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"Sapere, l’Italia è fanalino di coda europeo", di Mario Castagna

Secondo i dati Ue il nostro Paese è quello che ha tagliato di più per scuola e università. Gli stanziamenti sono tornati al livello del 2001
Edilizia e insegnanti sono i settori più colpiti dalla riduzione dei fondi. Peggio di Cipro, Romania, Lettonia e Ungheria. Peggio di qualsiasi altro paese Ue ma anche dei paesi che aspirano ad entrarci come la Turchia. Nessuno Stato europeo riesce ad eguagliare la pessima performance italiana nel finanziamento all’istruzione. Nell’Europa in crisi, alle prese con le misure di austerità e di rigore finanziario, nessun paese ha ridotto, in termini reali, i finanziamenti a scuola, università e ricerca. Solo l’Italia ha attuato una politica così miope, riportando indietro le lancette a 10 anni fa. Il finanziamento per l’anno 2012 è infatti lo stesso previsto per l’anno 2001. A fotografare l’amara realtà è la Commissione Europea, che in una sua pubblicazione ufficiale, «L’impatto della crisi economica nel finanziamento all’istruzione in Europa», uscita da pochi giorni e liberamente disponibile su Internet, mette insieme per la prima volta dati, tabelle e statistiche di 31 diversi paesi europei.
L’Italia è il fanalino di coda. Se infatti nell’ultimo anno la maggior parte dei paesi ha ridotto gli stanziamenti per l’istruzione, tutti nell’ultimo decennio avevano aumentato i fondi, anche del doppio. In Italia, invece, il taglio si è abbattuto su un budget disponibile già al di sotto delle necessità.
In Grecia, Italia, Cipro, Lettonia, Lituania, Ungheria, Portogallo, Romania, Galles e Croazia, i tagli dal 2011 al 2012 sono stati superiori al 5%, mentre in altri 12 paesi il taglio è stato più contenuto, dall’1% al 5%. In nessuno di questi paesi però il budget a disposizione è ritornato ai livelli di dieci anni fa, come è accaduto invece in Italia.
Ma c’è anche chi ha aumentato i soldi per scuola, università e ricerca. La medaglia d’oro in questo caso se l’aggiudica la Turchia che ha aumentato i fondi del 5%, seguita da Malta ed dal Lussemburgo. In altri importanti paesi, come Irlanda, Lettonia, Austria, Romania, Slovacchia, Finlandia, Svezia e Islanda, l’aumento è stato più contenuto. Mediamente nel decennio 2001-2011, i paesi europei hanno aumentato del 10% la loro spesa in istruzione. L’Italia è invece rimasta ferma al palo. Non si è praticamente mossa e oggi gli stanziamenti in termini reali sono gli stessi di 10 anni fa, mentre il tasso di inflazione ha fatto aumentare i prezzi in misura considerevole. Questo significa che oggi la scuola, l’università e la ricerca in Italia sotto largamente sottofinanziate.
Il rapporto della Commissione esamina analiticamente quali sono state le componenti più importanti di questo grande taglio di bilancio. Il nostro paese ha smesso di investire nelle infrastrutture della conoscenza, sia per quel che riguarda l’edilizia scolastica (secondo i dati del ministero, meno del 20% delle strutture scolastiche sono a norma) sia per quel che riguarda l’adeguamento degli strumenti didattici alle nuove tecnologie (ad Ottobre 2012, a causa dei minori soldi a disposizione, è stata tagliata la connessione ad internet a 3800 scuole).
Un’altra fonte di risparmi è stata negli ultimi anni la politica di contenimento degli organici e delle relative retribuzioni. Sempre secondo il rapporto della Commissione Europea, in un terzo dei paesi presi in esame è stato ridotto il numero di insegnanti mentre spesso aumentava il numero degli alunni. Anche in questo caso il record negativo viene raggiunto dall’Italia, con l’8,5% in meno di insegnanti negli ultimi 5 anni. Una riduzione significativa che ha portato a risparmi nell’ordine di centinaia di milioni di euro solo per quel che riguarda la scuola primaria e secondaria. Nello stesso tempo i salari degli insegnanti rimasti in servizio sono stati spesso congelati con il blocco degli aumenti che ha fatto diminuire il loro potere d’acquisto. Infine un’altra fonte di risparmi per lo stato italiano sono state le recenti riforme dei servizi offerti agli studenti sempre meno numerosi e sempre più costosi.
La penuria di soldi ha reso via via meno fertile il dibattito pubblico italiano sul sapere e sul ruolo che può avere come strumento d’uscita dalla crisi. Non passa giorno che non venga pubblicato un documento sul finanziamento delle scuole, degli atenei o dei centri di ricerca italiani. L’ultimo appello è il documento della Conferenza dei Rettori del 21 marzo in merito al piano triennale del ministero per l’Università. Se solo i docenti, gli studenti ed i ricercatori italiani avessero pochi soldi in più, potrebbero parlare delle opportunità che il loro lavoro offre come strumento indispensabile e indifferibile per la crescita economica e lo sviluppo sostenibile, una prospettiva di cui tanto ci si affanna a ricercare il bandolo della matassa.

L’Unità 30.03.13

"L'Aquila, la ricostruzione deve ancora partire: tempi incerti, fondi insufficienti e tanta rabbia", di Piera Matteucci

Otto o dieci anni, secondo il ministro per la Coesione territoriale, Fabrizio Barca. Ma ne bastano anche cinque, per il sindaco Massimo Cialente. Quattro anni dopo il sisma che ha devastato la città dell’Aquila e ha danneggiato molti comuni vicini, il balletto delle date e delle cifre continua, ma la ricostruzione del centro storico ancora deve partire. È vero che di cantieri, soprattutto in periferia e nei piccoli centri, ne sono stati avviati e chiusi tanti. È anche vero che le abitazioni che avevano subito danni lievi sono state sistemate e che molti cittadini sono rientrati nelle loro case, ma è altrettanto vero che il cuore del capoluogo d’Abruzzo ha smesso di pulsare alle 3.32 del 6 aprile 2009 e ancora non si ha alcuna certezza di quando ricomincerà a battere.

L’emergenza prima, il commissariamento poi, e tutte le incertezze burocratiche e normative hanno di fatto bloccato l’inizio dei lavori e la popolazione, dapprima spaventata, poi arrabbiata, ora è ogni giorno più delusa e depressa, convinta che non ci siano speranze per il futuro. “Abbiamo perduto 309 fratelli e sorelle. E continuiamo a piangere per loro, insieme alle loro persone più care. Stiamo perdendo soprattutto i giovani. Perché constatano con immensa amarezza e con tanta rabbia che questa loro città, una città che hanno tanto amato, non offre loro più nessuna speranza per il futuro”, ha detto l’arcivescovo metropolita Giuseppe Molinari, alla vigilia della Pasqua.

Scadenze da rispettare. Ipotizzare dieci anni per la ricostruzione della città non è assurdo, secondo il ministro Barca che ha scelto il 21 marzo, primo giorno di primavera, come data simbolo per dare il via ufficiale ai lavori nel centro storico: “La stima di 8-10 anni per il completamento della ricostruzione è assolutamente fattibile perché ora abbiamo una programmazione e criteri di priorità”, ha dichiarato, facendo il bilancio di quanto fatto dal 27 gennaio 2012 (giorno in cui il presidente del Consiglio, Mario Monti, gli conferì l’incarico di accelerare la ricostruzione dell’Aquila) a oggi. Due sono i documenti che, se rispettati, dettano tempi e risorse: la delibera Cipe del 21 dicembre 2012 e il cronoprogramma approvato dal Consiglio comunale il 28 marzo. “L’Aquila va ricostruita in cinque anni – ha replicato il sindaco – e questo è il compito minimo che il Paese stesso dovrà assumersi”.

Quello che è stato fatto… Il quadro degli interventi conclusi dal 6 aprile 2009 ad ora è stato illustrato da Cialente: 60/90 i giorni serviti per far rientrare nelle proprie abitazione 20mila persone le cui case erano risultate agibili dopo il sisma, una rapida soluzione anche per le case B e C, gestite dal Comune e il crollo di oltre il 50% del contributo di autonoma sistemazione. Diversa, invece, la sorte per gli immobili classificati E (inagibilità totale), sui quali pesa “un pesante ritardo accumulato dalla gestione del Commissario e della Struttura tecnica di missione. Rientreranno comunque per metà dell’anno prossimo le E della periferia – ha assicurato – Il vero problema resta il centro storico: delle case E, che sono migliaia, ci sono pervenuti solo 1.931 progetti, con una richiesta di 1,5 miliardi di euro”. L’incognita più grande è rappresentata sempre dai fondi, che al momento non sono disponibili e che, in base al calcolo fatto dal Comune, comunque non bastano. “Allo stato attuale – ha spiegato il sindaco – perché tutto il comune venga ricostruito definitivamente, servono ancora 7 miliardi di euro, 6,1 solo per la città dell’Aquila… il Comune avrà bisogno di un miliardo l’anno”.

La delibera Cipe. Sono 2,3 i miliardi stanziati dal governo per la ricostruzione e ripartiti dal 2013 al 2015 all’interno della delibera 21 dicembre 2012. Ma le cifre, analizzate dai membri dell’Assemblea cittadina, non sembrano in grado di fare fronte alle necessità della ricostruzione. Secondo i cittadini, infatti, dovendo essere compresi nella somma stanziata gli interventi per l’edilizia pubblica e privata delle periferie e del centro storico e per le periferie e i centri dei comuni del cratere, gli interventi per lo sviluppo delle attività produttive, le spese per l’assistenza alla popolazione, l’assistenza tecnica e la manutenzione dei nuovi aggregati, pare evidente che la somma sbandierata da Barca non è sufficiente. “Per il 2013 – ha spiegato l’assessore alla Ricostruzione, Pietro Di Stefano – la delibera prevede per il centro storico e la periferia dell’Aquila 660 milioni, di cui 300 per il centro storico. I 150 milioni della gestione stralcio sono stati già utilizzati per gli edifici scolastici, le macerie, gli alberghi etc. I fondi che avevamo si sono esauriti per finanziare i progetti della periferia. Senza soldi è impossibile pensare di avviare i cantieri”. “La soluzione – ha chiarito l’assessore – è quella di ripristinare la Cassa Depositi e prestiti e di dare vita a una programmazione seria”.

La tabella di marcia. E proprio per dimostrare la volontà di fare, il Comune ha assecondato la richiesta del governo di mettere a punto un cronoprogramma, una sorta di tabella di marcia con la quale si fissano tempi, modalità e risorse per la ricostruzione privata. “Si tratta di un atto di coraggio – ha sottolineato ancora Di Stefano – un ulteriore passo in avanti per far vedere al governo che il nostro lavoro prosegue. Ora tocca all’esecutivo sbloccare i fondi e erogarne altri. L’obiettivo è quello di arrivare a un completo stanziamento delle risorse destinate alla ricostruzione entro il 2018, per consentire alla città, candidata a capitale europea della Cultura 2019, di essere pronta. Allora saranno passati dieci anni dal sisma, una data significativa, dato che all’indomani del terremoto si diceva che per rimetterci in piedi ci sarebbero voluti dieci anni”.

Dall’asse centrale l’inizio della rinascita. Il prossimo passo da fare è, secondo Cialente, quello di riportare i cittadini nel centro storico. “È questo il momento di partire con l’asse centrale (l’area compresa tra piazza Battaglione Alpini, la Fontana Luminosa, e la Villa Comunale), cuore pulsante della città per il quale servono un miliardo e 312 milioni di euro, di cui 412 milioni quest’anno. Dobbiamo poter contare su finanziamenti certi perché alla fine del 2015 l’asse centrale torni alla vita”. Sarà questo il primo gradino per avviare, nel 2014, la ricostruzione di tutto il centro storico…

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"Chi chiedeva un «nome» al M5S ha sbagliato a votare", di Cristoforo Boni

Eppure c’era chi pensava, anzi era sicuro, che Grillo ieri avrebbe presentato al presidente della Repubblica una rosa di nomi. E, se non proprio una rosa, almeno un nome. Erano i tifosi del Grillo che fa politica, che fa pesare i suoi voti sul tavolo che conta, che è disposto ad alleanze per far passare le proprie proposte. Invece non è accaduto nulla. Grillo si è blindato sulla linea del rifiuto. Prima di fare un nome deve crollare il mondo. Prima di fare un nome deve ottenere il 100% dei voti. Prima di scoprire davvero le carte tutto e tutti devono essere spazzati via. Ha pure detto che quanti hanno votato il Movimento 5 Stelle con l’obiettivo di condizionare la politica, di spostare gli equilibri, insomma di fare qualcosa di diverso dall’opposizione assoluta, «hanno sbagliato il voto».
Ora vedremo le reazioni della curva grilllina. Vedremo, ad esempio, se Paolo Flores d’Arcais sarà conseguente con quanto ha scritto ieri nell’editoriale de il Fatto quotidiano. «Senza quel nome – implorava ieri Grillo – la proposta resta virtuale, addirittura impalpabile». Ancora: «Solo diventando protagonisti, cioè proponendo subito una soluzione alla crisi, Grillo renderebbe stringente la sua proposta (sacrosanta) che intanto il Parlamento lavori, e realizzi le misure (altrettanto sacrosante) che ancora ieri ha riproposto nel suo blog».
Per Flores, che certamente rappresenta un sentimento diffuso tra gli elettori Cinque stelle (anche se magari non maggioritario), è vitale che Grillo si spenda per cambiare effettivamente le cose, smettendo di puntare tutte le fiches sull’immobilismo e l’avvitamento del sistema. «Altrimenti – proseguiva l’articolo – anche questo apparirà a un numero crescente di cittadini come un escamotage con cui il M5S si limita a guardare, anziché agire, in una deprimente passività (che la propensione al turpiloquio non riscatta, anzi sottolinea) e
autoreferenzialità che è l’opposto di quello tsunami costruttivo che quasi nove milioni di italiani gli hanno affidato come mandato».
«Mantengano le promesse, siano protagonisti, propongano un nome. La loro credibilità nel Paese farà un balzo in avanti. Oppure…» Leggeremo il seguito. Ieri sera, nei vari blog, la chiusura totale di Grillo, la sua difesa a riccio del gruppo parlamentare da qualunque compromissione con la politica in carne e ossa, sono state oggetto di numerose contestazioni. Il capogruppo in Senato Vito Crimi ha detto che il nome lo faranno in pochissimo tempo quando avranno la comunicazione che il governo sarà integralmente, totalitariamente Cinque stelle.
Al di là dei dubbi sull’adesione del tandem Grillo-Casaleggio all’idea democratica, resta comunque una ragione tattica evidente nel dikat isolazionista: Grillo sa che la sua pattuglia di parlamentari è smarrita, evidentemente impreparata, e sono persino estranei gli uni agli altri. Lo smacco dei «franchi tiratori» al primissimo voto in Senato è stato pesante. E ha fatto capire a Grillo che quel gruppo è a rischio rottura. Lo stesso Grillo ha messo più volte le mani avanti: ci sarà gente che ci tradirà.
La linea del rifiuto totale, del congelamento politico, è quella che può garantirgli il maggiore controllo sui suoi parlamentari. Anche per questo ha deciso di perseguirla senza esitazioni, stroncando con la solita violenza verbale i dubbi dei suoi, persino dei sostenitori più sfegatati. Avrebbe potuto Grillo far saltare il ricatto di Berlusconi sul Quirinale, quello che ha bloccato Bersani. Invece ha giocato di sponda con Berlusconi, facendo crescere il suo potere di interdizione. Flores d’Arcais non è certo simpatizzante del Pd. Anzi, ne è avversario fiero. Ma non è stupido e, per quanto forte sia il suo desiderio di sconfiggere il Pd, non gli sta bene che Grillo giochi nella squadra del Cavaliere facendo crescere il suo potere sulla legislatura. Questa è la politica. Difficile, non sempre limpida. Ma non c’è tradimento maggiore della rinuncia.

L’Unità 30.03.13

"L’Europa teme la crisi italiana", di Paolo Soldini

Tutti si preoccupano, giustamente, degli effetti che lo stallo italiano può provocare sui mercati. Ma c’è un pericolo ancora più grave del quale non pare che ci sia, qui da noi, grande consapevolezza ma che sta inquietando, e molto, le istituzioni di Bruxelles e le maggiori can- cellerie: la mancanza di un vero governo a Roma rischia di aprire una crisi politica in tutta l’Unione europea. L’Italia insomma può trascinare l’Europa nel disastro. Non è pensabile, dicono negli ambienti della Commissione a Bruxelles, che si gestisca la politica europea senza l’iniziativa e la responsabilità del terzo paese del continente. «Troppo grosso per fallire», come si dice, ma anche per mettersi fuori, tra parentesi. Un governo che svolge solo gli affari correnti non può avere né l’iniziativa né la responsabilità. Gli incoscienti che blaterano sul «precedente» del Belgio non sanno di che cosa parlano: è vero che in quel paese è mancato per tanti mesi il governo nazionale, ma là esistono i governi delle tre comunità linguistiche che svolgono molte delle funzioni amministrative e politiche che negli altri stati sono prerogative dell’autorità centrale nazionale. Non c’è stato un vuoto politico, né una mancanza di iniziativa: il Belgio durante la sua lunghissima crisi del governo centrale ha esercitato persino la presidenza di turno del Consiglio europeo. Lasciamo stare il Belgio, perciò, e concentriamoci sui disastri che l’esistenza in Italia solo di un governo per gli affari correnti può produrre a livello europeo. Cominciamo dai dati più banali. Entro il 10 aprile l’esecutivo (quale?) deve presentare, com’è noto, il Documento Economico e Finanziario. Può farlo il governo Monti, ovviamente, ma il Def non indica soltanto i provvedimenti che riguardano la situazione interna. Deve contenere anche il piano di riforme che l’Italia si impegna ad adottare per rispettare il Fiscal compact. È un piano che deve essere concordato con Bruxelles e con i governi dei partner. Come potrà farlo un governo che, ammesso che esista ancora, saprà di dover essere presto sostituito da qualcuno che magari avrà in testa tutt’altre idee? E quale fiducia riscuoterebbero (riscuoteranno) da parte degli interlocutori le misure indicate? Seconda questione: l’Italia nel secondo semestre dell’anno prossimo eserciterà la presidenza di turno del Consiglio. Il piano delle iniziative e degli appuntamenti viene scadenzato su 18 mesi. La Lettonia e il Lussemburgo, che saranno di turno dopo di noi, hanno già presentato il loro programma. Noi abbiamo tempo per farlo fino al prossimo novembre ed è evidente che non si tratta di iniziative che possano essere prese da un governo provvisorio.

Facciamo un’ipotesi ancora più drammatica. La crisi di Cipro è stata, per il momento, allontanata. Ma mettiamo il caso che una situazione simile si determinasse, com’è purtroppo possibile, in Slovenia, dove ci sono forti investimenti italiani. Se questi dovessero essere salvati con l’intervento del fondo di salvataggio Esm il governo di Roma dovrebbe firmare un Memorandun of Understanding come quello che fu fatto firmare alla Grecia. E quale governo potrebbe sottoscrivere un documento che conterrebbe impegni pesantissimi? Oppure, meglio, quale governo avrebbe la forza di strappare una rinegoziazione che eviti il commissariamento puro e semplice dell’economia italiana da parte della trojka? Non certo un governo provvisorio, in carica solo per gli affari correnti.

Fin qui abbiamo messo in fila alcune ipotesi che mostrano come lo stallo a Roma possa portare complicazioni enormi sul piano del puro e semplice funzionamento dell’Unione europea. Ma dietro c’è uno scenario ancora più inquietante. L’Italia, l’unico grande paese in cui la ripresa non si avvicina ma pare allontanarsi, è ormai, agli occhi dell’establishment e dell’opinione pubblica di tutti i paesi, la grande malata del continente. Non solo per la sua debolezza economica ma anche per la debolezza della sua politica. L’Europa non si era ancora ripresa dallo choc Berlusconi che sulla scena, insieme con il suo, è venuto alla ribalta un altro populismo segnato dall’ostilità contro Bruxelles. Come faceva notare all’indomani delle elezioni Giovanni Di Lorenzo, direttore della Zeit e acuto osservatore delle cose di casa nostra, per la prima volta in uno dei grandi paesi dell’Unione c’è una maggioranza parlamentare potenzialmente antieuropea. E François Hollande non ha certo forzato i fatti ricordando l’insicurezza che il populismo dilagante in Italia porta a tutti i paesi dell’Unione. È una paura diffusa dappertutto, al di là delle Alpi. Ed è da irresponsabili non rendersene conto. Certo, non è un problema soltanto nostro e a determinarlo sono stati, in larghissima parte, gli errori e le incredibili insensibilità di chi ha imposto le scelte dell’austerity, gli ayatollah del neoliberismo. Ma è qui che il corto circuito è avvenuto. E l’incendio potrebbe dilagare molto rapidamente. Chi guarda a Roma, in questi giorni, ha paura.

L’Unità 30.03.13

"La guerra di Grillo contro i giornalisti", di Giovanni Valentini

È l’incontinenza verbale di un attempato ex comico che dà sfogo al suo delirio di onnipotenza politica, proprio come avevano già fatto in passato Bettino Craxi e più recentemente Silvio Berlusconi. Un attacco indiscriminato all’intero sistema dell’informazione, senza distinzione di nomi e di persone, di ruoli e di funzioni, nella logica persecutoria di un razzismo mediatico che rischia ormai di sconfinare nello squadrismo mediatico.
Dai comizi in piazza “off limits” alle conferenze-stampa senza domande, attraverso l’artificiosa trasparenza del videostreaming d’occasione, siamo passati definitivamente alle invettive e alle intimidazioni. Non si contesta più un titolo, un articolo o un commento. Si aggredisce direttamente la funzione stessa della stampa, in un tentativo continuo di delegittimazione che nega non tanto il dovere dei giornalisti di informare, quanto il diritto dei cittadini di essere informati e di scegliersi liberamente come e da chi.
La nostra categoria professionale, insieme a tante altre sulla scena sociale, non è certamente immune da colpe, vizi e difetti. E ognuno di noi è chiamato a fare autocritica, per la propria parte di responsabilità. Ma non si può tollerare oltre un’offensiva senza quartiere che usa il napalm del turpiloquio per insultare, offendere e minacciare.
Fra le tante accuse rivolte ai giornali, intesi qui come il sistema dell’informazione composto dagli editori e dai giorna-listi, ce n’è una in particolare tanto ricorrente quanto manifestamente infondata: ed è quella lanciata come una crociata dai Cinquestelle in ordine ai contributi statali. Un’altra mistificazione mediatica, al pari della vulgata propagandistica – smentita dai risultati ufficiali delle ultime elezioni – secondo cui il M5S sarebbe il primo partito.
Cerchiamo allora di fare chiarezza, una volta per tutte, nell’interesse dei cittadini, lettori ed elettori. I contributi statali all’editoria – branditi come una clava contro i giornali d’informazione, compreso il nostro – riguardano ormai soltanto tre tipologie di testate: gli organi dei partiti politici, quelli delle cooperative di giornalisti e infine quelli delle minoranze linguistiche. L’elenco completo, con i rispettivi importi, è pubblico e chiunque può consultarlo sul sito del Dipartimento dell’editoria (http://www.governo.it/die).
L’8 marzo scorso la Fieg ha diffuso attraverso le agenzie di stampa un comunicato che, a riprova di quanto sia potente la Federazione degli editori, non ha trovato molto spazio sui giornali. Vi si legge fra l’altro che la grande maggioranza dei quotidiani, pari al 90% delle copie diffuse in Italia, non riceve contributi diretti. E quelli indiretti, sotto forma di agevolazioni postali per la spedizione degli abbonamenti, sono cessati dal marzo 2010.
Anche questa, dunque, è una questione che riguarda soltanto la “casta”, cioè il ceto politico e i suoi giornali fantasma. Ed è senz’altro opportuno occuparsene, sia perché i partiti continuano a percepire finanziamenti pubblici che il referendum popolare del 1993 aveva abrogato, sia perché i contributi statali alterano la libera concorrenza sul mercato editoriale.
Ne avevamo ampiamente trattato nella prima pagina del nostro supplemento “Affari & Finanza” pubblicato il 22 ottobre 2007, con un articolo a firma del sottoscritto, sotto il titolo “La torta dei fondi all’editoria”. Già sei anni fa, denunciammo la distorsione prodotta dai contributi statali ai quotidiani di partito, dall’“Unità” (trasferita poi con tutti i suoi debiti all’imprenditore sardo Renato Soru) a “La Padania”; a quelli dei movimenti politici, dal “Foglio” al “Riformista”; a quelli delle cooperative, dal “Manifesto” a “Libero” o di fondazioni ed enti morali, tra cui anche “Avvenire”.
Fatto sta che oggi l’editoria privata non riceve più contributi diretti e quelli indiretti (compresi i contributi sull’acquisto della carta, disposti a suo tempo come “una tantum” per fronteggiare una crisi della materia prima che aveva fatto impennare i prezzi sul mercato internazionale) sono terminati da tre anni. Non si può chiedere, perciò, l’abolizione di qualche cosa che non esiste. A meno di voler abolire in realtà il pluralismo dell’informazione, posto a tutela e garanzia dei cittadini:
quelli veri che restano fuori del Parlamento.

La Repubblica 30.03.13

"La lunga notte della Seconda Repubblica", di Marcello Sorgi

Se davvero sperava, a oltre un mese dalle elezioni, e sotto l’incalzare della crisi economica che ha visto di nuovo salire la febbre degli spreads, di riuscire a imporre una soluzione ormai non più rinviabile, Giorgio Napolitano, alla fine del terzo giro di consultazioni (dopo il primo che aveva portato al preincarico di Bersani e quello successivo del leader del Pd), ha dovuto prendere atto che è molto difficile trovare una via d’uscita per ridare un governo al Paese.

L’imbarazzo del Quirinale trapelava dal modo in cui s’è chiusa la giornata, con l’annuncio di una nuova pausa di riflessione del Capo dello Stato. I dati allineati con cura sullo scrittoio del Presidente segnalano un completo stallo, aggravato dalla chiara indisponibilità tra i partiti che dovrebbero concorrere a individuare uno sbocco. Malgrado gli alti e bassi che lo hanno accompagnato, il tentativo di Bersani si è arenato sul “no” pregiudiziale di Grillo, ribadito anche ieri, e sulla richiesta di Berlusconi, inaccettabile per il centrosinistra, di indicare il candidato alla successione di Napolitano. L’ipotesi di un rinvio di Monti alle Camere, per sancire un periodo anche breve di tregua in attesa di un’alternativa più solida o di nuove elezioni, s’è sciolta negli ultimi giorni, con l’incresciosa conclusione del caso dei marò, le dimissioni del ministro Terzi non concordate con nessuno e la drammatica richiesta alle Camere del presidente del consiglio di essere sollevato al più presto dalla sua responsabilità. Infine anche la possibilità di un nuovo governo tecnico, o del Presidente, spedito direttamente dal Colle in Parlamento per cercarsi una maggioranza, è franata di fronte all’opposizione di Berlusconi e Maroni, che ripropongono, ma senza molta convinzione, il governo di larga coalizione che il Pd non può nè vuole accettare.

Se non fosse che Napolitano, grazie alla sua esperienza e al carisma di cui gode, ci ha abituato a dei colpi di scena che intervengono sempre quando tutto sembra perduto, si dovrebbe ammettere che stavolta il Presidente non ha più carte da giocare. Chi gli è stato vicino in queste lunghe ore di consultazioni s’è accorto che la sequela di incontri reiterati con tutti gli esponenti della classe politica vecchia e nuova ha provocato in lui una specie di sconforto. Non tanto per la distanza delle posizioni e per la scarsa disponibilità a farsi carico dei problemi del momento, ma per l’assoluta incomunicabilità tra i leader e i vertici dei partiti. Se solo si riflette sul fatto che Bersani, in sei giorni di lavoro come per incaricato, non ha mai avuto un colloquio diretto con Berlusconi, neppure una telefonata, accontentandosi dei contatti informali tra i suoi luogotenenti e quelli del Cavaliere, si può capire fino a che punto sono caduti i rapporti interni alla classe dirigente. Quel telefono rosso, che, anche nei momenti peggiori della Prima Repubblica, suonava nelle stanze dei grandi avversari del tempo, oggi non solo tace, ma praticamente non esiste più. Ed è questo pesante silenzio, interrotto dal crepitare continuo di insulti e dichiarazioni di guerra, che, più di ogni altro aspetto, a Napolitano ha dato per la prima volta la sensazione di una crisi insolubile: di sistema, di uomini, di strategie.

L’unica cosa chiara è che i leader che non hanno vinto e non hanno perso le ultime elezioni non esitano a sfidarsi nuovamente e a trovare nel ricorso alle elezioni l’unico modo di camuffare la loro impotenza e impedire l’avvento di un cambiamento, che invano invocano, ma in realtà temono. Berlusconi sfoglia i sondaggi che hanno riportato in testa il Pdl e sogna di rigettarsi in campagna elettorale. Bersani teme la resa dei conti con il suo partito e sa che le urne subito sgombererebbero dal campo il rischio di vedersi sostituito – da Renzi o da altri – alla guida del Pd. Grillo conta di avvantaggiarsi dal fallimento evidente di centrosinistra e centrodestra, seguito ai risultati del 25 febbraio.

È di fronte a un quadro così scomposto che il Capo dello Stato si trova a riflettere. Non gli sfugge che il suo mandato giunto agli ultimi giorni, e i suoi poteri limitati dal ritorno del semestre bianco dopo il voto, lo mettono in una condizione di maggiore difficoltà, rispetto all’egoismo e alle volontà contrastanti delle forze politiche. La leva dello scioglimento anticipato delle Camere, l’unica che forse potrebbe spingere a un ripensamento i suoi interlocutori (perché un conto è parlare di ritorno al voto, e un conto è trovarcisi davvero), Napolitano non ce l’ha più. Ed è un’ulteriore debolezza di fronte a una situazione che richiede interventi d’eccezione.

Forse è anche per questo che tra le riflessioni ascoltate dal Presidente qualcuno dei suoi interlocutori ha creduto di cogliere anche una disponibilità a dimettersi in anticipo e ad accelerare l’elezione del suo successore, che tornerebbe nel pieno dei poteri. Un rovello carico di incognite, a cominciare dalle reazioni degli osservatori stranieri, che considerano Napolitano l’ultimo punto di riferimento stabile in un Paese da tempo sull’orlo di un baratro e da mesi privo di un governo in grado di funzionare. E una decisione che il Presidente sta maturando in piena solitudine e che potrebbe essere annunciata nelle prossime ore. Così, «nave senza nocchiero in gran tempesta», l’Italia e la Seconda Repubblica sono entrate tutt’insieme nella loro notte più lunga.

La Stampa 30.03.13

"La paralisi dei veti incrociati", di Claudio Tito

L’Italia balla sulla tolda del Titanic ma sembra non rendersene conto. La crisi economica, la disoccupazione, la diffidenza dei mercati internazionali nei nostri confronti sono sirene che risuonano violentemente ma vengono disattivate dal frastuono della contesa post-elettorale. Il sistema politico e quello istituzionale sono paralizzati dai veti incrociati dei partiti. A oltre un mese dal voto non esiste alcuna prospettiva concreta di formare un governo. E l’unica vera assunzione di responsabilità potrebbe essere quella del presidente della Repubblica: le sue dimissioni costituiscono allo stato l’unico grimaldello in grado di scardinare lo stallo di questo Parlamento. Napolitano potrebbe infatti essere costretto a interrompere in anticipo il suo settennato per riconsegnare al Quirinale l’arma delle elezioni anticipate.
Il punto è proprio questo: il semestre bianco impedisce al capo dello Stato anche solo di minacciare il ritorno alle urne. E in un clima tanto esacerbato quella facoltà è ormai divenuta indispensabile. Soprattutto di fronte alle condizioni inaccettabili che reciprocamente gli schieramenti si stanno ponendo. Le formule che in questi casi vengono immaginate per superare l’impasse si sono esaurite nel giro di pochi giorni. Il “governo di minoranza”, quello “tecnico”, quello “istituzionale” o l’“esecutivo del presidente” sono state ipotesi che si sono via via affacciate e sistematicamente archiviate. La vittoria del centrosinistra alla Camera e la “non-sconfitta” al Senato si è insomma rivelata fatale. La coalizione di Bersani può ancora oggi contare sulla maggioranza assoluta a Montecitorio e su quella relativa a Palazzo Madama. Ma sono numeri inutili. O meglio inutilizzabili in questo quadro politico. La pessima legge elettorale, il Porcellum, ha esaltato tutti i suoi difetti. Immaginata diabolicamente in un sistema bipolare, ha in realtà agito in un contesto quadripolare provocando un effetto paradossale. Con un elettorato tanto frastagliato, il sistema politico è sostanzialmente impazzito. Non c’è un solo partito che si avvicina al 50% dei voti. Esistono solo delle minoranze. Conseguenza: nessuna certezza di una maggioranza e di un governo stabile.
Il tutto acuito dalle posizioni dei due schieramenti principali. Il centrodestra continua a non essere spendibile all’interno di un modello nordeuropeo: le larghe intese che pochi anni fa si sono realizzate in Germania e che di recente hanno contribuito a risolvere una lunga crisi in Olanda. La presenza di Silvio Berlusconi blocca qualsiasi ipotesi di collaborazione. L’opinione pubblica di centrosinistra e la base del Pd non sarebbero in grado di sostenere un patto politico con il Cavaliere, con il suo conflitto di interessi, con i suoi guai giudiziari e con il modello culturale proposto dalle sue televisioni negli ultimi 30 anni. E del resto l’ex premier punta soprattutto a salvare se stesso prima che l’Italia puntando dritto alle elezioni anticipate.
Ma lo stesso tipo di “blocco” è determinato dal Movimento 5Stelle. Incapace di elaborare una linea politica che non sia esclusivamente distruttiva. I parlamentari del M5S non appaiono autonomi nelle loro scelte: costantemente intimoriti e orientati dai diktat spesso deliranti di Beppe Grillo. Eterodiretti dall’esterno e alla ricerca di una “rivoluzione” dai contorni indistinti e spesso preoccupanti.
Nel Pd, poi, scatterà presto una vera e propria resa dei conti. Il segretario democratico rischia di dover presto fare i conti con le correnti interne che lo accuseranno di non aver vinto le elezioni pur in presenza di condizioni considerate favorevoli. Nei mesi scorsi Bersani aveva annunciato le dimissioni, sia in caso di vittoria sia in caso di sconfitta, ed è quanto sottovoce molti nel suo partito iniziano a chiedere. Sapendo che tra poco partirà la gara per la nuova premiership e che già un candidato, Matteo Renzi, è sceso in pista.
Questo, dunque, è il quadro che si trova di fronte Napolitano. Le ultime speranze il capo dello Stato cercherà di coltivarle nella giornata di oggi. Proverà per l’ultima volta a rimuovere i veti incrociati, a verificare se una qualche maggioranza possa formarsi a sostegno di un governo anche di corto respiro. Magari per affrontare le prime emergenze del Paese – a cominciare da quelle economica e sociale – , per consegnare una legge elettorale che finalmente assicuri stabilità e soprattutto rappresentanza, e quindi tornare al voto nel giro di pochi mesi. In caso contrario le sue dimissioni saranno inevitabili e subito si aprirà la corsa alla successione. Che, sulla base dei numeri e della incomunicabilità tra schieramenti, vedrà in pole position un esponente del centrosinistra. Pd, Sel e Scelta civica, infatti, possono contare sul quorum per eleggere il successore di Napolitano o per confermare il presidente uscente. Ed è forse questa l’unica minaccia che Bersani può agitare nei confronti di Berlusconi. Ma per il momento le consultazioni del Quirinale non sono riuscite a registrare nemmeno uno spiraglio e la strada che porta all’immediato voto anticipato sembra
aver imboccata una discesa irrefrenabile.

La Repubblica 30.03.13