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"Convenzione, non cambiamo la forma di governo", di Massimo Luciani

La questione, dunque, è ora quella della Convenzione per le riforme. È legittimo istituirla? Ed è opportuno? Di cosa si dovrebbe occupare? E chi dovrebbe guidarla? Sia l’opportunità che la legittimità sono discusse.
Si dice che la Costituzione prevede già uno specifico procedimento di revisione e che il Parlamento ha dimostrato (modificando, ad esempio, il titolo V e la disciplina del bilancio) che si tratta di un procedimento funzionante, che non paralizza le trasformazioni costituzionali. Non solo. Si aggiunge che quel procedimento, essendo una garanzia della Costituzione, non potrebbe essere derogato senza mettere in discussione proprio il sistema delle garanzie, sicché sarebbe illegittimo disegnare un percorso ad hoc, da usare soltanto stavolta. Non sono obiezioni di poco conto, ma non possono essere accolte acriticamente.
Partiamo da una constatazione. La Costituzione repubblicana, sino ad oggi, non è stata oggetto di modificazioni particolarmente felici. La legge costituzionale che ha completamente riscritto i rapporti fra Stato, Regioni ed enti locali non è un esempio di sapienza. E la recente riforma della disciplina di bilancio, sebbene sia, fortunatamente, molto migliore di quanto avrebbe potuto essere stando ai progetti iniziali, ha ottenuto il discutibile risultato di cristallizzare in Costituzione una precisa dottrina economica, che invece è (a dir poco) opinabile, come è normale che sia per i precetti di quella che non è una scienza esatta. Il procedimento ordinario di revisione, dunque, non ci ha garantito più di tanto.
È vero, però, che quel procedimento non può essere modificato in modo tale da ridurre le garanzie di una discussione aperta, di un apporto delle opposizioni e di un adeguato controllo popolare. In caso contrario sarebbe inciso il cuore stesso della Costituzione. La Convenzione, allora, sarà legittima solo a condizione che tutto questo non accada e che il suo apporto offra, anzi, un surplus di garanzie. Qui, la questione della legittimità incrocia quella dell’opportunità. Certo, la Costituzione si può cambiare seguendo il procedimento ordinario. Tuttavia, in un momento come questo, nel quale è facile prevedere che il Governo avrà un percorso travagliato, non sarebbe male mettere la discussione sulle riforme costituzionali (e, mi sembra, anche quella sulla riforma elettorale) al riparo dalle polemiche contingenti sulle ordinarie scelte di indirizzo politico.
E c’è un secondo incrocio, con l’oggetto del lavoro della Convenzione. Qui si deve essere chiari sin dall’inizio. La precarietà degli equilibri politici usciti dalle elezioni di febbraio fa escludere che quella che stiamo vivendo possa essere una vera stagione costituente. Stagioni del genere fioriscono quando si consolidano passaggi epocali e ridislocazioni radicali dei rapporti di forza. Qualcuno è disposto a scommettere che quelli di oggi saranno anche quelli di domani? Meglio un po’ di sano realismo, allora. Meglio prendere atto del fatto che solo alcuni interventi sulla Costituzione sono palesemente indispensabili. I rapporti fra Stato e Regioni, certo, ma anche e forse soprattutto il bicameralismo, autentico fattore di non più sopportabile mancanza di chiarezza nella formazione delle maggioranze di governo (sulla marcia indietro quanto alla disciplina di bilancio non c’è da farsi troppe illusioni). Di questo si discuta. Su questo e ovviamente sulla legge elettorale si intervenga, senza ipotizzare trasformazioni globali della forma di governo che non possono essere disegnate dai protagonisti di un equilibrio politico così precario. Poche cose, insomma, ma decisive.
Solo una volta che si saranno chiariti questi punti sarà possibile ragionare sulla guida della Convenzione. Qui, una cosa è facile da dire. Proprio a causa della funzione di questo organismo, che dovrebbe operare da stanza di compensazione nella quale ragionare a qualche distanza dalla contingenza politica, è da escludere che a presiederla possa essere il leader di uno degli schieramenti presenti oggi nel mercato politico. Si è parlato molto di uno solo di questi leader, ma il problema trascende la sua persona ed è assai più generale. E c’è anche un altro problema. Il PDL rivendica la presidenza della Convenzione. Si tratta di una rivendicazione in astratto legittima, certo, ma in concreto discutibile. Il primo interlocutore della Convenzione, infatti, dovrebbe essere il Ministro per le riforme costituzionali. Il Ministro, però, è un autorevole esponente proprio del PDL. Non so se nelle negoziazioni per il nuovo esecutivo qualcuno abbia dato al PDL una sorta di affidamento sulla presidenza della Convenzione o se sia stato il centrodestra ad equivocare. In ogni caso, così non va, perché è evidente che sarebbe una ben strana interlocuzione quella che si avrebbe fra rappresentanti della medesima parte. Anche qui, insomma, sarebbe bene fare esercizio di realismo. E di ragionevolezza politica.

L’Unità 05.05.13

"Tagli Stipendi statali scontro sul blocco anche per il 2014", di Diodato Pirone

È giusto che i dipendenti pubblici, le cui busta paga sono bloccate dal 2010 a tutto il 2013, non ricevano aumenti anche per il 2014? È questa una delle domande più importanti alle quali il governo Letta dovrà rispondere nelle prossime settimane. Già perché i sindacati, sfruttando uno spiraglio lasciato aperto dalla lunga fase di passaggio fra il vecchio e il nuovo esecutivo, hanno tutta l’intenzione di passare all’offensiva.
Con una piattaforma semplicissima: dopo una quaresima di quattro anni – durante i quali l’inflazione ha fatto scendere di fatto gli stipendi almeno del 7/8% pari in media a 150 euro al mese – non è un sacrilegio tornare a parlare di aumenti. Ma per capire bene cosa bolle in pentola sul fronte delle buste paga degli statali bisogna fare un passo indietro. Durante una delle manovre della terribile estate del 2011, il governo Berlusconi confermò il congelamento fino a tutto il 2013 degli stipendi del pubblico impiego. Una tagliola micidiale. Che, assieme al blocco delle assunzioni, ha portato a un crollo fortissimo della spesa per il pubblico impiego che – va sottolineato – è ancora più forte di quanto appare a prima vista per via dell’inflazione maturata nel frattempo: nel 2010 gli statali sono costati agli italiani 172 miliardi contro i 163 circa stanziati quest’anno.
OBIETTIVO RAGGIUNTO
Insomma, questo obiettivo di riduzione della spesa pubblica è stato raggiunto, persino brillantemente. Ma ora che fare? E’ meglio continuare con il cilicio o è preferibile cambiare registro. Il governo Monti – costretto dalla lunga incertezza politica a presentare i conti in Europa anche per il 2014 – se l’é cavata con un escamotage. Da una parte ha varato un Decreto ministeriale per prorogare il blocco degli aumenti anche per il 2014 stanziando per l’anno prossimo ”solo” 161,9 miliardi per gli statali ma dall’altra – poiché l’iter burocratico di questo decreto è lungo – ha lasciato il tempo al nuovo esecutivo per ripensarci. O, quantomeno, per decidere in autonomia cosa fare. A questo punto il cerino acceso passa innanzitutto nelle mani del ministro del Tesoro, Fabrizio Saccomanni, e di quello della Funzione Pubblica Gianpiero D’Alia. Se decideranno di rinnovare i contratti dal 2014 dovranno trovare i relativi soldi. Quanti? Come minimo un miliardo. Infatti, in media, l’aumento dell’1% dello stipendio di un dipendente pubblico è pari ad una maggiore spesa di 24 euro mensili. Che per 13 mesi farebbero 312 euro a testa. Che per 3,2 milioni di statali farebbero 998 milioni.
I SINDACATI
«La prudenza del nuovo governo sui conti pubblici è del tutto comprensibile – dice Michele Gentile, uno dei responsabili della Cgil Funzione Pubblica – Ma altrettanto opportuno appare l’avvio di un percorso che riporti sul sentiero della normalità i contratti del pubblico impiego. I numeri parlano da soli sui sacrifici che i dipendenti pubblici hanno fatto. Inutile fare retorica. Ma non si può continuare all’infinito sulla vecchia strada». Anche perché, oltre al nuovo contratto, sul tavolo ci sono molte altre questioni spinose, a partire da quella dei precari.

Il Messaggero 05.05.13

"Più investimenti per scuola e università, ma con quali risorse?", di R.P. da La Tecnica della Scuola

Tutti chiedono al neo-ministro un maggiore impegno e più risorse per la scuola. La Flc-Cgil quantifica: ci vogliono almeno 4 miliardi all’anno. Ma il DEF parla di una riduzione della spesa per l’istruzione che dovrà passare dal 4% del PIL (2010) al 3,6% (2015). Come accade ad ogni cambio di ministro, anche questa volta gli appelli per chiedere la soluzione dei molteplici problemi di cui soffre la scuola italiana si sprecano.
L’Anief ha già detto che precariato, organico funzionale e ampliamento del tempo sono le priorità.
La valorizzazione della professionalità del personale scolastico rappresenta per Snals e Cisl-Scuola il punto da cui ripartire, mentre Flc-Cgil fa un conto preciso e chiede un investimento di “4 miliardi annui per allineare la spesa per istruzione e ricerca alla media europea”.
“Le nostre priorità – dichiara Mimmo Pantaleo, segretario nazionale – sono più occupazione, superamento della precarietà, investimenti in infrastrutture, rinnovo del contratto nazionale”.
Senza dimenticare l’obbligo di istruzione a 18 anni e la cancellazione delle norme sulla contrattazione decentrata introdotte a suo tempo dal ministro Renato Brunetta.
E, poiché 4 miliardi non bastano per realizzare un programma del genere, la Flc di Pantaleo ha una proposta concreta: “Chiediamo alla Ministra Carrozza di aprire una larga consultazione pubblica per individuare quelle scelte necessarie a fare della conoscenza il riferimento centrale per cambiare un modello di sviluppo ormai al capolinea”.
Per parte sua il Ministro ha già detto di aver ricevuto dal premier Letta la garanzia che non ci saranno ulteriori tagli alle spese per istruzione, ricerca e università.
Ma il fatto è che per rispondere anche solo in parte alle richieste che provengono dal mondo della scuola non basta smetterla con i tagli, è necessario aumentare le risorse.
Già da tempo il nostro sito ha segnalato che il DEF prevede una ulteriore diminuzione delle risorse destinate alla scuola che dovrebbero passare dal 4% del PIL (anno 2010) al 3,6% (2015). Finora, però, nessuno ha ancora chiarito come questa previsione possa conciliarsi con la possibilità di aumentare la spesa per la l’istruzione o almeno mantenerla ai livelli attuali.

La Tecnica della Scuola 05.05.13

"Scuole materne, posti solo per la metà delle domande", di Alessia Camplone

Si fa la fila persino per entrare nella scuola d’infanzia, la cosiddetta “materna”. E che fila: le liste d’attesa preparate dai Comuni arrivano anche al doppio delle richieste rispetto ai posti disponibili nella scuola pubblica. Roma viaggia sopra le ventimila richieste l’anno, con 11mila famiglie che non sanno se il loro bambino troverà posto. È vero che ci sono genitori che per sentirsi sicuri iscrivono i figli in più scuole, ma per molti non ci sarà nulla da fare: l’anno scorso furono respinte quasi diecimila domande. E con tutta la buona volontà non è bastato aprire 14 asili-nido in più per fronteggiare il fenomeno. Le domande nella Capitale in un anno sono aumentate di mille. Ma la crescita è in tutta Italia: già l’anno scorso l’aumento degli iscritti è stato di 3.146 alunni. Numeri che a livello nazionale sembrano piccoli, ma in tempi di crescita-zero significativi. Al Comune di Milano le iscrizioni alla materna sono state chiuse il 26 aprile. L’amministrazione sta elaborando i dati. Ma intanto il 24 gennaio sono stati stanziati 550mila euro per la convenzione con le private riguardo l’anno scolastico in corso. E le polemiche non mancano. La MaMi, un’associazione di mamme, è arrivata a contestare i numeri della lista d’attesa (652 richieste) sostenendo che erano almeno mille. «Le liste d’attesa nella scuola dell’infanzia sono tornate a crescere a causa del disimpegno dello Stato e dei tagli ai bilanci dei Comuni», sostiene la senatrice del Pd Francesca Puglisi.
SCELTE OBBLIGATE
La scuola d’infanzia, che accoglie i bambini dai 3 ai 5 anni, in Italia non è obbligatoria. E solo sei bambini, su dieci che vanno alla materna, frequenta un istituto pubblico. Per l’altro 40% la scelta – a volte obbligata, se si è in lista d’attesa – è la scuola paritaria (sette su dieci delle quali sono cattoliche, le altre private non religiose). Alla scuola paritaria però, dati i maggiori costi, molti rinuncerebbero volentieri. Le difficoltà economiche incidono anche su queste decisioni delle famiglie, che spesso optano per la materna quando il bambino ha appena tre anni, salvo poi rinunciare al tempo-pieno per evitare i costi della mensa.
I bambini che frequentano la materna sono quasi 1,7 milioni di cui 660mila iscritti alle private. Secondo uno studio della Flc-Cgil sarebbero necessarie 2.500 sezioni in più nel pubblico, e la proposta del sindacato è un piano quinquennale con 500 nuove sezioni ogni anno. Le materne sono in aumento, ma non con questo ritmo: 167 sezioni in più nel 2012, 518 in più negli ultimi 5 anni. Le sezioni pubbliche sono oggi 42.937. «La scuola dell’infanzia deve essere garantita a tutti» dice Mimmo Pantaleo, segretario nazionale della Flc-Cgil.
Il confronto tra pubblica e privata è periodicamente incandescente, ma in questi giorni a Bologna si sfiora la crisi politica proprio sui finanziamenti alla materna paritaria, circa un milione di euro. Bologna ha 27 asili privati, 25 cattolici.
IL REFERENDUM
Il 26 maggio un referendum chiederà ai cittadini se sono favorevoli a togliere il contributo alle private per dirottarlo alle pubbliche. Il sindaco Virginio Merola difende i finanziamenti alle private e polemizza con i promotori del referendum che verrebbe a costare – dice –circa 500mila euro. La metà della cifra che si chiede di risparmiare. Ma anche Bologna, che nella scuola predilige il pubblico (la percentuale nazionale del 60% qui sale all’80%, la più alta in Italia) ha le sue liste d’attesa. Non drammatiche come Roma, ma a settembre i bambini fuori dalla porta erano 463, e a metà aprile gli esclusi erano ancora 103. I posti si liberano per tanti motivi – la scelta delle private, il cambio di città, le rinunce – ma per cento bambini anche a Bologna l’anno è trascorso aspettando invano.

Il Messaggero 05.05.13

"Governo e battaglia politica", di Claudio Sardo

Il Pd ha sbagliato, non ha vinto le elezioni, ha fallito la prova del governo di “cambiamento”, ma tuttavia non può fuggire dalla proprie responsabilità, né voltare le spalle al Paese, né sognare un anno sabbatico mentre la crisi continua a colpire i ceti più deboli e la società chiede di invertire ora la rotta delle politiche economiche. La grande coalizione che sostiene il governo Letta certifica la sconfitta della sinistra, che voleva uscire dallo stato di necessità del governo Monti e invece il suo progetto e le sue alleanze non sono stati capaci di raggiungere l’obiettivo.
Oggi sarebbe però un errore catasfrofico – peraltro un atto innaturale per i riformatori – immaginare che la ri-generazione o la ri-progettazione del Pd possa avvenire in un dibattito separato dai processi reali, dal governo delle emergenze sociali, dal conflitto politico che ancora in larga parte dipende delle torsioni della seconda Repubblica. Per questo il governo Letta è un’opportunità. Ed è una sfida che incrocerà più volte il congresso del Pd: nessuno si illuda che si possa marciare su binari paralleli.
Del resto, come potrebbero essere paralleli? Il Pd è nato anzitutto per dare una risposta alla crisi democratica del Paese, sprofondato a causa dell’impotenza populista. Ha unito i riformisti – cercando di fare sintesi tra l’intuizione dell’Ulivo e l’idea di un partito nuovo – per reagire ai pericoli di rottura dell’unità nazionale, alimentati da una destra incapace persino di darsi una regola democratica interna. Se il progetto si è inceppato, ovviamente, ci sono state colpe e omissioni, che vanno individuate e corrette. L’innovazione politica e il ricambio delle classi dirigenti sono oggi urgenti quanto la riforma delle istituzioni. Ma ciò richiede schiena dritta, umiltà, coraggio, percezione del bene comune e dell’interesse generale, e anche capacità di dare battaglia laddove il cambiamento viene ostacolato. Abbandonarsi alla depressione è una rinuncia.
La battaglia continua. Nel governo e fuori. Nessun cedimento al settarismo. Ma il governo Letta può e deve fare a meno della retorica della «pacificazione». Il collasso della seconda Repubblica non è scaturito dalla mancata legittimazione tra centrodestra e centrosinistra. Discende da un’idea sbagliata di bipolarismo, dal mito populista del premier unto del Signore, dal liberismo egemone, dalle diseguaglianze crescenti, dal conflitto istituzionale permanente, dalla distruzione programmata dei corpi intermedi e dei partiti, dalla drammatica debolezza del capitalismo nostrano (e dalla povertà della sua classe dirigente, sempre in bilico tra tentazioni antipolitiche e raffinate ingegnerie finanziarie a tutela dello status quo). Berlusconi è stato il campione di questa paralisi: non a caso negli anni dei suoi governi l’Italia è precipitata in un declino economico, competitivo, sociale, civile. Questa era ed è la ragione della battaglia politica con Berlusconi, prima ancora del suo gigantesco conflitto di interessi e dei inaccettabili tentativi di sottrarsi alla giustizia. Semmai ci fosse un orizzonte di pacificazione tra Pd e Pdl, questo sarebbe collocato nel dopo-Berlusconi: nella speranza cioè che le riforme possano aprire la strada ad un rinnovamento anche del centrodestra e ad una sua evoluzione democratica sul modello dei partiti europei.
Ma intanto vanno affrontati i problemi drammatici della società. Anche il conflitto con la destra non si svolge in un binario parallelo. Ci sono gli esodati da garantire, ci sono i cassintegrati, ci sono i precari della Pubblica amministrazione a cui scade il contratto. Ci sono le tasse da ridurre, a partire da quelle sul lavoro. Il governo è guidato da un dirigente di primo piano del Pd. Ai vertici delle istituzioni più importanti ci sono donne e uomini del centrosinistra. Nelle Regioni e nei Comuni le responsabilità maggiori sono della sinistra. Si riparte da qui. Basta piangere, perché le lacrime non serviranno come alibi.
Berlusconi dice che l’Imu va abolita, anzi va risarcita pure la tassa del 2012. Bisogna dirgli con nettezza che non è questa la priorità, che l’Imu va risparmiata alle famiglie più povere e ai ceti medi, ma che le prime risorse disponibili andranno investite per un piano straordinario del lavoro. Berlusconi rivendica la presidenza della Convenzione per le riforme. Bisogna rispondergli senza esitare che quel ruolo va affidato non a un leader politico, ma a una personalità in grado di favorire un’intesa: lui, il Cavaliere, ha già troppe volte disfatto le riforme possibili.
Il governo di grande coalizione nasce da una responsabilità istituzionale, ma non è l’eliminazione della diversità. Così vorrebbero coloro i quali lucrano sul dualismo tra politica e antipolitica, tra partiti e società civile. Ma proprio queste teorie – che peraltro favorirono vent’anni fa l’ascesa di Berlusconi – costituiscono l’impasto culturale, per opporsi al quale il Pd è nato. Berlusconi oggi porta i suoi affondo per esigenze elettoralistiche e per mettere alla prova la tenuta del Pd: guai a spaventarsi. Il centrosinistra non deve retrocedere dalla sua responsabilità verso l’Italia, né concedere al Cavaliere ciò che non gli spetta, né fare sconti di alcun tipo sul principio di legalità: Berlusconi faccia pure cadere il governo, se non gli aggrada. Enrico Letta, ritirando le deleghe alla sottosegretaria Biancofiore, ha dimostrato forza e serietà. Il Pd faccia altrettanto. Nei ministeri, in Parlamento e nel percorso congressuale che comincerà sabato con l’elezione del nuovo segretario.

L’Unitò 05.05.13

"E ora Stati generali in difesa delle donne", di Concita De Gregorio

Forse ci siamo. Proprio perché è un’epoca in cui essere ottimisti è insensato, bisogna esserlo. Più flebile è il tempo più forte la voce e la responsabilità di ciascuno. Forse ci siamo. Forse questa volta la violenza quotidiana contro le donne – diffusa, tollerata, alimentata dal dileggio condiviso, dall’abituale grevità del lessico, dalle parole prima che dai gesti – ecco forse ora questa vergogna la si può guardare negli occhi e chiamarla col suo nome: una colpa collettiva, ognuno si senta offeso.
Con grande coraggio Laura Boldrini, presidente delle Camera, ha toccato un tabù sapendo di farlo, senza paura delle conseguenze. Ha detto: contro le donne l’infamia dell’insulto è diversa, è sessista. Anche la minaccia di morte passa dal sesso: dall’umiliazione, dalla sottomissione. Contro le donne corre sul web un fiume di parole a lutto che il mezzo – la Rete – diffonde velocissimo e in quantità incontrollabile. Possono essere a migliaia contro una: difficili da trovare, infidi, nascosti. Fermiamoci a parlarne: una discussione ferma e serena, ha chiesto. Seria.
Hanno risposto a decine, poi centinaia, ieri. Le donne che possono cambiare le cose hanno detto: ci siamo. Il ministro Josefa Idem ha annunciato la creazione di un osservatorio sulla violenza contro le donne costituito dai dicasteri di Pari opportunità, Interni e Giustizia. Il ministro Cécile Kyenge ha detto: studiamo una legge. Hanno detto ci siamo, in varie forme, Emma Bonino, la presidente della Rai Tarantola, il segretario della Cgil Camusso. E poi uomini, tanti. Ecco: uomini. È questa la novità. Ieri sera lo spettacolo teatrale “Ferite a morte” era di scena a Marsala. Un test di Serena Dandini e Maura Misiti che da mesi si rappresenta in tutta Italia. Monologhi di una Spoon River delle donne uccise. Come Ilaria, Alessandra, Chiara. Le ragazze assassinate negli ultimi tre giorni. Uccise dal malamore, gramigna che si traveste da amore. Da Marsala è partito un appello al governo. Facciamo subito gli Stati generali sulla violenza contro le donne, anche quella sul web. Subito. Tra i primi a firmare sono stati alcuni uomini. Riccardo Iacona, Gustavo Zagrebelsky, Ezio Mauro, Gianantonio Stella. Poi, certo, tutte le donne che in questi mesi sono salite sul palco di “Ferite a morte”. All’ultima replica, a Roma, Laura Boldrini era in sala ad applaudire, Emma Bonino sul palco a recitare. Ilaria Borletti Buitoni dietro le quinte. Se tutta l’energia di quelle sere, di quei palcoscenici si riversasse davvero nell’azione, ecco, allora sì. Allora forse ci siamo, questa volta possiamo partire e cambiare davvero.

La Repubblica 05.05.13

"Storia di un’italiana", di Massimo Gramellini

Nadira è nata in Algeria da madre turca e padre mezzo tedesco e mezzo berbero. Quando le chiedono di che razza è, risponde: umana. Suo padre, Rachid Haraigue, ha combattuto il colonialismo francese e poi l’integralismo islamico, da presidente della Federcalcio algerina aprì alle donne gli stadi, ma soprattutto gli studi: chiamava la cultura «il passaporto delle algerine per il viaggio verso la libertà».

Si è preso tre pallottole nel cuore, alle otto di un mattino di gennaio. Ma prima era riuscito a far prendere a Nadira quel famoso passaporto. La laurea, il concorso, la borsa di studio per un master dell’Eni a Milano. Nadira ci è arrivata senza un soldo e senza sapere una parola della nostra lingua: la studiava di notte, cenando con lo yogurt risparmiato alla mensa di mezzogiorno. Si è piazzata fra i primi dieci, è stata assunta e si è innamorata di uno degli altri nove. Oggi ha una famiglia e una identità italiane. A tre anni suo figlio sapeva già l’inno di Mameli a memoria e ovviamente glielo aveva insegnato lei, che per l’Italia nutre la passione cieca e assoluta degli amori conquistati con fatica. Ogni volta che c’è un attentato, come quello al carabiniere di Palazzo Chigi, le si risveglia dentro qualcosa di tagliente e pensa al padre, a Falcone e a Borsellino: i suoi eroi.

Il bambino di Nadira ha mille sfumature nel sangue, una più di lei, che nella lettera più patriottica che abbia mai ricevuto scrive: «Credo in un Paese dove neri, omosessuali, atei, cristiani, musulmani ed ebrei possano vivere senza essere insultati. Dove una donna nata in Congo possa diventare ministra senza essere insultata».

La Stampa 05.05.13