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"Disoccupazione giovanile al 38,4%", da repubblica.it

A marzo hanno perso il lavoro 70mila donne: la permanenza al lavoro delle donne over-50 non basta più a garantire la stabilità e, tanto meno, la crescita dell’occupazione. Senza impiego quasi 3 milioni di persone: il tasso di occupazione cala al 56,3%. La disoccupazione a marzo resta all’11,5%, lo stesso livello già registrato a febbraio. Lo rileva l’Istat (dati destagionalizzati e provvisori) sottolineando che su base annua il tasso è in crescita di 1,1 punti percentuali con una perdita, rispetto a marzo dello scorso anno, di 248mila posti di lavoro. A marzo gli occupati sono 22 milioni 674 mila (il 56,3% della popolazione), in diminuzione dello 0,2% rispetto a febbraio (-51 mila): un calo che riguarda solo la componente femminile. Mentre gli uomini occupati cresconto di 19mila unità, le donne al lavoro si riducono di 70mila unità: la permanenza al lavoro delle donne over-50, che aveva finora permesso di arginare il calo, non basta più a garantire la stabilità e, tanto meno, la crescita dell’occupazione.

Ancora una volta il conto più salato cade sulle spalle dei giovani tra i 15 e i 24 anni: il tasso di disoccupazione è al 38,4%, in aumento di 0,6 punti percentuali rispetto a febbraio e di 3,2 punti su base annua. I ragazzi in cerca di lavoro sono 635mila. Nel complesso, il mese scorso, i disoccupati erano 2 milioni 950mila disoccupati. Nel dettaglio, il numero delle persone in cerca di lavoro diminuisce dello 0,5% rispetto a febbraio (-14 mila), ma risulta ancora in crescita su base annua, con un aumento dell’11,2%, ovvero di 297 mila.

Il numero di individui inattivi tra i 15 e i 64 anni aumenta dello 0,5% rispetto al mese precedente (+69mila unità). Il tasso di inattività si attesta al 36,3%, in aumento di 0,2 punti percentuali in termini congiunturali e in diminuzione di 0,2 punti su base annua. Sempre a marzo l’occupazione maschile cresce dello 0,1% in termini congiunturali, mentre diminuisce dell’1,3% su base annua. L’occupazione femminile si riduce dello 0,7% sia rispetto al mese precedente sia nei dodici mesi. A livello di genere, il tasso di occupazione maschile, pari al 65,9%, sale di 0,1 punti percentuali rispetto a febbraio, mentre diminuisce di 0,9 punti su base annua. Quello femminile, pari al 46,7%, diminuisce di 0,3 punti sia in termini congiunturali sia rispetto a dodici mesi prima.

da repubblica.it

"Fiducia a Letta, anche chi vota no dialoga", di Maria Galluzzo

Chiudere un ventennio di contrapposizione politica e spingere il paese verso la crescita, la coesione e le riforme: per avviare una rivoluzione così importante un paragone biblico non è azzardato. In questi giorni il presidente del consiglio Enrico Letta, impegnato nell’«avventura di servizio al paese», ha pensato spesso a Davide che nella valle di Elah si prepara ad affrontare Golia. Lo dice al termine del discorso con cui mette il suo progetto per il paese e la sua squadra di governo alla prova del voto di fiducia delle camere.

Come Golia, spiega il presidente, oggi «dobbiamo spogliarci della spada e dell’armatura che in questi anni abbiamo indossato e che ora ci appesantirebbero». Di Davide servono «il coraggio di mettere da parte quella “prudenza politica” che spinge a evitare il confronto con le nostre paure», e la fiducia, che «è quella che chiediamo al parlamento e agli italiani».

Una metafora che arriva al termine di un discorso netto, asciutto – 45 minuti – e al tempo stesso a tutto tondo. Un intervento coinvolgente, che sorprende perché il premier, accanto alle linee programmatiche del nuovo governo, ai temi e alle priorità del paese, riesce a richiamare, senza dimenticanze, anche tutti gli interlocutori di questa avventura.

A cominciare dal presidente della repubblica, per «straordinario spirito di dedizione alla nostra comunità nazionale» con il quale ha accettato al secondo mandato; a Pier Luigi Bersani, che con «lealtà» lo sostiene «in questo difficile passaggio»; a Beniamino Andreatta, che gli ha insegnato la distinzione tra «politica, intesa come dialettica tra diverse fazioni» e «politiche, intese come soluzioni concrete ai problemi comuni», ossia quelle su cui si dovranno concentrare ora il governo e il parlamento; a Martina, la figlia del carabiniere gravemente ferito ieri davanti a palazzo Chigi. Ma non solo. Letta cita tutti, donne, giovani, famiglie. E soprattutto i protagonisti dell’Italia solidale, dai disabili, alle cooperative, ai sindacati.

Il programma del governo è molto chiaro. Parte dalla priorità “lavoro” e dalla gravità della situazione economica – «di solo risanamento si muore». Ci sono, fra i molti punti, l’Europa in crisi di legittimità, lo stop ai pagamenti dell’Imu di giugno per poi rimodulare le imposte sulla prima casa, il reddito minimo ai bisognosi, una soluzione strutturale per gli esodati, il no all’aumento dell’Iva. E poi arriva ai costi della politica: via province e finanziamento pubblico dei partiti, no al doppio stipendio dei ministri. E soprattutto mai più al voto con il Porcellum. Sul tema delle riforme costituzionali il premier propone una Convenzione aperta alla partecipazione di esperti che cominci subito a lavorare sulla base degli atti di indirizzo del parlamento. E blinda i tempi per arrivare «verso un porto sicuro»: 18 mesi. Al termine dei quali, altrimenti, trarrà «le conseguenze».

Nella descrizione dell’agenda di governo spuntano parole impegnative come autocritica, responsabilità, autorevolezza, sobrietà, scrupolo. Termini che puntellano un progetto che non ha come obiettivo quello di “vivacchiare” a tutti i costi, ma di portare il paese fuori dalla paralisi della Seconda repubblica.

Il discorso naturalmente non convince tutti. Scontate le critiche della Lega, che però annuncia l’astensione, in aula arriva una raffica di interventi dei 5 Stelle che fanno le pulci su tutto e a tutti i ministri, fino ad arrivare ad accuse molto pesanti.

La borsa invece dà subito un segnale positivo al nuovo esecutivo: Milano chiude con un più 2,2 per cento e lo spread scende a 271 punti.

Dopo la fiducia, Letta è pronto a partire per Bruxelles, Berlino, Parigi per portare all’Europa il contributo di un’Italia che si annuncia molto diversa.

da Europa Quotidiano 30.04.13

"Una scuola moderna ma con i parametri Ocse", di Paolo Conti

Non è solo questione di fondi. C’è una complessiva centralità che la scuola sembra aver perso come agenzia sociale di formazione delle nuove generazioni, e quindi di riferimento per la intera collettività. Ha detto Enrico Letta: «La società della conoscenza e dell’integrazione si costruisce sui banchi di scuola e nelle università. Dobbiamo ridare entusiasmo e mezzi idonei agli educatori che in tante classi volgono il disagio in speranza e dobbiamo ridurre il ritardo rispetto all’Europa nelle percentuali di laureati e nella dispersione scolastica». Il presidente del Consiglio ha aggiunto che solo il 10% dei giovani italiani col padre non diplomato riesce a laurearsi contro il 40% in Gran Bretagna e il 33% in Spagna. Inutili i commenti, le cifre sono troppo eloquenti. La scuola pubblica italiana è in una crisi abissale. Molti insegnanti si sentono in trincea senza un quartier generale alle spalle. E quel quartier generale è un governo, la mano politica.
Non è solo questione di fondi. C’è una complessiva centralità che la scuola sembra aver perso come agenzia sociale di formazione delle nuove generazioni, e quindi di riferimento per la intera collettività. C’è chi non vede l’ora di raggiungere l’età della pensione per abbandonare un mondo nel quale non si riconosce più. Non c’è solo l’età di mezzo: è la perdita di un senso complessivo del lavoro, la sensazione di uno sganciamento dalla contemporaneità.
Sicuramente il nuovo capo del governo sa che per creare quella nuova società «della conoscenza e dell’integrazione» di cui ha parlato c’è un solo metodo, per non perdere tempo: allinearsi all’Europa. L’Ocse, pochi giorni fa, ha esaminato il Piano nazionale scuola digitale e ha scoperto che appena il 30% degli studenti italiani per studiare usa le tecnologie della comunicazione contro il 48% della media europea. Appena il 16% delle classi è dotata di una lavagna interattiva contro l’80% della Gran Bretagna. È ovvio che, per ricostruire una società che ha perso coesione, occorre ripartire dalla scuola . E la questione non riguarda solo i ragazzi. Recentemente Tullio De Mauro ricordava: «Basterebbe un piccolo investimento per tenere aperte le scuole nel pomeriggio e organizzare corsi di varie discipline per «rieducare» quegli adulti ancora attivi ma condannati a una progressiva, inesorabile marginalità culturale e sociale».
Insomma, la scuola è ancora una risorsa, una possibile rampa per un nuovo decollo. Ma un governo deve crederci profondamente. Esperienze molto amare, e nemmeno tanto lontane, dimostrano come certi slogan facili quanto inutili passano. E la scuola sempre più impoverita di mezzi e di motivazioni resta. Purtroppo per l’Italia, a terra rispetto all’Europa.

Il Corriere della Sera 30.04.13

"Perché alzare la voce a Bruxelles", di Marco Fortis

Il nuovo Governo Letta, nato dall’emergenza e dai contrasti insanabili tra i partiti, ma cementato dalla superiore visione dell’interesse nazionale del presidente Napolitano, deve essere orientato pragmaticamente a risolvere i problemi. Soprattutto dell’economia reale, che è la grande malata del nostro Paese.
Oltre ad affrontare le ferite interne più urgenti e laceranti (disoccupazione, crisi della domanda domestica, crescente numero dei fallimenti di imprese, aumento delle sofferenze bancarie, pagamento dei debiti arretrati della Pa), il nostro nuovo Governo deve anche agire rapidamente in Europa. Deve subito recuperare la credibilità ricostruita a Bruxelles da Monti. Una credibilità che, sia pure non accompagnata da un adeguato aumento della nostra capacità di contrattazione, era risalita ma poi si è nuovamente incrinata dopo quattro penosi mesi di incertezza politica, che ci hanno quasi riportato al novembre 2011: cioè a dove eravamo partiti, quando eravamo in piena crisi di fiducia dinanzi agli occhi del mondo e lo spread era ai massimi.
Nell’ultimo anno e mezzo l’Italia i cosiddetti “compiti a casa” li ha fatti con impegno, ma a Bruxelles e nel Nord Europa il nostro Paese viene sempre guardato con diffidenza e pregiudizio, come lo studente a cui è appiccicata addosso una cattiva fama che non riesce a far dimenticare. Infatti, per quanto l’Italia si sforzi di migliorare, sembra rimanere perennemente relegata con gli ultimi della classe, cioè con la Grecia e ora anche con Cipro. La grande liquidità presente sui mercati tiene oggi bassi gli spread ma non ci aiutano certamente le ripetute “sparate” sui media tedeschi di Beppe Grillo, che profetizza la bancarotta dello Stato italiano in autunno a dispetto del fatto che il nostro Paese, numeri alla mano, potrebbe presto uscire dalla procedura d’infrazione europea. Far confusione non serve. È tutta pessima pubblicità per l’Italia, di cui in questo momento non abbiamo proprio alcun bisogno. Veniamo da vent’anni di dura lotta politica basata sulla autodistruzione progressiva della nostra immagine a livello internazionale, con i vari partiti che si sono ripetutamente rinfacciati l’uno con l’altro la colpa di aver portato alla rovina l’economia italiana. Auguriamoci di non dover andare avanti per altri vent’anni nello stesso modo, senza che nessuno si adoperi per trovare finalmente delle soluzioni concrete ai problemi reali.

Intanto cominciamo a ricompattarci attorno al Paese. Che ha fatto, soprattutto a livello di famiglie e imprese, sacrifici durissimi (speriamo non per niente) e che quindi dovrebbe ora passare a riscuotere in Europa ciò che gli è dovuto. I dati consuntivi sui deficit statali dei vari Paesi Ue diffusi la scorsa settimana dall’Eurostat sono oro colato per l’Italia che, avendo le carte in regola, a Bruxelles dovrebbe finalmente alzare un po’ la voce. Oggi il nostro Paese ha un forte quintetto di negoziatori in Letta-Saccomanni-Bonino-Moavero Milanesi-Giovannini che dovrebbe rappresentare al meglio le nostre esigenze illustrate ieri dal nuovo Presidente del Consiglio nel suo discorso alla Camera quando ha sottolineato la necessità di poter coniugare più crescita con il rigore. Soltanto nell’ottobre scorso la Commissione Europea riponeva grande fiducia nelle sue previsioni d’autunno sulle capacità di molti Paesi dell’Eurozona di abbassare rapidamente i deficit. Nella realtà, solo poche economie sono riuscite a farlo, tra cui l’Italia. Il deficit italiano, infatti, anziché al 2,9% si è attestato al 3%. Solo una leggerissima differenza. Ci sono invece un paio di economie molto importanti che a fine 2012 sono andate meno bene del previsto, cioè Francia e Olanda. Belgio e Cipro hanno fatto ancor peggio mentre è ancora notte fonda per Portogallo, Spagna e Grecia, con deficit pubblici che restano altissimi e ben più gravi rispetto alle attese di sei mesi fa.
Se l’Italia viene messa a confronto con la Spagna non c’è assolutamente gara. Infatti, mentre il nostro Paese è ormai sceso ad un deficit allineato al fatidico 3% di Maastricht, il Paese iberico ha chiuso il 2012 con un disavanzo statale di 112 miliardi di euro, pari al 10,6% del proprio Pil rispetto all’ottimistico 8% previsto ad ottobre. Madrid, in parole povere, pur avendo un’economia più piccola, ha un bilancio statale peggiore di quello italiano di 64 miliardi di euro e di ben 7,6 punti di Pil. Qualcuno dirà: ma il debito pubblico italiano rispetto al Pil resta il secondo più alto d’Europa dopo quello greco.
Noi ci auguriamo che il nuovo Governo si decida a contestare a Bruxelles questo anacronistico rapporto statistico, in base a quale ancor oggi varie economie disastrate, tra cui Spagna, Cipro, Slovenia, Lettonia, sembrano avere finanze più sostenibili di quella tedesca o ad essa raffrontabili, mentre l’Italia, che ha ben altra solidità, somiglia addirittura alla Grecia. Ci chiediamo quanto tempo dovrà ancora passare prima che i vari partiti italiani, gli uffici studi, i centri di ricerca economica delle Università italiane, l’Istat e la stessa Banca d’Italia si decidano a tirar fuori qualche nuovo indice per meglio “rappresentare” il nostro debito pubblico e la sua sostenibilità relativa.
Il debito pubblico italiano, sia chiaro, è altissimo e va assolutamente ridotto, tagliando finalmente le spese improduttive e gli sprechi anziché imporre nuove tasse. Ma in valori assoluti oggi comunque il nostro debito non svetta più su tutti gli altri come vent’anni fa: infatti, è più basso di 150 miliardi di euro di quello tedesco ed è ormai prossimo ad essere raggiunto anche da quelli di Francia e Gran Bretagna, che agli inizi degli anni ’90 in euro erano la metà del nostro. Mentre in termini relativi il debito statale italiano è assai più sostenibile di quelli di tanti altri Paesi il cui stock di ricchezza privata è infinitamente inferiore a quello dell’Italia. Sicché se il nostro debito pubblico fosse rapportato alla ricchezza finanziaria netta delle famiglie scenderebbe dal 127% del Pil ad un ben più rassicurante 75,6% (non molto distante dal 67% circa a cui si attestano Francia e Germania), mentre il debito pubblico della Spagna salirebbe, rispetto all’84,2% calcolato sul Pil, al 118,8% della ricchezza, quello dell’Irlanda balzerebbe al 155,8% e quello della Grecia addirittura al 335,3%.
Se riuscissimo finalmente a rappresentarci meglio, “tirando fuori” i nostri numeri, forse a Bruxelles potremmo conquistare spazi di manovra per negoziare importi maggiori e tempi più rapidi dei pagamenti dei debiti arretrati della Pa, riduzioni progressive del cuneo fiscale e dell’Irap, margini per accrescere le spese in ricerca e in investimenti infrastrutturali. Altrimenti continueremo ad arrancare e a balbettare, in costante attesa che i “professori” del Nord Europa si degnino di capire che l'”allievo” Italia merita voti ben più alti di quelli di tanti altri studenti disattenti ed inconcludenti che continuano a tirare a campare sulla base di un rapporto debito/Pil più basso del nostro ma solo apparentemente più tranquillizzante.

Il Sole 24 Ore 30.04.13

"Assunzioni dirette, no grazie. Tramonta il progetto autonomista di Pdl e Lega Nord", di Antimo Di Geronimo

Le scuole non possono indire concorsi per il reclutamento dei docenti. Nemmeno se è una legge regionale a prevederlo. Il reclutamento degli insegnanti, infatti, è riserva di legge dello stato. Lo ha ricordato la Corte costituzionale con una sentenza depositata il 24 aprile scorso (76/2013). E sulla base di questo principio la Consulta ha cancellato con un colpo di spugna l’articolo 8 della legge della regione Lombardia 18/04/2012, n. 7. Che prevede la facoltà per le istituzioni scolastiche di reclutare i supplenti annuali tramite concorsi indetti e organizzati dalle stesse scuole, destinati agli aspiranti docenti già inclusi nelle graduatorie a esaurimento. In buona sostanza, dunque, la disposizione regionale, fortemente voluta dal Pdl lombardo, nella fattispecie dall’ex governatore Roberto Formigoni e dall’allora assessore all’istruzione Valentina Aprea, se fosse stata attuata, avrebbe posto nel nulla la disciplina del reclutamento dei supplenti annuali fissata dalla legge. Che prevede l’individuazione dell’avente titolo a ricevere la proposta di assunzione previo scorrimento delle graduatorie a esaurimento. E poi l’eventuale stipula del contratto preliminare con il dirigente dell’ufficio e la successiva sottoscrizione del contratto individuale di lavoro con il dirigente scolastico. L’art.8 della legge regionale espunta dalla Consulta, che secondo quanto risulta a ItaliaOggi è rimasta solo sulla carta, si limitava a disporre l’utilizzo della graduatoria a esaurimento solo come serbatoio da dove attingere gli aspiranti candidati. E non come elenco di merito da scorrere rispettando l’ordine tassativo degli aspiranti. Dopo di che poneva in capo al dirigente scolastico il potere di indire il concorso, organizzarlo, selezionare i candidati ed assumerli. Sebbene fissi comunque procedure di valutazione di natura collegiale. Ma sempre all’interno dell’istituzione scolastica di riferimento. Insomma una sorta di decentramento avanzato. Che però non si può fare con una legge regionale. Perché l’art. 117 della Costituzione parla chiaro: il reclutamento dei docenti è di competenza dello Stato. Più precisamente, la Consulta ha spiegato che «nell’attuale quadro normativo il personale scolastico è alle dipendenze dello Stato e non delle singole Regioni. Ne consegue», argomenta il giudice delle leggi, «che ogni intervento normativo finalizzato a dettare regole per il reclutamento dei docenti non può che provenire dallo Stato, nel rispetto della competenza legislativa esclusiva di cui all’art. 117, secondo comma, lettera g), Cost., trattandosi di norme che attengono alla materia dell’ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato».

Considerato che la legge regionale insisteva nell’ambito della sfera di competenza dei dirigenti scolastici, se fosse stata applicata, avrebbe comportato l’inutilizzabilità delle graduatorie di istituto e la loro sostituzione con le graduatorie di merito dei concorsi di istituto. Resta il fatto, però, che le scuole, anche se godono dell’autonomia funzionale, tale autonomia non comprende la facoltà, per gli istituti scolastici, di scegliersi il proprio personale. E in ogni caso anche i supplenti rientrano a pieno titolo tra il personale del pubblico impiego il cui reclutamento e riserva di legge statale.

Di qui la declaratoria di incostituzionalità dell’art. 8 della legge 7/20123 della regione Lombardia.

Che «rende la norma inefficace ex tunc e quindi estende la sua invalidità a tutti i rapporti giuridici ancora pendenti al momento della decisione della corte, restandone così esclusi soltanto i «rapporti esauriti» (Saja, in: http://www.cortecostituzionale.it/ActionPagina_1034.do )». E ora per le assunzioni dirette a lungo propagandate dalla Lega Nord di Roberto Maroni, attuale presidente della Lombardia, il percorso diventa ancora più accidentato .

da ScuolaOggi 30.04.13