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"Quando Grillo arriverà alla Rai", di Giovanni Valentini

Con il suo ultimo attacco frontale alla Rai, Beppe Grillo ha scelto proprio il caso specifico che — al di là della grave crisi economica e sociale del Paese — rappresenta meglio di qualsiasi altro l’autismo mediatico, il velleitarismo para-rivoluzionario e l’autoreferenzialità politica del Movimento 5 Stelle in questa incerta e turbolenta transizione. Da sempre epicentro della vita pubblica nazionale, greppia o alcova di Stato che dir si voglia, l’azienda di viale Mazzini versa oggi in una situazione di degrado che riflette, come nell’illusione ottica di uno specchio deformante, l’attuale stallo della nostra politica. E avrebbe bisogno perciò di una terapia d’urto, di interventi precisi e immediati.
Nel capitolo “Informazione” del programma pentastellato, richiamato in proposito dallo stesso “guru”, si prevede la “vendita ad azionariato diffuso, con proprietà massima del 10%, di due canali televisivi pubblici”; “un solo canale televisivo pubblico, senza pubblicità, informativo e culturale, indipendente dai partiti”; e infine l’abrogazione della legge Gasparri che qui abbiamo definito fin dall’approvazione in Parlamento famigerata, scellerata e così via. Ma, a parte il fatto che non si parla per niente della radio pubblica su cui converrà senz’altro ritornare, Grillo ignora evidentemente che la Rai gestisce non 3, bensì 14 canali tv. Nel frattempo, da quando è entrato in Parlamento, il Movimento di Grillo chiede la presidenza della Commissione di Vigilanza, mentre in realtà sarebbe opportuno abolirla per cominciare a eliminare il controllo politico.
In attesa di una tale palingenesi, il servizio pubblico annaspa nelle difficoltà finanziarie di bilancio e soprattutto in una crisi strutturale d’identità che in questa rubrica denunciamo ripetutamente da anni. Non è chiaro con quale schieramento di maggioranza il Movimento 5 Stelle si proponga di realizzare il suo programma, né su questo punto né tantomeno su tutto il resto. Ma è chiaro che da solo, almeno per il momento, non riuscirà a farlo e che intanto la situazione della Rai è destinata fatalmente a peggiorare.
Con un vertice insediato dall’ex governo dimissionario dei tecnici, composto da una presidente e da un direttore generale tanto incompetenti sulla materia quanto inadeguati, la tv pubblica naviga oggi alla deriva, senza rotta e senza nocchiero. Prima ancora di mettere in vendita due canali, ammesso pure che si trovi qualcuno disposto a sottoscrivere quote fino a un massimo del 10%, sarebbe necessario e urgente modificare la “governance” dell’azienda, per affrancarla dalla subalternità ai partiti (di destra, di centro o di sinistra) e affidarla direttamente alla responsabilità dei cittadini, abbonati e telespettatori. E per non fare — anche inconsapevolmente — un grosso “cadeau” a Silvio Berlusconi, bisognerebbe nello stesso tempo riformare l’intero sistema, in modo da non favorire la concentrazione televisiva e pubblicitaria in mano a Mediaset.
In una pungente e garbata “Cartolina” indirizzata a Grillo nel 1994, riproposta nei giorni scorsi da Myrta Merlino nella sua trasmissione “L’aria che tira” su La 7, quel maestro di giornalismo che fu Andrea Barbato (vice-direttore di “Repubblica” alla fondazione e poi direttore del Tg 2) chiedeva al comico del “vaffa” già vent’anni fa: “Siamo sicuri che questo lavacro di insulti a persone assenti non finisca per benedire proprio quelle persone?”. Ecco il rischio che il Movimento 5 Stelle corre oggi nei confronti della “casta”, dentro e fuori la Rai: il rischio, cioè, di consolidare il duopolio e il regime televisivo, mentre si potrebbe più realisticamente smontare l’uno e rovesciare l’altro.
Un servizio pubblico restituito alla sua funzione originaria, come negli altri Paesi europei, sarebbe in grado di svolgere un ruolo pedagogico in quest’Italia ignorante e volgare. Ma per uscire dall’oscuro ventennio del berlusconismo occorre aggregare un fronte del rinnovamento morale e politico. E i Cinquestelle hanno ora l’occasione — forse irripetibile — di contribuire a cambiare il sistema, televisivo e politico, dall’interno delle istituzioni piuttosto che inseguire utopie rivoluzionarie e dare l’assalto alla Bastiglia dell’informazione.

La Repubblica 06.04.13

"Studi di settore: crollano i ricavi di manifatture e servizi", di Marco Mobili

Italiani tutti in pizzeria e ai mercatini del made in China. Con il manifatturiero e il commercio al -6,1%, i servizi al -7% e i professionisti al -3 per cento, i soli due settori che lo scorso anno non hanno visto crollare i ricavi sono il commercio ambulante al +1,2% e i servizi alla persona e le pizzerie con un +1,1%. È la fotografia impietosa scattata dal Fisco sulla riduzione dei ricavi 2012 di imprese, professionisti, commercianti e artigiani nell’elaborare i correttivi anti-crisi per gli studi di settore 2013 (si veda Il Sole 24Ore di ieri).
A rendere ancor più drammatico il quadro della crisi c’è la pressione fiscale che, oltre ad aver raggiunto i livelli record e insostenibili del 52% nel IV trimestre 2012 (dato evidenziato ieri dall’Istat, si veda l’articolo in alto), diventa sempre più stringente e rischia di soffocare imprese, professionisti e autonomi. Come fa notare Claudio Carpentieri, responsabile delle politiche fiscali della Cna, questi contribuenti sono chiamati a fare i conti con il pagamento di imposte e tasse, come Imu, Tares e in parte l’Irap, «che restano sempre dovute, a prescindere dalla reale formazione di un reddito e quindi anche quando l’attività svolta è in perdita».
Il “rosso” potrebbe essere dunque il filo conduttore che sembra legare le attività di impresa e di lavoro autonomo dal nord al sud Italia. Il dato migliore, anche se negativo, è quello registrato in Valle d’Aosta e Trentino Alto Adige che oscilla tra il -1% e il -4%. Il dato peggiore è nel Centro-Sud, dove la “caduta dei ricavi” è tra il -7% e il -10% in ben sei regioni: Lazio, Umbria, Marche, Abruzzo, Molise e Calabria. Tra il -6 e il – 7% si attestano Sicilia, Puglia, Emilia Romagna e Lombardia, mentre tutte le altre regioni la percentuale di riduzione dei ricavi viaggia tra il -4 e il -6%.
L’analisi della crisi condotta dalla Sose per creare i correttivi poggia su fonti esterne (Prometeia, Istat e Banca d’Italia), dati degli Osservatori regionali e quelli relativi a oltre 100.000 imprese indicate dalle associazioni di categoria. Per rendere più incisiva l’elaborazione, il Fisco ha utilizzato le dichiarazioni Iva delle annualità precedenti e le comunicazioni dei dati Iva relative al 2012. Non solo.
Per fotografare la crisi ci si è concentrati su circa 2.100.000 contribuenti, sui quali sono state analizzate, sulla base dei dati Iva, le tendenze dei singoli soggetti nel periodo 2009/2012. E le tendenze del triennio, sottolinea Carpentieri, «mostrano tutta la criticità del momento che stanno vivendo imprese e autonomi». Nel 2010, in relazione a ricavi e compensi del 2009, dei 205 studi di settore ben 134 presentavano valori in crescita tra il +1 e il +10% e altri 27 erano addirittura in «buona crescita» tra il +10 il +20%. «Due anni dopo, spiega Carpentieri, la situazione è diametralmente opposta con 136 studi di settore in lieve flessione tra il -1% e il -10% contro i soli 23 studi in crescita. Per altri 20 studi, poi, la flessione oscilla tra il -10 e il -20%».
Se si guarda allo spaccato dei singoli settori emerge, come detto, il crollo del manifatturiero con alcuni comparti in seria sofferenza, come quello degli autoveicoli (-11,2%), del tessile e abbigliamento -8,9%, della produzione di metalli e relativi prodotti -7,2%, l’editoria -8% e la lavorazione di minerali e altri non metalliferi -13,6%.
Il calo dei consumi è palpabile guardando al commercio. Quello ambulante, come detto, è il solo in positivo, e «seppur con un valore marginale (+1,2%) – dice il responsabile Cna – conferma la crisi che colpisce le famiglie e i relativi consumi sempre più rivolti a una tipologia di commercio notoriamente più a basso costo».
Nel settore dei servizi occorre un distinguo. Se si considera il comparto Edilizia, che da solo ha un calo di ricavi del 12%, il dato medio si attesta al -7,1%. Se si esclude l’Edilizia, la riduzione è del -3,9%. Tra queste l’unico dato positivo riguarda le attività dei servizi alle persone (+1,1%), ma per tutti gli altri comparti si resta in terra negativa (palestre, piscine -6,8%, consulenze e gestioni immobiliari -6,7%, autoriparatori -4,4%, intermediari del commercio -4,3%, che tocca il -7,8% per i materiali da costruzione).
Infine, anche per notai e avvocati il 2012 è stato un anno particolarmente difficile. Con l’intero settore delle arti e professioni che cala del 3,0%, gli studi legali e notarili fanno anche peggio con compensi al -4,5%. Solo le attività di consulenza evidenziano un risicato aumento (0,8%). Crollano anche architetti, ingegneri e altre attività tecniche con un -4,2 per cento.

Il Sole 24 Ore 06.04.13

"La tentazione presidenzialista nell’Italia dello stallo", di Marco Olivetti

È ormai evidente che, fra le possibili conseguenze dell’attuale crisi politica e dello stallo in cui si trova il tentativo di dare un governo all’Italia, la ricerca di uno sbocco di tipo presidenziale non può essere ritenuta del tutto irrazionale. La crisi del sistema dei partiti sembrerebbe infatti trasmettersi, come un virus, al sistema istituzionale.
Imponendo l’abbandono del regime parlamentare e l’opzione per un’altra forma di governo, caratterizzata dall’elezione diretta del Capo dello Stato e dall’attribuzione a esso di rilevanti poteri di direzione politica, secondo le diverse varianti dello schema semipresidenziale o (meno frequentemente) presidenziale, oppure dall’elezione del Primo Ministro secondo lo schema del cosiddetto «sindaco d’Italia».
In questa direzione spingono due ordini di argomenti, per alcuni aspetti contraddittori fra loro, ma di indubbio rilievo. Il primo muove dalla constatazione della crescita dei poteri presidenziali verificatasi nella nostra prassi costituzionale e culminata nell’attuale Presidenza, soprattutto nella sua fase finale (dal 2011 a oggi). Di fronte alla crescita del ruolo presidenziale determinato prima dall’emergenza economica del 2011, poi dall’esistenza di un governo tecnico di iniziativa presidenziale e ora dalla crisi politica, molti credono che il Presidente della Repubblica abbisogni di una legittimazione diversa da quella che l’attuale sistema di elezione gli assicura. L’elezione diretta avrebbe in questa prospettiva la finalità di assicurare che l’accresciuto ruolo presidenziale (ormai non più rubricabile come una mera garanzia) sia supportato da una investitura popolare. Del resto anche alcune discutibili iniziative di questi giorni (come la scelta online del loro candidato alla Presidenza della Repubblica, annunciata dai deputati pentastellati o la petizione in favore di una donna al Quirinale), se appaiono del tutto irrituali, sono comunque il segno di un mood diffuso, non certo nuovo (si pensi alle iniziative pro-Bonino nel 1999), ma sempre più forte.
Il secondo ordine di argomento prende invece le mosse non dalla crescita in fatto dei poteri presidenziali, ma dalla situazione di crisi politica. Un sistema politico come quello italiano attuale, assoggettato a spinte fortemente centrifughe, non sarebbe in grado di assicurare la governabilità facendo leva sullo strumento cui punta il regime parlamentare: i partiti politici e la loro capacità di autoregolazione. In questo contesto, la crisi italiana del 2013 sarebbe una riedizione, con oltre mezzo secolo di ritardo, di quella francese del 1958, con i deputati pentastellati visti come generatori involontari del presidenzialismo allo stesso modo in cui lo furono i generali putschisti francesi che nel maggio 1958 volevano impedire l’indipendenza dell’Algeria. E come i generali francesi non riuscirono a impedire il superamento dell’Algerie française, i grillini dalla cultura assembleare sarebbero gli incubatori di una svolta para-presidenziale. Se nella prospettiva del primo argomento basato sul rafforzamento dei poteri presidenziali si dovrebbe reagire a un presidenzialismo di fatto (ancorché parziale e incipiente) con un sovrappiù di legittimazione democratica, la seconda linea argomentativa vede in una presidenzializzazione formale del sistema istituzionale la cura delle inefficienze del regime parlamentare.
Sarebbe riduttivo sottovalutare il peso dei due argomenti ora esposti, in quanto essi muovono da dati di fatto difficilmente contestabili (la crescita in fatto dei poteri presidenziali; la situazione di blocco in cui ci troviamo). Si può tuttavia dubitare che una svolta in senso presidenziale sia davvero la risposta più adeguata alle sfide lanciate dai due dati di fatto ora citati.
In primo luogo troppo spesso, in una parte della cultura giuridica e politica italiana, vengono sottovalutati la complessità del sistema francese e l’originalità che esso riveste in prospettiva comparata. Il semipresidenzialismo d’Oltralpe comunque lo si valuti è un caso unico: assetti formalmente analoghi dal punto di vista costituzionale producono assai più spesso regimi parlamentari corretti (ad esempio nell’est Europa) o regimi superpresidenziali squilibrati (in Russia e in Africa Nera). Cosa ci garantisce che innestare l’elezione diretta del Presidente su un assetto parlamentare (magari aggiungendovi il doppio turno di collegio) ci porterebbe necessariamente a Parigi (e non a Mosca o a Weimar)? Inoltre lo stesso sistema francese è troppo spesso sopravvalutato: esso produce un eccesso di concentrazione di poteri e di aspettative nel Presidente, il quale, soprattutto in regime di quinquennato, è facilmente sballottato dalla polvere agli altari, come le vicende di Sarkozy e di Hollande hanno ben dimostrato. Siamo sicuri che un meccanismo di questo tipo sarebbe davvero curativo rispetto alla situazione di crisi attuale?
In secondo luogo, c’è da chiedersi se l’azione riformatrice non debba in primo luogo assumere un’altra direzione: quella della legge elettorale, da un lato; e quella della riforma del bicameralismo, dall’altro. Mantenendo immutate le regole attuali su questi due profili, l’introduzione dell’elezione diretta risolverebbe ben poco. Con riforme adeguate di essi, non sarebbe, forse, necessaria.

L’Unità 06.04.13

"Punire i giornalisti un’insana ossessione", di Cesare Martinetti

Vi scrivo da un giornale che non riceve finanziamenti pubblici e da una redazione con una storia che viene da lontano e che ha sempre considerato l’interesse del lettore più importante di quello dei giornalisti. È per questo che non abbiamo alcuno stato d’animo nel commentare le prime iniziative parlamentari dei grillini tra le quali, oltre all’abolizione dei rimborsi elettorali, ci sono l’abolizione dell’ordine dei giornalisti e la fine dei finanziamenti pubblici ai giornali.

Consideriamo l’Ordine dei giornalisti come un insieme di regole che dà un inquadramento a questo nostro lavoro e lo rende responsabile di fronte ai nostri lettori e all’opinione pubblica in generale. Non certo come una barriera difensiva e corporativa per chi ne fa parte. Consideriamo giusto che vi siano delle norme da rispettare a garanzia di una professione che proprio il moltiplicarsi convulso di forme e di piattaforme creato in questi ultimi anni da Internet ha reso – a nostro giudizio – ancora più necessaria. Il giornalismo «cittadino» è una ricchezza che la blogosfera ha incentivato e che rende, semmai, più stimolante nell’incalzare il lavoro dei professionisti. Se non volete chiamarlo «Ordine» chiamatelo registro o qualcos’altro, toglietegli qualunque sospetto di privilegio o di esclusività, dategli regole che lo facciano aperto e non escludente. Ma noi crediamo che la difesa di un’idea precisa – quella che abbiamo detto – della professione del giornalista debba rimanere.

Ciò detto, osservando con crescente curiosità e anche con qualche aspettativa questo universo parlamentare raccolto sotto l’emblema di Beppe Grillo, ci chiediamo: rispetto ai problemi di un Paese così in debito di politica da esprimere un voto così massiccio al partito dei Cinque stelle, sono davvero così prioritarie le questioni dell’Ordine dei giornalisti e del finanziamento pubblico dei giornali? Ci sfugge come la disoccupazione, la riduzione della pressione fiscale, la sburocratizzazione della giungla pubblica italiana, il bisogno di trasparenza della finanza e del credito, possa migliorare una volta abolito l’Ordine dei giornalisti.

Le piazze dei «Vaffa» hanno mosso le viscere di un’opinione pubblica delusa dalla grande politica, da scandali veri e presunti, da una casta nella quale giornali e giornalisti – a torto e a ragione – sono stati messi sullo stesso piano di una classe politica ritenuta inconcludente e impunita. E va bene, è la «rivoluzione» italiana. Ma adesso che la campagna elettorale è finita e tocca fare politica, affrontare i problemi della gente nel contesto delle regole democratiche, dare un indirizzo a quell’energia vitale e anch’essa – certo – democratica, la prima cosa da fare è abolire l’Ordine dei giornalisti?

A noi viene il sospetto che questo fastidio nei confronti dei giornali, quest’ansia vendicativa, quest’ossessione punitiva (ieri uno dei parlamentari ha offerto per spregio due euro e mezzo l’ora di stipendio a un aspirante addetto stampa) nasca dal fatto che non si sa reggere il confronto con l’informazione. I giornalisti sono petulanti, ripetitivi, insistenti? E come dovrebbero essere? Fanno troppe domande? Non dovrebbero farle? Un leader politico, quale Grillo certamente è, non può sfuggire al confronto con i giornalisti, tanto più se invoca e predica la trasparenza in politica. Non doveva essere tutto in chiaro – anche grazie a una mitizzazione di Internet – nel movimento Cinque stelle? E perché le riunioni dei parlamentari sono invece blindate? Perché questo ridicolo mistero intorno a luoghi e orari delle riunioni?

Non sarebbe certo la prima volta che il potere politico utilizza proposte di legge per intimidire l’informazione. In questi ultimi anni i tentativi sono stati ripetuti e persino dichiarati. Aver trasformato i propri appuntamenti in una caccia al tesoro, i mascheramenti, le fughe del leader (dopo l’incontro con Napolitano, per esempio) sono una caricatura della politica. I giornalisti che entrano nel gioco e si esibiscono in acrobazie alla caccia di improbabili retroscena sono una caricatura del mestiere e al tempo stesso un regalo a Grillo. Bisogna lavorare col meglio che offre la professione: interrogare, indagare, far domande, capire, ottenere risposte.

C’è insomma qualcosa di non naturale nell’impacciato rapporto tra questi grillini e l’informazione, qualcosa di malsano che genera i peggiori sospetti. Ci sono buoni giornalisti e cattivi giornalisti, buoni politici e cattivi politici. Una forza politica seria che vuole rifondare un Paese serio dovrebbe preoccuparsi di avere un’informazione sana. Quella che trova nelle leggi tutela e non ostacoli, regole chiare sul mercato pubblicitario e sostegno a tutto ciò che fa cultura e non finanziamenti impropri.

La stampa 06.04.13

"Il paese degli umiliati", di Chiara Saraceno

Tragedie come quelle di Civitanova Marche aprono improvvisi squarci su vite umiliate, dove la fatica della vita quotidiana, la difficoltà a fare fronte a bisogni minimi, fa perdere poco a
poco la speranza. E la dignità rimane l’unico bene da salvaguardare a tutti i costi, al punto da non accettare di rivolgersi alla assistenza sociale. Inutile soffermarsi sui rapporti tra causa ed effetto in un suicidio, tanto più se condiviso. Le ragioni sono probabilmente diverse e più profonde delle difficoltà economiche. Ma è inaccettabile che queste difficoltà appaiano sulla scena pubblica solo quando un evento drammatico, una scelta tragica, dà loro una più o meno effimera risonanza, salvo ricadere immediatamente ai margini dell’attenzione e soprattutto delle priorità della politica.
Eppure i dati non mancano, sono pubblici e di fonte autorevole: dall’Istat alla Banca d’Italia, fino alla Commissione europea. Quest’ultima ha segnalato come l’Italia sia il Paese in cui nell’ultimo anno vi è stato il maggior peggioramento relativo in tutti gli indicatori. All’aumento della povertà e del disagio dedica una sezione anche il rapporto sul Benessere equo e solidale Istat/Cnel. Fortemente voluto dal presidente dell’Istat, Enrico Giovannini, uno dei “saggi” nominati da Napolitano, questo rapporto dovrebbe servire ai decisori per definire priorità e disegnare vie d’uscita dalla crisi meno effimere del periodico annuncio che la ripresa è slittata di altri sei mesi. Nel loro insieme, i dati mostrano che negli ultimi due anni sono aumentati la povertà e il disagio economico, la difficoltà a far fronte a bisogni essenziali come riscaldarsi adeguatamente (non ci riesce il 18%), avere una dieta adeguata dal punto di vista nutritivo (riguarda il 12,3%), pagare l’affitto e le bollette (il 14,1%). Il rischio di povertà e/o esclusione sociale coinvolge ormai più di un quarto della popolazione (28,4%). Tra i minorenni, raggiunge il 34%, toccando il 50% tra i minorenni stranieri — un dato altrettanto se non più grave di quello riguardante la disoccupazione giovanile, e che invece non riesce a sollecitare almeno una pari attenzione. L’aumento delle condizioni di povertà ha comportato un’intensificazione delle condizioni di disagio là dove tradizionalmente sono concentrate nel nostro Paese — nel Mezzogiorno, nelle famiglie numerose con figli minori, nelle famiglie con un solo percettore di reddito. Ha tuttavia comportato anche un allargamento dell’esperienza a gruppi che non le avevano fin qui sperimentate, come le famiglie di lavoratori dipendenti, a reddito fisso (o calante, in caso di perdita di lavoro
o di cassa integrazione), le famiglie giovani, le famiglie che vivono in affitto. Anche tra i pensionati l’erosione del potere d’acquisto di pensioni sempre meno indicizzate ha fatto aumentare l’incidenza della povertà.
Sotto i dati statistici ci sono le piccole e grandi rinunce ed anche umiliazioni quotidiane: la vergogna di non poter far fronte ai propri debiti, il timore che luce o gas vengano sospesi per morosità, non poter pagare la mensa scolastica per i figli, o la gita di classe. Spese all’apparenza minime diventano insostenibili, travolgendo bilanci famigliari in equilibrio precario, senza che vi siano riserve su cui contare (il 38,5% della popolazione vive in famiglie che non riuscirebbero a fronteggiare una spesa imprevista di 800 euro). Tutto ciò in assenza di una rete di protezione che impedisca di precipitare e contrasti il deterioramento delle risorse individuali e sociali. Anzi, questa rete, già inadeguata e frammentata in periodi meno difficili, è stata ulteriormente ridotta con i tagli sconsiderati alla spesa sociale, ai trasferimenti ai Comuni ed anche all’istruzione. Non c’è, a differenza che nella stragrande maggioranza dei Paesi europei, un reddito minimo di garanzia per i poveri. I Comuni che lo avevano introdotto con risorse proprie hanno sperimentato una riduzione drastica dei trasferimenti loro destinati, che mette a rischio le politiche di sostegno alle fragilità proprio quando aumenta il bisogno. I bilanci risicati delle scuole costringono a impoverire l’offerta didattica proprio là dove sarebbe più necessario arricchirla, per controbilanciare la carenza di risorse famigliari. I bisogni di cura di bambini e persone non autosufficienti rimangono insoddisfatti, o affidati solo alle, disuguali,
risorse famigliari.
Di tutto ciò non si parla nelle diverse agende su cui si intrecciano le negoziazioni politiche, si delineano possibili programmi di governo, si ipotizzano o rifiutano alleanze. Singolarmente silente è il Pd, al di là della retorica sulla necessità di creare occupazione. Occorre che qualcuno si assuma la responsabilità di porre esplicitamente la questione della crescente povertà e disagio come una delle priorità da affrontare subito, che deve ispirare sia gli strumenti per la ripresa sia le decisioni sulla spesa pubblica. Non può essere sacrificata allo spread o al pareggio di bilancio, che non può essere raggiunto sulla carne viva delle persone, ignorandone la dignità offesa e le speranze negate.

La Repubblica 06.04.13

"Prof antisemita, interviene Profumo", di Valeria Forgnone e Gabriele Isman

Mentre al liceo Tasso di Roma Forza nuova e Lotta studentesca distribuiscono volantini con il simbolo di Terza posizione e la runa Wolfsangel nazista, arriva di prima mattina la richiesta di una relazione scritta e urgente alla preside del Caravillani, altro liceo della capitale, sul comportamento della docente che in classe
aveva detto a una alunna ebrea: «Se fossi stata ad Auschwitz, saresti stata attenta». A richiederla, è stato ieri il ministro dell’Istruzione Profumo, e la malattia attuale e il prossimo pensionamento della docente di matematica potrebbero non essere sufficienti a evitarle provvedimenti da parte dell’Ufficio scolastico regionale.
«La reazione ferma degli studenti e della preside — spiegherà poi in una nota congiunta con il presidente dell’Unione delle comunità ebraiche Renzo Gattegna — sono infatti la concreta dimostrazione di quanto entrambi sosteniamo con forza in ogni occasione: l’antisemitismo e il negazionismo non si combattono soltanto
il 27 gennaio di ogni anno, in occasione delle celebrazioni del giorno della memoria, ma tutti i giorni». Il ministro della Cooperazione Andrea Riccardi plaude alla richiesta di Profumo: «Siamo di fronte a un fatto sconcertante, che va assolutamente stigmatizzato specie in un ambiente come quello scolastico».
«Abbiamo perso dei parenti nella famiglia di mio marito e in quella di mia madre nei campi di sterminio» dice la mamma della ragazza. «Ancora oggi, a pensare a quelle parole mi vengono i brividi: quella docente non ha mai negato di aver detto quelle frasi, e davanti a me ha spiegato che il riferimento ai campi di concentra-
mento era per l’ordine che secondo lei vi regnava. Davvero allucinante » aggiunge.
Diversi ragazzi della scuola hanno raccontato che «non è la prima volta che la professoressa offende qualcuno. Dopo due ore di matematica se davi segni di stanchezza lei ti attaccava, diceva che bisogna essere nazisti a scuola » segnala Filippo della IIIC. E ieri sono tornati a parlare Anna Maria Trapani, preside del Caravillani, e Riccardo Pacifici, presidente della Comunità ebraica romana. «La professoressa non voleva offendere la ragazza. Quella frase ha oltrepassato le sue intenzioni. La cosa importante è che i ragazzi abbiano espresso solidarietà alla loro
amica» ha ribadito la prima. E il secondo ha risposto a chi — gli stessi ragazzi, ad esempio — ritiene eccessivo un premio al Quirinale per aver difeso la loro compagna: «Spesso ci capita di assistere alle cerimonie in cui vengono conferite le medaglie ai Giusti, che salvarono ebrei negli anni del nazismo, di sentire loro o i parenti parlare di un comportamento “normale”. La lezione che ci ha dato la preside avvalora la tesi che, in un mondo che non va nella giusta direzione, ci sia l’esigenza e il dovere di premiare un’azione normale e spontanea come quella della classe. Per mettere in evidenza che quella è la reazione giusta ». Pacifici attacca poi «quella
sparuta minoranza di docenti» che ancora non tutelano i valori della Memoria: «Forse servirebbe qualche energia in più per la loro formazione».
È stata invece Elena Improta, vice presidente dell’Anpi di Roma e Lazio a denunciare il volantinaggio al Tasso di ieri mattina. «Il ritorno di questo simbolo, che era utilizzato dal gruppo terroristico di estrema destra Terza Posizione, è un atto gravissimo, soprattutto davanti a una scuola, che è luogo di educazione e formazione. Come volantinare in pubblico con il simbolo delle Brigate Rosse» ha protestato la dirigente dell’Associazione nazionale Partigiani. Interviene il sindaco Gianni Alemanno:
«Condanno nella maniera più forte il volantinaggio e condanno con altrettanto vigore la mano scriteriata che ha imbrattato i muri dell’istituto. Scritte, simboli e anche il volantinaggio sono idiote provocazioni nonché atti gravissimi, oltraggiosi e offensivi per tutta la città».
Parole di condanna sono arrivate anche dal presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti per un «episodio grave e inqualificabile.
Il fascismo purtroppo è vivo nelle nostre strade, nelle scuole e noi tutti abbiamo il dovere morale di non abbassare la guardia ». E per Enrico Gasbarra, segretario del Pd Lazio, i volantini al Tasso sono «l’ennesimo gravissimo episodio che in questi ultimi anni hanno creato nella capitale un clima pesante e inaccettabile. Le derive neonaziste che più volte abbiamo denunciato non possono trovare sponde politiche e culturali in alcun modo, soprattutto quando emergono legami con gruppi terroristici di estrema destra che da anni sono fuorilegge».

La Repubblica 06.04.13

"Sbloccare i debiti PA, sì a sgravi Irap", di Giorgio Pogliotti

Le scelte del governo Monti «hanno messo a rischio il sistema produttivo», per Susanna Camusso il tema «trasversale per imprese e sindacati», è quello della «riduzione della tassazione che grava su chi produce», per «salvaguardare le aziende e rimettere in moto i consumi». La leader della Cgil rompe un vecchio tabù del sindacato di Corso d’Italia e apre alla riduzione dell’Irap. Il ragionamento è che per «ridare fiducia al Paese» bisogna alleggerire le tasse ai lavoratori impoveriti dal fiscal drag e alle imprese che producono, spostando la tassazione verso le rendite e i grandi patrimoni»; sarebbe «un segnale in direzione del cambiamento ». La Camusso concorda su un’altra richiesta del presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, la restituzione dei debiti della Pa alle imprese, e propone un criterio per i rimborsi.

Segretario, è stata rinviata l’approvazione del decreto sullo sblocco dei crediti delle imprese che ha ricadute anche per i lavoratori. Cosa chiedete al Governo?. Bisogna fare in fretta, il fattore tempo non è una variabile indipendente. È una misura necessaria non solo per immettere liquidità alle imprese, ma anche per evitare di bloccare i cantieri e le produzioni di beni e servizi che danno lavoro. Considerando la limitatezza di risorse rispetto all’entità dei debiti, proponiamo che come criterio venga data priorità alla difesa del lavoro, che il credito ritraduca il mantenimento di posti di lavoro. Il pagamento dei crediti non può tradursi in un aumento della tassazione per i lavoratori,. che invece va abbassata, essendo già molto alta. E rischia di aumentare per la sovrapposizione delle prossime scadenze fiscali.

La concomitanza tra Imu, Tares, aumento dell’Iva è motivo di preoccupazione anche per il sindacato. Sulla Tares come giudica la scelta del governo di confermare il rincaro dello 0,30% spostando la maggiorazione da maggio a dicembre? Lo spostamento a fine anno è un segnale non sufficiente, il tema è non solo la concomitanza tra diversi adempimènti fiscali, ma anche la quantità dal momento che siamo in presenza di un alto livello di tassazione per i redditi da lavoro. La Tares, il previsto aumento dell’Iva penalizzano chi è più in difficoltà, impedendo il rilancio dei consumi.

Cosa proponete in vista della scadenza di giugno per il pagamento dell’Imu? Proponiamo una riduzione seria per i soli proprietari di una casa.

Come pensa di assicurare la copertura, considerando che l’Imu sulla prima casa vale oltre 4 miliardi e rappresenta un’importante fonte di gettito per i comuni? Proponiamo l’abbattimento solo per chi ha una sola abitazione facendo pagare chi ha più case. Per evitare di scaricare tutto sui comuni proponiamo di rendere significativamente progressiva l’Imu, prevedendo l’esenzione per determinate categorie in gravi difficoltà, come i disoccupati o i pensionati al minimo. Reputo un’emergenza immediata che il governo in carica e il Parlamento approvino misure per consentire a imprese, lavoratori e pensionati di resistere alla crisi. Va poi affrontato il principio della tassazione ingiusta che grava sui lavoratori impoveriti dal fiscal drag e sulle attività produttive che devono fare i conti con un-carico fiscale che rappresenta un impedimento alla sopravvivenza.

Si riferisce all’Irap? Sì, guardiamo all’Irap, alla diminuzione del costo del lavoro dalla base imponibile, a condizione vi sia reciprocità, con un intervento a beneficio dei lavoratori. Proponiamo di restituire il fiscal drag al lavoratori con un intervento una tantum, finanziato dagli introiti provenienti dalla lotta all’evasione fiscale. Va introdotto un principio di giustizia che essendo venuto meno, ha (mito per alimentare il rancore sociale e la rabbia.

Ritiene che quello del fisco possa essere un terreno d’azione comune con le imprese? Chi lavora e chi li rappresenta hanno a cuore la salvaguardia del tessuto produttivo del Paese. Con Cisl e Uil stiamo ragionando sulla possibilità che le parti sociali si vedano per alcune valutazioni, partendo dalla centralità del lavoro che rappresenta un’idea condivisa, per indicare proposte comuni al governo. Oltre all’emergenza c’è anche il tema del cambiamento delle politiche, perchè se la logica è quella di scaricare sempre i costi sul lavoro, il Paese non può ripartire. L’altra leva è la contrattazione e le regole sulla rappresentanza su cui stiamo confrontandoci in modo costruttivo con le imprese.

Un altro motivo di preoccupazione è rappresentato dagli ammortizzatori in deroga. Regioni e sindacati hanno stimato che per l’intero 2013 mancano tra 800 milioni e 1 miliardo. Come reperirli? Con l’incremento di richieste di ammortizzatoti in deroga, l’esercito dei senza reddito rischia di aumentare in assenza di nuove risorse. Insieme a Bonnani e Angeletti abbiamo indetto una manifestazione il i6 aprile davanti al Parlamento per chiedere fondi adeguati. Non si inventino furberie, li vadano a prendere dai grandi patrimoni, dalle rendite finanziarie e dai proventi dalla lotta all’evasione.

Il Sole 24 Ore 06.04.13