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"Semplicismo, malattia italiana", di Mario Deaglio

Il trascinarsi della crisi politica e l’aggravarsi della crisi economica sembrano andare di pari passo con la banalizzazione delle posizioni sull’economia: un numero sempre maggiore di persone pensa infatti che la crisi si possa risolvere con facilità. La convinzione che tutto sia facile è una grave malattia che si potrebbe definire «semplicismo». I semplicisti – in questa categoria bisogna purtroppo includere anche buona parte della classe politica – pensano che per invertire la congiuntura negativa, far ripartire la crescita, risanare le finanze pubbliche sia sufficiente qualche piccolo provvedimento da scegliere a piacere tra i seguenti (tutti lodevoli di per sé): ridurre le imposte, colpire gli evasori fiscali, pagare i debiti delle amministrazioni pubbliche verso le imprese, ridurre i costi della politica.

Il semplicista ritiene che, se si adottasse la misura, o una delle misure, da lui preferita, il meccanismo economico italiano si rimetterebbe in moto, come per incanto, e l’economia rifiorirebbe.

Le ricette miracolose dei semplicisti vengono spesso espresse in messaggi di «twitter» da 140 caratteri; così che tutti gli italiani dotati di computer le possano leggere in un minuto e commentare al bar nel tempo necessario a prendere il caffè. Tutto ciò non sarebbe un gran male se tracce sempre più consistenti di semplicismo si possono rilevare sui siti e nei blog delle forze politiche, nei discorsi dei leader, negli abbozzi di programma dei partiti che cercano, con scarso successo finora, di dar vita a un nuovo governo.

Le cose, purtroppo, non sono semplici in alcun Paese del mondo; meno che mai il semplicismo può funzionare in Italia, un Paese in cui, anche per la sua intricata struttura sociale, geografica e produttiva, l’economia è una macchina al tempo stesso molto complicata e molto delicata. Eppure l’idea che siano necessarie medicine economiche complesse e ben calibrate, che sono efficaci soltanto in tempi lunghi, non viene neppure presa in considerazione dai semplicisti.

Il semplicismo comporta due effetti collaterali piuttosto seri. Il primo è la convinzione che i problemi, in realtà, non esistono, sono soltanto il risultato di montature mediatiche, oppure che sono comunque lievi, complicati dalla cattiva volontà dei politici. La crisi? Non c’è, guardate ai ristoranti sempre pieni, disse non più tardi di due anni fa l’allora presidente del Consiglio, (trascurando, tra l’altro, che al ristorante la gente, per spendere meno, riduceva il numero delle portate). Chi ricorda la ventennale mancanza di crescita dell’Italia, sintomo di declino del Paese, viene spesso guardato con sospetto, fino a poco tempo lo si definiva «sfascista» e gli si rimproverava di credere troppo alle statistiche e di non vedere i successi mondiali del calcio e del «made in Italy».

Il secondo effetto collaterale consiste nel credere che le soluzioni semplici possano meglio essere adottate da un leader che prenda in mano la situazione, forse un riflesso del mussoliniano «uomo della Provvidenza». In tempi brevissimi questo leader potrebbe uscire dall’euro, tagliare gli sprechi, vendere beni pubblici. Ci si dimentica che all’euro l’Italia è legata da un trattato internazionale; che tagliare gli sprechi significa in ogni caso tagliare posti di lavoro e che occorre contemporaneamente incrementare direttamente le spese produttive se si vogliono evitare effetti recessivi; e che la vendita di beni pubblici deve seguire, nella stragrande maggioranza dei casi, una disperante procedura giuridica che può durare diversi anni.

Un particolare caso di semplicismo riguarda il recente provvedimento del governo sul pagamento dei debiti alle aziende fornitrici. E’ un’illusione che questi denari – che lo Stato, tra l’altro, metterà a disposizione degli enti debitori solo con il contagocce – possano da soli far ripartire l’economia. Le imprese alle quali saranno accreditati, infatti, vedranno con molta soddisfazione alleggerirsi il colore rosso nei loro conti bancari, alcune emetteranno un sospiro di allievo per essere così riuscite a evitare il fallimento; passerà però come minimo un po’ di tempo perché si mettano a pensare a nuovi investimenti. Le banche creditrici, dal canto loro, saranno liete del rientro dei clienti da posizioni difficili, spesso incagliate, ma solo molto lentamente questa minor difficoltà si tradurrà nella volontà di correre nuovi rischi prestando ad altre imprese. Per usare le parole di un portavoce del commissario Olli Rehn, che ieri ha commentato il provvedimento italiano, «accelerare il pagamento dei debiti non è una bacchetta magica». E si potrebbe aggiungere che sarebbe ora che gli italiani smettessero di credere che le bacchette magiche esistono.

In realtà ciò che esiste è un Paese seriamente malato che ha di fronte a sé cure incerte e di lunga durata, un «long, hard, slog», ossia una «sfacchinata lunga e dura», come disse Winston Churchill in un discorso durante la Seconda guerra mondiale che Margaret Thatcher riprese frequentemente nel presentare agli inglesi la sua ricetta di risanamento economico. Probabilmente non abbiamo oggi in Italia alcun bisogno delle ricette thatcheriane, ma la lunghezza e la durezza del percorso dovrebbero essere ricordate dai politici agli italiani; molti dei quali continuano a ritenere che il loro futuro economico, grazie a semplici provvedimenti, sia una piacevole gita fuori porta.

La Stampa 09.04.13

"Non solo risorse, contro la crisi più autonomia alla scuola", di Antonio Cocozza*

È necessario dar vita ad una nuova cultura orientata ai principi dell’autonomia responsabile e dell’accountability, dove la comunità scolastica nel suo insieme risponde in modo trasparente dei risultati conseguiti. Da uno studio Eurostat, su dati 2011, emerge che l’Italia investe solo l’1,1% in cultura, classificandosi ultima tra tutti i Paesi dell’Ue a 27, mentre la Germania è all’1,8%, la Francia al 2,5% e il Regno Unito al 2,1%. Inoltre, a seguito dei tagli praticati negli ultimi anni, la spesa per l’istruzione è giunta all’8,5%, penultima posizione nell’Ue, prima solo della Grecia ferma al 7,9%.A partire da questi dati, nel nuovo contesto politico istituzionale che si sta formando in questi giorni, che dovrebbe essere guidato dal contributo dei saggi scelti dal Presidente Giorgio Napolitano, è necessario adottare una strategia, il più possibile condivisa dall’insieme degli attori coinvolti, finalizzata a perseguire un obiettivo strategico e prioritario per il Paese: il rilancio della cultura, come volano per lo sviluppo e del sistema educativo, come bene comune da salvaguardare al di sopra delle parti, in una prospettiva di piena e corretta applicazione dell’autonomia scolastica tesa a valorizzare la scuola nella dimensione di comunità educante.

Tale scelta risulta essere ancora più necessaria oggi, poiché la crisi non ha solo un carattere economico e finanziario, ma affonda le sue radici nella mancanza di valori condivisi e nell’elevata e pervasiva conflittualità politica e sociale.

Per queste ragioni, non si tratta di elaborare ennesime prodigiose riforme, ma di dare attuazione a norme già esistenti, secondo i principi di opportunità e adeguatezza, e conseguire alcuni significativi risultati, frutto di analisi e proposte ragionevoli elaborate con il concorso responsabile di tutte le componenti della comunità scolastica, dai docenti, agli studenti e alle famiglie.

In questa prospettiva, l’autonomia potrebbe essere considerata la strada maestra attraverso la quale poter costruire una scuola al passo con i tempi, più efficace, ma anche maggiormente orientata ai bisogni degli studenti e alle attese delle famiglie e degli stakeholders presenti sul territorio.

È necessario dar vita ad una nuova cultura orientata ai principi dell’autonomia responsabile e dell’accountability, dove la comunità scolastica nel suo insieme risponde in modo trasparente dei risultati conseguiti.

Del resto, come dimostrano le indagini Ocse degli ultimi anni, i Paesi che conseguono i migliori risultati educativi hanno sistemi scolastici basati proprio su questi principi e puntano ad un responsabile coinvolgimento di tutti gli attori.

Tali indagini evidenziano alcuni fenomeni tipici del nostro sistema scolastico, sui quali sarebbe necessario attivare un’accurata riflessione: necessità di ottimizzare la spesa complessiva per l’istruzione; estensione e consolidamento dell’autonomia conferita alle istituzioni scolastiche; revisione di obiettivi, programmi, tempi e metodologie didattiche, in funzione del miglioramento dei risultati degli apprendimenti rilevati dalla ricerca Ocse Pisa; remunerare meglio e valorizzare il lavoro degli insegnanti; ridurre drasticamente la percentuale di dispersione scolastica.

In questo quadro così composito, sono individuabili cinque azioni strategiche verso le quali orientare gli sforzi e le risorse disponibili:

a) elaborare un nuovo Testo Unico della legislazione scolastica, che elimini sovrapposizioni e prescrizioni contraddittorie su varie materie, e aggiornare le norme che regolano il funzionamento degli Organi collegiali interni e territoriali;

b) rendere più funzionale il riparto di competenze tra stato e regioni previsto dal Titolo V della Costituzione;

c) costituire un organico d’istituto, funzionale alla progettazione e gestione del ciclo scolastico;

d) avviare un sistema di valutazione di sistema, che analizzi i diversi livelli di performance, dagli apprendimenti degli studenti, a quelli dei docenti, fino ai risultati del dirigente scolastico e dell’istituto, formalmente e sostanzialmente autonomo dal Miur;

e) dare vita a progetti mirati al contrasto alla dispersione scolastica, alla formazione dei docenti e alla diffusione delle nuove tecnologie.

In definitiva, si tratta di lanciare una sfida fondata sulla valorizzazione della ricerca e dell’innovazione, sull’ampliamento delle competenze e il sostegno di comportamenti personali e istituzionali virtuosi ed eticamente responsabili.

*Università Roma Tre e LUISS Guido Carli
da ItaliaOggi 09.04.13

"Pensioni in calo, assunzioni a rischio", di Pippo Frisone

Non ci voleva il mago Otelma per prevedere gli effetti della riforma Fornero sul personale della scuola. A tempo oramai scaduto, il Miur ha comunicato alle OO.SS. i dati in suo possesso e rilevati al 20 marzo, distinti per regioni, province e per ordini di scuola. E non solo. Non tutti sanno però che esistono ben 15 modi di andare in pensione o di cessare il proprio rapporto di lavoro con lo Stato.

Si cessa dal servizio per i motivi più disparati. Dalle dimissioni volontarie all’età, dall’inidoneità fisica all’inabilità, dall’insufficiente rendimento al superamento dei limiti per malattia, dal licenziamento con preavviso a quello senza preavviso, dalla decadenza dell’impiego alla destituzione di diritto e via discorrendo.

Ma sono le dimissioni volontarie, il raggiungimento dell’anzianità massima di servizio o dell’età e le pensioni anticipate a costituire oltre l’80% del totale delle cessazioni.

Quel che più colpisce nei dati del Miur è il netto calo dei pensionamenti rispetto al 2011/12 che precipitano al di sotto del 50%. Il totale nazionale riferito al personale docente ammonta appena a 10.009 unità di cui 3.187 alle superiori, 3.090 alla primaria, 2.439 alla media e 1.293 all’Infanzia.

La regione con più alto numero di pensionamenti è la Lombardia con 1.228, seguita dalla Sicilia con 1.162 mentre quella col più basso numero è il Friuli con 57 seguita dal Molise con 61.

Quanto alle province è in testa Milano con 533 pensionamenti di cui 53 all’Infanzia, 172 alla Primaria, 140 alla Media, 168 alle Superiori.

Il discorso cambia col personale ATA. I pensionamenti in questo settore ammontano a 3.343 unità di cui 756 Amministrativi, 172 Tecnici, 2.180 Collaboratori Scolastici, 224 DSGA, 6 Guardarobieri,2 Cuochi e 3 ex Responsabili Amministrativi.

La prima regione tra gli Ata risulta essere la Sicilia con 487 pensionamenti contro i 325 della Lombardia , 290 della Puglia,187 del Piemonte e 177 della Toscana.

A Milano i pensionamenti degli Ata precipitano a 141 unità di cui, 44 A.A., 8 AT, 82 CS, 7 DSGA.

Il calo delle cessazioni, pur se generalizzato, avrà un effetto più devastante in quelle regioni che a tale calo aggiungeranno quello sulle iscrizioni e quindi degli organici, con un effetto moltiplicatore sugli esuberi.

Meno pensionamenti vuol dire minore disponibilità. Meno classi vuol dire riduzione di organici.

Il combinato disposto tra il dato preoccupante sui pensionamenti e la riduzione degli organici, avrà come probabile conseguenza, soprattutto nelle regioni meridionali, già ora in forte sofferenza, un aumento esponenziale dell’esubero, con gravi ripercussioni non solo sulla mobilità interprovinciale in entrata verso tali regioni ma anche sull’intero meccanismo del reclutamento.

I contingenti per le assunzioni in ruolo, sia quelli già accantonati alle procedure concorsuali sia quelli da definire per le Graduatorie ad esaurimento, dovranno fare i conti con questa inedita ma non imprevista strozzatura, dovuta al drastico calo dei pensionamenti.

In presenza di esubero in organico di diritto, dopo i trasferimenti e passaggi,non si procede ad alcuna assunzione in ruolo. A meno che per evitare di buttare a mare qualche concorso o di congelare più d’una graduatoria ad esaurimento, si decida di allargare la base delle disponibilità all’organico di funzionamento, superando una volta per tutti la distinzione fra organico di diritto e organico di fatto, dando alle scuole una volta per tutte, organici funzionali triennali e organici aggiuntivi di rete.

Ma per fare ciò ci vuole un governo politico degno di tal nome. Non un governicchio, di scopo o balneare che nella migliore delle ipotesi è quel che ci aspetta.

Se la scuola non tornerà ad essere una priorità, qualunque sia il governo che verrà, sarà condannata a restare quella voluta dal duo Tremonti-Gelmini, quella dei tagli, inchiodata all’art.64 della L.133/08.

A quaranta giorni dal voto, purtroppo, di questa priorità non c’è ancora alcuna traccia!

da ScuolaOggi 09.04.13

"Le aule, da bivacco a spettacolo così le Camere diventano una trincea", di Filippo Ceccarelli

Sorde o meno che siano, e grigie, come Mussolini designò quella della Camera nel 1922, da un quarto di secolo le aule del Parlamento corrono spesso il rischio, per non dire l’abitudine, di venire occupate. Da chiunque, in verità, senza troppe distinzioni di schieramento, almeno nella Seconda Repubblica. Prima, le culture e le appartenenze politiche garantivano una cornice di comportamenti più sobri e una certa prudenza, anche disciplinare, sconsigliavano misure così vistose ed estreme. Bastava l’ostruzionismo, d’altra parte, e anche i regolamenti di Camera e Senato erano diversi. Sta di fatto che mai i parlamentari comunisti, cioè la maggior forza d’opposizione, avrebbero ritenuto efficace occupare, per giunta da soli, l’emiciclo.
Per cui la pratica barricadera arriva nelle assemblee sulla spinta delle lotte post-Sessantotto, e non deve essere un caso che a introdurla a Montecitorio, nella seconda metà degli anni 70, furono i radicali, e quindi con un’impostazione prettamente non-violenta.
E anche in questo, come in tante altre attività, furono buoni profeti.
E tuttavia la prima occupazione d’aula di cui si trova traccia nelle banche dati avviene nel gennaio del 1988 da parte dei deputati del Msi, con tanto di Almirante presente in aula e del giovane Fini che faceva la spola con i giornalisti in Transatlantico. Protesta contro un maxi-emendamento sulla Finanziaria — anche se di solito le motivazioni e i pretesti sono destinati per lo più all’oblio.
Molto più contano le modalità dell’occupazione. Mario Capanna, ad esempio, occupò da solo; e dopo di lui anche l’eccentrico socialista Franco Piro; e poi i verdi, per via della guerra con l’Iraq, e quindi di nuovo i missini; e per la prima volta toccò al Senato, nell’estate del 1992, allorché i rifondatori del comunismo si presero lo sfizio di passare qualche ora nell’aula-bomboniera e a uno di loro toccò l’estatico capriccio di sedersi sullo scranno più alto, quello che la storia riservava a Spadolini.
E tuttavia, calando nello specifico organizzativo, in genere gli occupanti prediligono i banchi del governo, e non solo per sfida beffarda al potere. E’ che lì ci sono delle sedie e nell’ipotesi malaugurata di sgombero, da attuarsi dai robusti commessi di Montecitorio e di Palazzo Madama, gli onorevoli invasori vengono trasportati fuori, pure con qualche garbo, insieme alle sedie, un po’ come accadeva al Papa fino a qualche tempo fa.
Sennonché le fattispecie dell’occupazione, che a volte si limita a qualche commissione parlamentare, sono infatti varie e pure abbastanza diverse. E qui i nuovi arrivati del M5S non se la devono prendere, ma un’iniziativa che non preveda di passare la notte tra i banchi rischia di partire un pochino «scamuffa», come si dice a Roma, cioè deboluccia, vorrei ma- non-posso.
E magari pure fredda, che dal punto di vista mediatico è la peggiore sciagura. Ai leghisti si devono invece — e siamo già negli anni duemila — le più infuocate caciare. Specialista era l’allora capogruppo Cè, poi caduto in disgrazia, che una volta espulso si rifiutava di uscire dall’aula e allora parecchi altri deputati gli si stringevano attorno, a testuggine, e lì restavano, non di rado ostentando accessori di colore verde e approfittando di qualche onorevole che faceva rifornimento di panini alla buvette.
Una volta (marzo 2004), per sbloccare un ostinato presidio padano di cui neanche il presidente Casini era riuscito ad aver ragione, dovette intervenire il premier Berlusconi; e la leggenda di Palazzo tramanda che calmò gli animi recitando brani de «La quiete dopo la tempesta» di Giacomo Leopardi, poeta quanto mai lontano dagli orizzonti del Cavaliere. Ma tant’è.
Il vero guaio degli onorevoli occupanti, da quanto si capisce ricostruendo le evenienze, è legato al dubbio, controverso e comunque difficoltoso uso dei servizi. Che sarebbe un modo neutrale per dire che specie durante la notte, chiesi gli accessi dell’aula, i ribelli non potrebbero andare al bagno. O almeno: possono anche, ma una volta soddisfatte le loro umanissime esigenze, sarebbero impediti di rientrare.
Su questa materia, s’immagina riservata al Collegio dei Questori, non si possiedono deliberazioni e protocolli certi. Ma è certo che nel gennaio del 2008 i tre deputati della Destra Buontempo, Salerno e Santanché dovettero strenuamente fronteggiare tale problematica, ma senza arrendersi.
Più tollerante, pare di ricordare, fu in questo senso la sorveglianza messa in atto nei confronti dei radicali durante la lunga occupazione — cinque giorni — della Commissione di Vigilanza Rai a San Macuto. Poco dopo comunque i radicali occuparono l’aula di Montecitorio con il soccorso di tre loro senatori, tra cui Emma Bonino, che vennero considerati «estranei» e dunque anche loro condotti fuori su sedia papale.
Al Senato fu poi la volta del-l’Idv, pure con tricolori e telefonini che trillavano “Fratelli d’Italia”. L’ultimo occupante solitario l’onorevole Barbato. I grillini aprono la XVII legislatura. Non hanno tutti i torti, nel merito, ma è bene sappiano che in questo tempo contano più le forme dei contenuti.

La repubblica 09.04.13

"Basta piccolo cabotaggio", Pier Luigi Bersani

Caro direttore, nell`articolo domenicale di Eugenio Scalfari, insieme con tante considerazioni che mi trovano d`accordo, c`è un passaggio che mi offre l`occasione di una precisazione. Scalfari scrive: «Non condivido la tenacia con cui Bersani ripropone la sua candidatura».

L`osservazione è inserita, al solito, in un contesto amichevole e rispettoso di cui ringrazio Scalfari. Devo registrare tuttavia che una valutazione simile si fa sentire anche in contesti ben meno amichevoli. Nelle critiche aggressive e talvolta oltraggiose di questi giorni, nelle inesauribili e stupefacenti dietrologie, e perfino nelle analisi psicologiche di chi si è avventurosamente inoltrato nei miei stati d`animo, non è mai mancata la denuncia verso una sorta di puntiglio bersaniano.

Ecco dunque l`occasione per precisare. La proposta che ho avanzato assieme al mio partito (governo di cambiamento, convenzione per le riforme) non è proprietà di Bersani. Ripeto quello che ho sempre detto: io ci sono, se sono utile. Non intendo certo essere di intralcio. Esistono altre proposte che, in un Paese in tumulto, non contraddicano l`esigenza di cambiamento e che prescindano dalla mia persona?

Nessuna difficoltà a sostenerle! Me lo si lasci dire: per chi crede nella dignità della politica e conserva un minimo di autostima, queste sono ovvietà! È forse meno ovvio ribadire una mia convinzione profonda, cui farei fatica a rinunciare. Il nostro Paese è davvero nei guai. Si moltiplicano le condizioni di disagio estremo e si aggrava una radicale caduta di fiducia. Ci vuole un governo, certamente. Ma un governo che possa agire univocamente, che possa rischiare qualcosa, che possa farsi percepire nella dimensione reale, nella vita comune dei cittadini.

Non un governo che viva di equilibrismi, di precarie composizioni di forze contrastanti, di un cabotaggio giocato solo nel circuito politico-mediatico. In questo caso, predisporremmo solo il calendario di giorni peggiori.

la Repubblica 08.04.13

"La tragica solitudine dei muratore Romeo", di Bruno Ugolini

“Il sindacato può allargare il campo di gioco alla dimensione territoriale, intervenendo sulla condizione sociale delle persone”. Sono parole di Riccardo Terzi, oggi dirigente del sindacato dei pensionati Cgil. Parla a un convegno dedicato, appunto, alla crisi del sindacato e cita Bruno Trentin e la sua intuizione circa la «persona» da cui partire per recuperare un ruolo innovativo. Ecco quelle parole, quell’incitamento può essere ripreso pensando alla tragedia di Civitanova Marche. Certo il muratore sessantaduenne Romeo Dionisi con 35 anni di contributi avrebbe potuto essere aiutato da una modifica delle norme varate dal «governissimo» di Monti. Come ha osservato Pierre Carniti si poteva reintrodurre il pensionamento volontario, previsto dalla riforma Amato e Dini. Così Romeo avrebbe potuto godere della sua pensione, maturata con 35 anni di contributi, senza aspettare, da disoccupato, i 67 anni, senza doversi indebitare all’infinito. Era una regola di «flessibilità» insistentemente richiesta dai sindacati e da deputati del Pd come Cesare Damiano. E però la tragedia di Civitanova mette in luce un altro aspetto: la solitudine di tanti che, come Romeo, non riescono a trovare agganci, sostegni, solidarietà col resto della società. Ecco perché tornano importanti quelle parole del dirigente Cgil. Il sindacato – e non solo quello dei pensionati può essere, in tante realtà territoriali, un agente sociale capace di riconoscere i drammi delle persone, costruire rivendicazioni, contrattazioni. Collegandosi così a mobilitazioni più generali come quelle annunciate per il 16 aprile davanti alla Camera da Cgil Cisl e Uil, una volta tanto insieme. I sindacati porteranno le motivazioni di coloro che oggi campano attraverso la cosiddetta cassa integrazione in deroga giunta al suo epilogo. Che significa epilogo di un sostegno finanziario e quindi lo scoppio di un’altra bomba sociale, una catena di altri drammi umani. Il sindacato cerca così di impedire che si realizzi del tutto quello che un vicedirettore della Banca d’Italia, Salvatore Rossi, ha chiamato un ruolo «anacronistico». Ininfluente, insomma. Non a caso, del resto, sembrano moltiplicarsi iniziative in cui si discute di tale ruolo oggi così posto in discussione. Il convegno in cui parlava Terzi era stato promosso dalla rivista di Fausto Bertinotti Alternative per il socialismo. Con un titolo provocatorio: «Il sindacato. C’è ancora?». Con due tesi d’apertura. Una, di Gianni Rinaldini, partiva da un’analisi pesante sulla devastazione sociale, sulle conquiste del passato «tutte cancellate», con un sindacato ridotto a dimensione «puramente aziendale». E che deve essere rigenerato partendo da una scelta di democrazia nel rapporto con i lavoratori e una scelta di autonomia. Punti sui quali la Cgil avrebbe abdicato. La seconda tesi, esposta da Fabrizio Solari, segretario confederale Cgil, condivideva la necessità di cambiare, ma approfondiva le ragioni della crisi, ragionando sugli effetti della globalizzazione e della finanziarizzazione. E per cambiare le cose, secondo Solari, non ci si può basare solo sulle proprie certezze, occorre contaminarsi, come avvenne negli anni 50. È vero che i gruppi dirigenti Cisl sono portati a scegliere invece che la contrattazione, la gestione, il miglioramento, l’adattamento. Ma non basta prendere le distanze, scegliere come unica alternativa lo scontro, il tornarsene a casa. Occorre stare nei processi per quanto complicati. Cercando ad esempio di rivitalizzare le rappresentanze aziendali, trovando un terreno per costruire alcune regole, tenendo insieme il sindacato associativo e il sindacato di tutti i lavoratori. Sono confronti rimbalzati poi in un altro convegno dedicato a Claudio Sabattini, uno stimato dirigente della Fiom. Anche qui con interventi già esposti nel primo convegno di studiosi e dirigenti come Maurizio Landini, Carla Cantone, Sergio Cofferati, Tonino Lettieri, Tiziano Treu, Umberto Romagnoli, Antonio Pizzinato, Mimmo Carrieri. E anche qui un’agguerrita sinistra sindacale che con Francesco Garibaldo parla di una tragedia incombente, di un rischio di un collasso per il sindacato. Una cartina di tornasole è data dal mancato rapporto con i giovani. Segnali di una crisi che investe del resto gli altri Paesi, come testimoniano numerose relazioni. Ma una soluzione, sottolinea Garibaldo, non si trova solo attraverso misure organizzative, occorre mutare il sistema produttivo. È un po’ il biglietto da visita di una sinistra sindacale minoritaria che non trova però alcun accenno autocritico, ricorrendo nello stesso errore in cui cadono spesso esponenti della maggioranza sindacale. Come non ricordare, tra l’altro, che in altre epoche la sinistra sindacale riusciva a incidere, a imporsi, per i movimenti che sapeva suscitare, per i rapporti che riusciva a costruire con altre forze, anche attraverso compromessi. Nonché su proposte innovative, e su analisi dei mutamenti. Mutamenti sui quali si è soffermato, in questi convegni, un ex segretario generale della Cgil come Antonio Pizzinato, che ha ripetuto le sue osservazioni sui dati della frammentazione dei lavori e su un disegno di rifondazione che lui aveva un tempo tentato di lanciare senza trovare le adesioni necessarie. Cosi come per la proposta di un disegno di legge sulla rappresentanza. Una rappresentanza assai limitata e spesso sconosciuta. C’è tanta attenzione oggi, nel mondo politico, circa la possibilità di una nuova legge elettorale per cancellare il cosiddetto Porcello. E anche il sindacato avrebbe bisogno di una sua legge elettorale, magari condivisa tra Cgil Cisl e Uil. Senza aspettare governi amici. E per non correre il rischio di ritrovarsi nel gorgo dell’antipolitica che corre nel Paese.

L’Unità 08.04.13

"Ancora giochi a somma zero", di Mario Piemontese

Per il personale docente il MIUR ha previsto di attivare in organico di diritto per il prossimo anno scolastico lo stesso numero di posti in organico di diritto attivati nell’anno scolastico in corso. La stessa cosa si è verificata anche lo scorso anno. Apparentemente può sembrare che non ci saranno tagli, ma non è così. Vediamo perché.

In seguito quando parleremo di Nord intenderemo parlare delle regioni: Emilia Romagna, Friuli, Lazio, Liguria, Lombardia, Marche, Piemonte, Toscana, Umbria, Veneto. Mentre quando parleremo di Sud intenderemo parlare delle regioni: Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna, Sicilia.

Migrazione di posti

Lo scorso anno le cose sono andate così.
Rimanendo invariato il numero totale di docenti in organico di diritto (600.839), si sono verificate nell’a.s. 2012/2013, rispetto all’a.s. 2011/2012, le seguenti migrazioni di posti da Sud verso Nord.

Il Sud ha perso 1.338 posti.
342 posti dall’infanzia sono passati: all’infanzia del Nord (175) e alla primaria del Nord (167).
160 posti dalla primaria sono passati alla primaria del Nord.
15 posti della secondaria di I grado sono passati alla secondaria di I grado del Nord.
821 posti della secondaria di II grado sono passati: alla primaria del Nord (108), alla secondaria di I grado del Nord (342) e alla secondaria di II grado del Nord (371).

Il Nord ha vinto 1.338 posti
175 posti dell’infanzia sono arrivati dall’infanzia del Sud.
435 posti della primaria sono arrivati: dall’infanzia del Sud (167), dalla primaria del Sud (160) e dalla Secondaria di II grado del Sud (108).
357 posti della secondaria di I grado sono arrivati: dalla secondaria di I grado del Sud (15) e dalla secondaria di II grado del Sud (342).
371 posti della secondaria di II grado provengono dalla secondaria di II grado del Sud.

Quest’anno il MIUR ha previsto che le cose vadano così.
Continuando a rimanere invariato il numero totale di docenti in organico di diritto (600.839), per l’a.s. 2013/2014, rispetto all’a.s. 2012/2013, si prevedono le seguenti migrazioni di posti da Sud verso Nord.

Il Sud perderà 1.988 posti.
55 posti dall’infanzia passeranno all’infanzia del Nord.
680 posti dalla primaria passeranno alla primaria del Nord.
777 posti della secondaria di I grado passeranno: all’infanzia del Nord (303), alla primaria del Nord (236), alla secondaria di I grado del Nord (4) alla secondaria di II grado del Nord (234).
476 posti della secondaria di II grado passeranno alla secondaria di II grado del Nord.

Il Nord vincerà 1.988 posti
358 posti dell’infanzia arriveranno dall’infanzia del Sud (55) e dalla secondaria di I grado del Sud (303).
916 posti della primaria arriveranno: dalla primaria del Sud (680) e dalla Secondaria di I grado del Sud (236).
4 posti della secondaria di I grado arriveranno dalla secondaria di I grado del Sud.
476 posti della secondaria di II grado arriveranno dalla secondaria di II grado del Sud.

Se consideriamo come distribuzione di partenza quella dell’a.s. 2011/2012 e come distribuzione di arrivo quella prevista per l’a.s. 2013/2014, allora le migrazioni di posti si possono sintetizzare in questo modo.

Il Sud perde 3.326 posti.
397 posti dall’infanzia passano all’infanzia del Nord.
840 posti dalla primaria passano alla primaria del Nord.
792 posti della secondaria di I grado passano: all’infanzia del Nord (136), alla primaria del Nord (295), alla secondaria di I grado del Nord (361).
1.297 posti della secondaria di II grado passano alla secondaria di II grado del Nord (1.081) e alla primaria del Nord (216).

Il Nord vince 3.326 posti
533 posti dell’infanzia arrivano dall’infanzia del Sud (397) e dalla secondaria di I grado del Sud (136).
1.351 posti della primaria arrivano: dalla primaria del Sud (840), dalla secondaria di I grado del Sud (295) e dalla Secondaria di II grado del Sud (216).
361 posti della secondaria di I grado arrivano dalla secondaria di I grado del Sud.
1.081 posti della secondaria di II grado arrivano dalla secondaria di II grado del Sud.

In sintesi.

I posti persi dall’infanzia e dalla primaria del Sud finiscono rispettivamente all’infanzia e alla primaria del Nord.
Meno della metà dei posti persi dalla secondaria di I grado del Sud finiscono nella secondaria di I grado del Nord. Il resto finisce nell’infanzia e nella primaria del Nord.
Quasi tutti i posti persi dalla secondaria di II grado del Sud finiscono nella secondaria di II grado del Nord. Il resto finisce nella primaria del Nord.

Le migrazioni di posti sono dovute, come vedremo in seguito, alla variazione della popolazione scolastica. Il vincolo dei 600.839 posti ha provocato però l’aumento del rapporto alunni/docenti da una parte perché a fronte dell’aumento della popolazione scolastica l’incremento percentuale dei docenti è stato inferiore all’aumento percentuale degli alunni, mentre dall’altra a fronte della diminuzione della popolazione scolastica la riduzione percentuale dei docenti è stata superiore alla diminuzione percentuale degli alunni. In altri termini al Nord ci sarà un numero di docenti inferiore a quello necessario a compensare l’aumento del numero di alunni, mentre al Sud il numero di docenti sarà ridotto in quantità superiore a quella necessaria a compensare la diminuzione del numero di alunni.

Variazione della popolazione scolastica

Se confrontiamo la popolazione scolastica relativa all’a.s. 2007/2008 con quella prevista per l’a.s. 2013/2014 è possibile fare le seguenti considerazioni per primaria e secondaria. Per la scuola dell’infanzia non sono disponibili i relativi dati.

Sud
La popolazione scolastica è diminuita in tutte le regioni e in ogni ordine e grado di scuola.

Primaria: -59.034 (-5,72%).
Basilicata (-10,47%), Molise (-9,00%), Puglia (-7,29%), Campania (-6,44%).

Sec. I gr. -32.422 (-4,65%).
Molise (-7,71%), Calabria (-6,95%), Sicilia(-6,16%).

Sec. II gr. -76.548 (-6,73%).
Molise (-11,86%), Calabria (-11,48%), Sardegna (-11,30%), Basilicata (-11,03%), Sicilia (-8,74%), Abruzzo (-8,45%).

Totale -168.004 (-5,86%).
Molise (-9,93%), Basilicata (-9,37%), Calabria (-8,32%), Sardegna (-6,78%), Sicilia (-6,69%).

Nord
La popolazione scolastica è aumentata in tutte le regioni e in ogni ordine e grado di scuola. Unica eccezione la scuola secondaria di secondo grado del Lazio che ha registrato una diminuzione di 2.485 studenti pari a una riduzione del -1,01%.

Primaria +90.162 (+5,82%).
Emilia Romagna (+10,45%), Toscana (+7,43%), Umbria (+7,39%), Lombardia (+7,08%).

Sec. I gr. +84.077 (+9,05%).
Emilia Romagna (+15,19%), Lombardia (+11,68), Toscana (+11,21%), Friuli (+11,09%).

Sec. II gr. +76.977 (+5,37%).
Emilia Romagna (+11,52%), Toscana (+7,82%), Veneto (+7,50), Lombardia (+7,30).

Totale +251.216 (+6,43%).
Emilia Romagna (+11,94%), Toscana (+8,46%), Lombardia (+8,26%).

I dati sono molto chiari. La popolazione scolastica sta diminuendo al Sud e aumentando al Nord.
Secondo le rilevazioni ISTAT la popolazione in Italia aumenta solo per effetto dell’arrivo degli stranieri che si concentrano soprattutto al Nord. Il numero delle nascite continua a essere inferiore a quello delle morti.

Se confrontiamo invece la popolazione scolastica relativa all’a.s. 2011/2012 con quella prevista per l’a.s. 2013/2014 è possibile fare le seguenti considerazioni per primaria e secondaria. Per la scuola dell’infanzia non sono disponibili i relativi dati.

Sud

Primaria
La popolazione scolastica è aumentata in Abruzzo di 1.070 alunni (+1,96%) e in Sardegna di 333 alunni (+0,51%).
Nelle altre regioni è diminuita: -8.748 (-0,89%).
Basilicata (-2,90%), Puglia (-1,56%), Campania (-1,07%).

Sec. I gr.
La popolazione scolastica è diminuita in tutte le regioni: -21.575 (-3,14%).
Molise (-4,14%), Sicilia(-3,71%), Campania (-3,46%), Calabria (-3,43%).

Sec. II gr.
La popolazione scolastica è aumentata in Campania di 2.709 studenti (+0,85%).
Nelle altre regioni è diminuita: -14.777 (-1,01%).
Abruzzo (-3,50%), Molise (-3,02%), Calabria (-2,73%), Sicilia (-2,14%), Basilicata (-1,52%), Puglia (-1,23%).

Totale -40.988 (-1,50%).
Molise (-2,46%), Basilicata (-2,28%), Sicilia (-2,01%), Calabria (-1,96%), Puglia (-1,63%).

Nord

Primaria
La popolazione scolastica è aumentata in tutte le regioni: +45.284 (+2,84%).
Umbria (+3,95%), Emilia Romagna (+3,78%), Lazio (+3,45%), Lombardia (+3,26%).

Sec. I gr.
La popolazione scolastica è diminuita nelle Marche di 893 studenti (-2,08%), in Umbria di 80 studenti (-0,34%) e in Veneto di 953 studenti (-0,69%).
Nelle altre regioni è aumentata: +10.997 (+1,10%).
Emilia Romagna (+2,85%), Toscana (+2,29%), Lombardia (+1,81%), Friuli (+1,31%).

Sec. II gr.
La popolazione scolastica è aumentata in tutte le regioni: +41.368 (+2,82%).
Toscana (+4,06%), Lombardia (+3,99), Emilia Romagna (+3,81%), Veneto (+3,22%).

Totale
La popolazione scolastica è aumentata in tutte le regioni: +95.723 (+2,35%).
Emilia Romagna (+3,57%), Lombardia (+3,14%), Toscana (+3,06%).

Rapporto alunni/docenti

Andiamo a vedere ora come cambierà il rapporto alunni docenti tra l’a.s. 2011/2012 e l’a.s. 2013/2014.

Primaria

Il rapporto alunni/docenti è aumentato in tutte le regioni. Solo in Puglia è passato da 14,58 a 14,57.

Al Sud è passato da 13,64 a 13,70. Al Nord da 12,59 a 12,81. Nel complesso da 12,97 a 13,13.

Nell’a.s. 2011/2012 tra le regioni del Sud era superiore a 13,64 in Puglia (14,58), Sicilia (14,17), Campania (14,14).
Nell’a.s. 2013/2014 tra le regioni del Sud è superiore a 13,70 in Puglia (14,57), Sicilia (14,24), Campania (14,19).

Nell’a.s. 2011/2012 tra le regioni del Nord era superiore a 12,81 in Veneto (13,17), Emilia Romagna (13,04), Umbria (12,80), Toscana (12,77).
Nell’a.s. 2013/2014 tra le regioni del Nord è superiore a 12,59 in Veneto (13,35), Emilia Romagna (13,28), Umbria (12,98), Toscana (12,92), Lazio (12,85).

Sec. I gr.

Il rapporto alunni/docenti è aumentato in Emilia Romagna (da 14,79 a 14,90) , Friuli (da 12,47 a 12,57), Lombardia (da 13,55 a 13,72), Marche (da 13,74 a 13,75), Molise (da11,90 a 12,07), Toscana (da 13,75 a 13,85), Veneto (da 13,11 a 13,16).
Al Sud è diminuito (da 12,04 a 11,83). Al Nord è aumentato (da 13,35 a 13,40). Nel complesso è diminuito (da 12,78 a 12,73).

Nell’a.s. 2011/2012 tra le regioni del Sud era superiore a 12,04 in Puglia (13,17), Abruzzo (12,35), Campania (12,30).
Nell’a.s. 2013/2014 tra le regioni del Sud è superiore a 11,83 in Puglia (13,04), Abruzzo (12,18), Molise (12,07), Campania (12,00).

Nell’a.s. 2011/2012 tra le regioni del Nord era superiore a 13,35 in Emilia Romagna (14,79), Toscana (13,75), Marche (13,74), Lombardia (13,55), Liguria (13,46).
Nell’a.s. 2013/2014 tra le regioni del Nord è superiore a 13,40 in Emilia Romagna (14,90), Toscana (13,85), Marche (13,75), Lombardia (13,72), Liguria (13,42).

Sec. II gr.

Il rapporto alunni/docenti è aumentato in tutte le regioni tranne in Abruzzo (da 13,19 a 13,01), Friuli (da 12,37 a 12,36), Molise (da 12,54 a 12,47), Puglia (da 13,58 a 13,56). Al Sud è aumentato (da 13,17 a 13,24). Al Nord è aumentato (da 13,64 a 13,88). Nel complesso è aumentato (da 13,44 a 13,61).
Nell’a.s. 2011/2012 tra le regioni del Sud era superiore a 13,17 in Puglia (13,58), Campania (13,52), Abruzzo (13,19).
Nell’a.s. 2013/2014 tra le regioni del Sud è superiore a 13,24 in Campania (13,70), Puglia (13,56), Basilicata (13,32).

Nell’a.s. 2011/2012 tra le regioni del Nord era superiore 13,64 in Emilia Romagna (14,15), Liguria (14,03), Lombardia (14,01), Marche (13,73).
Nell’a.s. 2013/2014 tra le regioni del Nord è superiore a 13,88 in Lombardia (14,37), Emilia Romagna (14,33), Liguria (14,22), Marche (13,98).

È proprio vero che non ci saranno tagli nel prossimo anno scolastico?

Nell’a.s. 2011/2012 in organico di diritto per primaria e secondaria sono stati attivati 519.623 posti e la popolazione scolastica ammontava a 6.804.056 di alunni. Per il prossimo anno scolastico sono previsti 519.487 posti e la popolazione scolastica ammonta a 6.858.791 alunni.
136 posti sono passati alla scuola dell’infanzia perché il numero complessivo di posti deve essere 600.839: da 81.216 sono passati a 81.352. La popolazione scolastica è aumentata di 54.735 alunni.

Abbiamo visto che il rapporto alunni/docenti è aumentato, a seconda dell’ordine e grado di scuola, in molte regioni. Se teniamo il rapporto alunni/docenti come indice di qualità dell’insegnamento e facciamo corrispondere all’aumento del rapporto un peggioramento dell’insegnamento, mentre alla diminuzione del rapporto un miglioramento dell’insegnamento, è lecito domandarsi quanti posti in più dovrebbero essere attivati per garantire un rapporto identico a quello dell’a.s. 2011/2012 in tutte le situazioni in cui è previsto che tale rapporto aumenti.

La risposta è: per la primaria 2.572 posti, 2.240 al Nord e 332 al Sud; per la secondaria di I grado 421 posti, 411 al Nord e 10 al Sud; per la secondaria di II grado 2.388 posti, 1.941 al Nord e 447 al Sud. In totale 5.381 posti, 4.592 al Nord e 789 al Sud.

In particolare.

Primaria
In ordine decrescente rispetto al rapporto tra il numero di posti necessari e il numero di posti che si prevede di attivare:
Lazio (481), Lombardia (774), Emilia Romagna (258), Umbria (43), Molise (14), Veneto (227), Liguria (61), Toscana (143), Piemonte (174), Friuli (48), Abruzzo (40), Calabria (65), Sardegna (41), Marche (31), Sicilia (88), Basilicata (9), Campania (75).
Paradosslmente in Sardegna ci sono stati 333 alunni in più e 13 posti in meno.

Nelle regioni dove il numero di alunni è aumentato, l’incremento percentuale dei docenti è stato minore dell’aumento percentuale degli alunni.
Nelle regioni dove il numero di alunni è diminuito, la riduzione percentuale dei docenti è stata maggiore della diminuzione percentuale degli alunni.

Le regioni del Sud che continuano a avere un “elevato” rapporto alunni/docenti sono Puglia, Sicilia e Campania.
Le regioni del Nord che continuano a avere un “elevato” rapporto alunni/docenti sono Veneto, Emilia Romagna, Umbria e Toscana. Ora si è aggiunto anche il Lazio.

Sec. I gr.
In ordine decrescente rispetto al rapporto tra il numero di posti necessari e il numero di posti che si prevede di attivare:
Molise (10), Lombardia (239), Friuli (19), Emilia Romagna (60), Toscana (49), Veneto (41), Marche (3).

Le regioni del Sud che continuano a avere un “elevato” rapporto alunni/docenti sono Puglia, Abruzzo e Campania. Ora si è aggiunto anche il Molise.
Le regioni del Nord che continuano a avere un “elevato” rapporto alunni/docenti sono Emilia Romagna, Toscana, Marche, Lombardia e Liguria.

Sec. II gr.
In ordine decrescente rispetto al rapporto tra il numero di posti necessari e il numero di posti che si prevede di attivare:
Lombardia (633), Umbria (64), Toscana (249), Veneto (266), Marche (93), Basilicata (36), Piemonte (184), Liguria (58), Campania (316), Lazio (238), Emilia Romagna (156), Sardegna (54), Sicilia (29), Calabria (12).
Paradossalmente in Campania ci sono stati 2.709 alunni in più e 116 docenti in meno. Allo stesso modo in Lazio ci sono stati 1.444 alunni in più e 132 docenti in meno.

Le regioni del Sud che continuano a avere un “elevato” rapporto alunni/docenti sono Puglia e Campania.
Le regioni del Nord che continuano a avere un “elevato” rapporto alunni/docenti sono Lombardia, Emilia Romagna, Liguria e Marche.

Conclusioni

La significativa diminuzione della popolazione scolastica nel Sud è l’effetto di un fenomeno sociale che ha necessità di essere accuratamente indagato.

Senza questi 5.381 posti in più si può fare solo una Scuola peggiore di quella “Gelmini – Profumo”. Sembra impossibile, ma è così.

da Retescuole 08.04.13