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"La grande fuga dei giovani dall´Italia 80mila dicono addio, soprattutto al Nord", di Elena Dusi

Italia, un paese da cui fuggire. Il numero dei cittadini che la pensano così nell´anno passato è aumentato di un terzo. Nel 2012 a dare l´addio al paese sono stati 79mila italiani, quasi 20mila in più rispetto all´anno precedente (quando ci si era fermati a quota 61mila). A un´emorragia simile non si assisteva da decenni. E l´aspetto più grave dei dati registrati dall´Anagrafe della popolazione italiana residente all´estero (Aire) è che ad andarsene sono soprattutto i giovani fra 20 e 40 anni, pari al 44,8% degli emigranti, in aumento del 28,3% rispetto al 2011.
I registri dell´Aire catturano le dimensioni di un flusso, ma non tengono contro del titolo di studio o delle motivazioni di chi parte. A scavare in questi dettagli è stata, l´anno scorso, l´indagine Istat “Italiani residenti all´estero”. E qui l´impressione che l´emigrazione italiana sia diventata più qualificata – una vera e propria “fuga dei talenti” – viene confermata in pieno. Se l´unità d´Italia e la crudezza dei due dopoguerra hanno spinto a imbarcarsi per andare oltre oceano molti italiani del Sud e molti giovani maschi con poca istruzione, oggi sono soprattutto i laureati del Nord a lasciare il paese in cerca di un´opportunità all´altezza della loro preparazione.
In vent´anni la mappa dell´emigrazione italiana si è completamente capovolta. Nella prima metà degli anni ‘90 uno su quattro fra chi lasciava il paese partiva da una regione settentrionale. Oggi sono diventati più della metà (54%), mentre sono crollati gli addii dal Meridione: dal 61 al 27% rispetto al totale degli emigrati. Il risultato è che nel 2012 Lombardia e Veneto sono state le due Regioni che più hanno alimentato il deflusso di sangue giovane e prezioso, mentre la Germania è il paese di destinazione più gettonato.
Non c´è nulla di cui stupirsi se il sentiero che porta verso il nord Europa si è scavato sempre di più. Lo “spread” della disoccupazione fra Italia e Germania si è ampliato negli ultimi anni fino a diventare un dirupo: 11% per Roma contro il 7% per Berlino. E se si guardano i giovani con meno di 25 anni, in Italia 37 su 100 sono senza lavoro, contro l´8% dei coetanei tedeschi.
Ma riempire una valigia e partire oggi non basta più. I paesi che assorbono manodopera (oltre alla Germania, la Svizzera e la Gran Bretagna sono in testa alle mete dei giovani italiani) cercano lavoratori qualificati. Ecco perché gli emigrati con un diploma sono crollati tra il 2001 e il 2010 da 14 a 8mila, mentre i laureati sono l´unica categoria in aumento: da 3.879 a 6.276 italiani ogni anno e dall´8,3 al 15,9% rispetto al totale dei partenti. Sempre secondo i dati dell´Aire (anticipati ieri dalla trasmissione “Giovani talenti” di Radio 24), gli uomini che decidono di emigrare sono il 56% rispetto al 44% delle donne.
Una volta arrivati all´estero, i “giovani talenti” finiscono col trovarsi bene. Oltre la metà, secondo l´Istat, svolge un mestiere classificato come “dirigenziale” o come “professionista a elevata specializzazione”. Questo dato fra i giovani laureati rimasti in Italia è invece del 42%. E il prezzo del biglietto per andare all´estero è ampiamente ripagato dallo stipendio. Mettendo uno di fronte all´altro due laureati che lavorano a tempo pieno, quello che si trova in un paese straniero guadagna mediamente 540 euro in più rispetto al giovane che è restato in Italia.

La Repubblica 07.04.13

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Fuga dalla crisi, nel 2012 +30% gli italiani emigrati, di Marco Ventimiglia

Il fatto che una notizia non rappresenti una sorpresa, non significa che non possa addolorarci. Ed è proprio questo il sentimento che sorge nell’apprendere del boom di espatri in corso dall’Italia. È quanto emerge dai dati dell’Anagrafe Italiani all’estero (Aire) depositati presso il ministero dell’Interno, secondo cui nel 2012 la crescita degli emigranti è stata pari addirittura al 30%, passando dai 60.635 espatri del 2011 a 78.941. In particolare, per quanto riguarda la fascia d’età 20-40 anni, l’aumento degli emigranti è stato pari al 28,3%. Ed ancora, in 22 anni hanno lasciato l’Italia oltre 2 milioni di persone.
LOMBARDIA IN TESTA
I dati dell’Aire fotografano sotto molteplici aspetti le dinamiche di questa autentica ondata di emigrazione. E così si apprende che la Germania resta la prima meta di espatrio. In maggioranza a fare le valigie sono gli uomini: il 56%, contro il 44% di donne. Sostanzialmente in linea con i dati generali, come detto, la fascia dei più giovani, cresciuta in un solo anno del +28,3%. I 20-40enni italiani emigrati sono passati dai 27.616 espatri del 2011 ai 35.435 del 2012, alimentando quella che viene ormai definita «la fuga dei talenti» dalla Penisola (che ha costituito lo scorso anno il 44,8% del flusso totale di espatrio). Anche in questo caso prevalgono gli uomini (57%), sulle donne (43%), come pure prevale la fascia 30-40enni (20.650 espatri) su quella 20-30enni (14.785). I trentenni si confermano quindi la fascia d’età più propensa all’espatrio. A livello generale, la Lombardia si rivela la regione che maggiormente alimenta l’emigrazione dall’Italia: ben 13.156 lombardi hanno trasferito la propria residenza all’estero nel 2012, davanti ai veneti (7.456), ai siciliani (7.003), ai piemontesi (6.134), ai laziali (5.952), ai campani (5.240), agli emiliano-romagnoli (5.030), ai calabresi (4.813), ai pugliesi (3.978) e ai toscani (3.887).
Ragionando in termini di destinazione, il 62,4% degli emigrati nel 2012 ha scelto l’Europa come continente di destinazione (per un totale di 49.307), seguita dall’America Meridionale (14.083), dall’America Settentrionale e Centrale (7.977) e da Asia-Africa-Oceania (7574). Per quanto riguarda i singoli Paesi, la Germania è appunto la prima meta di destinazione (10.520 di italiani l’hanno scelta), seguita da Svizzera (8.906), Gran Bretagna (7.520), Francia (7.024), Argentina (6.404), Usa (5.210), Brasile (4.506), Spagna (3.748), Belgio (2.317) e Australia (1.683). Andando più nel dettaglio, la regione primatista nell’espatrio dei 20-40enni si conferma sempre la Lombardia, con 6.111 emigrati, seguita da Veneto (3.277) e Sicilia (3.110). Quarto il Piemonte (2.718), quinto il Lazio (2.542), sesta la Campania (2.421), settima l’Emilia-Romagna (2.195), ottava la Puglia (2.036), nona la Toscana (1.711), decima la Calabria (1.693). Il continente preferito dai 20-40enni italiani quale destinazione di approdo resta l’Europa, che nel 2012 ha assorbito ben il 69,2% del flusso di espatri degli under 40 (24.530 emigrati). A seguire l’America Meridionale (4.837), l’America Settentrionale e Centrale (3.110), e Asia-Africa-Oceania (2.958). E la Germania si conferma la nazione più attrattiva anche nei confronti dei giovani italiani tra i 20 e i 40 anni: nel 2012 si sono trasferiti in terra tedesca 5.137 di loro. Al secondo posto la Gran Bretagna (4.688), seguita dalla Svizzera (4.103). Quarta la Francia (2.946), sesti gli Usa (2.192), settima la Spagna (2.081), ottava l’Argentina (2.058), nono il Brasile (1.768), decimo il Belgio (1.012).
A partire dal primo luglio 1990 sono ben 2.320.645 gli italiani complessivamente espatriati dal nostro Paese, 595.586 dei quali appartenenti alla fascia 20-40 anni. Il dato non ha mai smesso di crescere a partire dal 2006, quando il loro numero superava di poco i due milioni. Ma l’incremento degli espatri nel 2012 (+30,1%) rappresenta un vero e proprio boom, mai verificatosi nei precedenti sei anni: la crescita più forte si era infatti registrata nel 2008 (76.088 espatri, +10% sull’anno precedente). Neppure nella fascia 20-40 anni, la più giovane e produttiva, si era mai registrato un incremento così rilevante: anche qui il record era riconducibile al 2008, con un +12% rispetto al 2007. Infine, gli italiani complessivamente residenti all’estero al 31 dicembre 2012 ammontavano a 4.341.156, in crescita di 132.179 unità rispetto all’anno precedente.

L’Unità 07.04.13

Lo stupro impunito del branco di Montalto "Io, stanca di combattere per avere giustizia", di Maria Novella De Luca

«Mi hanno preso la vita e rubato il futuro, ho sperato ogni giorno di avere giustizia, ma se avessi saputo che finiva così non li avrei mai denunciati. Ora sono stanca, non ho più la forza di combattere», racconta oggi M. L´hanno chiamato lo “stupro di Montalto di Castro”, dal nome di quel paese tra Lazio e Toscana che ha continuato testardamente a difendere i suoi “bravi ragazzi”, che nella notte tra il 31 marzo e il primo aprile del 2007 abusarono selvaggiamente di M., Maria, un nome che non è il suo ma le assomiglia. Oggi dopo sei anni e due processi, quella ferocia di gruppo è diventata il paradigma di quanto in Italia la violenza sessuale resti di fatto ancora impunita. E le vittime relegate nell´ombra di vite spezzate.
“Aveva la minigonna”, fu l´incredibile capo d´accusa del paese schierato in piazza davanti alle telecamere di Canale 5 per insultare Maria, che aveva la media del 9 a scuola, e quella sera di marzo aveva accettato dalla sua amica del cuore l´invito ad una festa in una discoteca di Montalto di Castro. Qualcuno poi l´aveva convinta ad uscire dal locale, per prendere un po´ d´aria nella pineta, gli altri erano sbucati dal buio. Il resto è incubo, vergogna, paura, l´avevano lasciata lì pesta, sanguinante, con le calze rotte. Per quindici giorni Maria si tiene il segreto, poi in lacrime racconta tutto al preside del liceo di Tarquinia che allora frequentava, e che l´aveva convocata per capire perché quell´allieva così brillante non facesse altro che piangere in classe. Sei anni e due processi dopo, nonostante la richiesta di 4 anni di carcere avanzata dal Pubblico ministero, e pur riconoscendo che il racconto di Maria è del tutto veritiero, il 26 marzo scorso il tribunale per i minori di Roma ha deciso per la seconda volta di affidare i colpevoli – alcuni lavorano, altri sono diventati padri, mai nessuno ha chiesto scusa a Maria – ai servizi sociali. Sospendendo così ancora una volta il processo.
E allora bisogna salire su una strada ripida alle porte di Tarquinia, trenta chilometri da Montalto di Castro, attraversare un ballatoio rigoglioso di fiori curati, e sedersi accanto ad Agata, la madre di Maria, 59 anni, quattro figli, Salvatore, Gianluca, Cinzia e Maria, gemelle, emigrata qui dalla Sicilia 23 anni fa, un marito camionista, lei stiratrice in lavanderia. E c´è tutto il dolore di una madre nei grandi occhi azzurri di Agata, un pudore violato, «per farla visitare la portai dalla ginecologa che l´aveva fatta nascere, ma alle cinque del mattino, per non incontrare nessuno».
Nel salotto che odora di pulito, con le foto in cornice e i buoni mobili di famiglia, Agata racconta. «Quello che hanno fatto a Maria lo sento ogni giorno sulla mia pelle, sono ferite aperte, era poco più che una bambina, oggi vive quasi nascosta, a casa di un´amica dove fa la baby sitter, ha smesso di andare a scuola, è l´ombra della bella ragazza che era, ha paura del buio, da quella notte maledetta non ha mai più messo una gonna, e in tutti questi anni nessuno dei suoi aguzzini, o dei loro genitori, mi si è avvicinato per dirmi mi dispiace, mio figlio ha sbagliato. Anzi, durante le udienze i ragazzi ridevano». Ci avevano già provato i giudici, nel 2009, a recuperare gli otto del branco, alla fine rei confessi, difesi da buoni avvocati e con famiglie abbienti alle spalle. Addirittura il sindaco di Montalto di Castro, Salvatore Carai, ancora oggi iscritto al Pd, contro ogni procedura aveva prelevato dalle casse comunali 40mila euro per difendere i violentatori. Una “messa in prova” fallita, durante la quale uno degli otto era stato addirittura arrestato per stalking contro la fidanzata, tanto che la Corte di Cassazione aveva revocato quel provvedimento, imponendo un nuovo processo di primo grado.
Continuerebbe a combattere Agata, vorrebbe impugnare quella “messa in prova” che non ha reso giustizia a sua figlia. Insieme a lei, da sempre, un´altra donna tenace, Daniela Bizzarri, ex consigliera delle Pari Opportunità di Viterbo. Una solidarietà che diventa amicizia. «L´affidamento ai servizi sociali di questi ragazzi, oggi tutti maggiorenni, si è già rivelato un fallimento la prima volta. Perché riproporlo e far passare il concetto che lo stupro è un delitto minore? Così passa il messaggio dell´impunità». E basta affacciarsi in uno dei tanti chioschi semiaperti sul litorale di Montalto, per capire perché Agata e Maria si sentano sole. «C´avete rotto i co…, è stata una ragazzata, e se l´hanno fatto vuol dire che lei li incoraggiava. Lasciateci vivere». Agata liscia con gesto di sempre la tovaglia inamidata sul tavolo. «Quelli vanno in giro, sono liberi, li vedi nei bar, si sono sposati. Maria ha perso venti chili, è dovuta andare via, a lei chi restituirà il futuro? Per questo vorrei ancora avere giustizia». Ma è Maria invece che come tante altre donne vittime di stupro, ha deciso di ritirarsi. Delusa. Stanca. «Non posso sostenere un nuovo processo – sussurra – ad ogni udienza sto male, vomito, ricominciare daccapo, vedere le loro facce… Li dovevano condannare, ma mi basta che i giudici mi abbiano creduto, che io sono una ragazza perbene. Ora cerco soltanto un po´ di pace».

La Repubblica 07.04.12

"Lo strappo dei banchieri centrali", di Francesco Guerrera

«Tre uomini soli sono al comando». Le parole di Mario Ferretti, che lui usò al singolare per immortalare Fausto Coppi, tornano utili per descrivere il momento unico della finanza mondiale. Tre uomini – Ben Bernanke, Mario Draghi e, da questa settimana, Haruhiko Kuroda – sono al comando dell’economia del pianeta. Dietro i tre banchieri centrali d’America, Europa e Giappone, un gruppone d’investitori che segue ogni loro movimento con un solo obiettivo: fare soldi nonostante le difficili condizioni dei tre grandi blocchi del cosiddetto mondo sviluppato.

Il frangente è quasi storico. Dopo la crisi finanziaria del 2008-2009, i grandi signori del capitalismo – le banche, le società e i fund managers – hanno abdicato la loro supremazia sui mercati. Al loro posto sono ascesi i burocrati di Washington, Bruxelles e Tokyo su un trono sorretto dalle pile di denaro stampate per resuscitare le economie di mezzo mondo.

La Federal Reserve, la Banca Centrale Europea e la Banca del Giappone hanno già iniettato 4700 miliardi di dollari nelle vene del capitalismo mondiale. Tanto per darvi un’idea, la somma è più del doppio del prodotto interno lordo dell’Italia. Le misure annunciate questa settimana da Kuroda per sconfiggere la depressione che affligge il Giappone da decenni, potrebbero aggiungere altri 1400 miliardi.

Le dosi da cavallo sono giustificate. La crisi di cinque anni fa ha paralizzato mercati, consumatori ed aziende. Il crollo della Lehman Brothers, la recessione negli Usa ed in Europa, e l’incertezza sul futuro hanno forzato i tre attori principali a prendere decisioni razionali ma deleterie per l’economia mondiale.

I mercati si sono buttati subito su beni-rifugio quali il dollaro e le obbligazioni del governo americano, lasciando società ed individui senza denaro per prestiti e mutui. I consumatori spaventati dalla crisi, hanno fatto catenaccio – ripagando debiti, risparmiando ogni spicciolo e riducendo consumi discrezionali come le cene al ristorante, la macchina nuova e le vacanze all’estero. E le aziende non sono state da meno, tagliando costi e posti di lavoro e rimandando grandi investimenti fino a quando la situazione non migliora.

«Era l’economia del “non vale la pena”», mi ha detto un banchiere di Wall Street. «Nessuno voleva rischiare».

E allora a rischiare sono state le banche centrali. Il ragionamento di Draghi and company è stato: a mali estremi, estremi rimedi. Se i motori dell’economia hanno paura di spendere denaro, abbassiamo il costo del denaro. E diciamo ai mercati che le nostre misure continueranno fino a quando non vediamo risultati concreti. O, come disse proprio Draghi, «faremo tutto il possibile» per salvare l’economia europea. E quella americana. E quella giapponese.

E’ per questo che parlo di momento storico. Un intervento monetario così massiccio e co-ordinato dalle tre banche centrali più importanti del mondo (sorry, Banca d’Inghilterra…) non si era mai visto.

Anche i risultati sono senza precedenti. Dopo un primo periodo di assestamento, e con la pausa della crisi europea, i mercati hanno risposto con entusiasmo alle mosse dei banchieri.

Tra tassi d’interesse bassissimi, interventi nel mercato del reddito fisso e svalutazioni monetarie, gli ultimi anni sono stati un paradiso per gli speculatori. Bernanke e i suoi lo hanno detto ripetutamente: vogliamo che gli investitori rischino di più perché solo quando gli «spiriti animali» di Keynes governano i mercati, le economie possono ritornare a crescere.

Il gruppone degli investitori ha seguito gli uomini al comando. Più rischio? Ecco i mercati azionari in America toccare nuovi record. Più rischio? Ecco i buoni del tesoro italiani e spagnoli vendere come churros appena sfornati. Più rischio? Certe obbligazioni «esotiche» che pensavamo, e speravamo, dimenticate dopo la crisi sono di nuovo di moda tra investitori grandi e piccoli.

Il bello, per gli investitori, è che questa corsa verso le parti meno sicure dei mercati finanziari non è stata sanzionata, anzi perfino incoraggiata, da banche centrali alla disperata ricerca di crescita. E’ come se dei genitori dessero il permesso ai figli teenager di fare una festa con alcol e marijuana quando sono via per un paio di giorni.

Come finirà? Dipende tutto dal quando le banche centrali decideranno di mettere fine all’era del permissivismo. William McChesney Martin, Jr, che fu a capo della Fed dal 1951 al 1970, disse che il ruolo della banca centrale è di portare via la coppa del punch quando la festa incomincia a farsi interessante.

Per ora, Bernake, Draghi e Kuroda non fanno altro che ri-riempire la coppa. Prima o poi, però, ritorneranno in cucina e ritireranno i miliardi di stimolo, lasciando i mercati a cavarsela da soli.

I banchieri centrali giurano che quel momento è molto lontano, che le economie sono ancora troppo deboli, lo spettro dell’inflazione inesistente. I mercati per ora ci credono ma gli investitori più intelligenti sanno che stanno giocando alla roulette russa con le banche centrali.

«E’ tutta una questione di tempo», mi ha detto il capo di uno dei più grandi fondi d’investimento americani questa settimana. «Quando la musica smette, in molti si troveranno senza sedia».

Il problema più serio, però, è che tutto questo stimolo sembra solo aiutare gli speculatori. L’economia reale rimane debole, sia in Europa, sia in America – basta guardare ai dati sul mercato del lavoro Usa usciti venerdì.

Vista la latitanza delle forze politiche, che non vogliono assolutamente rischiare l’impopolarità con misure di austerità o aumenti di tasse, i tre banchieri non hanno scelta: devono continuare a pompare denaro fino a quando l’economia non si riprende. Anche se stanno creando bolle speculative. Anche se qualche investitore ci perderà la camicia e forse anche di più.

Il vero pericolo per i tre uomini al comando è che la loro fuga si riveli una corsa verso il nulla.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York

La Stampa 07.04.13

"Quei buchi neri da sanare in fretta", di Tito Boeri

Sulla carta è la più grande manovra espansiva degli ultimi dieci anni. Ma il suo impatto sull´economia sarà purtroppo limitato perché è ancora troppo lungo e macchinoso l´iter con cui verranno saldati i debiti della pubblica amministrazione. E anche perché si guarda solo all´indietro, a come erogare quanto ad oggi dovuto alle imprese, anziché a impedire che nuovo debito occulto si accumuli in futuro. Per essere più rapidi nel liquidare crediti e per impedire che il problema torni a riproporsi bisognerebbe aggredire le inefficienze della nostra amministrazione pubblica, imporre alla tecnocrazia dei ministeri e degli enti locali di stilare i bilanci secondo quanto previsto dalla legge e abolire il federalismo contabile impostoci dalla Lega, quello che permette ad ogni Regione di stilare un bilancio diverso da quello delle altre Regioni e soprattutto poco trasparente. Difficile che un esecutivo dimissionario possa far fronte a un compito così gravoso. Improbabile che se ne vogliano far carico i politici che hanno negli ultimi dieci anni permesso che si accumulasse debito occulto per più di 100 miliardi e che oggi se la prendono con chi sta faticosamente cercando di affrontare il problema. Ha fatto bene il presidente del Consiglio ieri a denunciare l´ipocrisia di chi, sentendosi in campagna elettorale, invoca quei pagamenti immediati che non ha mai attuato quando era al governo e c´erano le condizioni macroeconomiche per saldare i debiti pregressi accumulati peraltro in buona parte sotto la sua gestione.
Il decreto varato ieri dal Consiglio dei ministri doveva affrontare contemporaneamente tre problemi.
Il primo era quello di mettere in sicurezza i conti pubblici, rassicurando i mercati onde evitare effetti negativi sullo spread. Molto importante in questo contesto che la Commissione Europea desse un sostegno nei fatti all´operazione, sospendendo la procedura per disavanzo eccessivo nei confronti del nostro Paese. Il secondo problema era quello di procedere il più rapidamente possibile con la liquidazione dei crediti, per dare impulso all´economia, senza però perdere di vista la necessità di assicurarsi che le amministrazioni pubbliche siano poi in grado di restituire i soldi che lo Stato sta loro prestando. Il terzo problema era quello di assicurarsi che i soldi arrivino davvero alle imprese e che le amministrazioni pubbliche paghino d´ora in poi i fornitori in maniera trasparente ed entro i 30 giorni previsti dalla direttiva europea.
Le misure adottate ieri sono efficaci sul primo aspetto, molto meno sul secondo e affrontano il terzo solo con riferimento al debito accumulato, invece che preoccuparsi dei flussi futuri di pagamenti. Vediamo perché.
Per beneficiare della sospensione della procedura di disavanzo eccessivo, il nostro Paese deve riportare il rapporto fra deficit pubblico e pil sotto il 3 per cento. Mentre i 40 miliardi sbloccati ieri andranno tutti ad aumentare il debito pubblico, solo una parte di questi peserà sul deficit: si tratta delle spese in conto capitale (per esempio investimenti in infrastrutture) delle amministrazioni locali, che vengono oggi contabilizzate in termini di cassa e non competenza (ciò che conta per i parametri europei). Ci sono poi spese che non sono mai state iscritte a bilancio e che ovviamente, se riconosciute, farebbero lievitare il deficit. Come candidamente confessato ieri dal ministro Grilli, nessuno sa oggi quantificare a quanto ammontino le spese infrastrutturali da liquidare, figuriamoci le poste fuori bilancio. Il governo però si è impegnato a monitorare tutti crediti liquidati e ad assicurare che nel 2013 non più di 7 miliardi e mezzo vadano a ciò che fa aumentare il disavanzo. Nel caso si sforasse, a settembre l´esecutivo in carica dovrà comunque trovare un modo per coprire spese al di sopra di questa soglia, in modo tale da non far aumentare il disavanzo più di 7 miliardi e mezzo. Questa somma è esattamente la cifra che porta il nostro deficit dal 2,4 del pil, stimato dal governo in assenza del provvedimento varato ieri, al 2,9 per cento, dunque appena al di sotto di quanto ci impone la Commissione.
Il prezzo di queste garanzie offerte all´Europa è che qualora si scoprisse che il disavanzo sta aumentando di più, il governo a settembre potrà dilazionare ulteriormente i pagamenti, spostandone una parte sul 2014. Questo però è in contraddizione con l´intento di dare fin da maggio di quest´anno tempi certi di pagamento a tutti i creditori selezionati come beneficiari dei 40 miliardi, il che ci porta al secondo problema. Per avere effetti importanti sul rilancio della nostra economia, sarebbe stato importante liquidare i crediti rapidamente. Non solo perché ci sono molte imprese che rischiano altrimenti di chiudere, ma anche perché solo concentrando questa immissione di liquidità nel sistema in un arco di tempo ristretto si possono avere effetti significativi sul rilancio della nostra economia. Purtroppo non sarà così. Le procedure di erogazione sono state velocizzate rispetto alla bozza che avrebbe dovuto essere approvata nel Consiglio dei ministri di mercoledì scorso. Ma rimangono comunque complesse. Solo i Comuni che hanno già in cassa le risorse necessarie potranno pagare con una certa celerità, ma essendo le amministrazioni più virtuose spesso le stesse che hanno impegni per infrastrutture anziché spesa corrente, dovranno comunque sottostare al vincolo dei 7 miliardi e mezzo. Gli altri Comuni dovranno indebitarsi sottoscrivendo contratti con la Cassa Depositi e Prestiti, a tassi elevati (gli attuali rendimenti dei Btp quinquennali). Sono norme che garantiscono lo Stato che presta ai Comuni, piuttosto che le imprese destinatarie dei pagamenti in quanto amministrazioni decentrate avranno scarsi incentivi a indebitarsi con lo Stato, temendo anche di finire nella “lista nera” dei Comuni soggetti a monitoraggio. In ogni caso, anche nella migliore delle ipotesi, i 40 miliardi verranno interamente liquidati non prima del settembre 2014. Inoltre per saldare i 50 miliardi e più di debito residuo, si conta di utilizzare le stesse procedure di certificazione che hanno sin qui fallito: meno di un decimo delle amministrazioni locali ha certificato i propri debiti da inizio 2013 anche perché non aveva nessun incentivo a farlo.
Il nodo di fondo che i controlli e le procedure farraginose si impongono perché nessuno oggi sa a quanto ammontino davvero i debiti commerciali della pubblica amministrazione verso le imprese. Si teme così che, aprendo uno spiraglio, ci si infili dentro di tutto. Per accelerare i pagamenti e per evitare che nuovi debiti si accumulino in futuro bisognerebbe ridurre il disordine amministrativo e contabile delle nostre amministrazioni pubbliche. La sensazione è che, in non pochi casi, debiti occulti siano stati accumulati sottoscrivendo contratti con privati, specie nella sanità, senza neanche rendersi conto degli impegni di spesa che si finiva per prendere. E una delle ragioni per cui la certificazione ha fallito è che si scontra con l´incapacità di molte amministrazioni di ricostruire i propri bilanci. C´è poi l´opacità contabile attivamente ricercata e quella permessa dal federalismo che oggi consente ad ogni Regione di avere un bilancio diverso.
Solo affrontando questi problemi si potrà davvero accelerare non solo sulla carta i pagamenti della Pa, riducendo l´incertezza per chi fa impresa, il peggior nemico degli investimenti. Per riformare la macchina dello Stato e per imporre un sistema di contabilità locale trasparente, che responsabilizzi agli occhi degli elettori chi gestisce le risorse pubbliche, ci vuole però un governo nel pieno delle sue funzioni. Bene che ci pensi chi oggi vuole tenere in vita un governo dimissionario mentre a parole sostiene la causa della trasparenza nella gestione delle risorse pubbliche.

La Repubblica 07.04.13

«Una riforma: reintrodurre i pensionamenti volontari», di Valerio Rosa

Figura di rilievo del sindacalismo italiano degli anni 70 e 80, a lungo presidente della commissione sulla povertà, Pierre Carniti guarda sconsolato al triste spettacolo di un establishment incapace di affrontare la disoccupazione dilagante. «Quello di Civitanova è un episodio drammatico, che interpella la coscienza dei tanti che purtroppo invece sono o si ritengono del tutto estranei a queste tragedie. Ma è anche la conferma di come la misura adottata dal governo tecnico con la cosiddetta riforma delle pensioni, accanto ad elementi su cui si poteva discutere, ne aveva altri assolutamente incredibili. Penso in particolare ai fattori che hanno prodotto la situazione degli esodati, che non possono percepire la pensione ma nemmeno lavorare, anche per via della loro condizione anagrafica. La loro situazione di insicurezza e difficoltà è aggravata dal fatto di essere senza speranza e senza alcuna ragionevole prospettiva».
Che cosa avrebbe dovuto fare il governo?
«Dati per acquisiti i cambiamenti demografici, con la conseguente necesità di rivedere periodicamente la struttura del sistema pensionistico, bastava una riforma elementare: reintrodurre il pensionamento volontario previsto con la riforma Amato e con la riforma Dini e poi caduto in disuso per ragioni che mi risultano tuttora misteriose. In un sistema contributivo la fissazione di un’età pensionistica obbligatoria non ha nessuna ragion d’essere: decidendo diversamente questi tecnici si sono rivelati anche un po’ incompetenti, benché siano stati definiti esperti. Non si rendono conto che il lavoro resta un elemento fondamentale di cittadinanza e di appartenenza: essere senza lavoro non significa essere esclusi».
Stiamo conoscendo il dramma dei disoccupati in età avanzata…
«Questa è una specificità italiana. Nella Germania che tutti citano a modello c’è un incremento dell’occupazione anziana addirittura maggiore rispetto a quello dei lavoratori con età media, perché le aziende, a differenza delle nostre, che forse anche per questo non vanno tanto bene, ritengono che l’esperienza sia un fattore degno di essere preso in considerazione, sia per la qualità del prodotto sia per le innovazioni da introdurre nei sistemi di produzione. Da noi accade l’esatto contrario: dopo una certa età si è in esubero, esclusi, marginalizzati».
Chi giustifica l’azione del governo tira in ballo l’Europa…
«L’Europa ci chiede anche un po’ di sciocchezze, ad alcune delle quali noi ci siamo piegati, come il pareggio di bilancio del 2013, sottoscritto dal duo Tremonti-Berlusconi e poi confermato dal governo dei tecnici o presunti tali. Ma oltre a quello che ci chiede l’Europa non ci mettiamo del nostro con una politica depressiva. La riforma del lavoro ha aggravato molte situazioni, rendendo tutto più difficile. I nostri tre milioni di disoccupati sono una parte del tutto, perché bisogna aggiungervi i cassintegrati e gli scoraggiati, che dopo anni di tentativi inutili hanno rinun- ciato a cercarsi un lavoro. E visto che manca la domanda, noi cosa facciamo? Interveniamo sull’offerta, inventandoci gabole assurde e con- traddittorie. Dovremmo incremen- tare l’occupazione con iniziative di politica economica, e invece ci dedichiamo alle riforme istituzionali, alla legge elettorale, al superamento del bicameralismo… Giusto così: visto che non abbiamo problemi più importanti da affrontare, possiamo occuparci di cose non prioritarie e non essenziali… Sono impegnati da mesi in discussioni inutili e in parte anche ridicole. Come si diceva a scuola, il governo dei tecnici è andato fuori tema: o non aveva le compe- tenze e i mezzi per trattare il tema vero o aveva troppi vincoli».
Anche il sindacato è andato fuori tema?
«Il sindacato è in gravi difficoltà, in parte per ragioni oggettive: la situazione economica è quella che è, ma proprio per questo, e lo dico col dovuto rispetto essendoci passato anch’io, occorre una convergenza unitaria che io francamente non vedo. Sarebbe auspicabile una convergenza reale intorno ad alcuni obiettivi, ma se gli elementi di identità organizzativa finiscono per prevalere sulle necessità di coesione e di impegno comune sarà difficile raggiungere dei risultati. Bisognerebbe aprire una discussione sull’unità: non ci sono differenze culturali o di altra natura che in una situazione così drammatica possano giustificare una divi- sione e una contrapposizione». Secondo lei è anche per questo che una parte non piccola dell’opinione pubblica non ripone speranze nell’azione dei sindacati?
«Credo che non abbiano ancora raggiunto il livello di discredito dei partiti, ma sono sulla buona strada».

L’Unità 06.04.13

Sisma, Pd “Necessaria la proroga dello stato d’emergenza”

Venerdì sera a Camposanto un incontro sulle necessità della ricostruzione post-sisma. Folto momento di incontro venerdì sera a Camposanto, primo Comune nell’area del sisma ad andare al voto, promosso dalla segreteria provinciale del Pd, per fare il punto, con i neo parlamentari Pd modenesi, sull’agenda, i temi e soprattutto le istanze ineludibili per la ricostruzione post-terremoto che chiedono una risposta da Roma. Presenti tutti i livelli di responsabilità politica ed amministrativa, sindaci, capigruppo consiliari, segretari comunali dei circoli Pd, unitamente al livello regionale, nelle figure dell’assessore Muzzarelli, del presidente dell’Assemblea legislativa Palma Costi e del segretario regionale Pd Stefano Bonaccini. Ecco il commento di Paolo Negro, coordinatore e segretario provinciale vicario del Pd:

«E’ stato un dibattito ampio che ha visto messi a fuoco tutti i temi caldi della ricostruzione, a partire dai grandi campi che il Pd, insieme ai suoi amministratori, aveva con chiarezza messo a punto alla vigilia delle elezioni politiche nei “10 impegni per la ricostruzione”: casa, impresa e ricostruzione del patrimonio storico-identitario. Ancora una volta una delle maggiori strozzature e’ stata individuata e ribadita nel Patto di stabilità che, se oggi tiene in apnea tutti i Comuni, rischia di soffocare l’intera impalcatura della ricostruzione se non si allentano per i Comuni colpiti dal sisma i vincoli del Patto, insostenibili dopo una catastrofe naturale, sia quelli relativi ai saldi di cassa che quelli relativi al personale. L’altro grande tema è quello relativo a liquidità, accesso al credito e fisco per le imprese, a partire dalla revisione degli studi di settore e dalla proposta di una fiscalità strutturale di vantaggio per l’area colpita dal sisma. Scelta e necessità condivisa, per rendere percorribili e praticabili giuridicamente molti di questi temi, la proposta che il Governo, anche quello in carica, proroghi lo “stato d’emergenza” da fine maggio al 31 dicembre 2013. Noi misuriamo in tutta la sua drammaticità l’assenza di un Governo nella pienezza dei suoi poteri, un’esigenza vitale per il Paese e tanto più per la questione nazionale ricostruzione dell’Emilia, perché diverse e decisive sono le misure che con urgenza Governo e Parlamento devono assumere per accompagnare la ricostruzione. Non ci possiamo permettere di segnare il passo: qualunque cosa accadrà a livello nazionale, noi ci siamo, già oggi, a dare battaglia con idee chiare e proposte puntuali che dobbiamo tenere bene nel mirino. Una scelta e un messaggio molto importante e’ la nascita di un coordinamento permanente dei parlamentari Pd dell’Emilia-Romagna sul tema post-terremoto, che vede fra i punti di riferimento due modenesi, Stefano Vaccari e Manuela Ghizzoni, già al lavoro. Oggi, senza attendere, chiediamo e chiederemo risposte urgenti, con tutti i nostri parlamentari, insieme alla Regione, per essere a fianco degli amministratori locali, delle imprese, dei cittadini. La prima urgenza che il Pd pone oggi e’ la proroga dello stato d’emergenza nell’area del sisma al 31 dicembre 2013. Per il passo che dobbiamo tenere verso la ricostruzione, non è una gentile concessione, ma una preliminare ed urgente necessità».

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VVFF Vignola, Ghizzoni e Vaccari interrogano il ministro Cancellieri

“Occorre scongiurare la chiusura del distaccamento di Vignola, fondamentale per la zona”. I parlamentari modenesi del Pd Manuela Ghizzoni e Stefano Vaccari lunedì depositeranno alla Camera e al Senato una interrogazione dal medesimo contenuto indirizzata al ministro dell’Interno Cancellieri per chiedere che il distaccamento dei Vigili del fuoco di Vignola continui la sua fondamentale attività di prevenzione e pronto intervento. “La sede distaccata nella zona delle Terre di Castelli – affermano Ghizzoni e Vaccari – è stata fortemente voluta per la sua importanza e localizzazione strategica al servizio di un territorio vasto e di un tratto di autostrada. La presenza dei vigili del fuoco è irrinunciabile”. Dopo anni di richieste, battaglie politiche e sforzi delle amministrazioni e dei lavoratori, finalmente, venne aperto il distaccamento dei vigili del fuoco di Vignola, capace di servire, con un nastro orario continuato, un territorio vasto e anche un tratto di autostrada. Ora quel traguardo così faticosamente raggiunto viene messo in discussione: Cgil e Cisl hanno denunciato che, nel piano nazionale di tagli e risparmi, una delle vittime eccellenti potrebbe essere proprio la sede distaccata dei pompieri di Vignola. I parlamentari modenesi del Pd hanno deciso di investire della questione direttamente il ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri. Lunedì prossimo, infatti, una interrogazione dal medesimo contenuto verrà depositata contemporaneamente alla Camera dei deputati da Manuela Ghizzoni e al Senato da Stefano Vaccari. “Non è accettabile che un presidio strategico come quello vignolese possa anche solo essere messo in discussione – commentano Ghizzoni e Vaccari – Occorre che il Ministero dell’Interno chiarisca quanto è trapelato nel corso di riunioni avvenute a livello locale. La decisione di sopprimere nella nostra regione diversi distaccamenti cosiddetti “misti”, ovvero gestiti con personale di ruolo e volontario, impoverisce il territorio proprio in un settore come quello della sicurezza di fondamentale importanza per i cittadini e le imprese del territorio. Tra l’altro, ricordiamo, – continuano i parlamentari modenesi – che il distaccamento di Vignola è sì classificato come “misto”, ma in realtà è gestito esclusivamente con personale di ruolo. Il ministro Cancellieri deve smentire questi piani – concludono Ghizzoni e Vaccari – anche soluzioni di ripiego non possono essere accettate. Il servizio dei vigili del fuoco di Vignola è irrinunciabile per il nostro territorio”.