Latest Posts

"Aumenta da nord a sud il rischio di evasione", di Cristiano Dell'Oste e Giovanni Parente

Il divario tra redditi e consumi si allarga negli anni della crisi. Ogni 100 euro dichiarati al fisco, nel 2011 gli italiani ne hanno spesi in media 121,4. Due anni prima, invece, erano poco meno di 118. La domanda, allora, viene spontanea: da dove arrivano i 21 euro in più? Dalle rendite finanziarie che non entrano nella dichiarazione dei redditi, sicuramente. Dall’erosione dei risparmi accumulati negli anni, in secondo luogo. E dall’indebitamento delle famiglie, che secondo la Banca d’Italia è in crescita. Ma anche dall’evasione fiscale, che genera un flusso di ricavi invisibile per l’agenzia delle Entrate e allo stesso tempo concretamente misurabile in termini di consumi.
La misura del rischio
La differenza tra spese e redditi non è una prova certa di evasione, ma costituisce senz’altro un indicatore significativo del rischio. Per capirlo, basta leggere i numeri in valore assoluto e in prospettiva storica. Dal 2003 al 2011 – ultimo anno per cui sono disponibili i dati – il divario non è mai stato inferiore ai 146 miliardi di euro, con punte di 176 miliardi.
Nessun Paese potrebbe permettersi di “coprire” una differenza così ampia e per così tanto tempo senza ricorrere a una fonte di finanziamento esterna e stabile nel tempo (anche perché lo stesso risparmio delle famiglie potrebbe essere in parte ottenuto da tasse non pagate). Oltretutto, il dato preso in esame è quello del «reddito complessivo», dal quale, a rigor di logica, vanno sottratte le imposte versate.
Il rischio-evasione è più elevato nelle regioni del Sud. In Calabria nel 2011 le spese hanno superato i redditi del 46%, in Sicilia del 40% e in Campania del 34,4 per cento. Regioni che, tra l’altro, hanno anche i redditi dichiarati pro capite più bassi d’Italia. All’estremo opposto, Umbria (12,4%) e Lombardia (14%) hanno il divario più contenuto. Ma la tendenza generale incontra più di un’eccezione. La Valle d’Aosta (31,6%) è subito a ridosso delle tre regioni meridionali, mentre la Basilicata (14,8%) è tra le più “virtuose” d’Italia. Per quanto può essere virtuoso un Paese in cui tutti sembrano spendere più di quanto incassano.
Gap in crescita dal 2009
Oltre alle peculiarità geografiche, un altro dato balza subito all’occhio. Tra il 2009 e il 2011 non c’è una sola regione in cui il rischio-evasione si sia attenuato. Per capire cosa sia successo, però, bisogna scomporre le due componenti.
L’elaborazione del Sole 24 Ore ha depurato i dati dall’inflazione, e questo consente di vedere che dopo il picco dell’anno d’imposta 2007 i redditi dichiarati al Fisco – in termini reali – sono sempre diminuiti. Colpa della crisi? O ritorno di fiamma dell’evasione fiscale dopo gli anni del ministro Vincenzo Visco? La risposta più ragionevole è un mix dei due fattori, considerando anche la stretta creditizia e la mancanza di liquidità che ha colpito molte piccole e medie imprese.
Nello stesso periodo, mentre i redditi diminuivano, la spesa delle famiglie ha avuto un andamento discontinuo: due anni di contrazione seguiti da due anni di crescita. Attenzione, però, a non fermarsi alla prima lettura possibile. La crisi ha colpito – e continua a colpire – i consumi privati, ma nel conto che grava sui cittadini rientrano anche bollette energetiche, prezzo dei carburanti, tariffe per servizi e trasporti. Tutte voci che hanno risentito di una dinamica dei prezzi crescente.
L’allargamento del gap, dunque, si spiega con il calo dei redditi e l’andamento stabile (o leggermente crescente) dei consumi.
L’ipoteca sul 2012
I dati d’insieme restituiscono l’immagine di un Paese in difficoltà, che non riesce né a crescere né a contrastare efficacemente i propri squilibri, a partire da quello fiscale.
Le prime indicazioni sul 2012, solo per quel che riguarda l’Iva e l’andamento generale dei consumi, non lasciano molti margini di ottimismo. Anche perché la pressione fiscale è arrivata al 52% nel quarto trimestre del 2012. Un fattore che stringe ancora di più la morsa in cui si trovano famiglie e imprese, riducendo i margini per il recupero del sommerso.

Il Sole 24 Ore 08.04.13

"Servono scelte non convenzionali", di Laura Pennacchi

Le due commissioni di esperti nominate dal Presidente Napolitano dovrebbero assumere come problema fondamentale dell’Italia l’avvitamento recessivo provocato dalle politiche di austerità imposte all’Europa dall’ortodossia rigorista tedesca. Si tratta di prendere atto che la «mainstream economics » di cui la Merkel è paladina ha fallito nel prevedere prima la profondità della crisi più grave dal dopoguerra e ora la durata della recessione che ne è seguita. In Italia con un impatto occupazionale eccezionalmente negativo di cui il dato del governo sul milione di licenziamenti nel 2012 non è che l’ultimo preoccupante segnale. Entrati nel sesto anno della crisi globale «bisogna pensare creativamente e superare i tabù», osa affermare Adair Turner già presidente della inglese Financial Services Authority. Per esempio «il tabù che vieta di stampare moneta per finanziare il deficit pubblico». Il ragionamento di Turner è il seguente. Occorre partire da una consapevolezza non ancora pienamente raggiunta e cioè che la crisi globale è stata causata da un enorme incremento non del debito pubblico ma dell’indebitamento privato (sia del sistema finanziario sia dell’economia reale) ed è l’inevitabile «deleveraging» (riduzione della leva finanziaria) susseguente a una crisi da indebitamento privato a creare così forti pressioni deflattive. Prima della crisi l’assunzione prevalente della teoria e della politica economica in atto era che il crescente indebitamento – concernendo contratti privati tra agenti presupposti razionali – potesse essere o ignorato (perché, in modelli standard di moneta, inflazione e output reale, l’evoluzione dei mercati finanziari veniva considerata neutrale) o addirittura salutato come benvenuto, perché l’approfondimento finanziario veniva assiomaticamente giudicato benefico in quanto riflette un completamento del mercato. Se ieri la teoria e la politica economica hanno fallito nel prevenire un eccessivo indebitamento privato rivelatosi alla fine insostenibile, oggi la principale sfida macroeconomica scaturisce dagli effetti deflazionistici del deleveraging del settore privato: il collasso nel credito riflette una riduzione sia dell’offerta (perché le banche fronteggiano sofferenze crescenti) sia della domanda di credito, poiché imprese e famiglie cercano di riequilibrare i loro squilibrati bilanci, a fronte dell’abbassamento del prezzo degli assets e di aspettative ridotte di reddito futuro. Ma proprio il collasso nel credito deprime ulteriormente i prezzi degli assets e la domanda nominale, rendendo più difficile per tutti raggiungere il desiderato deleveraging. Si entra così in uno stallo recessivo che si autocumula. In situazioni simili la manovra sul classico strumento della politica monetaria, il tasso di interesse, si rivela insufficiente. La Fed, la Banca d’Inghilterra, la Banca del Giappone, la Bce hanno tutte già portato i tassi di interesse a zero o quasi, ma l’impatto di ciò sull’economia reale è chiaramente modesto. Le Banche centrali stanno utilizzando abbondantemente – e meno male! – strumenti aggiuntivi «non convenzionali», i quali agiscono sui tassi di interessi e inducono gli agenti a cambiare comportamento, per esempio sostituendo moneta con titoli e riducendo il costo dell’offerta di credito. Ma in condizioni di recessione indotta da riequilibrio dell’indebitamento aumenta considerevolmente l’inelasticità degli operatori dell’economia reale ad ogni ulteriore caduta dei tassi di interesse: nella misura in cui titoli privi di rischio e moneta diventano perfetti sostituti, si approfondisce la «trappola della liquidità » in cui siamo entrati e in cui ogni nuova sostituzione di moneta con titoli ha effetti minimi sui comportamenti. D’altro canto, il sostegno monetario e il sussidiamento del credito da parte della Banche centrali funzionano stimolando un paradossale nuovo aumento dell’indebitamento, il quale può viepiù rafforzare la nostra vulnerabilità all’instabilità finanziaria ed economica. Qui sorgono le domande cruciali. Ha senso continuare ad assumere come appropriati i target e gli strumenti dell’ortodossia? Non è meglio prendere atto che in un ciclo di deleveraging le economie soffrono di profonde recessioni, a meno che i governi non si dispongano a larghi deficit (i quali, d’altro canto, tendono ad aumentare in ogni caso poiché la recessione riduce le entrate e accresce le spese governative per ammortizzatori)? Il deleveraging postcrisi – essenziale per riconquistare la stabilità finanziaria di lungo termine – crea un ambiente macroeconomico immensamente rischioso, in quanto le sofferenze della bassa crescita possono durare non per anni ma per decenni. Esistono politiche alternative, le quali possono effettivamente stimolare la domanda e con implicazioni meno dannose di quelle incubate dalle misure monetarie. Si tratta di politiche connotate dalla medesima «non convenzionalità» che caratterizza le prassi monetarie odierne, politiche macroeconomiche volte, mediante uno stimolo fiscale pubblico, a mettere direttamente potere di spesa nelle mani di famiglie e imprese (piuttosto che con i meccanismi indiretti di creazione di credito, ricomposizione del portafoglio, effetti ricchezza). Uno stimolo fiscale diretto «monetizzato» – dice Turner – apertamente finanziato con la creazione di moneta. L’importante è fissare paletti che disciplinino queste politiche, definendone gli ammontari (non debbono essere eccessivi) e le circostanze appropriate (possono essere usate solo per scopi produttivi precisi). Il rivoluzionario Bernanke non aveva forse immaginato già nel 2003, riflettendo sull’ultradecennale stagnazione giapponese, «uno stimolo fiscale monetizzato a supporto di programmi di spesa, per esempio per facilitare una ristrutturazione industriale»?

L’Unità 08.04.13

"La retromarcia dei grillini non bastano 2500 euro mensili E Beppe: vanno bene 6 mila", di Tommaso Ciriaco

Arriva il giorno in cui va in scena il Beppe Grillo che non ti aspetti. Pronto, a sorpresa, a fissare a 6 mila euro netti al mese uno stipendio equo per i parlamentari a Cinque Stelle. Pronto, soprattutto, a esigere trasparenza, senza però reclamare scontrini o ricevute anche per le famose caramelle o per un caffé. Summit con i parlamentari nel casale alle porte di Roma, venerdì scorso. «Ragazzi – dice il Fondatore – l’importante è essere presenti in Parlamento, fare il proprio lavoro onestamente e in modo trasparente. Io non ho mai eccepito sugli stipendi, ma solo sui vitalizi!». Tradotto, anche la diaria dei parlamentari è equa e non si tocca.
Riavvolgiamo il nastro. In campagna elettorale lo slogan grillino promette stipendi parlamentari da 2.500 euro al mese. Un dato reale, che non tiene però conto della diaria di 3.500 al mese. A quella – a onor del vero – i grillini non avevano mai promesso di rinunciare. Ma si erano impegnati a rendicontare ogni spesa, in nome della massima trasparenza.
Torniamo al casale della periferia romana. Alcuni deputati – «i più radicali sono i giovani, i senatori sono più riflessivi», sbuffa uno dei presenti – sollevano il problema: se le spese non raggiungono i 3500 euro, potremmo restituire la parte eccedente. Si scatena la discussione. Un paio di parlamentari si oppongono: «Ragazzi, non scherziamo! Se la mettiamo così finisce che dobbiamo portare anche gli scontrini delle gomme da masticare e dei caffè. Così non ne usciamo, diventa un lavoro. E noi un lavoro da parlamentare già l’abbiamo…». Applausi, voci che si confondono. Tocca al Capo indicare la via d’uscita, un placet alla diaria senza perdersi dietro ad eccessi contabili. E senza restituire la parte eccedente.
La questione, in realtà, è da tempo sotto la lente d’ingrandimento di un gruppo di lavoro grillino a Montecitorio e resta in bilico, visto che i più radicali continuano a invocare la scure per limitare le retribuzioni. La soluzione dovrà arrivare entro il 27 aprile, quando ai parlamentari sarà accreditato il primo stipendio. Un compromesso potrebbe obbligare tutti i “cittadini” cinquestelle a indicare i capitoli di spesa – dal cibo all’alloggio – senza indugiare sulle singole voci di spesa. E nemmeno sulle singole ricevute.
Resta invece intatto l’impegno sottoscritto in campagna elettorale sulla paga base, che per i grillini risulterà dimezzata: da 10 mila a 5 mila euro lordi al mese (circa 2500 netti). I soldi fatti risparmiare allo Stato potrebbero finire in un fondo indennità, dove i grillini più ‘radicali’ vorrebbero far confluire anche la parte eccedente della diaria. Anche qui, però, il nodo non è stato ancora sciolto. Per il fisco l’autoriduzione po-
trebbe non contare, “gonfiando” ingiustamente il reddito dei parlamentari e mettendone a repentaglio anche alcuni benefici fiscali, come le detrazioni per chi mantiene famiglie numerose.
In attesa di sciogliere il rebus, il movimento fa i conti con l’ala più inquieta. Fra i parlamentari meno allineati c’è Fabrizio Bocchino. Il senatore sceglie Facebook per rivendicare la «dialettica» interna: «Alcuni parlamentari vorrebbero più dialogo con il centrosinistra, mentre altri vorrebbero essere più attendisti». Bocchino precisa di non fare il tifo per un’alleanza con il Pd o per una fiducia ai democratici.
Ma reclama «il dialogo sull’elezione del Colle o sulla formazione di un governo a 5 stelle». Grillo, intanto, sul blog descrive uno scenario da incubo: «Una fine come la Grecia a medio termine non si può escludere».
Prima di votare per il Colle, i Cinquestelle daranno il via alla campagna di “occupazione” delle aule parlamentari. Lo faranno al termine di ogni seduta – fin da domani – per ottenere l’insediamento delle commissioni. Per rafforzare la battaglia si pensa anche a un inedito flash mob in piazza
Montecitorio.

La Repubblica 08.04.13

"Tre strade per creare occupazione", di Walter Passerini

Lo sfondamento della linea Maginot di un milione di licenziamenti nel 2012, come raccontano i freddi dati del ministero del Lavoro, a ridosso della tragedia dei suicidi da lavoro e povertà, è un tremendo doppio colpo nello stomaco del Paese, di alto valore simbolico e reale, con il quale l’economia e le condizioni materiali delle persone tornano da protagoniste sulla scena politica, economica e sociale. Il contatore delle comunicazioni obbligatorie di avviamenti e cessazioni del ministero denota un mercato del lavoro in subbuglio, per niente stagnante, nel quale la prevalenza di segnali negativi non deve condannare alla rassegnazione.

C’è da chiedersi quanto male stia facendo lo stand by della politica, ferma da sei mesi e incapace di uscire dal pantano in cui si è messa, a cui gli attori dell’economia reale non riescono a contrapporre una linea alternativa di ripresa.

Serve una svolta rapida, una terapia d’urto, una salutare reazione di emergenza, che rimetta sviluppo e lavoro al centro delle agende di tutti gli attori coinvolti. E’ finito il tempo delle analisi e delle diagnosi, sui cui dati siamo sempre capaci di accanirci anziché trovare rimedi; è arrivato il tempo delle terapie e delle soluzioni, qui ed ora, senza attribuirle a meccanici e futuribili cambiamenti del contesto internazionale. Siamo il Paese che negli ultimi dieci anni è cresciuto di meno, per questo dobbiamo lavorare di più, almeno il doppio degli altri.

Tre sono gli assi che possono ridurre l’esercito dei tre milioni di senza lavoro, di cui 650 mila giovani sotto i 25 anni, in grado di fare da locomotiva che ci allontani dalla depressione della disoccupazione: la riduzione dei costi del lavoro e gli incentivi strutturali alle assunzioni; la rete dei servizi di accompagnamento al lavoro e di ricollocazione; un’agenda minima per la ripresa, con settori vecchi e nuovi su cui creare sviluppo, lavoro e valore.

La riduzione strutturale del cuneo fiscale, il rapporto tra stipendi lordi e netti, può dare una boccata di ossigeno a famiglie e imprese, insieme all’uso mirato di incentivi per le aziende che assumono. Anche in un’epoca di scarsità, si possono individuare i settori su cui liberare risorse.

Il secondo asse, la rete dei servizi al lavoro, pubblici e privati, anziché condannarsi al piccolo cabotaggio, può assumere un ruolo da protagonista nel nuovo mercato del lavoro. Tre milioni di disoccupati sono un macigno altrettanto importante della voragine del debito pubblico, che ci chiede di abbandonare la politica dei due tempi: prima il rigore, poi lo sviluppo; prima i conti in ordine, poi la ripresa; prima il deficit, poi il lavoro. Una nuova classe dirigente dovrà dimostrare coraggio, lungimiranza e inventiva adeguati ai tempi che viviamo. I disoccupati non sono un incidente di percorso, un inciampo ai progetti di risanamento; sono risorse, non rottami. Ricollocarli attraverso una gigantesca campagna di outplacement e di ritorno al lavoro rimette in gioco risorse che non sono perdute, ma che possono essere rimotivate. Basti pensare alla manutenzione del paesaggio e del territorio, che può creare un circuito virtuoso e non più assistenziale.

Infine, ed è la terza gamba, l’agenda per l’emergenza orientata alla creazione di lavoro e valore ci impone di essere selettivi. Già oggi ci sono settori che andrebbero incoraggiati: pensiamo al grande mondo del web e al digitale, a quello della green economy, al made in Italy e al design, che in questi giorni ci porta alla ribalta internazionale. L’avanzo primario, detratti gli oneri per interessi, ci sta già raccontando in filigrana i settori che «funzionano nonostante»: l’industria per le macchine e l’automazione, ancora un fiore all’occhiello della nostra impresa, insieme a tutte quelle imprese, piccole e medie, che da tempo si sono rinnovate e hanno puntato la propria prua sull’esportazione. Se il mercato interno è fiacco, il nuovo mercato è il mondo: l’abbiamo fatto in passato, lo potremmo ripetere. Senza contare le risorse nascoste e mobilitabili nell’artigianato di qualità. Il piano del lavoro e per la crescita è la priorità e reclama, ora e subito, una nuova classe dirigente di maggiore spessore e generosità.

La Stampa 08.04.13

"Ora è un partito fin troppo normale", di Ilvo Diamanti

Si è “radunata” di nuovo a Pontida, la Lega. Dopo la pausa dell’anno scorso imposta dagli scandali e dalle divisioni interne. Un appuntamento fissato ai primi di febbraio.
Fissato quando Roberto Maroni sperava – e contava – di celebrare un risultato elettorale migliore. Ieri, invece, il segretario, come molti dei relatori che si sono succeduti sul palco, ha dovuto ribadire che «la Lega non è morta». Inoltre, per dimostrare la volontà di gettarsi alle spalle gli scandali del passato, ha mostrato e offerto ai militanti «i diamanti della Lega» – quelli di Belsito. Io, ovviamente, non c’entro…
Maroni, d’altronde, è stato eletto Presidente della Lombardia e la Lega governa, dunque, le tre principali regioni del Nord. Non a caso, il programma maggiormente evocato, in questa manifestazione, rivendica la “macroregione del Nord”. Eppure la “festa popolare padana”, quest’anno, è apparsa più triste del solito. Partecipata. Ma non troppo. Scossa da qualche contestazione – limitata. Anche Bossi, il Padre fondatore della Lega, non ha nascosto la propria insofferenza verso la leadership del partito. Prendendosela – in modo, come di consueto, colorito – con chi dice che «tutto va bene ». Non è così, evidentemente. Perché è difficile, ai leader e ai militanti leghisti, nascondere i segni della sconfitta subita alle elezioni politiche di febbraio. Quando, lo rammentiamo, la Lega ha ottenuto quasi 1 milione e 400mila voti. Cioè: oltre 1 milione e 600mila meno del 2008. Ha, dunque, più che dimezzato la sua base elettorale. Anche in termini percentuali: dall’8,3 è, infatti, scesa al 4,1. La Lega. Si è ridimensionata, soprattutto, nella sua patria. La Macroregione del Nord. Visto che, negli ultimi cinque anni, in Lombardia è diminuita dal 21,6 per cento al 12,9. In Veneto dal 27,1 al 10,5. In Piemonte dal 12,6 al 4,8. E la “caduta” appare ancor più forte rispetto alle Regionali del 2010, quando la Lega ha conquistato la presidenza del Veneto (con oltre il 35% dei voti) e del Piemonte.
Così, la Lega si trova di fronte a un paradosso apparente – che ho già sottolineato all’indomani del voto. Cioè: rivendicare la Padania senza i padani. Conquistare la guida
delle principali regioni del Nord proprio quando i suoi elettori si sono ridotti sensibilmente. Toccando il minimo, in valori assoluti, dal 1992 ad oggi.
D’altronde, nei discorsi di Pontida, si sentono gli echi del passato. Le invettive contro Roma e contro lo Stato italiano. L’impegno a trattenere in Lombardia – e sul territorio – il 75% del prelievo fiscale. Promesse e minacce già sentite. Come la rivendicazione federalista. Rilanciata a Pontida. Echeggia da sempre. Con nomi diversi. Indipendenza, devolution, secessione. In altri termini: autogoverno regionale. O meglio: macroregionale. Discorsi già sentiti altre volte, in passato. Ma dopo dieci anni di governo quasi ininterrotto – dal 2001 al 2011 – diventa difficile crederci fino in fondo. Prendere questa Lega sul serio. Anche perché, se non si è spezzata ieri (e non si spezzerà neppure domani), appare comunque divisa. Attraversata da tensioni evidenti. Che rendono arduo immaginare la Macroregione del Nord. Non solo perché non è chiaro come si dovrebbe realizzare. Attraverso quali procedure. E quali poteri e competenze dovrebbe assumere. Ma perché, prima ancora, si tratta di una prospettiva complicata per ragioni “politiche”. Visto che i leghisti oggi – più di prima – sono largamente “minoritari”, in queste regioni, dal punto di vista elettorale. E perché, soprattutto, sono distinti e distanti. I governatori, per primi. Cota, governatore del Piemonte: vicino a Bossi. E dunque molto meno a Maroni. Zaia, governatore veneto: in conflitto con Tosi. A sua volta, molto vicino a Maroni. Difficile concepire, su questa base, forme di integrazione istituzionale, fra governi e governatori regionali. E poi, se davvero la macroregione venisse istituita, quale ne sarebbe la capitale? Milano? Cioè: la città governata dalla Sinistra? E Torino e Venezia – ma anche Verona – accetterebbero il ruolo di capoluoghi di secondo livello?
Al di là di tutto, resta, però, la questione di fondo. La Lega si è “normalizzata”. In altri termini, si è trasformata in un partito “normale”. Come altri partiti. Più di altri partiti. Perché è radicata sul territorio, dispone di
molti iscritti, molte sezioni e molti militanti. E di molti eletti – sindaci, presidenti di Provincia, oltre ai tre governatori. Ciò le garantisce un buon grado di “resistenza”, anche di fronte alle crisi. E le permette di mobilitare ancora molte persone, alle sue manifestazioni, com’è avvenuto ieri. Anche se meno – e sempre più anziane – del passato. La Lega è, dunque, un partito-più-partito degli altri. Intorno ai suoi parlamentari, ai suoi governatori, ai suoi amministratori: c’è una rete di consulenti e collaboratori molto ampia. Come gli altri partiti, la Lega dispone di un ceto politico professionalizzato. Di una struttura, in parte, burocratizzata. Al tempo stesso, però, oggi appare diversa dal passato. Quando si presentava personalizzata, fondata (da e) su un leader carismatico. Umberto Bossi. Oggi, invece, appare acefala. Perché Maroni non è Bossi. È un leader. Non “il” leader. Il Governatore della Lombardia, ma non il Padre della Padania. La Lega, infine, è divisa in correnti – Bossiani e Maroniti. Rammenta altri partiti. Del passato più che del presente. L’alleanza con Berlusconi le ha permesso di vincere in Lombardia e di mantenere una presenza significativa a Roma. Ma non ha impedito, anzi ha forse accentuato, il profondo arretramento subito alle recenti elezioni. Ad opera, soprattutto e anzitutto, del M5S. Che ne ha eroso, profondamente, la base soprattutto nel Nordest e nel Nordovest. E ha quasi “espulso” la Lega dalle regioni “rosse”, dov’era cresciuta molto nel 2008. E l’ha rimpiazzata nella rappresentanza dei settori sociali tradizionalmente più vicini. I lavoratori autonomi e dipendenti della piccola impresa. La piccola borghesia artigiana e commerciale. Il M5S: ha sottratto alla Lega il monopolio della protesta contro il ceto politico. Il ruolo del partito anti-partito. Portavoce del “nuovo” in politica. Perché anch’essa – la Lega – è divenuta un partito sin troppo normale. L’ultimo rimasto, con lo stesso nome, fra i partiti della Prima Repubblica. In un Paese dove il malessere e la rabbia contro lo Stato e i partiti, ormai, non abitano più solo a Nord. Ma dovunque.

La Repubblica 08.04.13

"Rimettere in circolo la speranza", di Salvatore Settis

Non di soli slogan vive l’uomo. Il “patto di stabilità” che ci viene martellato nelle coscienze come fosse una legge di natura elude il solo punto essenziale: quale stabilità ci preme di più, quella dei conti pubblici o quella della società?
Per sanare il bilancio dobbiamo comprimere la spesa sociale, esiliare la cultura, mortificare la sanità, emarginare i più giovani e i più vecchi? Davvero non ci sono alternative? “Stabilità” non descrive forse un Paese immobile, incapace di crescere? Assediati dallo spread e dai suoi capricci, abbiamo perduto la libertà (e la lucidità) di vedere quel che accade. Tristi primati soffocano l’Italia, ne determinano l’immagine nel mondo, erodono la nostra credibilità. Nella mappa sulla libertà di stampa del Newseum di Washington (il più importante museo al mondo sui media) l’Italia è il solo Paese dell’Europa occidentale colorato in giallo come “parzialmente libero” (Press Freedom Map: www.newseum.org ). Secondo Transparency International, l’Italia è uno dei tre Paesi più corrotti d’Europa (con Grecia e Bulgaria), peggio di Ghana, Namibia, Ruanda. Secondo dati Ocse, l’Italia è al terzo posto al mondo per evasione fiscale, preceduto solo da Turchia e Messico (lo ha ricordato Luigi Giampaolino, presidente della Corte dei Conti, in audizione al Senato lo scorso ottobre).
Trattiamo questi ed altri problemi come fossero lontani dalla nostra vita di ogni giorno, come non avessero niente a che fare con la crisi, con l’instabilità sociale, la disoccupazione, l’impoverimento delle classi medie, la drammatica crescita delle disuguaglianze. Eppure queste ed altre infelicità private sono innescate o aggravate dalla recessione, che si compie all’insegna di una spietata concentrazione della ricchezza, intrecciata allo smontaggio dello Stato, alla privatizzazione dei beni pubblici, ai continui tagli della spesa sociale. Accecati dalle retoriche neoliberiste dello Stato “leggero” (tanto leggero da sparire), siamo prontissimi ad abolire le province (risparmio annuo previsto: 500 milioni di euro), senza accorgerci che si risparmierebbe molto di più acquistando un aereo militare in meno o evitando qualche chilometro di inutili Tav. Determinati a non affrontare i problemi alla radice, ci accontentiamo di palliativi (qualche riduzione di stipendio, qualche parlamentare in meno…), attribuendo implicitamente i danni e la crisi alla stessa esistenza delle istituzioni pubbliche, e non alle loro
disfunzioni, non alla lottizzazione politica, non all’insediarsi di incompetenti nei posti di comando, non al saccheggio dei beni pubblici. Predichiamo slogan bugiardi che esaltano lo sviluppo, e intanto lo impediamo con tagli dissennati alla cultura, alla scuola, all’università, alla ricerca. Secondo dati Istat, la capacità creativa misurata sul numero dei brevetti è bassissima in Italia (78 per milione di abitanti, contro i 294 della Svezia); gli addetti a ricerca e sviluppo, mediamente 5 ogni mille abitanti nei Paesi dell’Unione Europea, arrivano fino a 10,5 in Finlandia, mentre l’Italia si ferma a un misero 3,7, molto sotto il Portogallo o l’Estonia; per giunta, le regioni del Sud sono particolarmente sfavorite (indice medio 1,8). Per essere creativo, un ricercatore italiano deve emigrare? Eppure la crescita deriva dall’innovazione, l’innovazione è figlia di formazione e ricerca.
Ci rallegriamo che da noi abbia votato il 75% degli elettori (meno che in Belgio ma più che in Germania), ma non guardiamo negli occhi la distribuzione del non-voto. Non hanno votato 11.633.613 cittadini (dati Camera), ma ad essi va aggiunto chi ha votato scheda bianca o nulla (1.267.826 cittadini). Inoltre, 1.706.057 cittadini hanno votato per formazioni politiche che non hanno seggi in Parlamento. Sommando queste cifre, si arriva al 31,16% degli elettori: un terzo del Paese non è rappresentato in questo Parlamento. C’è oggi un Papa che parla ai non-credenti, ma quale dei politici saprà parlare ai non-votanti, recuperandoli al pieno esercizio della cittadinanza? Non sembra esser questo il progetto dei nostri vecchi e nuovi leader di partito e feudatari di corrente, che indugiano in liturgie tattiche identiche a quelle, che credevamo defunte, dell’era dei quadripartiti e dei pentapartiti.
Importantissime scadenze ci aspettano, e con questi tatticismi miserandi hanno poco a che vedere: sia il capo dello Stato che il governo dovranno essere all’altezza di un compito arduo ed essenziale, che non può limitarsi a misure di salute pubblica come una nuova legge elettorale o la messa al bando del conflitto d’interessi. Deve affrontare i nodi della corruzione, dell’evasione fiscale e del suo contributo alla crescita del debito pubblico, deve cercare un nuovo equilibrio fra le necessità immediate della finanza pubblica e l’alto orizzonte dei diritti disegnato dalla Costituzione (a cominciare dal diritto al lavoro, alla salute, alla cultura). Deve investire in formazione e ricerca per liberare le energie creative di cui il Paese abbonda. Deve riconquistare lo sguardo lungimirante della nostra Carta fondamentale, proponendo al Paese un progetto per il futuro. Deve rimettere in circolo quello che più ci manca oggi: la speranza. Speranza non nella competizione fra individui, ma nell’equità e nella giustizia sociale.
Il 3 febbraio 2013 vicino a Trapani Giuseppe Burgarella, operaio edile disoccupato da quasi due anni, si è impiccato lasciando fra le pagine di una copia della Costituzione questo biglietto: «L’articolo 1 della Costituzione dice che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. E allora perché lo Stato non mi aiuta a trovare lavoro? Perché non mi toglie da questa condizione di disoccupazione? Perché non mi restituisce la mia dignità? E allora se non lo fa lo Stato lo debbo fare io». Questo suicidio non è meno tragico né meno simbolico di quello di Jan Palach, lo studente di Praga che si dette fuoco nel 1969 per «scuotere la coscienza del popolo sull’orlo della disperazione e della rassegnazione». Nella terribile catena di suicidi che sta dilagando oggi in Italia (questo giornale ne ha dato una mappa sabato), Giuseppe Burgarella che sceglie la morte volontaria con in mano la Costituzione saprà scuotere le nostre coscienze? I parlamentari neo-eletti sapranno cercare nei principi della Carta la bussola che guidi le loro coscienze? Si ricorderanno che secondo la Costituzione ciascuno di loro, individualmente, rappresenta non il boss che lo ha messo in lista, ma l’intera Nazione?

La Repubblica 08.04.13

"Allarme università, scadono le borse dei ricercatori", di Cristina Pulcinelli

Sono stati cervelli in fuga. Poi l’Italia li ha richiamati e sono rientrati per contribuire, secondo le loro parole, «alla ricerca e allo sviluppo del nostro Paese». Ora rischiano di dover ripartire o, peggio, di rimanere senza lavoro. 114 firmatari di una lettera al ministro dell’istruzione, università e ricerca Francesco Profumo chiedono che si intervenga al più presto per evitare questa “fuga di ritorno”. Si tratta di fisici, chimici, economisti, ingegneri, biologi vincitori del programma «Rientro dei Cervelli» per l’anno 2008-2009 e che da quattro anni lavorano nelle università e nei centri di ricerca italiani. Il programma «Rientro dei cervelli » era nato nel 2001 proprio per facilitare il ritorno in patria dei ricercatori che lavoravano all’estero ed è rimasto attivo fino al 2009 quando ha cambiato nome (e regole) in «Programma Rita Levi Montalcini». Quest’anno sono in scadenza sia i contratti non rinnovabili dei ricercatori entrati con l’ultimo bando del vecchio programma, sia quelli – rinnovabili – dei ricercatori entrati invece con il primo bando del nuovo programma. E per tutti si profilano grandi problemi. Andrea Gambassi, fisico teorico che, dopo alcuni anni passati al Max Planck Institut a Stoccarda, è tornato in Italia per lavorare alla Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (Sissa) di Trieste, fa parte dei 14 firmatari della lettera al ministro: «La legge prevedeva che, alla fine dei quattro anni, ci sarebbe stata una valutazione con possibilità di essere immessi in ruolo attraverso la chiamata diretta da parte dell’ente di ricerca. Anche perché concorsi negli ultimi tre anni non ci sono stati». L’ateneo quindi può fare domanda al ministero per assumere quel determinato ricercatore, la domanda deve passare dal Cun, Consiglio Universitario Nazionale, che a sua volta nomina degli esperti per valutare l’operato del candidato. Una procedura piuttosto lunga. «Purtroppo – si legge nella lettera – la legislazione induce a ritardare la presentazione delle istanze di chiamata diretta lasciando pochi mesi per la conclusione del loro iter». In parole povere, per fare le domande bisogna aspettare che il contratto sia in scadenza, ma poi rimane poco tempo per la valutazione e l’iter burocratico. Così, in caso di ritardi amministrativi, anche se il ricercatore fosse valutato positivamente, rischierebbe di rimanere senza contratto per alcuni mesi, mentre se l’esito della domanda fosse negativo, non rimarrebbe tempo per trovarsi un altro impiego all’estero senza passare per un periodo di disoccupazione. A ciò si aggiungono le lungaggini del ministero. Sta di fatto che «sono passati mesi, ma dal ministero non è arrivata nessuna comunicazione ufficiale», si legge nella lettera. In conclusione, i ricercatori, con i contratti in scadenza, ancora non sanno quale sarà il loro destino. «Vorrei che fosse chiaro che non chiediamo di essere stabilizzati ope legis – precisa Gambassi – ma di essere valutati in tempi certi e con una procedura razionale. E che i tempi delle risposte siano brevi in modo da programmare il nostro futuro». Le cose non vanno meglio per quelli che hanno vinto il bando per il Programma Levi Montalcini. Il contratto dei vincitori del 2009, selezionati nel 2010, dopo tre anni è in scadenza. In teoria dovrebbe essere rinnovabile per altri tre anni, ma al momento i ricercatori ancora non sanno cosa li aspetta, come mettevano in evidenza in una lettera di protesta scritta a ottobre scorso. Ma almeno il loro programma è partito. Quello che viene dopo è solo sulla carta: il bando del 2010 è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 28 febbraio 2012. Il comitato per la valutazione è stato nominata il 10 settembre, il 17 dicembre si è insediato e il 21 febbraio scorso ha pubblicato un comunicato in cui si legge che «concluderà i suoi lavori entro sei mesi dall’insediamento, salvo eventuali ritardi ». Il bando del 2011non è mai uscito. Per quello del 2012 le domande dovevano essere presentate entro il 3 marzo scorso, ma il concorso di due anni prima non si è ancora concluso. Naturalmente, tutto questo ha anche un costo, visto che il ministero ha stanziato fondi per il rientro dei ricercatori: «Per questo motivo crediamo che il ministero debba intervenire per evitare uno spreco di energie e risorse finanziarie ingiustificabile, specialmente in tempi difficili come quelli che l’Italia sta vivendo», conclude la lettera a Profumo. «C’è poi da chiedersi – conclude Gambassi – quale sia la reale credibilità di un programma che, nonostante venga presentato come esempio concreto di impegno ministeriale per la promozione dell’eccellenza, lascia di fatto i suoi beneficiari in un limbo di incertezze che ben poco ha a che vedere con tale promozione ».

l’Unità 07.04.13