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"La sinistra e la destra", di Claudio Sardo

Il merito di Matteo Renzi è di aver indicato, senza ipocrisie, una strada diversa da quella di Pier Luigi Bersani e di aver così aperto un confronto pubblico sulla strategia del Pd. Per il sindaco di Firenze bisogna scegliere tra l’alleanza con Berlusconi e le elezioni anticipate. Una terza via non esiste, il «piano A» proposto da Bersani e approvato nella direzione Pd è a suo giudizio fallito, dunque occorre cambiare l’offerta politica. Anche perché il percorso del governo si incrocia con l’elezione del Capo dello Stato: e, secondo Renzi, il successore di Napolitano deve scartare il «governo del cambiamento» proposto dal Pd e passare subito al «piano B» (maggioranza Pd-Pdl) o addirittura al «piano C», cioè lo scioglimento immediato delle Camere. Sono opinioni non solo legittime, ma anche dotate di una loro forza: sebbene tra gli elettori del centrosinistra qualunque ipotesi di alleanza politica con il Pdl abbia pochi sostenitori e tanti tenaci oppositori, in altri settori e soprattutto nelle classi dirigenti questa prospettiva è largamente auspicata. E la sintonia con le élite non è in sé disprezzabile, tanto più per un partito come il Pd che si considera il perno di ogni plausibile governabilità. Tuttavia, se la grande coalizione appare come la soluzione logicamente più idonea a superare lo stallo, nella realtà è del tutto insufficiente a rispondere alla domanda di cambiamento, al senso di sfiducia, alla vera e propria frattura politica prodotta dal voto del 24 febbraio.
Basterebbe dire che per 18 mesi abbiamo già avuto le larghe intese e l’esito elettorale non può essere imputato solo alle prestazioni, pur discutibili, del governo Monti. Basterebbe dire che il Pdl è tornato ad essere pienamente il partito personale di Berlusconi, avendo bloccato sul nascere la sua evoluzione democratica. Basterebbe dire che il Cavaliere ha fin qui subordinato il negoziato sul governo all’impossibile condizione di una garanzia giudiziaria per sé. Ma mettiamo pure da parte questi argomenti, che suonano propagandistici alle orecchie di cittadini che non sono di centrosinistra.
Il problema della politica è certamente, prioritariamente, quello di dare all’Italia un governo credibile in Europa, un governo che si preoccupi anzitutto delle sofferenze sociali, delle disuguaglianze crescenti, delle imprese che stanno morendo, del lavoro che drammaticamente si riduce, delle famiglie che non ce la fanno più. Ma guai a separare questo problema dalla consapevolezza che ci muoviamo su una faglia larga e profonda, che siamo nel mezzo di un terremoto. I cittadini che vivono il dramma sociale non hanno più fiducia in una politica che appare loro impotente, e anche per questo più esosa, più corrotta, autoreferenziale. Non ci sarà un recupero di fiducia, non ci sarà neppure una svolta nell’economia reale, se non verrà rimosso questo macigno.
Continuare sulla strada della grande coalizione – nella forma di un accordo politico o di un governo in apparenza più neutrale – sarebbe oggi la resa della politica, non meno di una corsa ad elezioni anticipate: tutto il contrario di quella comune assunzione di responsabilità che invece resta doverosa. Perpetuando lo schema di Monti, si rischia di rafforzare il dualismo tra la politica asserragliata nel Palazzo e le forze anti-sistema che spingono il disagio sociale fino alla soglia della rottura democratica. Peraltro, il solo compromesso possibile tra Pd e Pdl sarebbe quello di interpretare nel modo più passivo le direttive europee, senza il protagonismo necessario oggi all’Italia e all’Europa per cambiare davvero rotta.
Per rinascere, invece, la politica ha bisogno di recuperare le differenze. Di ritrovare la destra e la sinistra. Di mostrare in modo trasparente i diversi progetti. Di far capire che il cambiamento è possibile. Non un politica costretta in uno stato di necessità, ma una politica aperta, dove i cittadini possono misurare ogni giorno le opportunità e le distanze tra Pd, Pdl, Cinque stelle. Se gli italiani hanno scelto il tripolarismo, si lavori allora in uno schema nuovo. La proposta di Bersani non è faziosa, come sostiene il Pdl. E non è un invenzione: tutti i Paesi democratici – nessuno escluso – sono guidati oggi dal leader del partito che ha ottenuto più voti, ora nelle forme di un governo monocolore, ora di un governo di coalizione, ora di un governo di minoranza. Perché in Italia la competizione politica non deve essere ricostruita su binari europei? Perché invocare le elezioni anticipate, che potrebbero spingerci in una spirale distruttiva?
Un governo sotto la responsabilità del centrosinistra, in questa fase politica, potrebbe avere quel ruolo di promotore della ricostruzione nazionale che ieri Michele Salvati auspicava sul Corriere (salvo poi arroccarsi nel pregiudizio che tutti possono guidare un governo tranne Bersani). I numeri del Senato garantirebbero al Pdl e ai Cinque stelle parti da protagonisti e all’intero Parlamento una funzione di controllo che aveva smarrito. Sui problemi concreti del Paese – dalla revisione del Patto di stabilità interno, alle misure per il lavoro, le famiglie, le imprese, alla lotta alla corruzione e agli sprechi – si può competere e al tempo stesso decidere. Senza confusioni nel governo. E poi c’è un lavoro in comune, quello sì paritario, sulle riforme istituzionali, la riforma elettorale, la riforma dei partiti, l’equità dei rimborsi. Bersani si è detto pronto a far guidare il processo al Pdl, alla Lega, ai Cinque stelle: altro che esclusione. C’è un patto repubblicano da rinsaldare davanti alle nuove generazioni, fin qui escluse da un futuro dignitoso.
Il centrosinistra deve ritrovare le sue ragioni. Non per sé, ma perché sono condizioni vitali della democrazia. Restare fermi allo schema politico che ha preceduto queste elezioni vuol dire fare una scelta conservativa. Che Berlusconi e Grillo puntino alla conservazione dello stato di crisi è comprensibile: in Grecia, con la grande coalizione permanente, crescono solo la destra e le forze anti-sistema. Non la sinistra riformista. Che soffre il distacco dal suo popolo. Il confronto aperto da Renzi, invece, va portato avanti con serietà: perché un partito comprende la diversità e ne fa tema del suo radicamento sociale. L’importante è non dimenticare che l’unità, alla fine, resta condizione per esercitare un ruolo nelle istituzioni. E che in una comunità non può mancare il rispetto e il riconoscimento della dignità dell’altro. Non c’è battaglia generazionale che giustifichi la delegittimazione. Non è cortesia. È sostanza.

L’Unità 05.04.13

"Le aziende non investo o più, persi 4 milioni al giorno dal 2007", di Roberto Mania

Investimenti in caduta libera. Le imprese non hanno risorse proprie e le banche non prestano più soldi se non a tassi proibitivi. Anche per questo il sistema produttivo, da sempre banca-dipendente, si sta fermando e la ripresa non si vede. Il Centro studi della Cna, la confederazione delle imprese artigianali, ha calcolato che tra il 2007 e il 2012 si sono persi, in termini reali, circa 6,7 miliardi di euro di investimenti. Vuol dire meno innovazione e meno produttività. Significa ridimensionamento delle aziende, riduzione della manodopera e perdita di competitività. È l’economia reale che si spegne e non riesce più a scommettere sul futuro.
Nel 2007, anno che precede il fallimento della banca d’affari della Lehman Brothers e dunque l’inizio di questa lunga fase recessiva, gli investimenti realizzati dall’intero sistema produttivo italiano (escludendo dunque le famiglie, le banche e le società finanziarie)
ammontavano a 43 miliardi e 460 milioni di euro. Nel 2012 sono precipitati a 36.768 milioni. Ogni giorno la spesa per investimenti si è dunque ridotta di 3,7 milioni rispetto a quella del 2007. «Un dato sconfortante», commentato i ricercatori della confederazione.
C’è una morsa che stringe gli investimenti: da una parte il crollo della domanda interna, che per alcuni prodotti (l’auto, innanzitutto) è tornata a livello degli anni Settanta, e dall’altra la chiusura dei rubinetti del credito. Un mix micidiale che è difficile allentare per i vincoli di finanza pubblica (che non consente una riduzione del peso fiscale sul lavoro e sulle imprese) e per quelli imposti dalle regole europee (Basilea III) alle nostre banche largamente sottocapitalizzate. Secondo le elaborazioni della Cna «il costo del denaro per investimenti è aumentato del 30 per cento in tre anni». Il confronto è stata fatto sui tassi applicati dalle banche alle imprese per importi a revoca modesti, cioè non superiori a 125 mila euro, nel 2009 e poi nel 2012. Bene, nell’ultimo anno il tasso si è attestato in media al 10,8 per cento, il valore più alto dal primo trimestre del 2009 quando era pari a circa l’8,4 per cento. Un dato che pesa tantissimo sull’attività delle imprese artigianali più piccole. Tutto ciò, infatti, nonostante che a partire dalla seconda metà del 2011 il tasso Euribor a tre mesi (che misura il costo della raccolta interbancaria) sia progressivamente diminuito e abbia toccato nel dicembre scorso il valore più basso degli ultimi dieci anni. «Si sono esauriti — commentano così gli economisti della Cna — gli effetti benefici dell’euro. Al momento della sua introduzione, e fino al 2008, la moneta unica europea aveva garantito una riduzione significativa dello spread tra i tassi applicati alla clientela e l’Euribor. La crisi ha progressivamente ampliato la forbice tra i due tassi che oggi supera i dieci punti percentuali per i prestiti a revoca». Per oltre il 45 per cento degli artigiani, così, i tassi di interesse bancari risultano in aumento. Tre anni fa era il 21,3 per cento che lamentava un incremento dei tassi. C’è stato un raddoppio significativo.
Soffrono e rischiano di chiudere le imprese artigianali senza l’accesso al credito. A fine 2012 i finanziamenti sono diminuiti per 372.495 imprese. In sostanza la riduzione delle erogazioni ha interessato un’impresa su quattro (esattamente il 25,9 per cento). Si accorciano i fidi bancari: nel 2007 ciascuna impresa artigianale disponeva di 41 mila euro di credito, ora siamo intorno a 36 mila.
È in questo contesto (al quale va aggiunto il dato relativo ai circa 100 miliardi di euro di crediti vantati dalle aziende nei confronti della pubblica amministrazione) che molte imprese abbassano la saracinesca per non riaprirla più: tra il 2007 e il 2012 le aziende artigiane sono diminuite di quasi 56 mila unità. L’effetto sull’occupazione è stato durissimo: circa 100 posti di lavoro saltati. E il Pil continua ad avere in segno meno davanti.

La Repubblica 05.04.13

"La mia città non può morire", di Massimo Cialente*

Gli aquilani e gli italiani celebreranno, domani, il quarto anniversario del terribile sisma che nel 2009 ha distrutto la città dell’Aquila ed i comuni del comprensorio. Un anniversario ancora più drammatico, più dei precedenti. Più drammatico perché, allo struggente dolore per quelle 309 vittime, tra cui tanti bambini e 55 studenti universita- ri, e per questi interminabili giorni di sospensione ai margi- ni di una città fantasma, si unisce ormai un profondo scora- mento; la perdita della speranza di veder ricostruita la città e, insieme, la vita di ciascuno di noi.

Quattro anni passati invano, per la scelta sbagliata ed antidemocratica del Governo Berlusconi di accentrare nelle mani di un fedele commissario, il presidente della giunta regionale Chiodi, la ricostruzione del cratere, escludendo qualsiasi ruolo agli enti locali.

Ciò si è tradotto, come da me più volte segnalato sin dal settembre 2010, in un totale fallimento caratterizzato da una pavida barriera di procedure burocratiche, indecisioni, incertezze che ci hanno fatto perdere almeno due anni di lavoro.

Basti pensare che il commissario Chiodi, quando ha lasciato l’incarico il 31 agosto 2012, ha restituito al Governo ben 447 milioni di euro perché incapace di trasferirli agli enti locali. Solo oggi, dopo mesi di embargo commissariale, grazie alla c.d. Legge Barca dell’agosto 2012, i comuni sono in condizioni di poter avviare la ricostruzione.

Ho giurato a me stesso di non guardare più indietro, al tempo perso; voglio guardare avanti, anche con un pizzico di entusiasmo ed orgoglio.

Proprio in questi giorni, il consiglio comunale con un atto di grande responsabilità ha votato il crono programma della ricostruzione; l’amministrazione ha assunto la responsabilità di indicare aree e tempi della ricostruzione, trovando il coraggio civile di dire a tanti cittadini che non possono ricostruire subito ma aspettare il 2015 od il 2016.

Lo abbiamo fatto perché è necessario avere un progetto credibile per la ricostruzione. Il nostro crono programma prevede la ricostruzione della città e delle sue frazioni per il 2018. Si può fare, lo abbiamo studiato nei minimi dettagli. Non è un progetto particolarmente ambizioso, tantomeno velleitario.

Ci crediamo e siamo pronti a farlo e abbiamo bisogno di crederci come si ha bisogno di ossigeno per respirare. La mia comunità sta perdendo la spe- ranza e la perdita della speran- za è un cancro che divora la collettività, la paralizza, la fa ritirare in se stessa.

Nell’ultimo anno sta accadendo ciò che più temevo e che non si era verificato all’indomani del sisma: gli aquilani soprattutto i giovani, stanno abbandonando la città, perché non c’è lavoro ma soprattutto perché non si può vivere senza un obiettivo certo in una città fantasma. Ecco perché il crono programma; ecco perché con tanta accuratezza lo scorso anno abbiamo conse- gnato e concordato con il Governo il piano di ricostruzione nel quale al centesimo abbiamo calcolato le somme delle quali abbiamo bisogno.

Nel mese di giugno, avremo consumato tutti i fondi che il Governo Berlusconi ha messo a disposizione dell’Aquila per la ricostruzione: 4 miliardi di euro. Ne mancano all’appello, ancora sette, per l’intero cratere sismico.

Non li chiediamo in un solo giorno. Per il comune dell’ Aquila, chiediamo 800mln per il 2013 ed un miliardo l’anno sino al 2018. Non e impossibile. Il Governo Monti ha trovato 6 miliardi di euro per il sisma dell’Emilia, inserendo una piccola tassa di scopo, finanziamento trovato mediante un meccanismo già utilizzato per 2 mld di euro per L’Aquila e che consiste in un muto che lo stato contrae con la cassa depositi e prestiti. 80mln l’anno per 20 anni, per ogni miliardo.

Mi rendo perfettamente conto della situazione economica del Paese ma questo mutuo si può contrarre. Occorre farlo perché altrimenti noi moriamo. La tragedia aquilana porta con sé un peccato originale: il fatto che il governo Berlusconi si rifiutò di inserire una tassa di scopo per ricostruire L’Aquila. Chiedo oggi alle italiane e agli italiani, al Parlamento ed al Governo di starci vicino, di aiutarci, di condividere con noi la sfida vitale che ci siamo assegnati: quella di ricostruire L’Aquila e l’intero territorio, restituen- doli all’Italia ed al mondo. Se nelle prossime settimane non arriveranno i finanziamenti la città sarà condannata a morire, attraverso un lungo declino, un’agonia che stiamo già conoscendo. Lunedì scorso, giorno di pasquetta, il centro storico è stato invaso da migliaia di turisti che attoniti si aggiravano nella città fantasma. Quando li ho visti mi si è stretto il cuore ed ho provato quasi un po’ di rancore con me stesso; il rancore di un sindaco che ancora non riesce a lenire queste piaghe. Resta fermo il sogno di poter ammirare, fra tre anni, una città ricostruita, ancora più bella di prima. Aiutateci, ricordateci, non ci abbandonate.

* sindaco de L’Aquila

L’Unità 05.04.13

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“Tra rabbia e rimpianti”, di JOLANDA BUFALINI

Non c’è la parola per dirlo, c’è la parola orfano, c’è la parola vedovo o vedova. Non c’è quella per dire la condizione di chi perde la figlia o il figlio. Forse per questo il 6 aprile è prima di tutto il ricordo delle ragazze e dei ragazzi, dei bambini vittime del sisma.

Degli aquilani e degli studenti di cui le istituzioni a cui erano affidati avrebbero dovuto prendersi cura. Renza Bucci avrebbe dovuto diventare nonna, il 6 aprile 2009, per il parto programmato della figlia. Ha perso sotto le macerie la figlia e la nipotina, la 309ma vittima, insieme al genero. Renza non ha mancato una udienza di quello che sulla stampa è stato chiamato il «processo alla scienza», eppure il suo nome non è fra quelli del ricorso contro la Commissione grandi rischi, perché per lei non c’è compensazione possibile, c’è invece il bisogno di sapere. Renza, prima che il tempo si fermasse alle 3 e 32 del 6 aprile, lavorava come amministrativa all’università. Nel crescendo delle scosse a L’Aquila, ai dipendenti dell’università era fatto divieto di avere paura e uscire dalle sedi. Obbligo di ferie per i «paurosi». Oggi gli uffici di palazzo Carli, il rettorato, sono un cumulo di macerie e si deve solo ringraziare che la scossa fatale fu di notte perché la strage, altrimenti, sarebbe stata ancora più terribile. Negli uffici e nelle aule. Marta Valente è rimasta 23 ore sotto le macerie che hanno sepolto per sempre Ivana Lannutti, l’amica con cui divideva l’appartamento. Ha spe-o per le cure 130.000 euro. Ma a L’Aquila era una fuorisede, non è tecnicamente una terremotata. Dice Sergio Bianchi, papà di un altro fuori sede, Nicola, morto in via D’Annunzio: «Non è che siamo stati dimenticati, lo Stato non ci ha proprio visti. Ma non vogliamo che sia cancellato il nome dei nostri figli». Uno dei libri più toccanti usciti dopo il sisma si chiama «Macerie dentro e fuori», è curato dal giornalista Umberto Braccili, scritto da genitori e fidanzate o fidanzati dei ragazzi morti nelle case che avevano preso in affitto per studiare. Palazzi in cemento armato, quell’1% di edifici in cemento armato che non avrebbero dovuto crollare e che, invece, sono crollati. Questo libro auto-prodotto, «lo abbiamo fatto per sentirci meno soli», è approdato al Consiglio nazionale dei geologi (sul cui sito può essere acquistato). Insieme ai geologi, i genitori dei ragazzi morti hanno istituito un premio per una tesi di laurea in scienze geofisiche sul rischio sismico. Poca cosa, 3000 euro, anche se si spera di trovare altri fondi, «siamo famiglie operaie – spiega Sergio Bianchi – abbiamo risorse minime». Però è «un modo per andare nelle università, dove abbiamo trovato molto interesse negli studenti, a fare informazione e prevenzione», spiega Gian Vito Graziano, presidente dei geologi.

Nel dopo terremoto si alternano sentimenti contrastanti: smarrimento, voglia di reagire, rabbia, depressione, progetto collettivo, ricostruzione individuale dell’esistenza. Up and down. Siamo nel down. Dal punto di vista del discorso pubblico il 2012 ha significato due cose: il passaggio, fortemente voluto ma non privo di problemi, dalla gestione emergenziale a quella ordinaria, che significa ritorno della democrazia e delle procedure di legge negli appalti. L’altra cosa è lo svolgimento dei processi, incardinati quando era procuratore Alfredo Rossini, morto di tumore il 28 agosto 2012. Il processo per la Casa dello studente, quello per il Convitto nazionale, quello della ommissione Grandi rischi. Processi che hanno portato a condanne in primo grado ma che, soprattutto, hanno portato a delle verità, quelle verità che si possono ricostruire per via giudiziale, come ha spesso sostenuto il Pm Fabio Picuti, per «non dimenticare», dice Sergio Bianchi, «gli errori del 2009». Un grande lavoro per una piccola procura in cui spicca la serie- tà dei giudici monocratici (per quan- to complessi siano questi processi, si tratta di reati colposi per i quali non è previsto il collegio) Giuseppe Grieco, Marco Billi, che hanno dovuto giudicare in solitudine. Sulla testa del silenzioso Marco Billi, che ha parlato solo attraverso le motivazioni della sentenza, si è scatenata la tempesta delle critiche per «il processo alla scienza». Ma la linea difensiva impo- stata da Guido Bertolaso, prima ancora che si facesse il processo, con una raccolta di firme fra scienziati per affermare che «i terremoti non si possono prevedere», se ha fatto breccia nel fatalismo del senso comune, non ha tenuto conto delle leggi dello Stato. Leggi che affidano alla Commissione grandi rischi «competenze specifiche di previsione e di prevenzione, oltre che di raccolta e divulgazione di tutte le informazioni che potessero essere utili ai fini della protezione della popolazione». Attorno a questi delicati compiti è cresciuto un grande apparato, un sistema di informazione istituzionale (disciplinato dalla legge) sulla comunicazione del rischio, che ha accresciuto il prestigio e, conseguentemente, la fiducia di chi è in pericolo. Le vittime del sisma de L’Aquila potevano essere in numero minore – è la conclusione – se quella riunione conclusasi con messaggi rassicuranti non ci fosse stata. Fra le riflessioni sul 6 aprile il libro di Antonello Ciccozzo, antropologo, uscito per Derive e approdi: «A L’Aquila – scrive – si è rivelata una catena di comando che, per calarsi dalla politica alla comunicazione, ha avuto bisogno di accreditarsi attraverso la scienza».

L’Unità 05.04.13

"La nostra Repubblica fondata sulla cultura", di Gustavo Zagrebelsky

La società non è la mera somma di molti rapporti bilaterali concreti, di persone che si conoscono reciprocamente. È un insieme di rapporti astratti di persone che si riconoscono come facenti parte d’una medesima cerchia umana, senza che gli uni nemmeno sappiano chi gli altri siano. Come può esserci vita comune, cioè società, tra perfetti sconosciuti? Qui entra in gioco la cultura. Consideriamo l’espressione: io mi riconosco in… Quando sono numerosi coloro che non si conoscono reciprocamente, ma si riconoscono nella stessa cosa, quale che sia, ecco formata una società. Questo “qualche cosa” di comune è “un terzo” che sta al di sopra di ogni uno e di ogni altro e questo “terzo” è condizione
sine qua non d’ogni tipo di società, non necessariamente società politica. Il terzo è ciò che consente una “triangolazione”: tutti e ciascuno si riconoscono in un punto che li sovrasta e, da questo riconoscimento, discende il senso di un’appartenenza e di un’esistenza che va al di là della semplice vita biologica individuale e dei rapporti interindividuali. Quando parliamo di fraternità (nella tradizione illuminista) o di solidarietà (nella tradizione cattolica e socialista) implicitamente ci riferiamo a qualcosa che “sta più su” dei singoli fratelli o sodali: fratelli o sodali in qualcosa, in una comunanza, in una missione, in un destino comune. Noi siamo immersi in una visione orizzontale dei rapporti sociali. Ma, ciò significa forse che non abbiamo più bisogno di un “terzo unificatore”, nel senso sopra detto? Per niente. Anzi, il bisogno si pone con impellenza, precisamente a causa dei suoi presupposti costituzionali: la libertà e l’uguaglianza, i due pilastri delle concezioni politiche del nostro tempo, che se lasciati liberi di operare fuori di un contesto societario, mettono in moto forze egoistiche produttive di effetti distruttivi della con-vivenza.
Non si può convivere stabilmente in grandi aggregati di esseri umani che nemmeno si conoscono facendo conto solo su patti degli uni con gli altri, come pensano i contrattualisti. A parte ogni considerazione realistica, una volta stabilita una regolazione contrattuale degli interessi in campo, a chi o a che cosa ci si potrebbe richiamare per richiedere l’adempimento degli obblighi assunti, ogni volta che l’interesse mutato spingesse qualcuna delle parti a violarli? Ogni contratto, senza una garanzia terza, sarebbe
flatus vocis.
Per molti secoli, questa garanzia era riposta nella religione; oggi, nell’età della secolarizzazione, non può che essere la cultura.
«L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento », dice l’art. 33, primo comma, della Costituzione. Questa norma di principio è da considerare la base della “costituzione culturale”, così come esiste una “costituzione politica” e una “costituzione economica”, ciascuna delle quali contribuisce, per la sua parte, alla costruzione della “tri-funzionalità” su cui si regge la società, secondo quanto già detto. La Costituzione,
senza aggettivi, è la sintesi di queste costituzioni particolari. Innanzitutto, dicendosi che l’arte e la scienza sono libere e che libero ne è l’insegnamento si dà una definizione. L’attività intellettuale non libera, cioè asservita a interessi d’altra natura non è arte, né scienza: è prosecuzione con altri mezzi di politica ed economia. Si dirà, tuttavia: non è arte la scultura di Fidia, perché al servizio della gloria di Pericle? Non è arte la poesia di Virgilio, perché celebrativa della Roma di Cesare Augusto? E non è arte quella di Michelangelo, commissionata da Giulio II e Paolo III? La loro non è arte perché voluta, comandata, perfino imposta da altri, che non l’artista? Naturalmente no. Ma non è arte per la componente priva di libertà, esecutiva del volere del committente; è arte, per la parte che l’artista riserva alla sua libera creazione.
Cose analoghe si possono dire per le opere dell’ingegno al servizio dell’economia, cioè della pubblicità di prodotti commerciali. Anche a questo proposito, l’impasto di attività esecutiva e di attività creativa è evidente. Il rapporto tra l’una e l’altra è variabile. Normalmente, prevale l’aspetto strumentale: far nascere bisogni, orientare il consumo, combattere la concorrenza, promuovere le vendite: tutte cose che riguardano gli stili di vita, le aspettative, i sogni, ecc. In certo senso, formano cultura, e nel modo più efficace possibile. Ma, per questo aspetto, non sono esse stesse espressione della libertà della cultura;
sono invece funzione dell’economia. Non rientrano nella definizione costituzionale. Vale anche qui, però, la forza purificatrice del tempo. A distanza d’anni, quando s’è persa la nozione dell’interesse originario, anche le opere di pubblicità possono depurarsi dal loro aspetto strumentale ed essere rivalutate e apprezzate nel loro valore artistico.
Non si tratta, comunque, di teorizzare una “cultura per la cultura”, senza contenuto, come pura evasione. La cultura come cultura ha una sua funzione e una sua responsabilità
sociale, come s’è detto: una funzione che esige libertà. Sotto questo aspetto, il verbo “essere” che troviamo nella norma costituzionale assume il significato non d’una definizione, ma d’una prescrizione: “la cultura deve essere libera”. La difficoltà nasce dal fatto che deve essere libera, ma non può vivere isolata.
La prima insidia, qui, sta nella tentazione della consulenza. Il nostro mondo è sempre più ricco di consiglieri e consulenti e sempre meno d’intellettuali. Questa – del consulente – è la versione odierna dell’“intellettuale organico” gramsciano, una figura tragica che si collegava alle grandi forze storiche della società per la conquista della “egemonia”: un compito certo ambiguo, ma indubbiamente grandioso. I consiglieri di oggi sono gli imboscati nell’inesauribile miniera di ministeri, enti, istituti, fondazioni, aziende, ecc., che si legano al piccolo o grande potere, offrendo i propri servigi intellettuali e ricevendo in cambio protezione, favori, emolumenti. La stessa cosa può ripetersi per i consulenti che vendono le proprie conoscenze alle imprese, per testarne, certificarne, magnificarne e pubblicizzarne i prodotti. Naturalmente, consiglieri e consulenti non sono
affatto cosa cattiva in sé, ma lo sono quando sono essi stessi che si offrono e accettano di entrare “nell’organico” di questo o quel potentato. L’uomo di cultura diventa uomo di compiacenza.
La seconda insidia all’autonomia della funzione intellettuale è la tentazione di cercare il successo in questa, per poi spenderlo nelle altre funzioni. Ciò che è giusto in una sfera, può diventare corruzione delle altre sfere. Così, l’affermazione nella sfera dell’economia non deve essere usata strumentalmente per affermarsi nel campo della politica o in quello della cultura; l’affermazione nella sfera politica non deve essere il ponte per conquistare posizioni di potere nella sfera economica o in quella culturale; l’attività nella sfera culturale non
deve corrompersi cercando approvazione e consenso, in vista di candidature, carriere e benefici che possono provenire dalla politica o dall’economia.
Merita qualche parola anche il binomio “libertà della cultura” e “democrazia”. La società del nostro tempo, dove le conoscenze sono sempre più approfondite e settorializzate; dove, quindi, è inevitabile delegare ad altri la conoscenza che ciascuno di noi, da solo, non può avere: in questa società dove pressoché tutte le decisioni
politiche hanno una decisiva componente scientifica e tecnica, massimo è il bisogno di fiducia reciproca. Per prendere decisioni democraticamente e consapevolmente in campi specialistici, chi non sa nulla deve potersi fidare di chi detiene le conoscenze necessarie. Non in nome della Verità, che non sta da nessuna parte, ma in nome almeno dell’onestà, che può stare presso di noi. Se non ci si potesse fidare gli uni degli altri e, in primo luogo, di coloro che per professione si dedicano a professioni intellettuali, la cultura come indispensabile luogo “terzo” di convergenza e convivenza sarebbe un corpo morto.
Di quali mezzi si avvale oggi la cultura? Semplificando: chat o book? Dov’è la radice della differenza? È nel fattore tempo, un fattore determinante nella qualità di tutte le relazioni sociali. La chat e i suoi fratelli – blog, twitter, social forum, newsgroup, mailing list, facebook, messaggi immediati d’ogni tipo – appartengono al mondo dell’istantaneità; i libri al mondo della durata. I messaggi immediati appartengono alla comunicazione; i libri, alla formazione. La comunicazione vive dell’istante, la formazione si alimenta nel tempo. La comunicazione non ha onere d’argomentazione e non attende risposte. Il suo fine è dire e ridire su ciò che è stato detto, per aderire o dissentire, senza passi in avanti. Il libro – saggio, romanzo, poesia; cartaceo o elettronico – appartiene a un altro mondo. Nasce e vive in un tempo disteso, di studio e riflessione. Se sul bancone d’una libreria incontri L’uomo senza qualità o Moby Dick, innanzitutto è come se ti chiedessero: sai quanto tempo ho impiegato a essere pensato e scritto? E tu, quanto tempo e quanta concentrazione pensi di potermi dedicare? L’invasione degli instant books
è la conseguenza della medesima risposta a entrambe le domande, rivolte agli autori e ai lettori: poco, molto poco, forse sempre meno tempo e meno concentrazione.
Ma, allora, è chiaro che la sopravvivenza del libro non è una rivendicazione a favore d’una élite di pochi fortunati lettori. La diffusione della lettura non appartiene al superfluo d’una società non solo, com’è ovvio, perché ha a che vedere con la diffusione dell’istruzione. Siamo, infatti, pienamente nel campo della cittadinanza, cioè della condizione di partecipazione attiva, consapevole e responsabile a quanto c’è di più decisivo per la tenuta della compagine sociale, cioè la partecipazione a una delle tre “funzioni sociali”: la funzione politica di fondo, meno visibile ma, in realtà, nel formare mentalità, più determinante della stessa azione politica in senso stretto, la quale, nella prima trova i suoi limiti e i suoi fini. Si tratta, per l’appunto, della cultura.

La Repubblica 05.04.13

Carpi (Mo) – Convegno: progettare il passato. Strategie di intervento sui luoghi della memoria

23 maggio ore 14.30

Saluti
Enrico Campedelli, Sindaco di Carpi
Massimo Mezzetti, Assessore alla Cultura Regione Emilia Romagna

Inizio lavoro
Presiede Lorenzo Bertucelli, Presidente Fondazione Fossoli
Ore 15 Introduzione di Manuela Ghizzoni, CdA Fondazione (le politiche relative ai luoghi di memoria)

Sessione dedicata a una panoramica europea sul restauro nei/dei luoghi di memoria

• Selezione di casi, Arch. Andrea Luccaroni
• Testimonianza della realtà inglese
• Marzia Luppi: Il fattore tempo nei progetti di intervento sui luoghi: il caso francese
• Ines Tolic: la memoria recente dei Balcani

discussione

Venerdì 24 maggio ore 9.30
Apertura
Arch. Carla Di Francesco, Direttore generale Beni culturali e paesaggistici Emilia – Romagna
Arch. Giovanni Gnoli, Responsabile Dirigente Settore A4 (Restauro e conservazione del patrimonio immobiliare artistico e storico)

Presiede Arch. Giovanni Leoni, Consiglio di Amministrazione Fondazione Fossoli
Arch. Marco Pretelli, arch. Andrea Ugolini, arch. Chiara Mariotti e arch. Alessia Zampini
Presentazione dei primi risultati del lavoro di ricerca per la conservazione delle strutture di Fossoli.

Confronto con i responsabili dei luoghi:
Auditorium Loria-Carpi

Saluti
Enrico Campedelli, Sindaco di Carpi
Massimo Mezzetti, Assessore alla Cultura Regione Emilia Romagna

Inizio lavoro
Presiede Lorenzo Bertucelli, Presidente Fondazione Fossoli
Ore 15 Introduzione di Manuela Ghizzoni, CdA Fondazione (le politiche relative ai luoghi di memoria)

Sessione dedicata a una panoramica europea sul restauro nei/dei luoghi di memoria

• Selezione di casi, Arch. Andrea Luccaroni
• Testimonianza della realtà inglese
• Marzia Luppi: Il fattore tempo nei progetti di intervento sui luoghi: il caso francese
• Ines Tolic: la memoria recente dei Balcani

discussione

Venerdì 24 maggio ore 9.30
Apertura
Arch. Carla Di Francesco, Direttore generale Beni culturali e paesaggistici Emilia – Romagna
Arch. Giovanni Gnoli, Responsabile Dirigente Settore A4 (Restauro e conservazione del patrimonio immobiliare artistico e storico)

Presiede Arch. Giovanni Leoni, Consiglio di Amministrazione Fondazione Fossoli
Arch. Marco Pretelli, arch. Andrea Ugolini, arch. Chiara Mariotti e arch. Alessia Zampini
Presentazione dei primi risultati del lavoro di ricerca per la conservazione delle strutture di Fossoli.

Confronto con i responsabili dei luoghi:
Risiera di San Sabba
Auschwitz
Rivesaltes
Buchenvald
Topografia del Terrore

"Esodati, l’ultima furbata del governo", di Salvatore Cannavò

La commissione speciale della Camera ha bloccato l’ennesima furbizia del governo sugli esodati. L’organismo parlamentare incaricato di approvare gli atti del governo, cioè i decreti, ha dato all’una – nimità parere favorevolealde- creto sulla terza tranche di esodati, 10.130 lavoratori per i quali, dopo i primi 65 mila e i successivi 55 mila, è previsto il salvataggio. Solo che il governo ha inserito una norma che mo- difica la stessa legge Fornero, madre degli esodati. Per i “contribuenti”prosecutori volontari”, infatti, è stata individuata una nuova restrizione anche per quelli che avessero ripreso a lavorare a qualsiasi titolo prima del 4 dicembre 2011 e non dopo come è scritto sulla legge. La richiesta di modifica rivolta al governo è stata avanzata dal Pd ma avuto il consenso di tutti i gruppi, M5S compreso. Nel parere è stata inserita anche una “osservazione”di quest’ultimo con cui si chiede all’Inps di effettuare“un precisocensi- mento di tutte le domande pre- sentate”in modo che il governo possa avere chiara la situazione. La divergenza tra il decreto e la legge di stabilità, ha spiegato in commissione Fornero, dipen- de dalla Ragioneria generale dello Stato. Il rimpallo a que- st’ultima, del resto, ha rappresentato un motivo ricorrente in tutta questa vicenda. “Terremo conto con grande apertura – ha comunque assicurato il mini- stro Fornero – delle indicazioni della Commissione”. UN PUNTO , invece, che non trova soluzione è quello relativo al personalescolastico anch’es – so vittima della riforma Forne- ro. Con la riforma del 2011, che prevede che a partire dal 2012 si vada in pensione a 67 anni di età o con 41 anni di contributi, il 31 dicembre 2011 è diventato una data limite. Ma nella scuola, co- me stabilito da una legge del 1998, la cessazione del servizio avviene “all’inizio dell’anno scolastico successivo alla data in cui la domanda è stata pre- sentata”. Se ho diritto ad andare in pensione nel 2011 ci andrò nel 2012 perché occorre garantire la “continuità didattica” che impone ai docenti di anda- re inpensione semprelo stesso giorno, il 1 settembre di ogni anno. Quindi, chi ha maturato il diritto con il sistema delle “quote”, la somma tra età ana- grafica eanzianità contributiva – entro il 31 dicembre 2011 ha dovuto aspettare il 1 settembre 2012 per poterci andare. Ma qui scatta l’abilità del ministro For- nero e del governo: a queste persone sono state applicate le nuove norme come a tutti gli altri. Secondo le stime fatte dagli interessati, riunitisinel “Comitato Civico Quota 96”, si tratta di circa 3000 dipendenti che chiedonosia riconosciuto il loro “diritto”, respingendolatesi che invece sia “un privilegio”. Il governo ha già riconosciuto l’errore consentendo l’andata in pensione entro il 31 agosto 2012 solo ai docenti in esubero. Ma non agli altri. Nel frattempo, quattro sentenze in quattro diversi Tribunali (Oristano, Torino, Siena e Venezia) hanno dato ragione ai ricorrenti. I quali non hanno avuto ascolto sul piano istituzionale tranne i disegni di legge presentati dalle deputate del Pd, Manuela Ghizzoni e Francesca Puglisi.

Il Fatto Quotidiano 04.04.13