Latest Posts

"La sentenza che rivoluziona il mercato dei farmaci", di Pietro Greco

Quando, lunedì scorso 1 aprile, la Corte Suprema dell’India ha respinto il ricorso della Novartis, la multinazionale svizzera del farmaco, a difesa del brevetto sul Glivec, un farmaco antitumorale, ha fornito due motivazioni affatto diverse, ma entrambe di valore generale: il «diritto alla salute della popolazione» viene prima del diritto delle imprese al guadagno; il farmaco su cui si chiede la copertura brevettuale non è innovativo. È per queste due ragioni che la Corte Suprema dell’India riconosce il diritto delle industrie locali a produrre e a vendere un «farmaco generico» che contiene il medesimo principio attivo e ha la medesima capacità terapeutica del Glivec. Nello specifico, il «diritto alla salute della popolazione» è assicurato dal fatto che un mese di trattamento con il farmaco generico costa circa 175 euro, mentre un mese di trattamento con il farmaco della Novartis costa 2.600 euro: 15 volte di più. Il «farmaco generico» abbassa radicalmente l’accessibilità a una cura capace di salvare la vita a chi è ammalato di un tipo di leucemia mieloide cronica e, quindi, rende effettivo il «diritto alla salute».
Quanto invece al brevetto, la Corte Suprema dell’India sostiene che il Glivec su cui la Novartis ha chiesto il brevetto non è innovativo. Ma è la stessa molecola che ha goduto di copertura brevettuale per vent’anni e ora, in base alle norme internazionali, ha perso il diritto ad averla. In pratica, secondo il massimo tribunale indiano la Novartis cerca di spacciare per nuovo un farmaco vecchio.
La Corte, come sempre succede in tribunale, si è pronunciata su un fatto specifico. Ma le due motivazioni hanno un significato molto più generale. La prima riguarda il riconoscimento che la salute è un diritto universale e primario dell’uomo. Altri diritti, come quello al legittimo guadagno di un’impresa, vengono dopo. I neoliberisti, in genere, inorridiscono di fronte a questa visione che antepone i diritti collettivi a quelli individuali. Ma, proprio nel campo della salute, sono almeno dodici anni che questa (sacrosanta) asimmetria è riconosciuta nella prassi. E miete successi. Un anno paradigmatico è stato il 2001, quando un altro tribunale, in Sud Africa, in nome del diritto alla salute negò il diritto delle multinazionali a vendere a prezzi di mercato inaccessibili alla popolazione locale il cocktail anti-Aids e autorizzò la produzione di un analogo «farmaco generico». Molti gridarono alla violazione delle leggi di mercato.
Ma proprio alla fine di quell’anno il paese portabandiera del libero mercato, gli Stati Uniti, che dopo l’attacco alle Torri gemelle dell’11 settembre avevano subito un altro attacco terroristico con spore di antrace, in nome del diritto alla salute minacciarono di negare il riconoscimento del brevetto a un’industria tedesca, se non avesse fornito vaccini a basso costo e in tempi rapidi. Entrambe le azioni andarono a buon fine. Oggi l’Unaids, un’agenzia delle Nazioni Unite, ottiene da Big Pharma il cocktail anti-Aids a prezzi scontati dell’80% per poter contrastare l’epidemia da Hiv nei paesi più poveri e gli Stati Uniti hanno ottenuto il vaccino anti-antrace come richiesto.
Il diritto alla salute è parte importante (la parte più importante, forse) di una costellazione di domande di diritti – che potremmo definire di cittadinanza scientifica – che stanno emergendo con chiarezza in tutto il mondo e che potremmo riassumere come la richiesta di riconoscere come diritti universali la partecipazione ai benefici della scienza e alle definizione delle politiche scientifiche. È singolare, come ha notato Stefano Rodotà, che questi nuovi diritti di cittadinanza vengano riconosciuti con maggiore prontezza in quelli che una volta venivano chiamati paesi in via di sviluppo piuttosto che nei paesi di più antica industrializzazione e di più solida democrazia. Ma questo fa parte di una certa incapacità dell’Occidente a cogliere le novità della nostra era, informata dalla scienza.
La seconda motivazione addotta dalla Corte Suprema dell’India rimanda proprio alle politiche di innovazione. Nel caso specifico, alle politiche di innovazione nel settore farmaceutico. La popolazione mondiale cresce e la piramide demografica si trasforma. Insomma abbiamo bisogno di nuovi farmaci, per curare sia nuove malattie, sia vecchie malattie che hanno una nuova incidenza. Il sistema con cui per alcuni decenni si sono prodotti nuovi farmaci – e che ha portato alla formazione di «Big Pharma», un gruppo ristretto di imprese multinazionali – non funziona più. Lo dimostrano alcuni recenti rapporti. Uno, il Global Pharmaceutical Market Report & Forecast: 2012-2017, sostiene che l’attuale mercato dei farmaci, che ammonta a circa 900 miliardi di dollari l’anno, è destinato a crescere nel prossimo quinquennio al ritmo del 5% annuo e che, nel 2017, ammonterà ad almeno 1.100 miliardi di dollari. Tuttavia si modificherà la struttura di questo mercato. La domanda di farmaci, infatti, crescerà soprattutto nei paesi a economia emergente. La cui incidenza, nel mercato mondiale, potrebbe passare dall’attuale 15% al 30%. Nel medesimo tempo verrà a scadenza la copertura brevettuale di molti farmaci: per 29 miliardi di dollari nel 2013, per 40 miliardi di dollari nel 2014. La gran parte del mercato di questi farmaci di marca verrà sostituita da farmaci generici, a più basso costo.
Il che creerà (sta già creando) non poche difficoltà a «Big Pharma». Ma le difficoltà maggiori sono quelle documentate in un altro rapporto – Beyond the Shadow of a Drought, redatto nei mesi scorsi da tre esperti americani: Jeff Hewitt, David Campbell e Jerry Cacciotti – che indica tre punti di crisi del sistema. Primo. Siamo passati dall’«età dell’oro» dell’innovazione all’«età della scarsità». Con una perdita della capacità di produrre nuovi farmaci che è caduta del 40%. Nel corso dell’«età dell’oro», che copre gli anni dal 1996 al 2004, la FD&A, l’agenzia americana che autorizza la vendita di nuovi farmaci, ha approvato l’introduzione sul mercato di 36 nuove formule ogni anno. Nell’«era della scarsità», compresa tra il 2005 e il 2020, la FD&A ha autorizzato la vendita di soli 22 nuovi farmaci l’anno. Le industrie faticano a innovare. E reagiscono nel modo denunciato dalla Corte Suprema indiana, cercando di estendere il brevetto scaduto a vecchi farmaci ritoccandoli in componenti non essenziali.
Secondo. Ogni nuovo farmaco genera sempre meno valore. Nell’«età dell’oro» ogni nuovo farmaco nei cinque anni successi all’immissione sul mercato produceva 515 milioni di dollari, oggi ne produce 430: una perdita secca del 15%. Terzo. La ricerca scientifica ha subito una secca perdita di produttività. Nell’«età dell’oro» le imprese nei primi 5 anni dopo la messa a punto di un nuovo farmaco ricavavano 275 milioni di dollari per ogni miliardo di dollari investito in R&D. Ora ne ricavano appena 75 milioni. La perdita secca di produttività è stata addirittura del 70%. Tanto più grave se si considera che gli investimenti mondiali in R&D sui farmaci sono raddoppiati in assoluto, passando da 65 a 125 miliardi di dollari. È anche vero che in passato le grandi imprese private non brillavano per capacità innovativa: scoprivano nei propri laboratori solo il 10% dei nuovi farmaci e acquistavano il restante 90% delle nuove formule dai laboratori finanziati con fondi pubblici. Ma oggi il sistema non regge più. Sono in crisi sia il monopolio, sia la capacità di innovazione sia la produttività dell’innovazione. Per questo, come ha scritto su Science, Garret A. FitzGerald, dell’Institute for Translational Medicine and Therapeutics, del Perelman School of Medicine Translational Research Center di Filadelfia, occorre ripensarlo, quel sistema, daccapo. Non è facile dire come. Ma la Corte Suprema dell’India ci offre alcuni spunti.
In primo luogo occorre un sistema che metta al centro il malato e non il cliente. E che, dunque, assicuri il diritto alla salute di tutti, non il guadagno di alcuni. Il mercato può essere uno strumento, non il fine dell’industria del farmaco. Anche perché è dimostrato che il mercato non è il motore dell’innovazione. È semmai il tempio del restyling delle vecchie formule. Il vero motore dell’innovazione resta quello dei centri finanziati con fondi pubblici, dove nell’«età dell’oro» come nell’«età della scarsità» si sono messi a punto nove nuovi farmaci su dieci.

L’Unità 05.04.13

"Nel club dei paradisi fiscali 200 superevasori italiani", di Giampiero Martinotti

Sono 200 le società italiane nel database delle 120 mila sigle offshore nei paradisi fiscali. La rete mondiale per evadere il fisco e forse riciclare denaro sporco è stata ricostruita dall’International Consortium of Investigative Journalists (Icij) a cui ha partecipato, per l’Italia, l’Espresso.
Tra i nomi Gaetano Terrin, commercialista ex dello studio Tremonti; Fabio Ghioni, ex hacker professionista protagonista delle intrusioni informatiche partite dalle strutture di Telecom Italia. Due milioni e mezzo di file per tentare di carpire i segreti di 120 mila società offshore, basate alle isole Vergini, Cayman, Cook, Samoa e Singapore: l’operazione lanciata da una ong statunitense con l’aiuto di un gruppo di giornali internazionali (per l’Italia L’Espresso), mette a nudo la realtà di un sistema organizzato per non pagare tasse, riciclare denaro sporco, proteggere i patrimoni dal fisco.
Una ragnatela in cui è facile perdersi, ma in cui si incontrano anche molte sorprese, fra cui una sgradita per François Hollande: il tesoriere della sua campagna elettorale, il finanziere Jean-Jacques Augier, è azionista di due società basate alle Cayman. Attività legali e dichiarate, dice l’interessato, ma la rivelazione della loro esistenza arriva nel peggior momento per il capo dello Stato, impelagato nell’affare Cahuzac, il ministro del Bilancio dimissionario che aveva un conto clandestino a Singapore.
I dati sono stati messi a disposizione di 45 testate dall’International Consortium of Investigative Journalists (Icij), basato a Washington. Vista la mole, non sono ancora stati tutti spulciati e richiedono un lavoro da certosini: investire in certe isole caraibiche non è di per se un reato, fare la differenza tra elusione, evasione, riciclaggio e attività criminali è molto difficile, visti i sofisticati meccanismi della finanza odierna.
Ma dalla massa dei dati emergono già alcuni nomi di primo piano: dalle figlie del presidente dell’Azerbaijan Ilham Aliyev al premier georgiano Bidzina Ivanishvili, fino a Maria Imelda Marcos, figlia dell’ex dittatore filippino. Per quest’ultima, Manila si chiede se i soldi provengano dai cinque miliardi di dollari che il padre ha accumulato grazie alla corruzione. Tra gli altri personaggi emergono la moglie del primo vice- premier russo, Igor Shuvalov, due dirigenti di Gazprom, due trader di Wall Street. E anche una mecenate dell’arte che vive in Spagna, la baronessa Carmen Thyssen-Bornemisza, che utilizza una società delle isole Cook per comprare opere d’arte.
I dati provengono da due società di servizi finanziari offshore, la Portcullis Trust-Net e la Commonwealth Trust Limited. Due fra le centinaia di società che aiutano i ricchi del pianeta a nascondere i loro averi dagli occhi indiscreti e forniscono i prestanome necessari a proteggere l’identità dei veri proprietari delle holding offshore: un’indagine dell’Icij ha scoperto che 28 uomini di paglia facevano da prestanome a ben 21 mila società. Uno di loro è accusato di sostenere il programma nucleare iraniano.
Le Monde ha citato uno studio preparato da un ex economista della McKinsey, James S. Henry: secondo i suoi calcoli, i ricchi del pianeta avrebbero nei paradisi fiscali una somma compresa fra 21 e 32 mila miliardi dollari, una cifra che corrisponde alla somma del pil di Stati Uniti e Giappone. Le sole attività finanziarie criminali, secondo la Banca mondiale, rappresenterebbero una circolazione di 1.250 miliardi di euro.
In questo contesto, è ovvio che colpisca il nome del tesoriere di Hollande, compagno degli anni dell’Ena. Ha fatto fortuna gestendo la più grande compagnia parigina di taxi, proprietà dell’ex direttore di gabinetto di François Mitterrand, e ha lavorato molto in Cina negli anni Duemila. I suoi investimenti alle Cayman sono certo dichiarati, ma Le Monde sottolinea che i conti delle società non sono pubblici e sono quindi inverificabili. Ma non è tanto la legalità a essere in gioco: a stonare è la presenza nell’équipe di campagna di Hollande di un uomo dagli investimenti quanto meno disinvolti. E oggi molti ricordano il discorso più importante dell’allora candidato socialista: «Vi dico chi è il mio vero avversario. Non ha nome, né volto, né partito, non presenterà mai la sua candidatura, non sarà eletto, eppure governa. Questo avversario è il mondo della finanza. Sotto i nostri occhi, in vent’anni, la finanza ha preso il controllo dell’economia, della società e anche delle nostre vite. Ormai è possibile in una frazione di secondo spostare somme vertiginose, minacciare degli Stati».

La Repubblica 05.04.13

"Università, l’agonia della borsa di studio", di Nadia Ferrigo

Recita la nostra Costituzione: «I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi». La buona notizia è che i capaci e meritevoli non mancano. Quella cattiva è che il diritto allo studio rischia di sparire. I dati sulle risorse finanziarie destinate a borse di studio, mense e alloggi sono impietosi, le prospettive drammatiche. Nello scorso anno accademico, 57mila studenti si sono ritrovati nella categoria degli «idonei non beneficiari». Per reddito e percorso di studi, sono considerati meritevoli di ricevere un aiuto dallo Stato. Per mancanza di fondi, destinati a non ricevere nulla, se non l’esenzione dalle tasse universitarie. Se nulla cambia, il loro numero aumenterà in fretta. Nel 2009 il Fondo nazionale destinato a integrare le risorse regionali a disposizione degli studenti fu eccezionalmente di 246 milioni di euro, grazie alle misure urgenti disposte dall’allora ministro Mariastella Gelmini. Poi un viaggio sulle montagne russe: circa 100 milioni di euro nel 2010 e nel 2011, poi 175 milioni nel 2012. Denari riacciuffati al volo, come i 90 milioni ripescati dalla spending review del governo Monti. Senza interventi dell’ultimo minuto o brusche inversioni di rotta, il taglio alle borse di studio previsto per i prossimi tre anni è del 92%. Tradotto in euro, vuol dire che entro il 2015 i fondi a disposizioni dei «valorosi ma non danarosi» saranno 15 milioni di euro. Briciole, da distribuire in tutto il Paese e integrare con i fondi regionali. E se le famiglie che non si possono più permettere un figlio all’università sono sempre di più, sono sempre di più anche le Regioni sull’orlo del collasso. Un esempio su tutti? Il sistema universitario piemontese. Da eccellenza a ultimo in classifica, con un deprimente risultato del 30% delle richieste di borse di studio soddisfatte. Se il contributo statale si è attestato tra i 7 e i 7,9 milioni di euro, è la drastica riduzione del contributo regionale – oltre il 60% – che ha portato il meccanismo al tracollo. Un duro colpo per una regione che può vantare un’indiscussa eccellenza come il Politecnico di Torino, dove più della metà degli studenti non sono piemontesi e il 15% stranieri. Sabato il ministro dell’Istruzione Francesco Profumo sarà a Torino per incontrare i rappresentanti delle associazioni universitarie della regione. Intanto proprio dagli studenti universitari nasce una campagna di mobilitazione nazionale. Semplice ed efficace lo slogan: «Non c’è più tempo». Ed è anche straordinariamente vero. Se nessuno interviene, si rischia di arrivare a settembre senza che nulla sia cambiato. Con costi enormi per il Paese, sia in termini etici che di sviluppo. «I costi per le famiglie sono diventati insostenibili. La politica non si muove da tempo, il diritto allo studio non può essere la vittima – denuncia Elena Monticelli, coordinatrice per il diritto allo studio dell’associazione studentesca Link -. Abbiamo lanciato la campagna “Non c’è più tempo” per riportare l’università nel dibattito politico. Se ne è parlato poco in campagna elettorale, ora non se ne parla più. La situazione è gravissima». Intanto, dopo un braccio di ferro durato due anni, giace al vaglio della conferenza Stato Regioni il decreto di riforma presentato dal ministro Profumo, osteggiato dalle associazioni studentesche ma con il via libera del Consiglio nazionale degli Studenti Universitari.

La Stampa 05.04.13

Roma – VII Edizione Premio Buone Pratiche di educazione alla sicurezza e alla salute “Vito Scafidi”

Roma, 23 aprile 2013
Sala del Parlamentino – CNEL
Viale Davide Lubin, 2

9.00 Registrazione partecipanti

9.30 Inizio lavori

Introduce Anna Lisa Mandorino, Vice Segretario generale di Cittadinanzattiva

Modera Giovanni Anversa, autore e conduttore di “Paese reale”, Raitre

Saluti
Ministero dell’Istruzione, dell’Università, della Ricerca
Elena Centemero, Camera dei Deputati
Manuela Ghizzoni, Camera dei Deputati

10.30 Relazione introduttiva

Adriana Bizzarri, Coordinatrice Nazionale della Scuola di Cittadinanzattiva

11.00 Interventi e premiazione delle scuole

Titti Postiglione, Dipartimento della Protezione Civile
Stefano Brovelli, Presidente Federchimica ANIFA
Gregorio Iannaccone, Presidente Associazione Nazionale Dirigenti Scolastici (A.N.DI.S.)
Cinzia Caggiano e Fortunato Scafidi genitori di Vito
Andrea Macrì, compagno di classe di Vito Scafidi (Rivoli)
Antonio Morelli, presidente del Comitato Vittime S. Giuliano di Puglia

Saranno presenti studenti, insegnanti e dirigenti scolastici delle scuole vincitrici e di quelle che avranno ricevuto menzioni speciali, che illustreranno i propri progetti.
Nel corso della premiazione verrà presentato il filmato contenente le clips dei progetti vincitori e menzionati.

Chiusura dei lavori ore 13.30

Legge regionale contro la violenza sulle donne: sabato al via la raccolta di firme

Prende il via sabato 6 aprile in tutta la regione Emilia-Romagna la raccolta delle firme a sostegno della proposta di legge regionale di iniziativa popolare “Norme per la creazione della Rete regionale contro la violenza di genere e per la promozione della cultura dell’inviolabilità, del rispetto e della libertà delle donne” voluta e costruita dalle donne della Conferenza regionale delle Democratiche (prime firmatarie la modenese Caterina Liotti, Lucia Bongarzone e Sonia Alvisi). I primi banchetti organizzati nel modenese sono programmati a Modena e a Carpi. Sabato pomeriggio, in città, la raccolta delle firme avverrà in piazzetta delle Ova, in via Emilia Centro, dalle ore 15.00 alle ore 18.00. Nella città dei Pio, invece, sabato mattina il banchetto sarà allestito in piazza Martiri dalle 10.00 alle 12.30. Sul sito del Pd www.pdmodena.it, dalla prossima settimana, saranno pubblicati i luoghi e gli orari della raccolta delle firme in tutti i Comuni modenesi e gli appuntamenti di presentazione pubblica dell’iniziativa. Il Partito democratico e i Giovani democratici sono impegnati in maniera diffusa su tutto il territorio provinciale per sostenere l’iniziativa della Conferenza delle Democratiche: “La lotta a ogni forma di violenza e sopruso nei confronti delle donne è un dovere di civiltà e un sacrosanto principio di democrazia. – conferma il coordinatore provinciale e segretario vicario Pd Paolo Negro – Il nostro partito è da tempo impegnato su questi temi, per costruire una sensibilità diffusa in tutta la società e per dare strumenti concreti a chi opera per aiutare le vittime. I circoli del Pd stanno già lavorando per far conoscere questa importante iniziativa e per favorire una massiccia raccolta di firme”. I “numeri” costantemente in crescita dei femminicidi perpetrati nel nostro Paese testimoniano che siamo di fronte ad una vera e propria emergenza sociale: “Abbiamo scelto di lavorare su una proposta di legge di iniziativa popolare per chiedere alla Regione Emilia-Romagna di più. – spiega Caterina Liotti, coordinatrice provinciale delle Democratiche modenesi e Presidente del Consiglio comunale – Più servizi per le donne vittime e per gli uomini violenti, più opportunità lavorative e formative per chi vuole uscire dalla violenza, più risorse su progetti e attività culturali di prevenzione, più educazione al rispetto nelle relazioni affettive e amorose. Siamo certe – conclude Liotti – che solo se ci muoveremo tutti insieme, donne e uomini, partiti politici e società civile, potremmo iniziare ad affrontare questa enorme piaga sociale”.

*******

Legge regionale contro la violenza sulle donne, obiettivo 20mila firme

Si cimenteranno nella raccolta firme le donne della politica, ma anche quelle della società civile. La proposta di legge regionale di iniziativa popolare contro la violenza sulle donne è stata presentata dalla coordinatrice provinciale delle Democratiche modenesi Caterina Liotti e da Maria Merelli, mercoledì pomeriggio, anche alle rappresentanti del mondo dell’associazionismo e alle organizzazioni sindacali. Per legge sarebbero sufficienti 5mila firme, ma l’obiettivo ambizioso che si propongono le sostenitrici dell’iniziativa è di arrivare, in tutta l’Emilia Romagna, a quota 20mila firme. L’incontro di mercoledì anche su questo fronte si è rivelato particolarmente proficuo: le donne presenti hanno pienamente condiviso le finalità e gli obiettivi perseguiti dalla proposta di legge e hanno assicurato la propria disponibilità a farsi parti attive nella diffusione e nel sostegno all’iniziativa. In particolare le associazioni femminili Udi e Cif provinciali e di Carpi, Centro documentazione donna, Donne giustizia, Differenza maternità, Donne nel mondo, Donne arabe e straniere, Profilo Donna, centro d’ascolto antiviolenza Vivere Donna di Carpi e Artemisia di Sassuolo hanno sottolineato come lo strumento legislativo possa essere determinante nell’allargare le opportunità di uscita dalle situazioni di violenza per le donne vittime e per i loro figli, ma soprattutto nell’attivare percorsi di prevenzione che incidano sulla dimensione culturale del fenomeno.

Le associazioni Arci, Anpi, Libera contro le mafie, Gap Up, hanno sottolineato come la battaglia contro la violenza sulle donne sia nel nostro paese una battaglia di civiltà da affrontare tutti insieme, donne e uomini, partiti politici e società civile.

Anche le organizzazioni sindacali CGIL, CISL e UIL, con i loro coordinamenti femminili in testa, da sempre attivi sul versante della violenza a partire dai luoghi di lavoro, hanno assicurato l’appoggio alla raccolta delle firme in tutto il territorio provinciale.

Presenti all’incontro anche le donne di Sel che hanno portato l’appoggio del loro partito al percorso di raccolta delle firme e con le quali si sta lavorando per depositare delibere di appoggio alla Legge nei Consigli comunali.

Tutti insieme rappresentano un primo sostanzioso gruppo di sostegno all’iniziativa, aperto comunque a ulteriori apporti.

Monumento a Graziani, “Gesto di offesa all’Etiopia e agli italiani”

Kyenge e Ghizzoni hanno depositato un’interpellanza affinché il Governo si pronunci. Si converta la dedica del monumento di Affile alla memoria del generale fascista Rodolfo Graziani: potrebbe essere, invece, dedicato alla memoria delle vittime etiopi della cui morte lo stesso Graziani porta la responsabilità. La proposta è contenuta in una interpellanza al ministro dell’Interno e al ministro per i Beni e le attività culturali depositata dalle parlamentari modenesi del Pd Cécile Kyenge e Manuela Ghizzoni, insieme al deputato Paolo Beni.

L’11 agosto 2012 nel comune di Affile, alta valle dell’Aniene, Parco Radimonte, in provincia di Roma, veniva inaugurato per volere del sindaco Ercole Viri (Pdl) e con stanziamento di soldi pubblici da parte della Regione Lazio per 130mila euro, un monumento funebre, dedicato alla memoria di Rodolfo Graziani, ufficiale dell’esercito italiano nella Prima Guerra Mondiale, conquistatore e Viceré d’Etiopia dopo la guerra contro quel paese, quindi governatore della Libia durante la seconda guerra mondiale, nonché Ministro della difesa della Repubblica Sociale italiana. “Come si evince dalla registrazione dell’intervento di inaugurazione ad opera del sindaco, il monumento, a 130 anni dalla nascita del generale Graziani, veniva a lui dedicato con la precisa intenzione di «fare giustizia» della sua memoria – si legge nell’interpellanza depositata al ministro dell’Interno e al ministro per i Beni e le attività culturali, dagli onorevoli Pd Cécile Kyenge, Manuela Ghizzoni (già presidente della Commissione Cultura) e Paolo Beni (presidente Arci) – Il generale Graziani si è distinto come uno dei criminali di guerra più sanguinari del regime fascista: oltre ad essere stato uno dei primi firmatari del “Manifesto della razza” del 1938, come ricordato ripetutamente sulla stampa, fu uno dei principali responsabili di una delle più vergognose pagine della storia italiana, ossia del rastrellamento del ghetto ebraico a Roma, il 16 ottobre del 1943, che vide la deportazione di 1024 ebrei, tra cui 200 bambini mai tornati dai campi di sterminio; è peraltro storicamente provato che durante le operazioni belliche e i bombardamenti finalizzati all’occupazione dell’Etiopia, il generale Graziani – dando corso ad espressi ordini provenienti da Mussolini – fece uso dell’Iprite, gas nervino espressamente vietato dalle convenzioni internazionali dopo la prima guerra mondiale”. Si rese inoltre responsabile della mattanza dei preti e diaconi cristiani etiopi da lui ordinata a Debra Libanos, fatti assassinare dalle truppe islamiche in divisa italiana, e partecipò attivamente alla rappresaglia in Etiopia di Addis Abeba. “È pertanto assai grave, ad opinione degli interpellanti, che un comune di 1500 abitanti abbia «fatto giustizia» della memoria del generale Graziani – un personaggio fortemente controverso per il ruolo svolto nel ventennio fascista, nel rastrellamento del ghetto di Roma e da ultimo in Etiopia – con i soldi dei contribuenti e alla presenza di cariche pubbliche, compiendo da un lato un gesto profondamente offensivo nei confronti dell’Etiopia, e della comunità degli etiopi residenti in Italia, e, dall’altro, contraddicendo, il gesto unilaterale con cui lo Stato italiano ha restituito al paese africano l’obelisco di Axum, sottratto dall’Italia fascista e collocato a Roma come emblema dell’avvenuta conquista”. La vicenda del monumento dedicato al generale Graziani è stata oggetto di atti di sindacato ispettivo ed interpellanze anche nella scorsa legislatura alla quale il Governo aveva dato una risposta insoddisfacente, limitandosi a ribadire la sostanziale incompetenza della Presidenza del Consiglio. “L’iniziativa è volta a sollecitare un pronunciamento del nuovo Parlamento e del Governo: per rispetto alla memoria storica del nostro Paese, intendiamo suggerire una conversione di tale monumento a opere culturali, magari dedicando lo stesso proprio alle vittime in Etiopia” ha infatti dichiarato Cécile Kyenge. “La XII disposizione transitoria della Costituzione – si legge ancora nell’interpellanza – vieta espressamente “la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”, mentre le norme di attuazione di tale disposizione transitoria, stabilite con la legge n. 645 del 20 giugno del 1952, definiscono come riorganizzazione anche «l’esaltazione di esponenti, principi, fatti e metodi del predetto partito». Chiediamo quali iniziative urgenti intenda adottare il Governo non solo per dissociarsi da quanto avvenuto nel comune di Affile, ma altresì per porre rimedio concretamente e simbolicamente ad un atto che genera vergogna e imbarazzi, e per restituire all’Italia quel profilo di affidabilità e credibilità nei valori di libertà e di democrazia, su cui si fonda la nostra Costituzione”.

"Smantellare gli arsenali è ancora l’unica risposta", di Federica Mogherini

È oramai più di un anno – dalla morte del “Caro leader” Kim Jong-il, avvenuta il 17 dicembre del 2011, che ha scaraventato su un trono sostanzialmente dinastico il giovanissimo Kim Jong-un – che la Corea del Nord oscilla pericolosamente tra timidi spiragli di apertura e dialogo e accelerazioni lungo la strada del conflitto nucleare.

Ogni volta che un gesto di distensione, a volte anche un risultato negoziale insperato, lasciava intravedere un barlume di speranza, immediatamente veniva rinnegato da un atto di ostilità tanto esplicita quanto unilaterale. Il pendolo non si è mai fermato né all’estremo del dialogo, ma neanche nel mezzo, nella ricerca di una via ragionevole che rendesse possibile la convivenza forzata.

Forzata, priva di alternative, non solo perché la geografia non è un’opinione, e la penisola coreana vede oggi divise realtà che erano unite, ma anche perché quelle due realtà – la Corea del Nord e quella del Sud – sono oggi diventate le due facce più distanti dello sviluppo del pianeta: povertà assoluta contro sviluppo frenetico; isolamento totale contro connessione globale. Quel che fino a cinquant’anni fa era simile, oggi farebbe fatica a riconoscersi, a parlarsi: tanta luce e rumore e suoni e megaschermi e pubblicità e ricchezza e competizione si vedono per le vie di Seoul, quanto silenzio e buio e miseria e vuoto si vedono (ammesso e non concesso che si riescano a vedere) a Pyongyang – che pure è la capitale dell’oligarchia privilegiata, non parliamo poi della desolazione delle campagne.

Le due facce della Corea – il regime isolato e povero del nord, la democrazia in pieno boom economico e tecnologico del sud – si guardano e si temono a vicenda, ma dividono lo stesso spazio (come una bolla di olio in un bicchiere d’acqua), e a tratti si appoggiano l’una all’altra: per una vecchia nostalgia di unificazione, che via via sbiadisce con il passare degli anni e dei ricordi di chi ha vissuto la traumatica separazione; per la voglia di normalizzare i rapporti nella regione, attraversata già da innumerevoli tensioni; per banale necessità di sussistenza, con l’affluire di preziosa valuta straniera nelle casse di Pyongyang attraverso le attività dell’area speciale di Kaesong, oggi chiusa.

E’ questo che faceva sperare che, prima o poi, il regime nord-coreano si assestasse sul punto di caduta di un realistico dialogo forzato, che avrebbe consentito un’apertura pilotata di una società ad oggi totalmente chiusa (che rischia di esplodere al primo contatto con l’esterno, alla prima incursione di internet), la sopravvivenza economica di un paese ridotto in povertà estrema, ed una forma di convivenza accettabile con gli altri paesi dell’area. Il tutto garantito dal colosso cinese, unico vero mediatore con il regime nord-coreano, che era riuscito a far camminare i difficili six party talks sul nucleare, e che invece oggi sembra interrogarsi sull’opportunità di svolgere fino in fondo il proprio ruolo regionale. Un percorso guidato, graduale, che avrebbe consentito di gestire una complicatissima transizione e un costosissimo processo di riunificazione anche in assenza di un’integrazione regionale che la accompagnasse (come l’Unione europea ha fatto per la Germania).

Non è così che è andata, le scelte di Pyongyang non hanno seguito tracciati razionali. A forza di far oscillare il pendolo, l’arco che si è disegnato ha assunto contorni sempre più enormi, più incontrollati, fino ad arrivare all’escalation di questi giorni, e poi all’annuncio dell’autorizzazione di un attacco nucleare contro gli Stati Uniti – percepiti come potenza di “occupazione” della Corea del Sud, e viene da chiedersi se ci credano davvero, le oligarchie nordcoreane, o se si appoggino al cliché pur essendo consapevoli della sua assurdità.

Si può discutere quindi oggi di quanto siano fondate, o reali, le minacce alla sicurezza che Pyongyang agita contro i propri vicini – la Corea del Sud, il Giappone, gli Stati Uniti (vera potenza del Pacifico, come questa crisi dimostra). Ma il fatto che il grado di razionalità del comportamento del regime sia vicino allo zero, e l’alta tensione attraversa tutta la regione del nord-est asiatico, rende comunque pericolosissimi gli sviluppi della crisi, a prescindere dalle capacità tecnologiche e dai mezzi militari della Corea del Nord. Basta un cerino, e il pagliaio va a fuoco, coinvolgendo l’area a più alta densità di sviluppo del pianeta, e le due massime potenze globali – Stati Uniti e Cina.

E ci ricorda, se mai ce ne fosse bisogno, che la priorità assoluta è oggi rilanciare seriamente, coerentemente e con la massima urgenza, quelle politiche di disarmo e non-proliferazione nucleare che dopo lo slancio del post-guerra fredda e del discorso di Praga di Obama nel 2009 sembrano essersi incagliate tra le maglie delle minacce iraniane o nord-coreane. Dovremmo oggi capire che non c’è deterrenza che tenga, di fronte all’irrazionalità delle scelte di regimi che poco – se non nulla – hanno da perdere. L’unica via per non ritrovarci, nei prossimi anni o decenni, a vivere ancora l’incubo della distruzione nucleare è smantellare gli arsenali, sotto qualsiasi bandiera siano. Meno armi nucleari ci saranno al mondo, più il mondo sarà sicuro. E’ di una banalità disarmante.

da Europa Quotidiano 05.04.13