobi, pagine Facebook, di seguito l’effetto macchia d’olio, incontrollabile. Dunque cosa fare?, è l’intatto quesito che si ripropone ogni volta che ci si trova di fronte a messaggi, comunicati, rivendicazioni di una minoranza violenta. Dar loro visibilità e amplificarli, facendo il loro gioco, o tacere, subire, reagire sul piano della denuncia individuale senza offrire un più largo palcoscenico a quelle miserevoli gesta.
«Io non ho paura», mormora la presidente della Camera mentre ascolta questa discussione, i suoi collaboratori attorno a lei. «Nel senso che certo, sì. Ho paura quando i fotografi inseguono mia figlia di 19 anni in motorino, ho paura che possa spaventarsi e avere un incidente, mi si gonfia in cuore. Ho paura quando si appostano sotto casa di mio fratello Enrico, il più piccolo dei miei fratelli, che soffre di una forma grave di autismo. Non capisco come possano farlo, e ho paura per lui. Ma non ho paura io, adesso, di aprire un fronte di battaglia, se necessario. Daremo visibilità a un gruppo di fanatici? Sì, è vero. Ma non sono pochi, sono migliaia e migliaia, crescono ogni giorno e costituiscono una porzione del Paese che non possiamo ignorare: c’è e dobbiamo combatterla. Non posso denunciarli tutti individualmente: è un’arma spuntata, la giustizia cammina lentamente al cospetto della Rete, quando arriva la minaccia è già altrove, moltiplicata per mille. E poi non è una questione che riguarda solo me. Ci sono due temi di cui dobbiamo parlare a viso aperto. Il primo è che quando una donna riveste incarichi pubblici si sca-
tena contro di lei l’aggressione sessista: che sia apparentemente innocua, semplice gossip, o violenta, assume sempre la forma di minaccia sessuale, usa un lessico che parla di umiliazioni e di sottomissioni. E questa davvero è una questione grande, diffusa, collettiva. Non bisogna più aver paura di dire che è una cultura sotterranea in qualche forma condivisa. Io dico: un’emergenza, in Italia. Perché le donne muoiono per mano degli uomini ogni giorno, ed è in fondo considerata sempre una fatalità, un incidente, un raptus. Se questo accade è anche — non solo, ma anche — perché chi poteva farlo non ha mai sollevato con vigore il tema al livello più alto, quello istituzionale. Dunque facciamolo, finalmen-
te».
Sul tavolo della presidente le pagine in cui uomini con nome e cognome, dati a cui corrispondono persone reali, scrivono «ti devono linciare, puttana», «abiti a 30 chilometri da casa mia, giuro che vengo a trovarti», «ti ammanetto di chiudo in una stanza buia e ti uso come orinatoio, morirai affogata», «gli immigrati
mettiteli nel letto, troia». Accanto alla foto della donna sgozzata: «Per i Boldrini in rete ecco l’Islam in azione».
La seconda questione è se possibile ancora più delicata, riguarda i reati commessi via web. Ogni volta che si interviene a cancellare un messaggio, ad oscurare un sito — dice Roberto Natale, portavoce della Presidente — c’è una reazione fortissima della rete che invoca la libertà e parla di censura. Valentina Loiero, responsabile comunicazione: «Al principio abbiamo individuato un sito, di cui è titolare Antonio Mattia, che aveva diffuso la foto di una nudista spacciandola per Laura ed aveva dato il via ai commenti sessisti. Abbiamo informato la polizia postale. La reazione dell’uomo alla visita delle forze dell’ordine
è stata una denuncia di violazione della privacy a cui hanno fatto seguito in rete accuse di abuso di potere, subito riprese da esponenti politici della destra».
Boldrini: «Abbiamo due agenti della polizia postale, due, che lavorano alla Camera, distaccati qui a vigilare sulle moltissime violazioni di cui un luogo istituzionale come questo può essere oggetto. C’è stato il caso della parlamentare del Movimento Cinque Stelle di cui è stata violata la posta personale. C’è il caso di una deputata oggi ministra che non ha più potuto accedere ai suoi social network e teme che a suo nome si possano divulgare messaggi non suoi. Poi ci sono le minacce di morte nei miei confronti. Tutte donne, lo dico come dato di cronaca. So bene che la
questione del controllo del web è delicatissima. Non per questo non dobbiamo porcela. Mi domando se sia giusto che una minaccia di morte che avviene in forma diretta, o attraverso una scritta sul muro sia considerata in modo diverso dalla stessa minaccia via web. Me lo domando, chiedo che si apra una discussione serena e seria. Se il web è vita reale, e lo è, se produce effetti reali, e li produce, allora non possiamo più considerare meno rilevante quel che accade in Rete rispetto a quel che succede per strada». C’è in questi giorni la discussione sulla scorta. «Io ho chiesto di non essere scortata. Non ho paura di camminare per Roma, non ho paura di andare da casa in ufficio. Può accadere qualsiasi cosa in qualsiasi momento, certo, ma questo vale per chiunque. Piuttosto mi pare molto più grave, molto più pericoloso che si diffonda in rete una cultura della minaccia tollerata e giudicata tutt’al più, come certi hanno scritto, una “burla”. Mi sento molto più vulnerabile quando penso che chiunque, aprendo un computer, anche mia figlia, anche i suoi amici, anche i ragazzi giovanissimi che vivono connessi al computer possono vedere il mio volto sovrapposto a quello di una donna sgozzata. Mi domando che effetti profondi e di lungo periodo, fra i più giovani, un’immagine così possa avere».
La campagna contro Laura Boldrini si è impennata all’indomani della sua visita alla comunità ebraica, il 12 aprile scorso. In quell’occasione, incontrando i dirigenti della comunità, ha parlato della necessità di «ripristinare il rigore della legge Mancino» a proposito dell’incitamento al razzismo e all’odio razziale su web. È infatti dell’8 aprile la sentenza di condanna dei quattro gestori di Stormfront, sito web neonazista, condannati per antisemitismo. È la prima sentenza che riconosce un’associazione a delinquere via web: a quella si richiamava Boldrini nel suo discorso alla comunità. Da quel giorno è partita la valanga. Il sito “Tutti i crimini degli immigrati” associa il volto del presidente della Camera alle notizie di reati commessi da cittadini stranieri. “Resistenza Nazionale”, “Fronte Nazionale”, “MultiKulti” e altri indirizzi web diffondono. Poi i fotomontaggi, e le minacce. Dal 28 aprile, dopo la sparatoria davanti a palazzo Chigi, hanno iniziato a circolare centinaia di messaggi che dicono «Dovevano sparare a te», «la prossima sei tu», «cacati sotto, a morte i politici come te». La magistratura è avvertita, le denunce sono partite. «Ma è come svuotare il mare con un bicchiere. Credo che ci dobbiamo tutti fermare un momento e domandarci due cose: se vogliamo dare battaglia — una battaglia culturale — alle aggressioni alle donne a sfondo sessuale. Se vogliamo cominciare a pensare alla rete come ad un luogo reale, dove persone reali spendono parole reali, esattamente come altrove. Cominciare a pensarci, discuterne quanto si deve, poi prendere delle decisioni misurate, sensate, efficaci. Senza avere paura dei tabù che sono tanti, a destra come a sinistra. La paura paralizza. La politica deve essere coraggiosa, deve agire».

La Repubblica 03.05.13

"I fan della pistola", di Francesco Merlo

Le vittime del disagio sociale non sparano mai ai carabinieri e neppure ai politici ma, proprio come ai tempi di Roberto Rossellini rubavano biciclette, oggi rubano il latte in polvere e due polli al supermercato. Così ha fatto un senegalese incensurato.
Senegalese incensurato che un giudice di Monza ha condannato a nove mesi e a una multa di 400 euro, contro un valore complessivo della merce rubata di 28 euro. Ebbene, l’apostolo degli “ultimi” in Italia non è questo senegalese, ma il criminale Luigi Preiti, il balordo disturbato di piazza Montecitorio, un “taxi driver” all’italiana spacciato per eroe della disperazione sociale, e non solo da quell’indegno striscione innalzato a Torino durante la manifestazione del primo maggio. Attenzione: lo striscione non era issato da provocatori professionisti, ma da poveri ragazzi appassionati, loro sì vittime ingenue, succubi di un luogo comune sociologico che ci sta purtroppo avvelenando tutti.
Preiti, che non sarebbe entrato neppure nella galleria degli emarginati di Jannacci, dei Cerutti Gino di Gaber e dei malandrini dei vecchi moli di De André, sta dunque diventando il Che Guevara dell’estremismo senza più l’orizzonte dell’emancipazione sociale. E passi per i soliti mestatori che inneggiano al fucile redentore e aggiornano la vecchia tiritera augurandosi oggi «dieci, cento, mille Preiti» così come ieri si auguravano «dieci, cento mille Nassiriya». Ma non si può guardare un corteo del primo maggio e scoprirvi una ragazza con la faccia pulita, una delle nostre figlie, che espone la foto di Preiti, con la sua pistola abrasa e la sua stecca di biliardo in mano, come noi esponevamo le foto di Marx e di don Milani. Ed è nata in Rete una “Associazione amici di Preiti”, che raccoglie i soldi per pagare le spese non ai carabinieri feriti ma allo sparatore che sarebbe vittima della società cattiva. E non si tratta qui soltanto di quella schiuma che sempre si accompagna alla popolarità dei criminali: in Italia ci sono i fans di Maso e di Vallanzasca, gli innamorati di Amanda e i social club intitolati allo zio Misseri. Preiti è molto di più. Sta diventando il povero criminale che ha sostituito, grazie a una sociologia d’accatto,
nientemeno i banditi di Hobsbawm, i pirati, i briganti, gli indiani come gruppi sociali subalterni e dunque rivoluzionari.
Fin quando l’invocazione ai Preiti armati viene dal professor Becchi, e per giunta durante la trasmissione la Zanzara che birbantemente queste sparate stimola e raccoglie, è solo la banalità di un estremista al quale si può anche non dar peso. Invece di fornire veste accademica e un codice di civiltà al pensiero di Grillo questo docente lo radicalizza e lo rilancia con strampalerie sempre più paradossali. Ma Becchi, che ieri sera si esibiva da Santoro, è solo un bislacco dannoso, uno dei tanti che scatenano il linguaggio. Non ha certo la profondità del ribelle. Spiace invece che per laureare Preiti come un Francis Drake dell’Italia di Enrico Letta sia stato usato anche il codice nobile e autorevole di una certa sinistra, incline appunto al riflesso condizionato della sociologia, sino all’infortunio, alla gaffe prontamente corretta di Laura Boldrini che infelicemente a Portella della Ginestra ha celebrato il primo maggio raccontando appunto Preiti come «la vittima che l’emergenza lavoro ha trasformato in carnefice». Non esiste neppure come ipotesi il povero Cristo che scende dal crocifisso per mettersi a crocifiggere il primo carabiniere che incontra.
Ma il povero ha il diritto di rubare? In Italia si moltiplicano i casi di furtarelli perdonati, di ladri assunti dal derubato come è accaduto in Veneto, c’è persino la vecchietta di Mesagne che a 83 anni ha invitato a cena il ladro che si era intrufolato in casa sua ed è tornata poi a dormire come se nulla fosse accaduto. «Credo che chi è nel bisogno ha il diritto di rubare » ha sostenuto monsignor Pisolato direttore della Caritas diocesana di Venezia intervistato da Gad Lerner. E suor Giuliana Galli, vicepresidente della Fondazione Bancaria Compagnia di San Paolo: «Se una persona ha fame e non ha la possibilità di procurarsi cibo è un suo diritto rubare là dove ce n’è tanto».
Questo è sicuramente un dibattito di sinistra, sintomo di una fisiologia sana. Leggere invece sui muri di Verona «siamo tutti Preiti» è come leggere nella curva sud dello stadio «odio tutti», «voglio essere orfano» «forza Vesuvio». Sono slogan panici e bui, sentimenti degradati in risentimenti, rancori senza più speranza. E forse non è un eroe neppure quel nostro povero senegalese che voleva allattare il suo bimbo anche se moltissimi di noi, al posto del direttore del supermercato di Monza non solo non lo avremmo denunziato ma gli avremmo fornito latte gratis sino alla fine dello svezzamento. Di sicuro è un bene che il dibattito coinvolga anche la magistratura. Il giudice di Monza che ha condannato il nostro senegalese a nove mesi ha infatti applicato il codice. Ma ci può essere giustizia senza quell’umanità compassionevole che lo stesso codice prevede? Il giudice del tribunale di Arezzo Giampaolo Mantellassi per esempio non punisce chi commette un reato se costretto dallo stato di necessità. «Precisiamo — ha spiegato al quotidiano Il Tirreno—: ho assolto persone che avevano rubato per fame. Il codice penale riconosce la differenza tra un furto commesso con dolo e uno commesso per necessità e io applico questa differenza». Ma ha ancora un senso giuridico il cardinale Borromeo nelle vesti di giudice?
Ecco dove porta il dibattito pulito, severo e sereno. Preiti eroe non c’entra, è una mistificazione dettata da una malattia ideologica, da sociologismo infettivo. Tra le facce di Pelizza da Volpedo non ci sono infatti i ceffi alla Preiti, predisposti alla dissipazione del videopoker e del biliardo. La sua è la stessa antropologia dei Vantaggiato, quello che ha messo la bomba nella scuola di Brindisi e ieri ha pianto davanti ai suoi giudici dicendo tra i singhiozzi: «volevo colpire le banche». Proprio come Preiti che voleva, ha detto, «colpire i politici». Quello ha ucciso una ragazzina e questo lascia inchiodato su una sedia a rotelle un carabiniere. Ecco il famoso disagio sociale.

La Repubblica 03.05.13