Latest Posts

"Sinistra, basta piangersi addosso", di Alfredo Reichlin

C’è un nesso profondo tra la gravità della crisi italiana, che non ha precedenti, e la vicenda del Pd. Certamente dobbiamo riconoscere i nostri errori. Ma io penso che non usciremo dallo smarrimento che c’è nelle nostre file se non alziamo lo sguardo. Penso che il tanto invocato «principio di realtà» non consiste affatto nell’amnistiare Berlusconi, ma nel capire che le cose in Italia e nel mondo sono andate molto al di là. Tutto ci divide da costui. Nulla c’è da cancellare rispetto all’enorme problema etico-politico che egli ha posto e pone all’Italia. Ma è il terreno dello scontro che è cambiato. So che la questione è nuova ed è molto complessa. Ma la verità è che siamo arrivati a un crinale della storia, amici miei.

Che ruolo vuole giocare la sinistra? Questo è il problema. Parliamo pure senza infingimenti dei rischi che ci assumiamo e degli errori ma, per piacere, parliamo anche del nostro ruolo. Non sono d’accordo con questo piangerci addosso. Al contrario di altri io penso che il ruolo centrale lo abbiamo noi e ciò per una ragione oggettiva. Esso è obbligato dal fatto che – come cercherò di dire – non esiste un asse di governo alternativo a una qualche forma politica di centro-sinistra. Non è per caso che il «centro» si è ridotto ai minimi termini e che non esiste una destra che sia capace di andare oltre la propaganda elettorale e di garantire l’esistenza di una Italia democratica e unita (Nord e Sud) e al tempo stesso europea e che non sia buttata ai margini del mondo. Ho anch’io le mie idee sul futuro del Pd ed è evidente la legittimità di altre idee e la necessità di un confronto aperto. Ma dove andiamo se non si parte dall’Italia nel mondo nuovo?

Ripenso alla lunga storia delle forze progressiste italiane, nelle sue luci e nelle sue ombre, tragiche sconfitte comprese. Arrivo a una sola conclusione, che è questa. Se, e quando, queste forze sono riuscite a guidare grandi masse di popolo e ad affermare bisogni nuovi di dignità e di giustizia ciò è avvenuto essenzialmente per una ragione: perché hanno pensato se stesse non in base a astratti valori ma alla loro funzione reale. Si sono pensate come parte integrante di una storia più grande, la storia del Paese. È paradossale. Ma appena è stata resa nota la lista dei nuovi ministri la preoccupazione è stata quella di dire che la presenza dei «comunisti» era esigua. I comunisti? Ma questo partito non era defunto da decenni? Lo era. Però ciò che resta, e che fa ancora paura, è il fatto che questo partito, al di là dei suoi errori e delle sue colpe, ebbe un pensiero politico forte capace di tenere insieme la tensione tra etica della convinzione (i valori in sé) e etica della responsabilità (il governo del paese).

Ecco il problema che io pongo e che vorrei discutere anche con il mio vecchio amico Rodotà. Con quale pensiero politico affrontiamo oggi il problema dei problemi di un partito che non sia una setta, cioè il problema di definire il nostro compito, il perché esistiamo? Dove sta la necessità di un partito nuovo se non nella necessità di salvare questo Paese dal rischio incombente di una decadenza rovinosa? Forse non si è capito di che cosa si tratta. Forse il punto è proprio questo. Ed è su questo che vorrei discutere. L’Italia, così com’è, non regge alla sfida delle cose. Con questo Stato inefficiente, corrotto e costoso, con questo peso delle mille rendite, grandi e piccole, che si mangiano la ricchezza reale; con questo spreco di capitale umano e sociale (disoccupazione, giovani, scuole, ecc.); con questo crescente divario tra Nord e Sud, noi finiamo ai margini del meccanismo di integrazione europea.

Ma allora che succede? Succede che noi decadiamo. Benissimo, continueremo a discutere di Berlusconi? E poi? Le conseguenze sociali e politiche che ne seguirebbero sono enormi. Ci rendiamo conto che se fallisce anche questo governo il rischio di una qualche soluzione di tipo autoritario diventa alto? Ma non succederebbe solo questo. C’è qualche altra cosa, di cui nemmeno si parla. C’è il fatto che l’Italia è dopotutto, un grande Paese, un Paese di quelli che hanno dato forma al mondo attuale. La nostra crisi pone problemi enormi. Fallisce la costruzione europea e si riapre il problema davvero enorme del ruolo dell’Europa nel mondo.

Ecco perché parlo di un tornante della storia. Aprite gli occhi, amici della sinistra più intransigenti. Le vecchie classi dirigenti sono fallite. La destra non è in grado di affrontare il problema di una ricostruzione – ancora possibile – dell’Italia per ragioni evidenti: perché ciò richiede un nuovo patto sociale, uno spostamento profondo dei poteri e delle culture dominanti, una forte redistribuzione della ricchezza. Ma non solo. La realtà ci dice che siamo al collasso del circuito finanziario mondiale (cito Mauro Magatti) per cui deve necessariamente cambiare il modello della crescita. E che quindi occorre una nuova idea economica basata sulla qualità, sostenibilità, conoscenza, integrazione sociale, eccetera. E qui mi fe mo. Il Pd che congresso fa se non ridefinisce il suo compito e il suo ruolo in rapporto a questa situazione? Diamoci una guida e smettiamola di piangerci addosso.

L’Unità 01.05.13

"I sindacati: meno tasse su lavoratori e imprese che assumono", di Giorgio Pogliotti

Ridurre le tasse ai lavoratori dipendenti, ai pensionati e alle imprese che intendono assumere nel biennio, destinando a tale scopo le risorse derivanti da «un’efficace lotta all’evasione fiscale », da punire come «un reato con rilevanza penale». Al Governo che si è appena insediato Cgil, Cisl e Uil presentano un documento unitario che individua nel fisco la priorità di intervento. A distanza di cinque anni dall’ultima volta, gli esecutivi unitari si sono riuniti ieri per chiedere che «il tema del lavoro torni al centro delle scelte politiche ed economiche», indicando tra i provvedimenti urgenti il rifinanziamento della cassa integrazione in deroga e il completamento della salvaguardia dei cosidetti “esodati”. A queste misure ha fatto riferimento anche il neo premier nel discorso programmatico, come riconoscono gli stessi sindacati. «Da Letta abbiamo ascoltato titoli interessanti – commenta la leader della Cgil, Susanna Camusso -, ma la domanda è sempre la stessa: le risorse dove si trovano e come si redistribuisce il reddito? ». Il numero uno della Cisl, Raffaele Bonanni, si sente «rassicurato » dal Governo «composto da gente che, pur appartenendo a diversi schieramenti, non si è fatta notare per vis polemica». I governi «li giudichiamo dai fatti » aggiunge il segretario della Uil, Luigi Angeletti, «aspettiamo che alle enunciazioni corrispondano le decisioni». Quanto alla riforma dell’Imu, peri sindacati bisogna esonerare dal pagamento solo i possessori di un’unica abitazione, con un tetto riferito al valore dell’immobile. «Ci interessa che Letta abbia detto che a giugno non ci sarà la rata dell’Imu» spiega Bonanni, che considerala tassa una «patrimoniale sui poveri». Ma la priorità per il sindacato è avere un fisco più giusto. «A noi non va bene abolire tout court l’Imu – aggiunge la Camusso – perché così le risorse verrebbero sottratte a politiche più necessarie. Bisogna scegliere e difendere le persone che hanno una sola casa, non chi ha venti ville». Su rappresentanza e democrazia sindacale, i sindacati hanno definito un testo unitario da portare i16 maggio al tavolo con Confindustria per cercare un accordo. Per la rilevazione e la certificazione della rappresentatività il criterio si basa sul mix tra iscritti e voto proporzionale delle Rsu. In assenza delle Rsu varrà solo il numero degli iscritti, ma l’impegno è a confermare le Rsu laddove esistenti. Altro caposaldo, la titolarità della contrattazione nazionale per i sindacati firmatari con i15% della rappresentanza per ogni contratto. Inoltre, gli accordi saranno definiti dai sindacati che rappresentano almeno il 50%+1 della rappresentanza e dalla consultazione certificata dei lavoratori, a maggioranza semplice, con modalità stabilite dalle categorie per ogni singolo contratto nazionale. «Dopo molto tempo abbiamo un’ipotesi unitaria – spiega la Camusso Speriamo che tutti convengano sulla necessità dimettere fine alla stagione delle divisioni». Il documento sindacale sollecita il rilancio di politiche anticieliche, dando la possibilità ai Comuni che hanno risorse, di fare investimenti ed avviare i cantieri già deliberati, fuori dal patto di stabilità. Il pagamento dei crediti alle imprese è «un primo segnale positivo», bisogna ammodernare la pubblica amministrazione «non attraverso tagli lineari, ma con la riorganizzazione, con il contenimento della legislazione concorrente, eliminando tutte le formalità inutili che rallentano le decisioni». Per sostenere la crescita «occorre investire nella scuola pubblica, nell’università, nella ricerca pubblica e privata». Altri capisaldi sono la riduzione dei costi della politica, il riordino e la semplificazione dell’assetto istituzionale ed amministrativo del Paese, il taglio degli sprechi e dei privilegi. Insieme a una politica industriale che «rilanci le produzioni, valorizzando le imprese che investono in innovazione e salvaguardano l’occupazione». A sostegno di questa piattaforma Cgil, Cisl e Uil lanciano una mobilitazione con iniziative territoriali a partire dall’il maggio e una manifestazione nazionale i122 giugno a Roma. Oggi l’appuntamento é a Perugia, città teatro a marzo di un «dramma del lavoro» – due impiegate della Regione sono state uccise da un imprenditore che si è suicidato – dove si terrà la manifestazione del Primo maggio.

Il Sole 24 Ore 01.05.13

"Settantamila donne hanno perso il lavoro in marzo", di Marco Ventimiglia

Da molti mesi, ormai, è diventato un appuntamento da far tremare i polsi. Stiamo parlando dei dati sull’andamento del mercato del lavoro che l’Istat diffonde periodicamente. Cifre fuori controllo, frutto dell’intersecarsi e della sommatoria fra diverse emergenze, quella dell’occupazione giovanile, del Mezzogiorno, delle donne. Ed è proprio quest’ultima ad emergere in modo ancor più netto dai numeri relativi al mese di marzo, con ben 70.000 donne in meno sui luoghi di lavoro.

La gravità della situazione questa volta non emerge completamente dal classico dato sulla disoccupazione, il cui tasso si è attestato all’11,5%, invariato rispetto a febbraio e comunque in aumento di ben 1,1 punti percentuali rispetto al marzo del 2012. Ancor più drammatica, infatti, è la rilevazione sull’andamento dell’occupazione, poiché il mese scorso i lavoratori sono diminuiti di 248mila unità rispetto ad un anno fa. In particolare, secondo le stime provvisorie dell’Istat, gli occupati erano 22 milioni 674mila, in diminuzione dello 0,2% rispetto a febbraio (-51mila). Un calo che in pratica riguarda la sola componente femminile: in un mese le donne occupate sono diminuite, appunto, di 70mila unità. «L’aumento della permanenza delle donne ultra cinquantenni a lavoro non è sufficiente – hanno spiegato i tecnici dell’Istat – a garantire un consolidarsi della crescita dell’occupazione femminile o della sua stabilità. Il momento resta particolarmente critico, anche per l’occupazione femminile». Più in generale, a marzo il tasso di occupazione, pari al 56,3%, è diminuito di 0,1 punti percentuali su base mensile e di 0,6 punti rispetto a dodici mesi fa. «È dall’estate del 2012 – hanno ricordato ancora i tecnici dell’Istituto di Statistica – che si registra un calo dell’occupazione più o meno tutti i mesi».

SEMPRE PIÙ INATTIVI

L’enfasi che si sposta dal dato sulla disoccupazione a quello sull’occupazione si spiega con il fatto che non necessariamente le due dinamiche hanno un andamento simmetrico. Di mezzo, infatti, c’è il cosiddetto popolo degli scoraggiati, ovvero di coloro che pur privi di un impiego hanno rinunciato a segnalare la loro condizione e per questo non figurano nella lista dei senza lavoro. Vanno piuttosto ad ingrossare le fila degli individui inattivi di età compresa tra i 15 e i 64 anni,il cui numero non a caso è ancora aumentato. A marzo si è registrato un incremento dello 0,5% (+69 mila unità) rispetto al mese precedente, il che ha portato il numero complessivo degli inattivi a quota 14,351 milioni con un tasso che sale al 36,3%. Un altro fronte caldissimo è quello della disoccupazione giovanile. Il tasso dei 15-24enni privi di un impiego nel mese scorso è salito al 38,4%, in aumento di 0,6 punti percentuali rispetto a febbraio (era al 37,8%) e di 3,2 punti su base annua. Nel dettaglio, secondo le stime provvisorie dell’Istat, a marzo erano in cerca di lavoro 635mila under 25, pari al 10,5% della popolazione in questa fascia d’età. Il tasso di disoccupazione giovanile si riporta, così, su livelli altissimi, vicino al massimo storico raggiunto a gennaio (38,6%).

Di nessuna consolazione è il fatto che l’emergenza lavoro italiana si inserisce in un quadro continentale dello stesso tenore, come ha certificato sempre ieri Eurostat. I numeri parlano di una disoccupazione record. A marzo, il tasso destagionalizzato nei 17 Paesi dell’eurozona è salito al 12,1% ritoccando il precedente record storico (12%), peraltro stabilito proprio il mese precedente. La disoccupazione nell’Unione europea a 27 membri è risultata invece stabile a marzo (10,9%). Scomponendo i dati, l’Austria è il Paese con la disoccupazione più bassa (4,7%), la Grecia il fanalino di coda (27,2%). Ed ancora, i disocc pati nell’euro zona sono in totale 19,21 milioni, mentre nell’Unione eu- ropea i senza lavoro arrivano a 26,52 milioni. Eurostat segnala poi il forte balzo della disoccupazione giovanile (under 25): 24% nell’euro zona (22,5% in febbraio), una cifra però fortemente inferiore al citato dato italiano del 38,4%.

L’Unità 01.05.13

Boldrini: "Basta insulti alla Kyenge, è indegno"

«È indegna di un Paese civile la serie di insulti che – soprattutto da alcuni siti in rete, ma non solo – si sta rovesciando sulla neoministra Cècile Kyenge». In difesa del neo-ministro modenese si schiera il presidente della Camera, Laura Boldrini. «Come molti e molte, nel vederla giurare al Quirinale ho avvertito anche io che l’Italia stava facendo un passo avanti importante non solo per i “nuovi italiani”, ma per tutti noi, perché capiamo finalmente quanto ricco, contemporaneo e antico al tempo stesso, sia l’incontro tra le culture. Questo percorso può non piacere a tutti. Però non è in alcun modo tollerabile la volgarità razzista mirata contro una persona per il colore della pelle. La libertà di espressione non c’entra: in alcuni siti si pratica un sistematico incitamento all’odio razziale, che resta un reato anche se espresso via web. E molto gravi sono anche le parole usate da qualche esponente politico, che vanno ben oltre il legittimo dissenso sulle iniziative che Cècile Kyenge intende promuovere. Ritengo inaccettabile che queste bassezze possano, anche grazie alla compiacenza di una parte dell’informazione, entrare nel circuito della discussione politica senza suscitare l’esecrazione che meritano. Ci tengo peraltro a ricordare che la riforma della legge sulla cittadinanza è cara non solo alla neoministra. Con molti di noi, da tempo e in prima fila, la sollecita il Presidente Napolitano. Buon lavoro, Cecile». A distinguersi nelle offese alla Kyenge è l’eurodeputato leghista Mario Borghezio: «Questo è un governo del bonga bonga, vogliono cambiare la legge sulla cittadinanza con lo ius soli e la Kyenge ci vuole imporre le sue tradizioni tribali, quelle del Congo. Lei è italiana? Il paese è quello che è, le leggi sono fatte alla cazzo». Borghezio cita le battaglie della Kyenge contro il Cie e il caso dei due fratelli bosniaci fatti liberare, uno dei quali poi arrestato per furto. «Questo abbiamo come ministro». Ma se questo è un lampo di polemica politica, tutto il resto sconfina nel dileggio. Ecco alcuni passaggi del Borghezio-pensiero: «La parola “negra” in Italia non si può dire, ma solo pensare. Fra poco non si potrà neanche dire clandestino, si dirà sua eccellenza… Verrebbe da chiedere la carta di identità del Congo perché almeno là non fanno ministri così… e poi gli africani sono africani, appartengono a un etnia molto diversa dalla nostra. Non hanno prodotto grandi geni, basta consultare l’enciclopedia di Topolino. Kyenge fa il medico, gli abbiamo dato un posto in una Asl che è stato tolto a qualche medico italiano». Purtroppo Borghezio non è il solo che prende di mira il ministro modenese per il colore della pelle: fioccano gli insulti sulla sua pagina Facebook. Scrive per esempio Alberto: «Mentre noi si faceva Roma, si inventava il telefono e lo Stato sociale, il Sacro romano impero, si costruivano strade e lebbrosari ospedali e palazzi in Abissinia… questi giocavano al salto della banana». Viene aggredito verbalmente anche chi prova a difendere il ministro: «La tua intelligenza li sommergerà, buon lavoro viva l’Italia senza frontiere», scrive Rosaria nel suo messaggio di solidarietà a Cecile. Max replica: «La m… sommergerà te (e non solo)». Ed Ernesto: «Santa Boldrini dei clandestini, mi sta dicendo che chi non è d’accordo con la negra congolese e con lei kompagna flaccida è un razzista? È questa l’idea di democrazia che hanno queste persone?». Le difficoltà, economiche e non solo, che ci sono in Italia sembrano essere tra i motivi dell’astio di Gio nei confronti del ministro congolese: «Qua in Italia non c’è pane per tutti. Gli italiani che non hanno da mangiare o che non ce la fanno ad arrivare alla fine del mese, si ammazzano: non vanno a fare i clandenstini in altri Paesi o farsi campare a sbafo da altri governi».

La Gazzetta di Modena 01.05.13

"Adesso serve la fiducia di Ue e mercati", di Mario Deaglio

Con il voto di fiducia al Senato, il governo Letta ha completato ieri il suo rapidissimo cammino parlamentare di insediamento, ma questa è sicuramente la parte più facile, quasi scontata, del suo compito. Sulla strada della credibilità lo attendono ora infatti, due altri «voti di fiducia» molto impegnativi e assai poco scontati: quello dell’Europa e quello dei mercati. La fiducia dell’Unione Europea deve essere ottenuta in un momento molto difficile, ossia proprio quando i rapporti politici all’interno dell’Europa sono eccezionalmente perturbati a causa dei contrasti sempre più duri tra Francia e Germania.

Il presidente francese Nicholas Sarkozy era riuscito a stemperarli e a sopirli, ma il suo successore François Hollande è stato trascinato dal suo stesso partito socialista in una polemica durissima nella quale la cancelliera tedesca Angela Merkel è stata bollata per la sua «austerità egoista» mentre il portavoce della cancelliera ha stigmatizzato «l’insolenza dei socialisti francesi».

Non è facile trovare, negli ultimi cinquant’anni, toni così accesi ed è proprio su questi carboni ardenti che dovranno passare il presidente del Consiglio Enrico Letta e il ministro degli Esteri, Emma Bonino.

L’incontro di ieri sera a Berlino del Presidente del Consiglio con il cancelliere tedesco Angela Merkel e quelli che avrà oggi a Bruxelles con il presidente della Commissione Europea e con il Presidente francese sono destinati a essere i primi di una lunga serie in cui toccherà all’Italia di sollevare il problema del difficile – se non impossibile – equilibrio tra austerità e ripresa. Si tratta di incontri preliminari in cui si affermano principi ma si tralasciano dettagli, come è successo, appunto, nel primo scambio Letta-Merkel. Ai dettagli ha pensato invece uno dei più autorevoli quotidiani tedeschi, il Frankfurter Allgemeine Zeitung il quale, in un duro editoriale, ha rilevato come, da Monti a Letta, il numero dei ministri italiani sia passato da dodici a ventuno.

L’Italia cercherà con forza di ottenere quanto è stato garantito a Spagna, Portogallo e Irlanda, ossia uno slittamento di due anni dell’obiettivo del pareggio del bilancio pubblico, ora fissato a fine 2013. Va ricordato che questo termine, che ora appare soffocante, era stato accettato, in forma più o meno ufficiale dall’ultimo governo di Silvio Berlusconi e necessariamente fatto proprio dal governo tecnico di Mario Monti. E’ bene dire chiaramente che, senza uno slittamento di quelle proporzioni, sarà molto difficile, per non dire impossibile, trovare risorse sufficienti per rilanciare l’occupazione, ridurre l’Imu, detassare le imprese e quant’altro. Lo slittamento, invece, porterebbe a una disponibilità pubblica non facilmente determinabile ma nell’ordine di 10-20 miliardi di euro con i quali cercare di sostenere l’economia per farle superare il punto morto in cui oggi si trova.

Oggi l’Italia si trova in una situazione assurda: nel 2012 il Paese ha contribuito in maniera cospicua al Meccanismo Europeo di Stabilità, che ha lo scopo di salvare le economie di altri Paesi, a cominciare dalla Grecia. Le viene però, di fatto, impedito di spendere anche un solo miliardo per rilanciare l’economia italiana. Non si tratta precisamente di una situazione ideale per rendere popolare l’Unione europea che già oggi viene percepita da pressoché tutti gli italiani come lontana, e da molti come potenzialmente ostile. Il presidente del Consiglio dovrà far leva proprio su queste assurdità e sulla necessità della loro rapida rimozione per realizzare quanto ha promesso nelle aule parlamentari.

Mentre cercheranno di convincere i colleghi europei, Enrico Letta e il suo governo dovranno anche guadagnarsi la fiducia dei mercati. Apparentemente questa è stata data a piene mani: il famigerato spread è sceso e non ci sono state nelle scorse settimane difficoltà particolari a collocare le nuove emissioni di titoli di stato italiani. Tutto questo però è stranamente accaduto per motivi che hanno poco a che fare con la situazione italiana ma hanno origine in Giappone, un paese lontano che la globalizzazione finanziaria ha reso inaspettatamente vicinissimo. Per motivi interni, il Giappone sta creando una quantità enorme di nuova liquidità, una mossa disperata per uscire da una stagnazione ventennale, che ha l’obiettivo di far cadere il cambio della propria moneta e rendere più competitive le proprie esportazioni.

E’ piuttosto difficile che questa manovra abbia successo ma intanto banche e società finanziarie di mezzo mondo stanno prendendo a prestito i nuovi yen a prezzi bassissimi e li reimpiegano in titoli del debito pubblico di vari Paesi. I titoli italiani sono tra i più interessanti perché, almeno nel breve periodo (l’unico che interessa a questi operatori) l’Italia terrà, dal momento che è riuscita a eleggere un Presidente della Repubblica e a votare la fiducia al nuovo governo. Questa buona disposizione dei mercati internazionali potrebbe svanire con la stessa rapidità con la quale si è formata, senza che l’Italia ne abbia colpa. La fiducia dei mercati va riconquistata tutte le mattine, alla riapertura dei listini.

Il nuovo governo dovrà quindi districarsi tra una maggioranza parlamentare sicuramente ampia ma, altrettanto sicuramente, poco entusiasta, un’Unione Europea burocratica, sospettosa e indebolita dai contrasti interni e operatori finanziari che fanno il conto dei decimali e non pensano troppo al futuro. Dalla sua capacità di azione su tutti e tre i fronti può ben dipendere il futuro del paese.

La Stampa 01.05.13

"Primo maggio la battaglia per cambiare", di Massimo Franchi

Il record senza fine della disoccupazione giovanile, il dramma giornaliero delle aziende che chiudono. Ci sarebbe ben poco da festeggiare per questo Primo maggio. Eppure proprio da Cgil, Cisl e Uil ieri è partito un messaggio di unità e speranza con la prima riunione unitaria degli Esecutivi delle tre Confederazioni dal lontano 12 maggio 2008 e il via libera all’accordo sulla rappresentanza. Susanna Camusso, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti questa mattina si ritroveranno per festeggiare la festa del lavoro a Perugia, città scelta per ricordare Daniela e Margherita, le due impiegate della Regione barbaramente uccise lo scorso 6 marzo nel palazzo del Broletto, per mano di un imprenditore che si tolse la vita subito dopo. «Priorità Lavoro» è lo slogan scelto e a tenere il cartello ci saranno i lavoratori alle prese con le innumerevoli crisi dell’Umbria: dalle acciaierie Ast di Terni alla Nestlè Perugina, dal Polo Chimico temano alla ex Merloni di Nocera Umbra. Ma ci saranno anche le lavoratrici e i lavoratori del commercio e del terziario (in sciopero contro le aperture dei negozi nel giorno della Festa dei Lavoratori) e quelli del pubblico impiego, così come le pensionate e i pensionati, i giovani precari e gli studenti. L’appuntamento è alle ore 10 in Largo Cacciatori delle Alpi (Piazza Partigiani), da qui il corteo si muoverà verso via Luigi Masi, poi viale Indipendenza, piazza Italia, Corso Vannucci, fino ad arrivare in piazza IV Novembre per il comizio conclusivo dei tre segretari generali. Ieri mattina invece i vertici di Cgil, Cisl e Uil si sono ritrovati all’auditorium dell’Inail per discutere e approvare un documento comune che lancia una piattaforma condivisa e, come anticipato da l’Unità, fissa per sabato 22 giugno «una grande manifestazione nazionale a Roma» a conclusione di una mobilitazione che partirà sui territori dall’Il maggio. RITROVATA UNITÀ Il valore dell’unità sindacale ritrovata è stato rimarcato da tutti i protagonisti. «Contro avversari e nemici, torniamo uniti confermando che il sindacalismo italiano è grande riferimento e certezza per i lavoratori e l’accordo sulla rappresentanza è l’energia per far funzionare le relazioni sindacali», ha esordito Bonanni. «La crisi ha spinto i sindacati a convergere, ora dobbiamo indica- re delle soluzioni ai problemi dell’economia e convenire a cose essenziali da far fare alla politica», ha proseguito Angeletti, «completando l’insieme delle regole che sostiene il sistema delle relazioni sindacali, regole trasparenti, chiare e democratiche». Dal canto suo Susunna Camusso ha specificato che «le divisioni del passato non si possono nascondere, ma quelle ferite si superano solo costruendo un punto più avanzato. Non si risolve tutto con l’accordo sulla rappresentanza e chi lo pensa lavora per il contrario: si tratta semplicemente di un meccanismo che dà cogenza agli impegni che un organizzazione prende». E alludendo alla sfuriata di Giorgio Cremaschi, unico contestatore dell’accordo che non è stato fatto parlare perché il suo intervento non era fra i previsti, ha detto: «Fare regole certe costa fatica: avremmo qualche notorietà in più gridando al tradimento, ma durerebbe poco perché non risolveremo i nostri problemi». E chiudendo ha ribadito: «E finita la stagione delle divisioni, abbiamo seguito il bisogno di unità che c’è tra i lavoratori, dobbiamo ricostruire la coscienza collettiva per dare gambe ai nostri obiettivi ripartendo dalla democrazia e dalle regole».

PROPOSTE E RAPPRESENTANZA Nel documento varato Cgil, Cisl e Uil chiedono il «rifinanziamento della Cig in deroga, il completamento dell’effettiva salvaguardia degli esodati», di «ridurre le tasse ai lavoratori dipendenti, ai pensionati e alle imprese che faranno assunzioni nel prossimo biennio, destinando automaticamente a tale scopo le risorse derivanti da un’efficace lotta all’evasione fiscale, reato di cui va sancita la natura penale». Sulla rappresentanza «Cgil, Cisl e Uil convengono di definire con Confindustria (il 6 maggio è già previsto un incontro) un accordo che regoli la rilevazione e la certificazione della rappresentatività basata sull’incrocio tra iscritti e voto proporzionale delle Rsu». I sindacati convengono di definire un accordo che preveda «la titolarità della contrattazione nazionale per le organizzazioni firmatarie che raggiungano il 5% della rappresentanza per ogni contratto. Gli accordi saranno definiti dalle organizzazioni che rappresentano almeno il 50% più uno della rappresentanza e dalla consultazione certificata dei lavoratori, a maggioranza semplice, le cui modalità attuative saranno stabilite dalle categorie (e qui le interpretazioni già divergono, ndr) per ogni singolo contratto

L’Unità 01.05.13

******

“UNA NUOVA UNITÀ SINDACALE”, di Susanna Camusso

Oggi è la Festa del Lavoro. È il giorno in cui si celebrano le battaglie operaie per la conquista di dignità e di diritti. È il giorno in cui si ricorda al mondo la centralità del lavoro, la sua funzione economica e ancor più quella sociale. È il giorno in cui le lavoratrici e i lavoratori si fermano, si ritrovano, festeggiano insieme per rammentare al mondo le loro conquiste e i bisogni ancora da soddisfare. Nel corso del tempo si è provato e si continua a provare, a ridimensionare la portata e il significato di questo giorno. Si è provato a depotenziare la sua carica politica, a snaturarne il significato, a toglierne il valore sociale. È come se la natura laica di questa giornata di festa consentisse di decretarne l’oblio o di svilirne il significato. Bisognerebbe, ad esempio, interrogarsi sul perché nel nostro Paese si continua a pensare che aprire i negozi il Primo maggio sia più importante che interrogarsi sulla centralità e sulla funzione del lavoro. Non si tratta, in fondo, di un’immagine chiara, che rende bene la dissociazione intervenuta tra consumo e status sociale ad esso legato, e l’indifferenza a chi e a come produce gli oggetti desiderati. Non mi soffermerò sull’anacronismo di una rincorsa ai consumi nei sei anni della crisi più profonda che la nostra società abbia vissuto dal dopoguerra ad oggi. Non c’è bisogno di ricorrere a statistiche, di illustrare con i numeri la situazione economica, i consumi che diminuiscono drasticamente, i redditi che calano. Basta guardare alla vita di tutti i giorni a quella di un lavoratore, di una pensionata, di una famiglia che non riesce quasi più a soddisfare i bisogni essenziali. E insieme alla cinghia che si stringe, la sfiducia e la disperazione che continuano ad aumentare. Gli anni che abbiamo alle spalle sono stati caratterizzati da una folle rincorsa alla svalorizzazione del lavoro. Una rincorsa miope che ha contribuito non poco ad aggravare la crisi in cui siamo precipitati. La preferenza a speculare in borsa piuttosto che a investire, una competizione basata sulla riduzione dei costi invece che sulla ricerca e l’innovazione, il ricorso costante e perverso alla precarietà e ai bassi salari, sono le facce di un’idea sbagliata di economia e di un’idea mercificata del lavoro, che hanno fatto sparire dal gergo comune parole come dignità, sicurezza, identità delle persone. Questo Primo Maggio del 2013, annus horribilis per il lavoro, vuole essere per tutti e tutte noi un nuovo punto di partenza, l’avvio di una nuova fase che parli dei diritti e della dignità del lavoro, che riproponga il suo valore nella società e nell’economia. Per noi non ci può essere futuro se non torniamo alla centralità del lavoro come motore delle politiche economiche e di welfare. Centralità implica qualità e dignità delle persone, l’opposto della precarietà. Centralità significa creare e redistribuire occupazione. Centralità vuol dire tornare a parlare di piena occupazione. Il Primo Maggio 2013 può e deve anche avere un altro compito: ricostruire l’unità del mondo del lavoro, superare le tante divisioni e le troppe frantumazioni di questi anni. Riunificare il lavoro è parte essenziale della sua centralità, forse la premessa. Abbiamo scelto questo Primo Maggio per tornare a parlare la lingua dell’unità sindacale con una scelta unitaria sulle regole della democrazia e della rappresentanza. Quella di una nuova unità tra le grandi confederazioni sindacali è una scommessa da vincere. Una sfida per dare al lavoro una voce forte capace di determinare una nuova agenda politica che punti al cambiamento. Un cambiamento necessario, indispensabile se si vuole uscire dalle secche di una politica di austerità che ha portato l’Europa e l’Italia in una profonda crisi. Un cambiamento che deve avere il lavoro come suo motore, senza il quale non ci saranno le risposte essenziali per voltare pagina.

l’Unità 01.05.13

"Una ricetta per il welfare", di Chiara Saraceno

Nel suo discorso alla Camera, il presidente del Consiglio Enrico Letta ha affermato che occorre superare il modello di welfare italiano tutto incentrato sul lavoratore maschio adulto, pensioni e sanità, in direzione di un welfare più inclusivo.
Un welfare più universalistico, quindi anche più amichevole nei confronti delle donne, dei giovani, delle famiglie con figli (aggiungerei anche delle persone disabili o non autosufficienti), oltre che più attento a chi si trova in povertà. Non ci si può che rallegrare che il premier faccia proprie, sia pure con una ventina d’anni di ritardo, le analisi degli studiosi del welfare, specie di quelli e quelle che si occupano di povertà, occupazione femminile e giovanile, oltre che dei rischi prodotti da una troppo lunga dipendenza dei giovani dalla famiglia di origine per mancanza sia di occupazione, sia di adeguati ammortizzatori sociali. Ma come si intende procedere, sia pure gradualmente, in questa direzione? È già successo che buone intenzioni siano state contraddette, non solo o tanto da mancanza di risorse, quanto da scelte sbagliate che hanno peggiorato ulteriormente la situazione. Così, i tagli indiscriminati alla sanità non hanno inciso per nulla sui meccanismi di formazione della spesa, né sulle disuguaglianze territoriali, peggiorando invece in molti casi il servizio, mentre molte famiglie strette nella morsa della crisi non ce la fanno più a pagare i ticket e rinunciano a farsi curare. Dalla mancata prevenzione e dai controlli tardivi è altamente probabile che verranno in futuro costi non solo umani, ma finanziari. La riforma delle pensioni, argomentata come necessaria per salvaguardare le giovani generazioni, non ha solo creato un “tappo” alla domanda di lavoro (di giovani) in un periodo in cui questa era già scarsa. Ha creato anche il fenomeno degli esodati per garantire, doverosamente, i quali occorre impegnare una quantità di risorse non ancora esattamente quantificata, che andrà necessariamente a detrimento di altri settori di intervento. Ora Letta ha annunciato la sospensione dell’Imu sulla prima casa, in vista della sua revisione, mentre il suo principale alleato di governo preme per l’abolizione. Tralasciamo pure la banale questione di equità. In tutti i paesi europei la proprietà della casa è tassata, anche se con criteri meno arbitrari di quanto sia avvenuto in Italia con l’Ici, prima, e l’Imu, poi, nella misura in cui non vi è stato effettivamente alcun riferimento né al valore di mercato dell’abitazione, né al reddito del contribuente. Limitiamoci ad osservare che l’Imu è la fonte principale di entrate dei Comuni, con la quale possono finanziare, tra l’altro, proprio quelle politiche non schiacciate sul lavoratore maschio, pensioni e sanità, che stanno a cuore a Letta e nel nostro paese esistono, quando esistono, solo per decisione locale: servizi per l’infanzia e la non autosufficienza, reddito minimo per i poveri, politiche di accesso all’abitazione per le famiglie a basso reddito, politiche di integrazione. Il fondo sociale che, in teoria, avrebbe dovuto finanziare tutte queste politiche è stato ridotto ai minimi termini dal governo Berlusconi, prima, da quello Monti, poi, con effetti negativi anche sulla domanda di lavoro (prevalentemente femminile) nei servizi. Anche questa è una delle ragioni della perdita di occupate segnalata dall’Istat proprio in questi giorni. Dopo una dura trattativa con l’Anci, era stato promesso che tutto il gettito dell’Imu sulla prima casa sarebbe rimasto ai Comuni, garantendo loro un po’ di respiro.
Se ora viene eliminato, in tutta o larga parte, non è chiaro come i Comuni potranno continuare a fare fronte alle loro responsabilità. Il rischio è che la mai realizzata omogeneizzazione dei livelli di base dei servizi e interventi sociali, come previsto dalla legge 328/2000, avvenga verso il basso. E che le famiglie, specie a basso reddito, si vedano togliere con una mano molto più di quanto viene dato loro con l’altra. Tanto più che Saccomanni ha già annunciato ulteriori tagli alla spesa pubblica, che significheranno una ulteriore emorragia di posti di lavoro e di prestazioni.
Non basta la rituale evocazione della lotta all’evasione fiscale per far fronte alle misure annunciate come urgenti (rifinanziamento della cassa integrazione, garanzie per gli esodati) e per rendere realistiche le promesse di riforma, mentre si riducono le entrate. Pagato il prezzo dell’Imu a Berlusconi, forse era meglio fare meno promesse di riforme mirabolanti che non si possono mantenere e rischiano di produrre nuove delusioni e invece concentrarsi sul sostegno alla occupazione. Esso può essere realizzato mettendo insieme tante misure parziali ed anche forme di collaborazione con le imprese, le cooperative, i sindacati. Perché i lavori da fare e non fatti sono tanti – nella cura, nell’ambiente, nell’istruzione e formazione, nella coesione sociale. Non farli produce malessere e abbandono. Investire (anche) in questi lavori, considerarli come un investimento indispensabile, incentivare la domanda di lavoro in questi settori anche in qualche nuova forma di partnership pubblico-privato, non creerebbe solo domanda di lavoro. Costituirebbe anche un argine contro la disintegrazione sociale.

La Repubblica 01.05.13