Latest Posts

"Letta-Merkel, botta e risposta e due visioni dell’Europa", di Matteo Tacconi

No, non è stato affatto interlocutorio, il primo incontro tra Enrico Letta e Angela Merkel, avvenuto nel giorno stesso in cui il presidente del consiglio ha incassato la fiducia al Senato. Già dalla conferenza stampa che ha preceduto la cena di lavoro sono emerse due diverse visioni di Europa.
Non certo complementari. Ma ci si può lavorare. Il presidente del consiglio, dopo un alleggerimento tattico («le chiederò consigli su come si guida una grande coalizione»), ha spostato con insistenza l’accento dall’austerità alla crescita in linea con il programma indicato in parlamento, con l’idea di sensibilizzare Merkel. Che dal canto suo ha ribadito che le due cose devono procedere di pari passo. Come a dire: meglio tenere d’occhio i conti, prima di chiedere che l’Europa cambi marcia.
Ne è uscito un botta e risposta in cui entrambi hanno mantenuto fissa la barra. Riportiamo alcuni scambi (non necessariamente in ordine cronologico). Letta: «Non vogliamo un’Ue che permetta di fare più debiti a chi li vuole fare. Terremo i conti in ordine, ma vogliamo anche puntare sulla crescita». Merkel: «Le finanze solide sono la condizione per la crescita. Crescita non significa solo ottenere qualcosa dallo stato, ma pensare a ricerca, competitività, innovazione». Prima le riforme strutturali e poi si vedrà, in altre parole.

Letta, poco prima, aveva invece specificato che l’austerity genera il rischio che «nelle nostre opinioni pubbliche» possano trovare spazio «movimenti anti-europei». Aggiungendo che «il messaggio dell’elettorato italiano non deve essere sottovalutato». Possibile riferimento al partito anti-euro (Alternativa per la Germania) battezzato in vista delle elezioni di settembre? Forse sì, forse no. Comunque sia l’esito di questo incontro tra Merkel e Letta (che oggi e domani sarà a Parigi e Bruxelles) era abbastanza prevedibile. Prima della conferenza stampa di ieri il germanista Angelo Bolaffi, ex direttore dell’Istituto italiano di cultura a Berlino, aveva spiegato aEuropa che i due non avrebbero trovato subito la “chimica”. «Ci sono diversi fattori – così Bolaffi – che inducono a pensare che la comunicazione con la Germania non sarà così semplice. Da un lato l’Italia esce da due mesi di crisi istituzionale, che si aggiunge alla precaria situazione economica. Dall’altro, il nostro governo deve ancora verificare la sua capacità reale di tenuta. Infine, non va scordato che i tedeschi ricordano perfettamente che alle ultime elezioni la maggioranza degli italiani ha dato il voto a forze politiche euroscettiche. Ecco, in questo contesto mi sembra un po’ rischioso andare a Berlino e porre l’accento sull’allentamento dell’austerità». Sulla cui implementazione in salsa italiana (Imu, Iva, sgravi) Letta non intende entrare nei dettagli con la cancelliera. A Berlino ha portato l’impegno a non infrangere le regole di bilancio, il resto è una faccenda di casa nostra. S’è espresso così il presidente del consiglio.

Fin qui verrebbe da dire che l’appuntamento tra Enrico e Angela non è stato così entusiasmante. Eppure c’è qualcosa di cui rallegrarsi. «Visto che senza il filo diretto Roma-Berlino l’Ue non riesce a funzionare, è importante – sostiene Bolaffi – che Italia e Germania si siano tornate a parlare. Ne abbiamo bisogno, dopo l’interludio tecnocratico di Monti e l’ultimo governo di centrodestra, nel corso del quale, in quattro anni, Berlusconi non è mai stato a Berlino per un vertice bilaterale
approfondito». Letta c’è andato il primo giorno. Una qualche differenza c’è.

da Europa Quotidiano 02.05.13

"Le piazze degli schiavi", di Angelo Mastrandrea

Nella loro freddezza, i numeri possono fornire un adeguato contesto ma non riescono a spiegare tutto. Non riescono a descrivere, ad esempio, come si sente un indiano del Punjab quando si sveglia all’alba per andare a raccogliere zucchine o cocomeri in una campagna per lui straniera, o cosa prova quando il padrone non rispetta i patti e tarda a pagargli il salario. Cí dicono però che, nei periodi di punta, tra Borgo Sabotino e Borgo Grappa lavorano nelle terre non desertificate dall’espansione industriale fino a 25 mila immigrati, il che fa di questo pezzo di Basso Lazio una “piccola India” di casa nostra. È un proletariato delle campagne che si mostra solo in occasione delle colorate feste religiose sikh. Ma, come il campesino Garabombo di Manne’ Scorza, per quanti turbanti indossi non riesce mai a rendersi davvero visibile. Fatta eccezione per i periodi di punta, la Cgil stima in 12 mila persone la presenza stabile degli indiani nell’area pontina. A partire dai primi arrivi, negli anni ’80, è stata una continua crescita, e ogni anno dei 20 mila sikh che dall’India emigrano verso l’Europa – in gran parte con regolari permessi di lavoro – una fetta finisce nelle campagne del Basso Lazio bonificate da Mussolini. La loro vita professionale, secondo un dossier dell’associazione In Migrazione, è caratterizzata da cinque P: i loro lavori sono pesanti, pericolosi, precari, poco pagati e penalizzati socialmente. E stato così fin dall’inizio, e ancora oggi la comunità indiana vive isolata e separata dagli italiani, soffre della mancanza di servizi loro dedicati – di insegnamento dell’italiano o di mediazione culturale, ad esempio – è tuttora vittima di ripetuti e spiacevoli episodi di razzismo, e non riesce a inserirsi nel mondo del lavoro oltre quello nei campi o negli allevamenti di bufale, dove è regolarmente sfruttata e spesso lavora in condizioni di vera e propria schiavitù. Eppure senza di essa l’agricoltura locale rimarrebbe letteralmente senza braccia. Quella degli indiani nel sud pontino e nell’area del Parco Nazionale del Circeo è «una presenza silenziosa e operosa », come la definisce il rapporto di In Migrazione. I sikh si possono incontrare la mattina o alla sera quando rientrano dal lavoro, in bicicletta con le inconfondibili barbe e i colorati turbanti lungo strade ipertrafficate e senza marciapiedi. Difficilmente, però, si assiste a scene come quelle che ogni notte accadono poco più a sud, lungo la Domiziana o nelle pia77e di Villa Litemo e Cancello Arnone, dove al far di ogni mattina, tra le 5 e le 7, si può assistere al più grande mercato informale di braccia d’Italia. I caporali indiani non vanno in giro con i pullmini a raccattare gli immigrati contrattando la prestazione volta per volta, come accade nella little Africa casertana. Di solito la mediazione avviene in Punjab, prima della partenza, e nel prezzo pagato per arrivare in Europa è compresa anche la percentuale per il caporale. «Ho pagato più di 10 mila euro. Tanti soldi miei e della mia famiglia per venire qua a lavorare. Il viaggio è durato sei mesi, siamo passati dalla Russia, dalla Germania e dalla Francia. Sono morte donne e bambini, i cadaveri sono stati buttati via per paura. Io non volevo, ma un uomo grande, forse russo, mi minacciava e mi diceva di stare zitto», racconta a In Migrazione Sukirat, un operaio trentenne da cinque anni in Italia. Di solito, quando si parla della tratta dei migranti, si pensa ai barconi che solcano il Mediterraneo per approdare a Lampedusa o sulle coste siciliane – ma è capitato persino che qualcuno si spingesse fin quassù sul litorale pontino, qualche anno fa il ministro dell’Interno Maroni ne fece respingere uno senza nemmeno appurare se a bordo ci fossero perseguitati politici cui concedere asilo, nel silenzio generale e con l’unica voce di denuncia di Amnesty International. Invece esistono anche altre tratte minori, con scafisti non meno privi di scrupoli e altrettanti procacciatori, mediatori e mercanti di braccia. Sotto il naso di Garibaldi Oggi, nonostante la recessione, gli immigrati servono non meno di prima. Ma è su di loro i più deboli e indifesi, come sempre – che i padroni scaricano i costi della crisi. A Villa Literno, nel casertano, riesco a scambiare quattro chiacchiere con una donna rumena in attesa del caporale, all’alba di una mattina come tante altre nella piazza con al centro una statua del ge- nerale Giuseppe Garibaldi – ridotto al rango di vigile urbano – attorno alla quale ogni mattina, dalle 5 alle 7, va in scena la più gigantesca, incredibile compravendita di moderni schiavi d’Italia, mentre il resto del paese dorme. È giovane, minuta. Il volto scuro, abbronzato, indurito dal sole le aggiunge probabilmente qualche anno a quelli che realmente ha. Mi spiega che le cose sono andate via via peggiorando a partire dal 2007: «I padroni hanno cominciato a dichiarare sempre meno giornate di lavoro. Quest’anno non me ne hanno certificato neppure una, e così io non posso avere l’assistenza statale per i miei figli». Quando le chiedo quanto guadagna al giorno, la donna rimane in silenzio. Fa finta di non capire, non vuole dirlo. Ha paura. Allo stesso modo si comporta un altro gruppo di lavoratori rumeni: si mettono persino in posa per uno scatto, ma alla prima domanda cambiano atteggiamento. Molti di loro si ritraggono per timore che nessuno li prenda più a lavorare. Secondo la Flai-Cgil i compensi si sono ridotti a una ventina di euro al giorno, per dieci-dodici ore di lavoro massacrante alle quali vanno aggiunte almeno un altro paio di mercanteggiamento mattutino e per il trasporto. È così che la crisi viene scaricata ancora una volta sugli anelli più deboli della catena. A questo ennesimo effetto collaterale della Grande Recessione si va ad aggiungere la concorrenza al ribasso che si è instaurata tra rumeni e africani. I primi sono comunitari e dunque non soggetti al ricatto della clandestinità, ma più disponibili ad accettare compensi più bassi poiché di solito a trasferirsi in Italia e a lavorare sono in due, marito e moglie, il che consente di proteggersi a vicenda. Gli africani invece, quasi tutti provenienti dal Burkina Faso, sopravvissuti al Sahara e al Canale di Sicilia e in genere molto giovani, devono provvedere da soli alle spese di affitto e di sostentamento, e per questo non possono accettare paghe eccessivamente basse. «Veniamo qui tutte le mattine, alle volte andiamo di nascosto nei campi, soprattutto negli allevamenti bufalini dove lavorano gli indiani. Se riusciamo a risolvere anche un piccolo problema, poi sono loro a venire a cercarci anche per l’assistenza sanitaria o per iscrivere i figli a scuola», mi spiega Tammaro Della Corte, un giovane attivista della locale Camera del lavoro intitolata a Jerry Esslan Massio, la cui morte, proprio qui a Villa Literno nel 1989, fece scoprire all’Italia la presenza degli immigrati e fu la scintilla che portò alla nascita del primo movimento antirazzista e della prima legge sull’immigrazione del nostro Paese: la legge Martelli. Massi°, un giovane mite e colto, fu uno dei primi africani ad arrivare a Villa Literno. Fuggiva dall’apartheid in Sudafrica e finì vittima di un abborracciato Ku Klux Klan di casa nostra, una banda di ragazzini che si divertiva ad andare a caccia di immigrati per spaventarli o rapinarli, per sport come nell’Alabama schiavista degli anni bui. Per fortuna oggi episodi del genere non sono più all’ordine del giorno e gli immigrati vivono in abitazioni più decenti, anche se non sono passati molti anni da quella notte di San Gennaro del 2008 quando un commando di killer della camorra, guidati dal boss emergente Giuseppe Setola, sterminò sei africani in una sartoria di Castel Volturno. Ed è qui, in questo avamposto maledetto d’Africa italiana, che il 9 novembre 2008 morirà “Marna Africa” Miriam Makeba, poche ore dopo aver fatto ballare, struggersi di nostalgia e divertire alcune migliaia di sopravvissuti alle stragi di camorra, ai Ku Klux Klan locali e a tutti gli altri pericoli che questa terra dissemina lungo la loro strada, più numerosi di ciò che riesce a offri
re. Ad occuparsi degli immigrati, in Terra di Lavoro, ci sono solo organizzazioni di frontiera, né più né meno che in un qualsiasi slum africano: i missionari comboniani, un centro sociale occupato. La Cgil va di nascosto nei campi o negli allevamenti bufalini per avvicinare lavoratori che altrimenti sarebbero in balia del mercato più selvaggio, che da queste parti assume le sembianze di una vera e propria schiavitù. La politica fa la parte dello struzzo – spesso per convenienza più che per ideologia – l’opinione pubblica è disinformata o non vuole accorgersi dell’esistenza di un Terzo mondo interno – come lo definirebbe lo storico Alessandro Portelli – anche qui da noi, e chi fa affari con gli immigrati ha interesse a che non venga introdotta alcuna regola. E la mancanza di regole fa sì che l’occasione e la mancanza di alternative rendano ladro anche la persona onesta. «L’agricoltura è per forza cli cose flessibile, legata alla stagionalità, almeno nei paesi mediterranei dove le colture in serra non sono molto diffuse. Con questo bisogna fare i conti, ma in Italia esiste una deregulation completa. Se non ci sono luoghi in cui possano incontrarsi la domanda e l’offerta di lavoro, anche un agricoltore onesto non sa a chi rivolgersi. I caporali in fondo non hanno fatto altro che inventare il lavoro interinale prima dei governi», spiega Davide Fiatti della Flai-Cgil. Non si pensi che si tratta di un fenomeno marginale: su un milione e centomila lavoratori nell’agricoltura in Italia, ben un milione sono stagionali. Secondo l’Istat, il 43 per cento del lavoro in agricoltura è sommerso, per un’evasione contributiva stimata in 420 milioni all’anno. Il che vuol dire che 400 mila persone in tutta Italia lavorano al nero, senza diritti e tutele. Di questi, almeno 100 mila sono costretti a subire forme di ricatto lavorativo e a vivere in abitazioni fatiscenti. Nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di migranti. Il copione che si rispetta fedelmente tutte le notti nella “piazza degli schiavi” di Villa Literno – e in egual misura a Castel Volturno, a Parete e lungo tutta la Domiziana – e che coinvolge, a seconda delle stagioni, un numero di immigrati che può arrivare anche a 15-20 mila persone, è sempre lo stesso: i caporali accostano, tirano giù il finestrino e contrattano prezzo e condizioni, ‘poi se l’affare va in porto i lavoratori salgono a bordo, spesso stipandosi all’inverosimile. Di solito non sanno nemmeno dove andranno a lavorare. I caporali un tempo erano italiani, oggi sono sempre più spesso della stessa nazionalità dei lavoratori. È un fenomeno cominciato come una sorta di mutualità etnica – chi era arrivato da più tempo aiutava i connazionali a sistemarsi, è accaduto anche per l’emigrazione italiana nelle Americhe – ma con il tempo si è trasformato in un piccolo business: i mediatori prendono 5 euro per il trasporto, 3,5 per il panino e 1,5 per una bottiglietta d’acqua. La contrattazione dura al massimo qualche minuto e la stessa scena si ripete in centinaia di punti per un paio d’ore. Al termine, nella piazza semideserta rimarranno solo gli sfortunati che nessuno ha voluto e ai quali non rimarrà altro che ciondolare per il paese in attesa della notte successiva. Quando i cittadini si risvegliano, non troveranno traccia di quanto accaduto. I Garabombo di Villa Literno, come strani esseri animati della notte, alle prime luci del giorno tornano invisibili. Viene in mente il “mercato degli schiavi” di Benevento raccontato nel 1953 da Corrado Alvaro: migliaia di giovani che i padri mettevano in vendita nella centralissima piazza del Duomo, il 15 agosto di ogni anno, come garzoni – “gualani”, in dialetto – al servizio di ricchi possidenti o allevatori. Erano italiani, e questo può in parte spiegare, forse, l’indifferenza con cui un mercato di siffatte proporzioni continui a essere accettato con tanta naturalezza. Le piazze dei paesi del Sud Italia sono sempre state una sorta di agenzie interinali ante litteram, cui attingevano compagnie del Nord per reclutare “musi neri” per le miniere, latifondisti e medi proprietari terrieri in cerca di braccia per l’agricoltura. In buona sostanza, a cercare lavoro nella “piazza degli schiavi” di Villa Líterno, fino a qualche decennio fa, c’erano i casalesi e non gli africani. A braccia incrociate. Nel Basso Lazio non si vedono scene del genere. I sikh sanno già dove andranno a lavorare e non hanno bisogno di mediatori in loco. Ma non per questo sono meno sfruttati. Il sociologo Marco Omizzolo, che la scorsa estate si è “infiltrato” nella comunità indiana allo scopo di raccontarne usi e costumi, ha raccolto diverse testimonianze. «Io lavoro in campagna. Vado in macchina con un amico dalle 6 alle 17-18. Dipende dal padrone: io non ho orario. Carico tutto il giorno camion con zucchine o verdura. Lavoro senza mai ferie, ma non mi pagano: il padrone mi dà soldi una volta ogni 4-5 mesi. Così è difficile vivere», dice Madanjeet, un ragazzo che da due anni è in Italia. «Lavoro dieci giorni al mese, prima lavoravo tutti i giorni. Guadagnavo cinque curo l’ora con contratto regolare e con un bravo padrone. Ora guadagno 2 curo l’ora», racconta Sukirat, 45 anni e una famiglia in India a cui mandare i risparmi. «La globalizzazione ha prodotto una contrazione dei prezzi di produzione, spostando verso il basso, e quindi verso la manodopera, il contenimento dei costi», spiega il segretario della Flai- Cgil Sergio Siracusa. Nell’area pontina si arriva al massimo ai 4 euro all’ora, contro gli otto previsti dal contratto nazionale. Eppure, se non ci fossero i sikh del Punjab, l’agricoltura locale rimarrebbe senza braccia e così alla crisi industriale ci troveremmo costretti a registrare anche il collasso della produzione alimentare. Lo hanno dimostrato gli africani di Villa Litemo nell’ottobre del 2010 quando incrociarono le braccia tutti insieme in quello che sarà ricordato come lo “sciopero delle rotonde” e gli indiani di Latina che, alla fine di maggio del 2010, scesero in piazza per reclamare i loro diritti e che ora fanno capolino dalle pareti dell’ufficio del segretario della Camera del Lavoro di Latina Giovanni Gioia. «Fu una manifestazione epica, è stata la prima e unica volta che siamo riusciti a portare in piazza un migliaio di sikh», dite. Ma, nonostante le proteste e l’impegno di sindacati e associazioni antirazziste, molto poco è cambiato nella coscienza civile del nostro Paese. Dall’introduzione del reato specifico, nel 2011, solo 42 caporali sono stati arrestati o denunciati, segno di una forte connivenza tra lavoratori e mediatori. Mentre nel solo 2012 sono state arrestate 435 persone per riduzione in schiavitù, tratta e commercio, alienazione e acquisto di schiavi. Garabombo è rimasto invisibile, e tutto lascia pensare che lo resterà ancora per molto.

Il Manifesto 02.05.12

“Shale gas”: Ghizzoni e Vaccari interrogano per avere chiarimenti

I parlamentari modenesi del Pd annunciano interrogazioni sia alla Camera che al Senato
Il caso delle trivellazioni alla ricerca del cosiddetto “shale gas” nell’area a nord della nostra provincia approderà, a breve, sui tavoli del ministro delle Attività produttive e di quello dell’Ambiente: i parlamentari modenesi del Pd Manuela Ghizzoni e Stefano Vaccari presenteranno infatti una interrogazione, dal medesimo contenuto, sia alla Camera dei deputati che al Senato.

Dopo il caso Rivara, nel modenese ogni volta che viene pronunciata la parola “trivellazioni” cresce la preoccupazione. Ora che i media locali hanno reso noto che esiste un progetto, messo a punto da una società milanese, per la ricerca in una vasta area a cavallo tra più province del cosiddetto “shale gas”, amministratori e cittadini hanno chiesto l’intervento dei parlamentari modenesi. La deputata Pd Manuela Ghizzoni e il senatore Pd Stefano Vaccari hanno, quindi, deciso di chiedere chiarimenti direttamente ai Ministeri interessati, ovvero quello delle Attività produttive e quello dell’Ambiente. Nei prossimi giorni, infatti, presenteranno una specifica interrogazione in materia in cui si chiede alle istituzioni competenti di monitorare con attenzione l’iter appena avviato di questo nuovo progetto, che approda ora alla valutazione della Commissione di Via. “La fase è ancora del tutto preliminare – spiegano Ghizzoni e Vaccari – e, almeno al momento, non abbiamo elementi che facciano pensare a pericoli immediati per chi abita nelle aree interessate dal progetto. E’ vero che si conosce molto poco del merito dell’iniziativa, ma è certo che non ci sono ancora le autorizzazioni necessarie per procedere. Chiederemo comunque ai ministri delle Attività produttive e dell’Ambiente – concludono Ghizzoni e Vaccari – di coinvolgere gli enti locali in ogni nuova tappa del progetto. Sarà nostra cura mantenere alta l’attenzione affinché questa partecipazione delle nostre amministrazioni, e dell’intero territorio, sia reale e concreta, come già è avvenuto per l’altra vicenda, quella del deposito interrato di gas a Rivara”.

Il neoministro Giovannini: «La riforma Fornero va cambiata». Primo maggio, il lavoro ricompatta i sindacati, da ilsole24ore.it

Nel giorno della Festa del lavoro, il neoministro del Welfare Enrico Giovannini annuncia che la riforma del lavoro va riformata. In particolare spiega: «La riforma Fornero è stata disegnata in modo molto coerente per una economia in crescita, ma può avere problemi per una economia in recessione. Bisogna capire cosa modificare, ma il mercato del lavoro ha bisogno di stabilità delle regole». E ha aggiunto: «Occorre urgentemente affrontare le emergenze occupazionali, di chi il lavoro lo ha perso o non lo trova. Ma soprattutto, occorre rimettere in movimento interi settori economici fiaccati dalla peggiore crisi economica della storia del nostro Paese».

Il ministro ha poi sottolineato: «Il Governo appena costituito ha individuato nel lavoro l’aspetto centrale del proprio programma. Nel giorno della Festa del Lavoro desidero unire la mia voce a quella del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che, nel suo messaggio per la ricorrenza odierna, ha sottolineato come il Primo Maggio sia non solo lla festa dei lavoratori, ma anche, e più che mai, il giorno dell’impegno per il lavoro. Le grandi difficoltà che sta oggi vivendo il nostro Paese non devono scoraggiarci nella ricerca di risposte alla domanda di futuro».

Tempi strettissimi
Bisogna lavorare «in tempi strettissimi» per dare subito «le risposte che la società italiana si aspetta» in materia di occupazione. Non è un impegno facile e va risolto – ha aggiunto Giovannini – anche in un’ottica europea». Per questo motivo ha giudicato molto importante il tour europeo che sta compiendo il premier Enrico Letta. Giovannini ha aggiunto di vedere comunque «segnali importanti» come la manifestazione unitaria tra i sindacati in programma a Perugia. In proposito ha informato di aver già contattato i segretari generali e le associazioni professionali per «mettersi subito al lavoro e dare concretezza alle misure da prendere». Ha poi citato un passaggio del documento dei cosiddetti saggi dove si sottolineava come «eventuali economie realizzate, dovevano andare a sostenere le famiglie in difficoltà». Perchè c’è da non dimenticare, ha concluso, che «solo una crescita sostenibile può dare lavoro duraturo».

Letta: il lavoro è il cuore di tutto. Legge Fornero? Serve meno rigidità
E anche il premier Enrico Letta, impegnato nel suo tour europeo, è tornato sui temi dell’occupazione. «Il lavoro è il cuore di tutto. Se noi riusciamo sul lavoro a dare dei segnali positivi ce la faremo. Se sul lavoro non ci riusciamo, sono sicuro che non ce la faremo». Quanto alla riforma Fornero durante la conferenza stampa con François Hollande il premier ha commentato: «In un momento straordinario come questo è necessario un pochino meno di rigidità. Ci sono alcuni punti che in una fase recessiva stanno creando dei problemi».

Damiano (Pd): ha ragione Letta, cambiamo la Fornero
L’annuncio del premier – che conferma le parole del ministro Giovannini – trovano subito sponda nell’ex ministro del Lavoro Cesare Damiano (Pd) che nel pomeriggio concorda sulla possibilità di correggere la riforma Fornero che «ha dimostrato, in tempo di recessione, di non funzionare». La causa principale delle mancate assunzioni per damiano «deriva dall’assenza di crescita, ma sicuramente alcune regole scoraggiano le poche assunzioni», suggerendo quindi di accorciare l’intervallo che separa un contratto a termine da quello successivo: «Riportiamo per due anni le regole alla situazione precedente per consentire una continuità lavorativa a chi ha già avuto un primo contratto a termine. Sono sicuro che il confronto con le parti sociali potrà trovare altre soluzioni condivise come questa», conclude Damiano.

Zanonato (Sviluppo): per creare lavoro occorre tempo, nessuno ha formula magica
A dare il quadro delle difficoltà che il governo dovrà affrontare per rsiolve3re il nodo occupazione anche le parole usate da neo ministro dello Sviluppo Flavio Zanonato, che parlando dal palco della manifestazione in Piazza dei Signori a Padova, dove è stato sindaco per un ventennio, ha spiegato che nel breve periodo farà «fatica ad occuparmi del tema che mi piace di più, quello dello sviluppo, perchè l’agenda delle prossime settimane è tutta piena di appuntamenti concernenti crisi aziendali». Per ricreare posti di lavoro – ha aggiunto, «occorre lo sviluppo e ci stiamo già concentrando su questo: però se qualcuno pensa che esista una formula magica finora non scoperta, e che basta applicare questa per risolvere tutti i problemi, si sbaglia. Ci sono tante misure da adottare, alcune hanno effetto immediato, altre hanno effetto più a lungo termine. Bisogna lavorare tutti insieme con determinazione, consapevoli che i risultati non arrivano nell’arco di poche settimane».

I sindacati insieme a Perugia
La manifestazione dei sindacati confederali è a Perugia dove il leader della Uil, Luigi Angeletti, ha detto: «O si risolve il problema di dare lavoro o il Paese affonderà. E affonderà se non cambiamo la politica economica. Bisogna mettere il lavoro al centro della politica economica. Al governo diciamo che ci sono delle priorità e che bisogna rispettare i patti» cominciando a risolvere il problema delle risorse per la cassa integrazione in deroga e per gli esodati e «ridurre le tasse sul lavoro». «Ogni euro disponibile» ha aggiunto dal palco Angeletti «va destinato a queste priorità».

Dal governo Letta «abbiamo ascoltato» la necessità di ripartire dal lavoro, ma «i titoli non bastano, non bastano annunci e promesse. Ci sono stati sei anni di promesse e di provvedimenti opposti»: così il leader della Cgil, Susanna Camusso, dal palco del Primo Maggio. Ora bisogna «fare i provvedimenti» giusti. «Senza lavoro il Paese muore e questo Paese non può morire. L’obiettivo vero, reale, di questo Paese oggi è rimettere al centro il lavoro e dare “risposte” al lavoro. Il Paese «è attraversato da una crisi profonda. Bisogna ricostruire speranza e fiducia, solidarietà e rispetto». E questo significa mettere via anche «il linguaggio della violenza, che non è un linguaggio neutro».

Bonanni: reato di evasione fiscale diventi penale
«Il governo deve avere il coraggio di cooperare con i poteri locali e le parti sociali. L’Italia si salva se tutti la salviamo»: così il leader della Cisl, Raffaele Bonanni, dal palco del Primo Maggio. «Basta a litigi e furbizie, l’Italia deve essere percossa da uno spirito nuovo di servizio. Il servizio, come dice Papa Francesco, è potere». Il leader della Cisl, quindi, chiede al governo «una decisione forte, coraggiosa: rendere il reato di evasione fiscale un reato penale. È l’unico modo per evitare che tutte le tasse siano scaricate sui lavoratori e sui pensionati».

Le manifestazioni nel resto d’Italia
Ma il Primo Maggio è anche il giorno dei cortei. Ecumenico in Piazza Maggiore a Bologna: davanti alla basilica di San Petronio, a fianco dei sindacati Cgil, Cisl e Uil, scendono anche gli imprenditori di Uninidustria, rappresentata dal presidente Alberto Vacchi, e Legacoop Bologna, con il suo presidente Gianpiero Calzolari, a comporre una sorta di fronte comune innanzi ad una crisi economica, ormai in corso da anni, che sta lacerando il tessuto produttivo dell’intero Paese.

L’inedita e inusuale mescolanza tra mondo dell’impresa e mondo sindacale va in scena in una celebrazione, quella del Primo Maggio – intitolato quest’anno, Priorità Lavoro – storico bastione delle rivendicazioni del sindacato e che vede alternarsi, all’interno di una tavola rotonda, voci diverse, a condividere, per una volta, lo stesso palco. Palco su cui si muovono il segretario generale della Cisl felsinea, Alessandro Alberani, e quelli della Cgil e Uil cittadine, Danilo Gruppi e Gianfranco Martelli, oltre al presidente della Regione, Vasco Errani, a Calzolari e Vacchi, sicuramente l’ospite più inusuale in una festa che ha visto da sempre distanti le posizioni di lavoratori e datori di lavoro.

E se in Piazza Maggiore c’è chi – come gli esponenti di Rifondazione comunista Emilia-Romagna – ribadisce in una nota che «a piazza è delle lavoratrici e dei lavoratori che non si tolgono il cappello davanti al padrone», non c’è invece la Fiom bolognese, che celebra il Primo Maggio nel Ferrarese, alla Berco di Copparo, azienda del gruppo Thyssen Krupp, su cui si allunga l’ombra di 611 esuberi. Sempre nel Ferrarese, ma a Sant’Agostino, le iniziative per il Primo Maggio vedono in primo piano la celebrazione di una messa, da parte dell’Arcivescovo di Bologna, cardinale Carlo Caffarra, alla Ceramiche Sant’Agostino, stabilimento in cui persero la vita due dipendenti nel crollo di una parte della struttura colpita dal terremoto dello scorso maggio.

Foto di Preiti in corteo, polemiche e lancio di uova a Torino
Polemiche e prese di distanza hanno invece accompagnato a Torino la comparsa, nel corteo cittadino di questa mattina, di uno striscione degli Autonomi con l’immagine di Luigi Preiti a terra e, più sotto, la scritta “Il 1 maggio è per voi”. Accanto alla foto dell’uomo che domenica scorsa ha ferito a colpi di pistola due carabinieri davanti a palazzo Chigi, anche le immagini della coppia di Macerata suicida per debiti. «L’immagine di Luigi Preiti, portata con tanto di dedica, è la peggior offesa che si poteva immaginare quest’oggi, proprio a Torino, dove l’Arma dei Carabinieri fu fondata quasi 200 anni fa – ha rimarcato l’assessore alla Cultura della Regione Piemonte, Michele Coppola – Si vergognino i responsabili di questo grave gesto». Sulla stessa linea anche il governatore della Regione, Roberto Cota: «Chi pensa che il primo maggio debba essere un’occasione di scontro o di atteggiamenti violenti contro gli altri dimostra di non aver capito nulla del senso di questa ricorrenza».

Sempre a Torino, un gruppo di persone finora non identificate ha lanciato uova cariche di vernice nera contro lo spezzone del Pd al corteo del 1° maggio. Il lancio si è verificato nella parte terminale del lungo serpentone che si è snodato in via Po, lontano dunque dalla zona in cui si trovano il sindaco Piero Fassino e altri esponenti politici. Le uova hanno colpito personale delle forze dell’ordine. I responsabili sarebbero alcuni giovani del centro sociale Askatasuna. Il gruppo sfila con il volto coperto dalle maschere di Anonymous. L’intervento delle forze dell’ordine, che hanno spinto in avanti lo spezzone del corteo in cui si trovano alcuni rappresentanti locali del Pd, ha fatto tornare la
calma.

Il corteo di Milano
Intanto è partito da poco a Milano il tradizionale corteo per la festa del 1° maggio nel quale tra striscioni e cartelli per denunciare la sempre più pesante disoccupazione si sono levate anche grida e slogan contro l’ex ministro del Lavoro Elsa Fornero. La manifestazione, alla quale sono presenti tante categorie, da poliziotti ad agricoltori da ricercatori a operai, come ha spiegato il segretario generale della Camera del lavoro milanese Graziano Gorla «è più partecipata» rispetto all’anno scorso ed è stata aperta dal gonfalone di Milano e dei vari centri dell’hinterland. In seconda filà i sindacati e i rappresentanti dei vari partiti tra i quali Sel, Rifondazione comunista e altri. Alla manifestazione anche gli esponenti del partito Marxista-leninista italiano con un cartellone con la scritta «opponiamoci al governo Letta-Berlusconi al servizio del capitalismo, lottiamo per il socialismo!» e raffigurante il neo premier e l’ex premier che si stringono la mano.

"Le famiglie preferiscono il tempo pieno", di Salvo Intravaia

Famiglie italiane all’assalto del tempo pieno a scuola. Ma soltanto una parte riesce ad ottenerlo. Gli altri devono accontentarsi delle altre formule previste dall’ordinamento scolastico italiano: 27 e 30 ore a settimana. E le 24 ore, inaugurate dalla riforma Gelmini col palese obiettivo di tagliare più cattedre possibile, anche quest’anno sono state gettonate da una minoranza. Le prime iscrizioni online, lanciate dall’ex ministro dell’Istruzione Francesco Profumo, hanno decretato la netta preferenza, almeno all’elementare, per le 40 ore di lezione settimanali: mattinata di studio, pausa pranzo e pomeriggio di attività didattiche meno impegnative per gli scolari. Alla scuola media invece i genitori preferiscono che i figli tornino a casa dopo un’intera mattinata di studio a scuola.

I dati messi a disposizione dal ministero dell’Istruzione dopo la chiusura delle iscrizioni, lo scorso 28 febbraio, parlano chiaro. Su cento famiglie che hanno iscritto i figli in prima elementare nella scuola statale ben 38 hanno segnato la casella del tempo pieno. Oltre 196mila famiglie vorrebbero che i propri figli rimanessero a scuola per otto ore giornaliere e che a fine giornata avessero anche svolto almeno una parte della valanga di compiti che i bambini della scuola primaria si ritrovano sul groppone ogni pomeriggio. Ma quest’anno sono soltanto 176mila i bambini delle statali che frequentano la prima elementare a tempo pieno. Se quindi l’organico dovesse essere confermato almeno 20mila famiglie rimarranno delusi.

E se – per permettere alle attuali prime di diventare il prossimo anno seconde a tempo pieno – l’organico si dovesse contrarre, le famiglie che dovranno rinunciare al tempo lungo saranno ancora di più. Quelle che hanno invece optato per la formula con 30 ore a settimana sono 31 su cento e 28 su cento quelle che si accontentano di 27 ore di lezioni settimanali. La prima opzione – le 24 ore a settimana, che si tradurrebbero in 4 ore di lezione al giorno oppure in una più comoda settimana corta senza scuola il sabato – non è neppure presa in considerazione dalle mamme e dai papà italiani: l’ha scelta appena il 2,7 per cento delle famiglie.

Ma la richiesta di tempo pieno, con tutta probabilità, è superiore a quel 38 per cento emerso dalle iscrizioni dello scorso mese di febbraio. Perché l’opzione era presente soltanto nelle scuole dove funzionano già alcune classi a tempo pieno. In quelle in cui questa modalità non è stata attivata non è possibile sceglierla. E se una famiglia ha iscritto il proprio figlio in una scuola elementare dove manca del tutto il tempo pieno dovrà accontentarsi di 30 o 27 ore a settimana di lezione.

Le oltre 24 mila famiglie che hanno iscritti i propri figli in un istituto non statale preferiscono invece evitare il tempo pieno: lo scelgono 18 su cento, contro le 53 che optano per le 30 ore e le 23 che preferiscono 27 ore a settimana. Il tempo prolungato – di 36 o 40 ore settimanali – alla scuola media è stato indicato soltanto dal 16 per cento delle famiglie italiane. Per tutte le altre, cinque ore di lezione al giorno e a casa.

da repubblica.it

"L’ateniese di Cassino a Roma scopre la Costituzione", di Franco Labella

Sono bastate due settimane all’ateniese di Cassino Mastrangeli per scoprire , a sue spese, l’inganno della “democrazia diretta”.
Ne avevo scritto del senatore Mastrangeli , due settimane fa, come di uno che incarnava una contraddizione in termini (l’eletto che parla di democrazia diretta) tale da disorientare i miei studenti.
In questi tempi incogniti ed oscuri bisognerebbe fare almeno uno sforzo di chiarezza.
Non raccontare panzane anche quando si vuole criticare la realtà nella maniera più decisa possibile.
Perché raccontando panzane poi diventa difficile capire e far capire e si fa strada il principio che si possa sostenere tutto ed il contrario di tutto senza timore di confondere le idee e non aiutare a scegliere con chiarezza.
Il senatore anzi il cittadino Mastrangeli è stato espulso dal gruppo parlamentare del M5S per aver contravvenuto alle loro regole.
L’ha preso male ed oggi cita gli art. 21 e 67 della Costituzione.
Positiva la citazione ma difetta a Mastrangeli il ragionamento che gli faceva fare, a lui senatore eletto, il peana della democrazia diretta.
Non sono interessato a discutere se sia giusto espellere un senatore perché va in tv.
Profumo di scuola non serve a questo.
Ogni gruppo o struttura ha le sue regole e finora non pare, con la diffusione dei partiti proprietari, che ci sia la corsa da Berlusconi a Grillo passando per Di Pietro a ricordare l’art. 49 ed il metodo democratico in esso previsto.
Il post, lo ripeto, non serve a confutare se sia giusto o meno espellere un senatore che partecipa ai talk show.
Lo scrivo con chiarezza così commentatori poco attenti (come è avvenuto con il post in cui criticavo Mastrangeli per le sue confuse affermazioni) non scambieranno (si spera) la critica all’idea di contrabbandare la democrazia delegata compatibile con una democrazia diretta gestita attraverso la Rete con la critica al grillismo ed alle idee del M5S.
Nella vita faccio l’insegnante, ho come tutti le mie idee, non ho votato alle ultime elezioni né il Pd né il M5S ed utilizzo questo spazio con l’idea di poter essere utile anche ai miei studenti non facendo l’indottrinatore ma inducendo riflessioni anche sui meccanismi della rappresentanza e della partecipazione democratica.
Dove sta la debolezza del ragionamento di Mastrangeli che oggi lamenta la violazione del divieto di mandato imperativo (art.67 della Costituzione)?
Nell’aver rivendicato per lui, senatore eletto, come plausibile ed anzi inevitabile il ricorso alla democrazia diretta.
Perché se lui crede veramente nella panzana che oggi la Rete può consentire una estesa e compiuta partecipazione diretta alle scelte politiche non può lamentarsi di essere stato espulso.
L’espulsione l’ha decisa la Rete.
Quindi Mastrangeli non dovrebbe, per coerenza, lamentarsene.
Se poi, però, la vicenda serve anche a Mastrangeli per avviare una riflessione sul mito dell’agorà telematica come la madre di tutti i cambiamenti positivi possibili, allora forse prima di spiegare la sua espulsione come una sordida vicenda di rivalità tra lui e i due capigruppo di Camera e Senato dovrebbe farsi dare i numeri.
Di chi ha votato e della percentuale di votanti rispetto agli aventi diritto secondo le regole del movimento in cui milita.
Solo allora scoprirebbe, forse, che l’ Atene del V sec. a.C. è decisamente distante da Roma.
Almeno alle condizioni date oggi.

da unita.it

"Emilia, fondi Inail per le imprese del cratere", di Natascia Ronchetti

Più di 67 milioni per la messa in sicurezza delle imprese dei 33 Comuni del cratere che non hanno subito danni ma devono adeguarsi alle normative antisismiche. Un tecnopolo in arrivo, per il trasferimento tecnologico alle aziende, a Mirandola, vale a dire il cuore del distretto biomedicale emiliano colpito duramente dal terremoto. La Regione spinge sulla sicurezza e sulla ricerca che incentiva occupazione. E, per accelerare la ricostruzione, a quasi un anno dal sisma, parte con il pressing sul nuovo Governo per strappare un pacchetto di emendamenti, nell’ambito della conversione in legge del decreto Monti. Emendamenti che partono dalla deroga al patto di stabilità interno per i Comuni delle aree terremotate per arrivare al via libera a un blocco di 100 assunzioni per far fronte alla mole di lavoro richiesta dalle domande di risarcimento.

La seconda finestra del bando con fondi Inail per la messa in sicurezza dei capannoni è stata aperta da una nuova ordinanza, la numero 52 del 29 aprile, firmata dal commissario delegato alla ricostruzione, il presidente della Regione Vasco Errani. A differenza del primo (122 domande per un totale di 8,1 milioni di interventi per la rimozione delle carenze strutturali) il nuovo bando prevede la possibilità di opere di miglioramento sismico. Inoltre abbassa la spesa minima ammissibile, portandola a 4mila euro per andare incontro anche alle esigenze delle piccole imprese, e consente la presentazione delle domande di contributo in un unico periodo, fino al 14 giugno. «Siamo entrati nella seconda fase, per aumentare la sicurezza del patrimonio industriale, delle imprese, dei lavoratori», dice l’assessore regionale alle Attività produttive Gian Carlo Muzzarelli. Ci sarà dunque per le imprese la possibilità di vedersi riconosciuto un costo fino a un massimo di 65 euro per metro quadro per ogni 10 punti percentuali di differenza tra il livello di sicurezza sismica di partenza e il livello di sicurezza sismica raggiunto con l’intervento. Il tetto massimo del contributo previsto è di 200mila euro. Questo in caso di miglioramento sismico e di rafforzamento locale. L’importo del contributo scende infatti a 140mila euro in presenza delle sole opere di miglioramento.
Ma ora è in arrivo anche un’altra ordinanza commissariale, quella che riguarda progetti di ricerca e occupazione. Questione di giorni. Destinerà 8 milioni, dei 50 milioni previsti dal decreto 74, a 12 imprese nell’area del cratere per programmi di ricerca che prevedono assunzioni di ricercatori. Mentre il distretto biomedicale di Mirandola, grazie ad altri 5 milioni di risorse comunitarie, potrebbe disporre già a partire dalla fine del 2014 di un tecnopolo dedicato alle scienze della vita. Il centro si aggiungerà ai 10 che già costituiscono la rete per l’alta tecnologia dell’Emilia Romagna nell’ambito del meccanismo messo in piedi per la ricostruzione e il sostegno alla ripresa delle aziende. Resta il nodo da sciogliere dell’estensione a tutto il 2013 del prestito con interessi a carico dello Stato per il pagamento di tributi, tasse, contributi previdenziali. Così come la deroga al patto di stabilità per i Comuni delle zone terremotate per sostenere gli investimenti nella ricostruzione, la detassazione delle plusvalenze, la possibilità di spalmare nell’arco di cinque anni la perdita di esercizio. Tutte richieste, destinate a diventare articoli di legge, oggi contenute in un documento che nei prossimi giorni Vasco Errani consegnerà ai parlamentari della regione.
© RIPRODUZIONE RISERVATA

RICOSTRUZIONE
La ricostruzione
La macchina della ricostruzione è completamente avviata, almeno in base a quello che dicono i numeri. Ad oggi sono 84 le domande su modello Sfinge (quello rivolto alle imprese) per ottenere il risarcimento a fondo perduto fino al 100% dei danni subiti. Richieste per un totale di 68,5 milioni di euro. Anche il nuovo bando con fondi Inail serve ad accelerare la ripresa delle aziende. La legge concede un arco di tempo di otto anni per il miglioramento sismico delle strutture produttive. Ma con la nuova finestra di accesso ai contributi aperta dalla Regione si concretizza la possibilità di interventi più rapidi per l’adeguamento.

Il Sole 24 Ore 01.05.13