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Donne che mantengono la famiglia “l’ammortizzatore rosa” raddoppia , di Agnese Ananasso

È nei momenti di difficoltà che si vede la forza di una persona. E nei momenti di crisi le donne tirano fuori la loro, rimboccandosi le maniche e mantenendo, in sempre più casi negli ultimi anni, la famiglia. Anche da sole. Dal 2007 al 2012 — praticamente gli anni della crisi economica globale — le coppie italiane in cui è la sola donna a mantenere la famiglia, con o senza figli, sono raddoppiate passando da circa 230mila a oltre 433mila unità (dal 4,1% al 7,4% del totale dei nuclei nei quali la donna svolge attività lavorativa).
La fotografia emerge da un’indagine condotta in esclusiva per Repubblica dal gruppo di ricerca Red elaborando i dati Istat sulle forze lavoro e confrontando i primi nove mesi del 2007 con quelli dello stesso periodo del 2012.
Il ruolo della donna, dunque, diventa sempre più quello di ammortizzatore sociale e Red stima che, in assoluto, siano 5,8 milioni le coppie nelle quali “lei” lavora, 250mila più di sei anni fa. Un fenomeno che non riesce ancora a frenare, però, la piaga della disoccupazione femminile: anche se dal 2007 al 2012 il numero assoluto di occupate è aumentato di quasi 300 mila unità (+3,2%), le disoccupate (quelle cioè che avevano un lavoro ma l’hanno perso) arrivano quasi al milione e 300 mila unità, 500 mila in più
in sei anni, oltre il 60% in più rispetto al 2007. La disoccupazione femminile si attesta così a quasi il 12%, il 4% in più rispetto al 2007, con picchi negativi del 37% nelle fasce più giovani, + 14% rispetto all’inizio della crisi economica.
Se la donna è sempre più spesso l’unica fonte di reddito familiare, deve però fare i conti con la precarietà: tra le lavoratrici dipendenti non solo la percentuale di contratti a termine
resta quasi invariata ma è aumentata del 24% la quota di quelli part-time (per lo più involontario, cioè imposto dal datore di lavoro per tagliare i costi) che arriva al 32%.
La fotografia di un mondo in cui è la donna a sostenere il carico economico familiare diventa ancor più in bianco e nero quando si considera il contesto sociale in cui viene scattata. È per lo più nel sud Italia, infatti, che si manifesta questa dina-
mica, con il 43% delle coppie italiane (oltre 186mila) in cui è la donna a mantenere la famiglia, con un’incidenza sul numero totale delle coppie in cui anche lei lavora (13,8), che è quasi doppia rispetto alla media nazionale (7,4). Analizzando poi il tipo di contratto che vincola le lavoratrici si tratta per lo più di dipendenti (358mila), che si concentrano nel settore dei servizi (70%, soprattutto parrucchiere, estetiste, collaboratrici domestiche) ma scendendo nel dettaglio di quelle che “mantengono” la famiglia si osserva che è maggiore l’incidenza dei contratti a termine: quasi l’11% contro il 7,2 dell’indeterminato. Non solo, si tratta soprattutto di professioni a bassa specializzazione (13,4%). «Il che evidenzia come aumentino le donne che si mettono a lavorare perché il marito ha perso il posto — spiegano i ricercatori Red — . Anche facendo le pulizie per esempio. Le donne, per lo più impiegate nel settore dei servizi hanno risentito un po’ meno della crisi rispetto a settori “maschili” come l’edilizia. Ciò non vuol dire che non le tocchino ma avviene in modo diverso: magari non hanno perso il lavoro ma in molti casi è stato imposto loro il part-time, riducendo così uno stipendio che di base, spesso, era già basso». Ed è dura quando ti riducono la busta paga da 800 a 600 euro e del tempo libero
non sai che farne.

La Repubblica 31.03.12

"La responsabilità dello stallo", di Claudio Sardo

La Pasqua è per i cristiani la festa della liberazione e della speranza. Ci auguriamo che questi valori contagino la comunità civile, perché l’Italia è avvitata in una grave crisi economica e politica e ha bisogno di guardare oltre il presente, di tornare a progettare un futuro migliore. Ieri il Capo dello Stato ha deciso di congelare le procedure di formazione del governo: i veti impediscono di superare il blocco. E, per quanto grande sia la sua autorevolezza, i poteri limitati dal semestre bianco rendono anch’egli più debole.

Di fronte allo stallo Giorgio Napolitano aveva pensato di dimettersi con qualche settimana d’anticipo. Ma il timore che una simile decisione fosse interpretata all’estero, o dai mercati, come un ulteriore segno di destabilizzazione delle istituzioni ha consigliato la dichiarazione di ieri. Il Capo dello Stato resta in carica fino alla conclusione del settennato, e intanto si affrettano le pratiche per la convocazione delle Camere in seduta comune. L’istituzione dei due comitati è irrituale nel mezzo di una crisi, comunque il lavoro è istruttorio. Il prolungamento del governo Monti (da notare che, ad esultare più di tutti, è stato Grillo, a riprova di una singolare miscela tra eversione e doroteismo) non è tale da restituire i pieni poteri ad un esecutivo ormai sfinito, tuttavia può essere sorretto da qualche «speciale» forma di sostegno parlamentare. E, benché sia difficile diradare tutti i dubbi sul quadro d’insieme, va sottolineata la cura del presidente a non limitare le prerogative del suo successore, la libertà delle forze politiche e la loro assunzione di responsabilità.

A seguire la crisi giorno dopo giorno, si rischia però di restare impigliati nei particolari. Ora ci si dovrà fermare per una ventina di giorni, a meno di clamorose sorprese. E soprattutto si dovrà cambiare l’agenda: la priorità diventa l’elezione del nuovo Capo dello Stato. Le tattiche cambieranno perché la maggioranza presidenziale può anche essere diversa da quella politica. Ma, al fondo, restano una crisi e un passaggio di portata storica che riguarda il destino stesso dell’Italia e dell’Europa. E, accanto ad essi, una domanda di cambiamento politico, che, se delusa, rischia di travolgere la stessa democrazia costituzionale.

Per quanto il percorso sia diventato più tortuoso, insomma, non è venuta meno l’esigenza di imprimere una svolta nel governo, di uscire dalla seconda Repubblica, di cambiare la rotta delle politiche economiche, di riconciliare i cittadini con la sobrietà, la legalità, la trasparenza delle istituzioni. Il cambiamento è la sola opzione realistica. E le battute d’arresto che Berlusconi e Grillo hanno imposto in queste settimane alla proposta di Bersani non devono indurre il centrosinistra ad un compromesso di basso profilo. Perché tale sarebbe una riedizione del governo Monti, magari con un altro nome al posto di Monti. Siamo convinti che il Capo dello Stato non abbia voluto proporla ai partiti in queste ore, non solo per i veti reciproci, ma anche perché un grande settennato – che ha dato prestigio all’Italia – non poteva concludersi con la formazione di un governo debole, forse ancora più debole di quest’ultima versione del governo Monti.

Berlusconi ha detto no a Bersani perché Bersani non si è piegato ad un ricatto inaccettabile: lo scambio tra il via libera ad un governo di centrosinistra e una presidenza della Repubblica ipotecata dal Cavaliere. Il Pdl ha buon diritto a concorrere alla scelta di un presidente di garanzia per tutti. Ma, se il ricatto allude al salvacondotto di Berlusconi, accettarlo pregiudicherebbe la libertà di ogni governo e la dignità delle istituzioni. Grillo ha detto no a Bersani (anche ad una non-sfiducia) per controllare i suoi nel recinto dell’opposizione totale. I Cinque stelle hanno buon diritto di difendere la loro autonomia e nessuno ha in mente un’alleanza Pd-M5S: tuttavia anche a loro è chiesto di assumersi responsabilità conseguenti ai voti ottenuti. Mentre in questa partita hanno preferito giocare di sponda con Berlusconi, regalandogli un maggiore potere di interdizione.

Il risultato di tutto ciò è lo stallo di oggi. Ma non c’è un esito plausibile della crisi che non comporti forti novità nelle forme e nei contenuti. La proposta del Pd resterà comunque il punto di ripartenza della crisi, una volta eletto il nuovo presidente della Repubblica. Il cambio dell’ordine del giorno aiuterà ad eliminare il ricatto. Tuttavia, non sarà un compromesso qualunque a mettere l’Italia al riparo dai suoi rischi. Non si potrà tornare a parlare di larghe intese o di governo tecnici, come se non avessero già prodotto il quadro di sfiducia nel quale siamo precipitati. La proposta del centrosinistra resta il punto di partenza perché il cambiamento è possibile solo se una formazione politica gioca se stessa, e i suoi uomini migliori, attorno a un progetto innovativo di governo. Non è un’idea arrogante: governi cosiddetti di «minoranza» operano in molti Paesi europei. Il loro vantaggio è che consentono alle forze antagoniste di misurarsi con trasparenza e di proporre ai cittadini e in Parlamento tesi alternative. La politica smetterebbe di essere descritta come un corpo separato, assediato da forze anti-sistema. Nella proposta Pd c’è anche il secondo binario, quello delle riforme. Speriamo che il comitato istituito da Napolitano avvii il lavoro. In Parlamento le responsabilità di Pdl e Cinque Stelle possono diventare preponderanti. Se il problema del governo futuro fosse il nome di Bersani, siamo convinti che il problema non ci sarà. Ma se qualcuno ha in mente una mediazione senza cambiamenti, allora non ha capito cosa sta accadendo in Italia. I compromessi sono buoni quando consentono soluzioni all’altezza delle sfide.

L’Unità 31.0.13

"Dal Porcellum ai cassintegrati piano da Governo d'emergenza per un a task force senza precendenti", di Alberto D'Argenio

Intorno alle quattro del pomeriggio i cellulari iniziano a squillare. Dall’altro capo del telefono c’è il presidente della Repubblica. Giorgio Napolitano li informa uno ad uno dell’intenzione di nominarli “saggi”. Cogliendo tutti di sorpresa visto che a sceglierli è stato direttamente lui, il Capo dello Stato. Che, nel caso dei politici, ha comunicato i nomi ai partiti di appartenenza a giochi già fatti e poco prima di chiamare i diretti interessati. Alle sei il giro di telefonate è finito e il Quirinale con un comunicato ufficiale svela i loro nomi. Parte così, in un piovoso sabato pomeriggio di Pasqua, la missione senza precedenti dei “saggi del presidente”. Che inizieranno a lavorare subito. Già martedì mattina incontreranno Napolitano per capire i dettagli della loro missione, le modalità e i tempi entro i quali svolgerla.
Sono dieci gli uomini ai quali il
Capo dello Stato affida il compito di allungare la vita alla legislatura, di provare a sbloccare lo stallo politico e di riavvicinare i partiti su programmi e contenuti nella speranza di riuscire a formare un nuovo governo. Riferiranno a lui, ma nessuno ancora sa se il frutto del loro lavoro sarà usato da Napolitano o dal suo successore nel tentativo di trovare la quadra tra i partiti per il prossimo esecutivo. Ma ascoltando Napolitano, e la conferma viene anche da fonti governative, i saggi capiscono che il loro ruolo sarà duplice: se troveranno in fretta l’accordo su alcune riforme «urgenti» le affideranno allo stesso governo Monti. E ci potrebbero essere anche sorprese, con iniziative concordate tra loro e poi con l’esecutivo uscente non solo sull’economia, ma anche sulle riforme istituzionali come il taglio dei costi della politica e la cancellazione del Porcellum. Lasciando aperta la porta a due scenari. Le commissioni potrebbero aiutare la nascita del governo, ma potrebbero anche dare l’impulso per quelle riforme che tutti giudicano imprescindibili prima di tornare alle urne. Un modo per rianimare il Paese, rassicurare i mercati che l’Italia non è ferma e prepararsi all’eventuale voto anticipato con un sistema rinnovato.
Le commissioni sono due. La prima, quella dei “saggi politici” è incaricata di lavorare sulle riforme istituzionali e sciogliere nodi come legge elettorale, costi della politica, taglio dei parlamentari e revisione del bicameralismo. Ne
fanno parte Valerio Onida, presidente emerito della Corte Costituzionale il cui nome era accreditato tra quelli graditi al M5S – non rappresentato direttamente nelle commissioni – come possibile premier. Onida a caldo dice: «Non sono ottimista ma faremo il nostro dovere». Con lui Mario Mauro, capogruppo al Senato di Scelta Civica, ex europarlamentare del Pdl e soprattutto l’ispiratore dell’idea dei saggi-esploratori mutuata dalla recente esperienza di Belgio e Olanda («sono grato a Napolitano, ora servono idee e pragmatismo»). C’è poi Luciano Violante, ex presidente della Camera e uomo che i per i democratici ha curato a più riprese le trattative sulla legge elettorale. Per il Pdl in pista c’è Gaetano Quagliariello, storico ambasciatore di Berlusconi sulle riforme e nel suo partito considerato un moderato.
Nella seconda commissione quella che lavorerà sulle proposte in campo economico, sociale ed europeo e che avrà un occhio anche su esodati, imprese e rifinanziamento della Cassa integrazione – siedono Enrico Giovannini («sono onorato»), presidente del-l’Istat, Giovanni Pitruzzella, presidente dell’Antitrust, Salvatore Rossi, membro del Direttorio di Bankitalia. Nomi che rivelano la scelta di Napolitano di attingere ai vertici delle istituzioni che coprono i fronti caldi dell’economia:
crescita, stabilità bancaria, concorrenza e produzione dei dati statistici. Con loro ci saranno i due presidenti delle commissioni speciali sull’economia di Camera e Senato, Giancarlo Giorgetti, l’economista della Lega, e il democratico Federico Bubbico. C’è infine il ministro agli Affari europei Enzo Moavero, il grande negoziatore di Monti su tutti i dossier Ue che Napolitano ha voluto inserire come garanzia di credibilità e serietà agli occhi delle Cancellerie continentali.
Ma scoppia la polemica sull’assenza di donne tra i 10 saggi del presidente. Proteste bipartisan che uniscono il leader della Cgil Susanna Camusso, «oggi ho pensato viva le donne», Alessandra Mussolini, «quindi in Italia non esistono donne sagge», e il vice ministro degli Esteri Marta Dassù. Al loro disappunto si somma quello del sindaco di Milano, Giuliano Pisapia.

La Repubblica 31.03.12

"Il primo voto verrà dallo spread", di Isabella Bufacchi

La luna di miele tra i mercati e la politica italiana rischia di chiudersi bruscamente. Quando il capo dello Stato Napolitano ha fatto riferimento ieri alle «posizioni inconciliabili» dei partiti, a conferma dell’impossibilità di formare un governo, l’illusione di chi – in maggioranza sui mercati – aveva scommesso su un Monti-bis o pseudo-Monti-bis è andata in frantumi. Sulla novità dell’istituzione dei gruppi dei saggi, per portare avanti proposte programmatiche anche sul fronte economico, i mercati ripongono ora la speranza di un’Italia che anche senza un nuovo governo nell’immediato sarà capace di mantenere il passo sul fronte delle riforme strutturali, unica garanzia per poter tornare a una crescita potenziale duratura e sostenibile nel medio-termine per contenere lo straripante debito pubblico. Sorvegliata speciale resta la legge elettorale: andrà cambiata per convincere i mercati che, nel caso di ritorno alle urne in tempi rapidi, il pericolo di un Parlamento appeso (hung Parliament) non si riproporrà. Da martedì, la tenuta del rischio-Italia sarà meno scontata e dovrà essere meritata sul campo. Il BTp a dieci anni è rimasto finora sotto il 5%, dunque poco scosso dalla turbolenza provocata dall’esito elettorale. Le maxi-aste del Tesoro italiano hanno continuato ad essere assegnate a tassi ragionevoli, e per importi al top della forchetta o poco sotto, negli ultimi due mesi nonostante l’instabilità profonda del quadro politico. Questo è avvenuto per motivi tecnici e sostanziali. La liquidità in eccesso, il programma delle OMTs della Bce pronta a fare “whatever it takes” per difendere l’euro, la caccia all’alto rendimento, la quota dei titoli di Stato in mano agli stranieri molto ridimensionata rispetto al 2011 hanno assicurato un sostegno tecnico. In quanto alla variabile politica, i mercati, in sostanza, si erano convinti che l’Italia avrebbe tirato fuori il coniglio dal cilindro, la grande coalizione, avrebbe superato l’impasse rimettendo alla guida del Paese un Governo tecnico sostenuto dal centrosinistra e dal centrodestra, per almeno un anno: per portare avanti riforme strutturali per la crescita e la riforma elettorale per assicurare un governo solido alle prossime elezioni. Questa tranquillità, questa tolleranza, quest’indulgenza bonaria con la quale i mercati hanno reagito allo scontro recente senza esclusione di colpi tra Bersani, Berlusconi e Grillo è ora destinata a trasformarsi in un nervosismo ruvido e intransigente, l’Italia verrà seguita da ora in avanti senza distrazioni e senza accondiscendenza. Complice la crisi di Cipro, tutt’altro che risolta per le sue implicazioni fortemente negative per l’euro, e la portata destabilizzante delle elezioni a settembre in Germania: «Lo stallo politico italiano acuito dal fallimento delle consultazioni di Napolitano ha un pessimo tempismo – ha commentato ieri uno strategist londinese – perché arriva nel momento in cui la crisi cipriota ha ricordato ai mercati il peso della condizionalità e delle perdite inflitte ai privati nei salvataggi europei». Il modo in cui Cipro verrà aiutata, inoltre, ha portato alla luce la rigidità pre-elettorale tedesca nei confronti degli Stati europei in difficoltà: nei prossimi mesi l’Italia dovrà fare l’impossibile per non perdere la fiducia dei mercati, per tenere, spread, aste e rendimenti dei BTp sotto controllo. «Abbiamo organizzato la scorsa settimana una conference con la nostra clientela istituzionale internazionale, tra i più grandi portafogli americani, asiatici ed europei – ha commentato lo strategist di una grande banca giapponese –. Quando abbiamo parlato di Italia ci siamo resi conto che nessuno dei nostri clienti, tutti estremamente rilassati, aveva la minima idea di cosa stesse realmente succedendo in Italia». Da martedì, l’Italia non verrà persa di vista. «Per tranquillizzare i mercati, in questa situazione di stallo politico, l’Italia dovrebbe trovare il modo di continuare il processo delle riforme strutturali avviato con il governo Monti, senza rinviarlo troppo a lungo – ha commentato ieri Fabio Fois, Southern European economist di Barclays capital – Riaprire il prima possibile l’agenda delle riforme, indispensabile per aumentare la crescita potenziale del Paese, sarebbe infatti molto importante». Secondo Fois, «è altrettanto importante che, nel caso nuove elezioni dovessero essere annunciate, il Parlamento attuale approvi una riforma della legge elettorale che riduca il più possibile il rischio che una paralisi politica si possa ripresentare. Per i mercati il rischio peggiore è quello dell’ingovernabilità perché blocca il cammino intrapreso delle riforme strutturali».
L’Italia si trova da martedì a un bivio: anche senza un nuovo governo, e in attesa di una risoluzione della paralisi politica, può comunque coltivare e alimentare la fiducia dei mercati, lanciando già da domani e nelle prossime settimane – o anche mesi – il segnale che non vi saranno deviazioni o retromarce dalla disciplina di bilancio e dall’implementazione di tutte le riforme strutturali necessarie per rilanciare la crescita e per assicurare la governabilità alle prossime elezioni. Se invece i mercati dovessero convincersi che alla fine di questa turbolenza politica l’Italia, dopo una nuova tornata elettorale o sotto la guida di un governo temporaneo, ripiomberà nell’ingovernabilità oppure cancellerà i progressi e gli obiettivi del rigore di bilancio e delle riforme per la crescita, il BTp sfonderà il muro del 5% per poi testare nuove soglie e soprattutto la rete di sicurezza dell’Esm e della Bce. Proprio per questo il prossimo giovedì gli occhi dei mercati saranno tutti per il presidente della Bce Mario Draghi, alla ricerca di conferme tangibili che la Bce, dopo Cipro e per l’Italia, è pronta ad agire.

Il Sole 24 Ore 31.03.13

"Quell’antipatia senza genialità", di Francesco Merlo

È vero che l’antipatia dei ribelli, come furono Longanesi a destra e Feltrinelli a sinistra, è stata una grande risorsa italiana, ma dare del precario ad un giovane giornalista e disprezzarlo perché è pagato 10 euro ad articolo, come stanno facendo da ben due giorni Beppe Grillo e i suoi replicanti con il cronista Vasco Pirri Ardizzone, non è più antipatia rivoluzionaria, ma banale acidità reazionaria, baronale e classista.
E la “cittadina” deputata Gessica Rostellato, che alla Camera si rifiutò di stringere la mano alla signora Rosi Bindi, già bersaglio della miserabile derisione berlusconiana, non fu una purificatrice sia pure antipatica, ma solo un’antipatica mocciosa dell’Asilo Mariuccia. La stessa cittadina disse alle Iene di non sapere cos’è la Bce né chi è Mario Draghi: «Non lo so, sono fusa». Insomma, è vero che l’antipatia italiana è stata una specie di lievito del progresso, della cultura e dell’arte, a volte squadrista magari e altre volte persino bombarola, mai però così cretina.
E’ infatti, diciamo così sempliciotta, l’antipatia supponente della cittadina Roberta Lombardi che all’appello accorato di Bersani rispose con una battuta, «sentendola parlare mi sembrava di essere a Ballarò», che è un darsi di gomito tra compagnucci e soprattutto un ammiccare alle ossessioni televisive di Grillo, il capo che sorveglia in streaming.
Tutto l’umanesimo italiano è pieno di antipatici sublimi, da Torquato Tasso ad Alberto Moravia. E nella politica furono antipatici, tra gli altri, Aldo Moro, Palmiro Togliatti e Bettino Craxi. Un italiano antipatico, che è stato adorato dal popolo, era padre Pio che spesso cacciava via i penitenti, facendoli addirittura piangere: «Andatevene, sepolcri imbiancati!». E quelli scappavano mortificati e tuttavia fortificati nella fede.
Quando vengono invece cacciati dai grillini, i giornalisti non sono mortificati ma eccitati, e gli insulti — «lingue umide», «servi», «merde», «frustrati » e «precari» — non rivelano mai la miseria del cronista offeso, ma quella del Grillo di turno che insulta, sono il sintomo di qualcosa che è andata a male, come le espressioni dei volti di Crimi e della Lombardi accecati, davanti al povero Bersani, da abbagli scambiati per verità.
L’antipatia come grammatica dell’eversione o del cambiamento, ha infatti assoluto bisogno dell’ironia così come la fede, ha detto Papa Francesco, ha bisogno della tenerezza. La fede senza tenerezza è il fanatismo, sono le facce sapute della Lombardi e di quel Crimi che, dopo il primo colloquio con Napolitano — era “Morfeo”, era “la salma” — ha detto: «Beppe questa volta l’ha tenuto sveglio». Ecco: Crimi è così antipatico perché è grillino o è grillino perché è così antipatico?
Ricordo in piazza a Torino un operatore del Tg3 deriso da Grillo e dal suo servizio d’ordine, e costretto ad abbandonare, tra i lazzi, un luogo pubblico dove solo lui e i suoi colleghi erano lì per lavorare: l’antipatia della folla contro un poveruomo è sempre violenza, un corto circuito del pensiero. Già ad altri cronisti, come per esempio a Gulisano di Quinta Colonna, Grillo aveva gridato: «Non sei un giornalista, sei un precario, sei un pivello». Ma i precari e i pivelli non dovrebbero piacere ad un ribelle? I grillini, per esempio, sono tutti fieri di essere pivelli e precari. E per la verità come pivelli sarebbero persino simpatici se solo coltivassero anche un po’ di umorismo e ridessero qualche volta di se stessi invece di imputare ai giornalisti gli strafalcioni e le gaffe che ora gli amatori raccolgono in rete in una specie di riedizione delle avventure di Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno.
E si comincia con il senatore Campanella che denunziò con furore i tentativi di corruzione di Vendola, senza sospettare di essere caduto nel tranello di un imitatore e soprattutto senza farsi poi una risata liberatoria. E c’è la senatrice Enza Blundo che pensava che i senatori fossero «cinque o seicento », e il senatore Bartolomeo Pepe non sapeva dov’era il Senato: «Tanto, prendo un taxi». Ed è da risentire Roberta Lombardi che fa l’elogio del fascismo «prima che degenerasse», anche se il cult più ricercato è la sapienza di quel Bernini: «Non so se lo sapete ma in America hanno già iniziato a mettere i microchip all’interno delle persone, è un controllo di tutta la popolazione ». E poi la solita Lombardi ha spiegato in un video di alta economia che «restituire i crediti alle imprese è la manna per le banche». Si potrebbe continuare con questo sciocchezzaio che è grillismo contro Grillo, è gogna antipatica.
Anche Dante Alighieri, a quanto si tramanda nella novellistica, opponeva fra sé e gli altri il pathos dell’antipatia, della distanza: «L’uovo crudo è la pietanza più buona» rispose con la sua nasuta alterigia ad un convivio di sapienti ghiottoni. Quando feci ad Umberto Eco la stessa domanda, che era stata fatta a Dante, sul cibo migliore del mondo, la sua antipatia fu subito trascinante: «I piselli ripieni». L’antipatia, come Grillo una volta sapeva bene, funziona solo se è usata con sapienza. Eduardo De Filippo, che tutti raccontano antipatico, aveva di certi giornalisti la stessa idea che ne ha Grillo, e una volta al direttore del Mattino disse: «Voi dovete pubblicare sbagliato anche l’orario ferroviario, se no io, abituato a non credervi, perdo regolarmente il treno». Era più efficace e virtuosa l’antipatia di Eduardo o lo è quella coprolalica di Grillo che mette alla gogna tutti i giornalisti che non gli piacciono storpiandone il nome o facendolo storpiare — è il solito vizietto dei puri — sui suoi giornali di fiducia?
Nessuno, prima di Grillo e delle sue candide scimmiette, aveva trasformato l’antipatia italiana in un bla bla collettivo, nel codice della volgarità senza fascino, nella fuga dalle domande senza la grandezza antipatica di quell’Enrico Cuccia che sempre più si ingobbiva nel silenzio mentre l’inviato delle Iene lo inseguiva e lo incalzava. Riguardate invece le scene del programma ‘Piazza Pulita’ con gli inseguimenti dei cronisti a deputati e senatori a 5 stelle. Giovedì pomeriggio un giornalista del programma “La vita in diretta” li ha tampinati tutti e a tutti ha rivolto la stesse domande: «Perché non voterà la fiducia?», «Che opinione ha del turpiloquio di Battiato?». Sono domande da dieci euro certo, ma le risposte sono da cinquanta centesimi: «Io non ho opinione», «abbiamo un portavoce», «ognuno parla come vuole ».
Carmelo Bene, un grande antipatico italiano, un giorno fece pipì addosso ai giornalisti che lo avevano criticato. Mai si sarebbe abbassato a fare loro la morale o dar lezioni di deontologia con il linguaggio filosofico di Crimi: «I giornalisti ci stanno tutti sul cazzo». Questi del resto sono i rivoluzionari che a porte chiuse discutono per ore su come allinearsi alla linea del Blog, che è il totem, è l’oracolo che si pronunzia quasi sempre alle ore 15. E se capita che ci siano giornalisti che si battono per la libertà, che rischiano di persona,
contro le leggi bavaglio per esempio, «sono come gli stupratori che protestano contro gli stupri».
Anche l’antipatia italiana sta dunque andando a male. Quando infatti si incontra con la simpatia, si mette a friggere. Così l’imitazione che Fiorello ha fatto del sonno di Crimi ha prodotto in rete reazioni intemerate di dileggio e persino di minacce. Fiorello pensava che mai sarebbe stato indicato da Grillo come candidato alla presidenza della Repubblica ma non immaginava di finire additato come un nemico pubblico: «In Italia si può scherzare sul Papa ma non su Grillo». Ecco: la simpatia è l’acqua benedetta che fa friggere lo zolfo del diavolo.

La repubblica 31.03.13

"L’aprile crudele dell’Ilva", di Adriano Sofri

Se A Roma si procede come alla corte di Bisanzio, che cosa succede della colonia tarantina? I giorni più veri qui sono quelli della Passione. Le estenuanti processioni ondeggianti dei perdoni scalzi e incappucciati, i pellegrinaggi ai sepolcri, uomini che venerano una madre addolorata. Poi, festa e resurrezione arrivano quasi come un complemento minore alla commemorazione. Guai a perdere la speranza, dice il vescovo, in un’omelia-arringa da pubblico accusatore: la salute viene prima di tutto, Dio maledice quelli che possono fare e non fanno. Gli accusatori pubblici laici sono provvisoriamente in silenzio, il loro tribunale ostruito dal processo di cronaca nerissima, intanto i capi dell’Ilva hanno provveduto a denunciare al competente tribunale di Potenza la giudice Todisco e i suoi custodi giudiziali. L’Ilva sciorina iniziative che danno nell’occhio. Enrico Bondi, ottuagenario campione di risanamenti (sinonimo, spesso, di liquidazioni), con una competenza siderurgica (fu lui a vendere la Lucchini al russo Mordashov, che l’ha lasciata in gramaglie) è il nuovo amministratore delegato. La famiglia Riva sottolinea come per la prima volta l’azienda passi in mani esterne. Gli analisti obiettivi sottolineano come nel frattempo la famiglia abbia prosciugato la cassaforte dell’Ilva trasferendone le risorse a un labirinto di società industriali e finanziarie. Nomina di Bondi e casse svaligiate fanno pensare all’intenzione di mettere il patrimonio societario e famigliare al riparo dalle spese di risarcimenti e bonifiche. Per intenderci, le bonifiche nel territorio coinvolto dalla semisecolare vicenda di Italsider e Ilva costerebbero, a un occhio onesto, un paio di centinaia di miliardi, che non è una cifra, è una amara barzelletta. I lavori indispensabili a mettere in ordine lo stabilimento costerebbero poco meno dei 10 miliardi del cosiddetto salvataggio di Cipro, che invece è una cifra, benché la si voglia far passare per una barzelletta. Ci si chiede se operazioni finanziarie e notarili possano bastare a preservare la proprietà dall’obbligo a risarcire il danno all’ambiente e alla salute, come prevede la legge. Dicono gli operai più anziani che una volta che l’Ilva fosse disertata e smantellata come avvenne a Bagnoli – qualche impianto traslocato a Djerba, in Tunisia, qualche altro trasportato gratis o a prezzo di rottame in Cina o in India … – si scoprirebbe quale irredimibile discarica tossica abbia via via sedimentato il suolo su cui poggia lo stabilimento, e i canali dai quali avvelena i mari. Altro affare, questo, rispetto all’Aia (Autorizzazione integrata ambientale) e la sua costituzionalità.
L’aria che si respira a Taranto (niente di metaforico, significa proprio l’aria che si respira) pretende di confortare. Si vantano risultati brillanti nell’addomesticamento di inquinamento e perfino di malattie (!), l’azienda e il governo, che all’azienda è fisicamente incorporato, ne assegnano il merito all’Aia e alla sua attuazione. Il merito dei dati migliori (nell’ultimo quadrimestre 2012) sta in un’ovvietà come la diminuita produzione e la chiusura di lavorazioni fra le più nocive, e nella meno ovvia azione dei custodi nella riduzione dei parchi minerali. Le cui giacenze, scrivevano nel novembre scorso, “non /erano/ legate alle progressive necessità produttive, ma a una speculazione sulle tariffe, a scapito della salute e con ingorghi rischiosi nelle operazioni di scarico”.
Quanto all’attuazione dell’Aia, è in un ritardo plateale nei casi in cui prevede precise scadenze, e in un’allegra dilazione nei casi in cui non le prevede, e spazza la monnezza al termine del triennio cui la legge si applica. Ma lo stesso garante dell’Aia, l’ex magistrato Esposito, certifica al governo gravi violazioni e inadempienze emerse in una ispezione dell’Ispra effettuata tra il
5 e il 7 marzo. Le relazioni dei custodi giudiziali, rese note negli scorsi mesi, documentavano rigorosamente violazioni e inosservanze, e una mancata collaborazione dell’azienda che si è via via mutata in ostacolo al compito loro affidato. Denunce corroborate dall’Unione europea in un dettagliato testo del 4 marzo, che lamenta il ritardo e la parzialità delle risposte fornite dal governo Monti e minaccia una procedura di infrazione.
Tutto ora sembra sospeso al calendario di aprile, il mese più crudele: la decisione della Corte Suprema sulla costituzionalità della legge, un referendum cittadino consultivo e striminzito su tre quesiti (tenersi l’Ilva, chiuderla tutta, o chiuderne l’area a caldo – purché si sappia che cos’è), una manifestazione ambientalista il 7 aprile con la parola d’ordine del sostegno “ai pubblici ministeri e alla Gip”, e l’arrivo effettivo di Bondi, di cui tutti sottolineano, con tremore o con ammirazione, la tempra di chirurgo d’emergenza “durissimo”. Si tratta di capire chi è il paziente. Alla Parmalat era piuttosto chiaro. All’Ilva non ci si sarebbe stupiti dell’arrivo di un amministratore straordinario, in una condizione di fatto fallimentare: ma Bondi ci arriva da amministratore delegato. A meno che non sia un passo verso la cura fallimentare, la famosa “durezza” rischia di piovere sul bagnato. Chi ha seguito i capitoli precedenti sa dei reparti confino, dell’impiego dei “fiduciari”, rete parallela e occultata di comando tecnico e disciplinare; delle assunzioni selettive, della disciplina da caserma, delle discriminazioni nelle destinazioni dei posti di lavoro, della cassa integrazione, fino ai dettagli “minimi” ma influenti sulla vita quotidiana come i turni. Dopo la tragica sequenza di tre morti in cinque mesi, “incidenti” si sono succeduti senza guadagnarsi le cronache. Da pochi giorni a questa parte c’è stato un incendio (23 marzo: “sono intervenuti tecnici dell’Arpa per verificare l’eventuale dispersione di sostanze tossiche”), un versamento di ghisa (26 marzo: “per un inconveniente tecnico, una piccola /
sic!/
parte del getto di ghisa è caduta sul terreno sottostante, generando emissione di fumo visibile anche dall’esterno dello Stabilimento”), e (29 marzo) un grave infortunio a un operaio al laminatoio a freddo. Nella prosa aziendale: “Durante le fasi di regolazione della macchina bordatrice n.1 si rendeva necessario l’intervento sulla linea per sistemare una sezione di guida delle lamiere… L’operatore inavvertitamente attivava un ‘sensore presenza lamiera’ che provocava l’avanzamento di alcuni centimetri di una lamiera determinando il contrasto del piede destro tra la stessa e il piano della via rulli”. Non è stato facile ai soccorritori liberare la caviglia spappolata di Mario G. dal “contrasto” cui il comunicato allude come a un tackle calcistico. “Non bisogna mai abbassare i livelli di guardia sulla sicurezza” ha detto il direttore. Va preso in parola, e avvertito di una circostanza di cui magari non è a conoscenza. L’Ilva stabilisce un premio di 100 euro a testa per i reparti in cui gli infortuni restano al disotto del traguardo fissato rispetto all’anno precedente: 40, per esempio, quest’anno. Per la classifica dei primi 10, la cifra si raddoppia. Lodevole iniziativa, no? Può succedere però che l’incentivo spinga i capi (per i quali arriva a 1.000 euro, e in busta paga) a indurre i lavoratori, con i molteplici mezzi di suasione di cui dispongono, a non dichiarare gli infortuni, a mettersi in ferie invece che in malattia, a lavorare in condizioni menomate. Un’azienda ha tutte le possibilità di condurre un’indagine su questa tentazione, e tanto più se dispone di temperamenti “durissimi”. Come ricorda il vescovo del Dio che maledice chi può fare e non fa.

La repubblica 31.03.13

"Aldrovandi, agenti in servizio tra un anno il tribunale conferma il carcere per due di loro", di Jenner Meletti

La notizia è arrivata venerdì in serata, quando il grande abbraccio per la famiglia Aldrovandiera finito. Dal prossimo gennaio – secondo fonti della commissione disciplinare del dipartimento della Pubblica sicurezza – i quattro agenti oggi in carcere per la morte di Federico potranno riprendere servizio. Questo perché, dopo il carcere che finirà a giugno, scatterà una sospensione di soli 6 mesi, decisa dalla stessa commissione.

Con il nuovo anno i quattro condannati per «eccesso colposo nell’omicidio colposo» – e per un reato colposo non è prevista la radiazione – potranno dunque risalire sulle volanti.

In piazza, Patrizia Moretti
non si dichiara sorpresa: «Sapevo già, qualcuno mi aveva informato di questa decisione. Ma non credo davvero che finirà così. Io spero, e ne ho motivo, che questi poliziotti non torneranno mai più in servizio. Stasera non voglio dire di più. Ma se questo ritorno ci fosse davvero, se le promesse non fossero mantenute, cambierei radicalmente il mio atteggiamento. Stasera voglio continuare a credere nelle istituzioni e nelle dichiarazioni di chi ci ha espresso solidarietà».

Intanto, muove i primi passi l’ispezione decisa dal Viminale. Si vuole accertare se l’assurda protesta dei poliziotti del Coisp sotto le finestre del municipio, dove lavora Patrizia Moretti, potesse essere evitata. Al centro dell’indagine c’è l’autorizzazione “Nr. 338/A.4.2013 /Gab.” concessa dalla questura il 25 marzo. È inviata a tutti gli uffici della polizia, ai carabinieri, alla guardia di finanza e alla polizia municipale. «Oggetto: Sindacato di polizia Coisp, iniziative di solidarietà ai dipendenti della Polizia di Stato condannati in relazione alla nota vicenda “Aldrovandi” ». Si prevede il sit-in alle 10.30 in piazza Savonarola. Si precisa che il servizio d’ordine e vigilanza diretto dall’ispettore superiore XY avrà a disposizione 6 elementi della Polizia di Stato (tre dei quali in uniforme) e tre elementi dei Carabinieri, che «dovranno recarsi nella piazza alle ore 9,30».

Leggendo le due pagine, appare evidente che la Questura era preoccupata non dalla protesta del Coisp, ma dalle reazioni che avrebbe potuto provocare. Tutte le pattuglie in servizio debbono infatti «accentuare la vigilanza nei luoghi dove si svolgeranno le iniziative per prevenire eventuali azioni illecite o dimostrative come affissioni di manifesti o imbrattamenti dei muri». Nell’ultima riga, un’avvertenza importante. «Di ogni novità di rilievo dovrà essere data tempestiva comunicazione all’Ufficio di Gabinetto della Questura».

Una domanda è ovvia. Quando alle 10.30 il sindaco Tiziano Tagliani scende in piazza e chiede a quelli del Coisp di allontanarsi di qualche metro, «perché lì sopra lavora Patrizia Moretti», l’ufficio di Gabinetto è stato avvertito? In quel momento, ammesso che non lo sapessero prima, la presenza della madre di “Aldro” diventava nota a tutti. Bastava l’intervento della Questura per evitare la provocazione. E invece la signora Moretti ha dovuto poi scendere con la foto del figlio massacrato.

Carcere confermato. Restano in carcere Paolo Forlani e Luca Pollastri, due dei quattro agenti di polizia condannati in via definitiva per la morte di Federico Aldrovandi. Lo ha deciso il magistrato di sorveglianza di Bologna, respingendo la richiesta di detenzione domiciliare in applicazione dello ‘svuota-carceri’. “Mancanza di comprensione della gravità della condotta”, “cultura della violenza, tanto più grave ed inescusabile, in quanto da parte di appartenenti alla Polizia di Stato”: questi “gli elementi rilevanti di valutazione” che hanno convinto il magistrato a negare gli arresti domiciliari. Per il magistrato di sorveglianza si tratta di una “vicenda che pertanto esige, almeno ora, una battuta di arresto per una matura e consapevole riflessione, onde evitare il rafforzamento di siffatta nefasta cultura e la ricaduta, alla prima occasione, in analoghe vicende delittuose, sia pure eventualmente anche solo di copertura di analoghi fatti criminosi commessi da altri, purtroppo, sebbene pur sempre isolati, neanche tanto rari”. In conclusione, scrive il magistrato “in mancanza di significativi ed apprezzabili elementi di novità che attestino almeno una iniziale revisione di un atteggiamento mentale che ancora non ha dato segnali di distacco dalle pregresse dinamiche e logiche, deve ritenersi tuttora non idoneo neanche il regime di detenzione domiciliare a sostenere un valido percorso di rieducazione e di recupero atto ad evitare in futuro la commissione di altri gravi delitti”. Secondo il magistrato, dunque, non vi sono le condizioni per un utile percorso fuori dal carcere, “considerato in particolare la già evidenziata mancanza di comprensione della gravità della condotta, sia pur attinente a delitto colposo, pur tuttavia realizzato mediante il pesantissimo, fino alle estreme conseguenze, uso dei mezzi di violenza personale ad opera di quattro servitori dello Stato contro un ragazzo, solo, disarmato ed in stato di agitazione confusionale, e la totale assenza di segnali atti ad indicare una presa di distanza critica dalla stessa”.
“Al contrario – aggiunge nell’ordinanza il magistrato di sorveglianza – si ritiene necessaria un’adeguata attività di osservazione psicologica in regime intramurario per approfondire e stigmatizzare quegli aspetti negativi della personalità evidenziati”.

La madre: “È giusto”. “E’ il minimo. Va bene. E’ giusto così”. Con queste parole Patrizia Moretti, madre di Federico Aldrovandi, ha accolto la decisione della Sorveglianza di Bologna. E torna sulla questione del rientro in servizio degli agenti condannati: “Io non so se quella della commissione disciplinare sia la decisione finale, o se ci sia ancora spazio. Credo che si tratti di etica, qualcosa che va oltre le regole: si tratta di umanità il fatto che qualcuno che ha ucciso un ragazzo resti nelle istituzioni o meno. Sicuramente sono stati condannati per omicidio colposo – ha continuato, riferendosi al fatto che il regolamento di polizia non prevede la destituzione per reati colposi – ma sappiamo che è stato dichiarato tale, e lo ha detto il giudice, perchè gli insabbiamenti hanno sottratto delle prove per cui la condanna ha potuto essere solo così”. “Il punto, e sono le parole che ha usato la Cancellieri, è il disonore di quella divisa e delle istituzioni. Credo che debba essere la strada da percorrere – ha spiegato – Ci sono delle regole, ciascuno magari se ne lava le mani grazie a queste regole. Ora ci vuole qualcuno che si faccia carico di una visione più globale e guardi le cose con obiettività. E che valuti esattamente quel che è successo e quel che comporta. Serve soprattutto una visione d’insieme dal punto di vista umano. Se nelle istituzioni viene tollerato che vengano calpestati i valori umani c’è qualcosa che non va”.

Giovanardi shock: agenti vittime. “I poliziotti del caso Aldrovandi non devono essere in galera. Gli agenti sono vittime come il ragazzo che è morto e non vanno cacciati dalla polizia. La manifestazione dei sindacati è legittima”. Così Carlo Giovanardi, deputato del Pdl alla Zanzara su Radio24 sulla vicenda Aldrovandi. “La sentenza dice che dopo una battaglia di perizie in tribunale c’è stata una condanna per omicidio colposo. Nessuna tortura, Aldrovandi non è morto per le botte, non è stato massacrato. I poliziotti hanno avuto una condanna che non è neppure assimilabile a quella di Grillo che ha accoppato padre, madre e un figlio uscendo di strada con il fuoristrada, ma non è mai andato in carcere. Per omicidio colposo, cioè negligenza e imprudenza, non va in carcere nessuno”. E il deputato commenta anche la foto che la madre di Federico ha esibito:”La foto che ha fatto vedere la madre è una foto terribile, ma quella macchia rossa che è dietro è un cuscino. La foto è vera ma gli avevano appoggiato la testa su un cuscino. Nemmeno la madre può dirlo e non l’ha detto perchè non è così, non è sangue”.

La madre di Federico: “Querelo Giovanardi”. “Giovanardi non fa che insultarci da otto anni. E’ uno sciacallo che mente sapendo di mentire. Dice che il sangue di Federico non è vero. Lo querelo e tutti i danni li devolvo all’Associazione Federico Aldrovandi. Spero che anche Ilaria lo quereli per le offese a Stefano Cucchi”. La madre di Federico, Patrizia Moretti, lo annuncia su Facebook. Per lo stesso motivo, le allusioni sulla foto del figlio, Patrizia Moretti aveva deciso nei giorni scorsi di querelare il Coisp, il sindacato di polizia che aveva manifestato sotto le finestre del suo ufficio in Comune a Ferrara.

La Repubblica 31.03.13