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"Il Pd finanzia Camposanto e San Possidonio", di Serena Fregni

Oltre duemila donazioni al partito che dirotta 149mila euro su biblioteca, palestra e aiuto ai disabili. Anche il Partito Democratico regionale, attraverso il proprio conto corrente cui hanno contribuito 2.149 donatori, è riuscito a raccogliere 649mila euro. Di questi fondi, 500mila sono confluiti nei fondi alla regione, e 149mila destinati a due progetti a Camposanto e San Possidonio. A Camposanto è previsto il recupero della palestra comunale, fortemente usurata durante il post-sisma, poi verrà installato un ascensore nel vano scala del municipio rendendolo idoneo anche ai portatori di handicap. A San Possidonio verrà realizzata una biblioteca comunale nel nuovo polo scolastico – culturale. Lo ha spiegato ieri Stefano Bonaccini, segretario regionale del Pd, nella sede del partito a Camposanto: «Siamo lieti di poter consegnare questi fondi per cause così importanti. Tutte le donazioni provengono dai tanti circoli presenti sul territorio, dalle feste del partito e anche da tanti privati che hanno deciso di dare il loro contributo», dice il segretario. Bonaccini prosegue ricordando il lavoro svolto dai tanti volontari in Emilia e ribadisce un secco no da parte della regione al deposito gas di Rivara. Presente anche Paolo Negro, coordinatore provinciale del partito: «L’impegno del Pd modenese con la Regione ha trovato il suo compimento nella campagna di solidarietà svolta in questi mesi. Un ulteriore tassello in favore della ricostruzione». Tamara Nart, segretaria del Pd di Camposanto: «Il primo progetto riguarda l’abbattimento delle barriere architettoniche del municipio attraverso l’inserimento nel vano scala di un sistema maccanizzato per superare il dislivello e un ascensore per le persone diversamente abili. Mentre il secondo prevede il ripristino della palestra comunale. Dopo il sisma l’abbiamo utilizzata come centro di accoglienza si è logorata. Ringraziamo il partito per la generosa donazione e speriamo di poter avere questi servizi attivi a breve». Ha concluso Federica Stefanini, segretario Pd di San Possidonio: «Sono contenta che il nostro paese potrà riavere la biblioteca, che verrà collocata nel nuovo polo, un punto di ritrovo sia scolastico che culturale molto importante. Abbiamo perso le scuole, la palestra ma il nuovo polo è un vero e proprio gioiello e ne siamo fieri».

Gazzetta di Modena 29.03.13

"Costituzionalisti senza stelle", di Michele Prospero

Lo statista (non più mascherato) di Genova ha dettato la linea, che mescola intransigenza (verso la sinistra) e continuità (con Monti). Mentre con Berlusconi ostacola un governo di cambiamento, concede il via libera al governo tecnico. Dalla spiaggia privata, il leader del M5S gioca alla sedizione e ordina le condizioni di una resa immediata: lunga vita a Monti e morte a l’Unità.
Quando non si copre il volto e scappa inseguito da mai servili giornalisti, Grillo si sente come il generale indiscusso di un esercito di conquistatori, implacabili nel colpire a comando. E perciò intima: niente governo, lavori solo il Parlamento. Qui, come l’opinione pubblica ha ormai appreso in questo fortunato avvio di legislatura, le sue truppe brillano per competenza, per autonomia e coraggio, per prestigio e dignità, per abilità oratoria. Insomma, per capacità di leadership.
Con il voto di febbraio, un profondo ricambio di classi dirigenti ha offerto i galloni a una nuova élite del potere. Un ceto di inarrivabile levatura che compare soltanto in fasi storiche irripetibili è al servizio della nazione. Le grandi eccezioni sono sempre in grado di regalare figure eccelse di statisti guidati dai cittadini Crimi e Lombardi. Per il loro carisma contagioso, mostrano di non avere niente a che fare con il grigiore di De Gasperi, Togliatti, Nenni, Croce, Nitti, Einaudi, Dossetti.
Qui è comparsa, sulle rovine del rovinoso passato partitocratico, una nuova classe eletta, composta da raffinate personalità che avrebbero entusiasmato anche Mosca o Pareto. L’Italia, dopo la distruzione creatrice indotta dalle urne, pare proprio baciata dalla buona sorte. E rimane rapita al cospetto della trionfale marcia degli aristocratici scudieri di Grillo, penetrati armati (di apriscatole) nelle «putride istituzioni» per scacciare la «viscida casta» del privilegio e imporre il governo dei migliori.
Statisti di tale levatura, che di sicuro un segno indelebile lasceranno nelle aule non più sorde e buie, potranno contare per forza sul supporto di una mente sottile. Ci sarà di sicuro dietro le quinte un pensatore politico che li illumina. E infatti ecco risplendere nell’ombra la riservata figura (come poteva mancare?) dell’ideologo (semi) ufficiale del movimento. Schivo, riflessivo, Paolo Becchi evita i chiassosi palcoscenici televisivi dove i mediocri vanno per promuovere l’ultima fatica letteraria, ma trova il modo di diffondere comunque il prestigioso suo verbo nuovo.
Una idea incredibilmente forte ha partorito l’ingegno giuridico di questo custode del costituzionalismo grillino: la prorogatio. I costituzionalisti, nipotini di Kelsen, spiazzati nella loro cittadella positivistica, si interrogano sul significato di questa categoria innovativa che fa spremere le meningi a chi intende penetrarla a fondo. Grillo e il suo ideologo (in tempi più cupi e non magnifici e progressivi come quelli che corrono, un impresario d’ingegno dovrebbe ingaggiarli perché la loro rappresentazione in materia costituzionale è degna dei migliori palcoscenici e non solo di quelli virtuali di un’Agorà elettronica) vogliono che «rigor Montis» continui ad alloggiare a Palazzo Chigi.
I costituzionalisti normali, nella loro modesta opera di manutenzione delle regole, obiettano che forse andrebbe considerato un piccolissimo dettaglio: ci sono state le votazioni. Si è aperta cioè una nuova legislatura e non è possibile prorogare il governo espresso nelle precedenti consultazioni.
Una bazzecola formalistica, ribattono però Grillo e Becchi, i nuovi sovrani della Costituzione materiale. E però una soluzione che sciolga il nodo alla radice ci sarebbe: convincano subito il Quirinale e presentino, i grillini insieme a Berlusconi, una bella mozione di fiducia a sostegno del redivivo governo Monti.
Un vero rivoltoso gentiluomo questo Grillo, non c’è dubbio. Con uno tsunami elettorale ha spazzato via ogni cosa, ma oggi ordina alla tempesta di placarsi perché la sinistra è in difficoltà e Monti deve conservare il potere. Così si riconosce il gran volto di un sovversivo tosto, che non è il classico parolaio. Grillo ha un programma massimo e lo realizza: Monti resti e però si chiuda subito l’Unità.
Dopo la nuotata lungo lo Stretto, Grillo pensa di emulare un altro comico che esibiva alla folla il suo robusto torace. Stia sereno, su un governo tecnico potrà anche essere assecondato. Ma sulla chiusura del giornale di Gramsci si rassegni. Neanche il regime nero, che per il suo favoloso inizio ha fatto perdutamente innamorare la cittadina Lombardi, c’è riuscito.

L’Unità 29.03.13

"Così si è ristretto il vocabolario", di Mariapia Veladiano

È la lingua del mercato. Mi piace, non mi piace. Voglio, non voglio. Compro, non compro. Stupendo, orrendo. Santo, delinquente. Italiano, straniero. Fascista, comunista. Amico, nemico. Noi, loro. Semplificata, poche parole, scalpellate e puntute, da tirarsi in testa all’occorrenza. Poche idee. Scalpellate anche loro. Niente sfumature, solo quelle di grigio, rosso o nero, all’occorrenza. Chi insegna conosce bene questa lingua. La trova nei temi e nei saggi brevi, che dovrebbero argomentare e invece hanno la protervia (superbia insolente, arroganza ostinata, sfrontata, petulante, scrive il dizionario Treccani) di un oracolo a fine carriera. È fatta di frasi brevi, assertive. Parole pochissime, come fendenti. Gonfie, retoriche, slogan. Si spiega con rigore che la propria tesi va sostenuta con parole il più possibile chiare e condivise, che la tesi contraria ci deve essere sempre presente, perché qualche elemento di ragione ha da avere con sé e comunque si deve essere pronti a confutarla. Si ricorda che è un’arte il pensare, come il parlare.
E invece. La lingua che la maggior parte di noi conosce e usa quasi non ci permette di capire il necessario per il vivere minuto: un modulo da compilare, le condizioni di conservazione di un farmaco. La bella storica battaglia contro la schiavitù dell’analfabetismo si sta rovesciando in una silenziosa impensata disabilità, analfabetismo funzionale, leggo ma non capisco. Una sconfitta subdola.
Dar la colpa alla scuola che non insegna, ai libri di testo sempre troppo difficili per i ragazzi eppure sempre più ammiccanti, nella lingua, a una medietà senza qualità, accusare la scuola, contro cui si è accanita la politica di un ventennio, è una scorciatoia bugiarda che può prendere solo chi non sa cosa succede in aula. Perché di sicuro la scuola con tutte le forze viaggia controvento. Ma le parole colorate che fan festone nella aule delle elementari, le mille scritture che si incontrano nei romanzi letti in classe e proposti a casa, e nelle antologie e, ormai da tempo, le straordinarie esperienze di “scuola d’autore” che coltivano la scrittura creativa dei ragazzi e delle ragazze, sono realtà importantissime, ma rischino di restare “cose di scuola” se poi il parlare del mondo intorno è raggelante. Si apprende la lingua soprattutto attraverso l’esposizionea un bel parlare. Tv, giornali e web costruiscono il modello corrente di lingua, molto più della buona letteratura, e non solo perché si legge poco, e questo è male per millemila ragioni, ma perché la lingua sciatta del mercato dilaga nei libri anche, buona per tutti i generi, giallo, fantasy, thriller o romanzo d’amore: assertiva, paratattica e soprattutto facile, facile facile.
Nei notiziari ha la forma del virgolettato cubitale e spesso scorretto prima di dare il contesto: «Il disastro poteva essere evitato» (che è solo l’ipotesi di un gruppo di scienziati chissadove, ce lo ricordano chissaquando). «Fra vent’anni la popolazione italiana sarà scomparsa e al suo posto ci sarà un potpourri di immigrati» (iperbole che è la proiezione di un’indagine, forse, e forse alla fine del servizio ce lo faranno scoprire). E si chiude la tv più arrabbiati, più spaventati e pochi sanno del
pot-pourri ci dicono le indagini, ma disastro, scomparsi e immigrati hanno la potenza delle emozioni. Così si aiuta a costruire una lingua povera povera, adatta a schierarsi e a fare il tifo, io di qua e tu di là, ma non a capire, a capirsi.
Difficile ragionare di questo perché lo si fa dalla sponda di chi le parole le coltiva per lavoro o per passione e a volte quel che accade davvero gli arriva improvviso in forma di indagine internazionale che ci colloca appena sopra il Nuevo Leòn (stato del Messico, a nord est, dice un buon atlante). Una bufera sulla nostra sicumera (sussiego e presunzione,
scrive il dizionario Treccani) di sapere le cose proiettando tutto intorno a noi le nostre convinzioni. Ma se la consapevolezza arriva bisogna spaventarsi e resistere. E difendere la scuola, e la bella lingua e letteratura. E i bambini. I bambini c’entrano, e anche i ragazzi, visto che in questi giorni alla Children’s Book Fair di Bologna altre indagini ci hanno appena detto che in realtà loro leggono, molto molto più di noi adulti, e amano leggere. Esporli a una buona letteratura è un atto necessario.
Poche parole vuol dire pochi pensieri. Anche per difendersi, difendere chi ha bisogno. E probabilmente non capire il bugiardino di un farmaco «nuoce gravemente alla salute», anche se l’inflazione noncurante dell’espressione ripetuta su tutti i canali ne abbassa la pericolosità percepita. Ma di sicuro non capire un articolo di giornale o una proposta di legge nuoce gravemente alla nostra vita civile, alla nostra convivenza e alla nostra umana necessità di dirci e di capirci.

La Repubblica 29.03.13

"All’Italia serve il governo politico", di Claudio Sardo

Siamo ai tempi supplementari. Ma non si poteva abbandonare così il solo, plausibile tentativo di dare un governo politico all’Italia. Il piano B – cioè un esecutivo simil-tecnico, sostenuto dalla stessa «strana» maggioranza di Monti – benché desiderato concordemente da Berlusconi e Grillo, sarebbe una condanna per il Paese. Lo sanno tutte le persone responsabili, anche se per prudenza o amor di Patria evitano di dirlo esplicitamente davanti alle difficoltà di oggi.

I mercati sono pronti a mordere, anzi già lo fanno, e la stabilità dell’intera area-euro è fortemente minacciata dall’incertezza italiana. Ancor più minacciati siamo noi, sono i cittadini, le imprese, i lavoratori che perdono lavoro, i giovani che non lo trovano: è la nostra società, la nostra economia in crisi ad aver bisogno di un governo politico, che affronti con autorità i problemi in Europa, che assuma decisioni non scontate in Italia, che riapra un confronto pubblico trasparente tra opzioni diverse in temi di diritti, di politiche industriali, di riforma del welfare, di mobilità sociale. Un governo simile a quello di Monti rischia di non avere oggi neppure la buona partenza che allora il Professore garantì, risollevando l’immagine dell’Italia dopo l’umiliazione ad essa inflitta dai governi del Cavaliere.

La ragione dei tempi supplementari non previsti sta anzitutto in questo forte interesse nazionale. Che il Capo dello Stato ha voluto ancora una volta rappresentare, ovviamente riservandosi una libertà di giudizio al termine delle nuove consultazioni. La convergenza di Berlusconi e Grillo risponde anch’essa ad interessi, benché di parte: il primo vuole tornare ad avere un’influenza determinante sul governo, il secondo vuole avere il monopolio dell’opposizione e usarla in chiave anti-sistema. C’è peraltro anche un interesse elettorale, ben misurabile sull’esperienza greca (purtroppo simile alla nostra, nel senso che la loro «strana» maggioranza è sovrapponibile a quella italiana): quando le «larghe intese» sono spogliate dell’autonomia politica dei protagonisti, perché ogni dialettica viene assorbita dalle direttive economiche imposte dall’Europa, a guadagnarci elettoralmente sono solo la destra e le forze anti-sistema. La sinistra riformista, invece, è condannata e ridotta ai minimi termini.

E la condanna del centrosinistra finisce per essere anch’essa un danno per il Paese. Non perché a sinistra ci sia un deposito maggiore di verità, ma perché il solo bipolarismo che emerge nella drammatica crisi sociale finisce per essere quello tra politica e forze anti-sistema. Così la crisi economica resta senza soluzioni coraggiose e la sfiducia verso la politica invade le istituzioni, minacciando la democrazia. Questo è lo scenario della nostra crisi. Bersani ha proposto al centrodestra e al Movimento 5 Stelle un governo di cambiamento. Non solo perché i contenuti del suo programma hanno una radicalità innovativa. Il cambiamento maggiore, forse, riguarda proprio i rapporti tra governo e Parlamento. Le Camere possono dotarsi di nuovi, più robusti contrappesi: si può invertire la rotta anti-parlamentare dell’ultimo ventennio. Le forze antagoniste del centrosinistra possono assumere in Parlamento le maggiori responsabilità operative e di controllo, fino a guidare il processo di riforme istituzionali, che i cittadini italiani tanto attendono (a partire dalla modifica della legge elettorale). Da quelle postazioni possono anche condizionare il programma del governo, costruire maggioranze variabili sui singoli provvedimenti, proporre e far passare loro progetti. Crediamo ancora che questa sia la risposta politica più alta, e la più rispettosa del risultato elettorale, che insieme a tante complicazioni ci ha consegnato una grande domanda di cambiamento.

Sarebbe un governo fragile, di minoranza, dicono alcuni. Non si può negare la difficoltà. Ma cosa vale di più di un ritorno ad un confronto politico trasparente, in cui ognuno sia se stesso, con le proprie proposte e la propria faccia? Come si può sottovalutare la frattura politica, evidenziata dal voto, riproponendo una solidarietà coatta nel bunker di un governo necessitato? Al fondo tutti i soggetti in campo ne avrebbero da guadagnare. Di certo, ne ha da guadagnare chi desidera un centrodestra democratico nel dopo-Berlusconi e chi immagina per il Movimento di Grillo un futuro di responsabilità nelle istituzioni, e non un crescendo di violenza verbale e di disprezzo per tutti gli altri.

Il dilemma non è Bersani o il nulla. Il segretario del Pd non ha mai posto una pregiudiziale personale. Il Capo dello Stato accerterà se e in che modo sarà possibile avviare un governo parlamentare sotto la responsabilità del centrosinistra, e al tempo stesso procedere in una logica di corresponsabilità sul binario delle riforme. Tutte le forze parlamentari devono avere la loro dignità istituzionale, perché ciò è dovuto anzitutto agli elettori. Ma se fallisce questo tentativo, sarà un colpo durissimo per l’Italia. Speriamo che il Pdl abbandoni il ricatto sulla presidenza della Repubblica, che deve essere una garanzia per tutti. E speriamo che Grillo la smetta con questa assurdità di prorogare il governo Monti perché lui ha paura di scegliere.

L’Unità 29.03.13

"Lo stato d'eccezione", di Massimo Giannini

Da Pella a De Gasperi, da Fanfani a Andreotti.
Chiunque cerchi precedenti, negli archivi della Storia Repubblicana, non lo troverà. L’Italia vive il passaggio più drammatico del dopoguerra. Abbiamo conosciuto molti «governi d’emergenza », ma non «governi impossibili ». Quello tentato da Pierluigi Bersani, almeno per adesso, lo è. A diradare la nebbia post-elettorale non è bastata una settimana di consultazioni (compresa una presessione con le parti sociali inutile e incomprensibile, se non giustificata dalla necessità di «comprare» tempo o di preparare, senza dirlo, la prossima campagna elettorale).
Nel suo passaggio al Quirinale, il leader del Pd ha dovuto confermare al capo dello Stato l’impossibilità di costruire una maggioranza di legislatura, attraverso la scomposizione e ricomposizione delle tre «minoranze di blocco» uscite dal voto del 24-25 febbraio. Ora il leader del Pd cambia «status ». Da presidente incaricato diventa «presidente congelato». All’anomalia iniziale, quella del «pre-incarico» di venerdì scorso, si somma ora un’altra anomalia, ancora più eclatante: il presidente della Repubblica che scende in campo in prima persona, per verificare se gli ostacoli incontrati da Bersani sono superabili, o se invece si rende necessario cambiare lo schema di gioco, e ovviamente anche il giocatore.
Tutto questo, ancora una volta, conferma ciò che già sappiamo. Viviamo in uno «stato d’eccezione» permanente. E anche stavolta il soggetto che più di tutti lo alimenta e lo esaspera è Silvio Berlusconi. Se il tentativo del leader della coalizione che ha vinto comunque le elezioni è tuttora in stand-by, o verosimilmente fallirà, la responsabilità è del Cavaliere. Del suo avventurismo istituzionale. Del suo titanismo politico. Del suo sfascismo giudiziario. Come ha spiegato lo stesso Bersani al termine del suo colloquio con Napolitano, il suo governo non può nascere non solo perché è limitato numericamente, ma anche perché è ricattato politicamente. Le «condizioni e le preclusioni inaccettabili» poste dal Pdl sono uno scandalo della democrazia. Pur essendo arrivato terzo alle elezioni (con un collasso di 6,5 milioni di voti persi) il Cavaliere si siede alla sua maniera al tavolo della trattativa, cioè con la rivoltella in mano. Pretendendo la poltrona del Quirinale per sé o per Gianni Letta. Subordinando ancora una volta i suoi bisogni personali e processuali agli interessi del Paese. Giocando ancora una volta al tanto peggio tanto meglio: se la minaccia funziona, bene. Altrimenti si torna subito a votare, e lui o vince l’intera posta, o tutt’al più pareggia di nuovo, avendo guadagnato nel frattempo altri mesi preziosi per fuggire dai tribunali.
Detto questo, bisogna essere onesti fino in fondo. Le malefatte politiche dello Statista di Arcore spiegano molto, della rovinosa palude italiana. Ma non bastano a spiegare il «congelamento» di Bersani. Quel «sostegno parlamentare certo» che Napolitano gli aveva chiesto una settimana fa, il segretario non l’ha trovato. E che finisse così era chiaro già dal 26 febbraio. Il leader del Pd aveva due strade. Una più rischiosa dell’altra. La prima strada implicava un viaggio a fari spenti nella notte di Gaia, cioè il tentativo di far convivere dentro una stessa piattaforma programmatica le idee della sinistra neo-progressista e i sogni del grillismo web-populista. La seconda strada comportava una corsa alla luce del sole verso la tana del giaguaro, cioè il tentativo di far coesistere dentro una formula politica da inventare l’istanza legalitaria del Pd e la renitenza giudiziaria di Berlusconi. Per motivi profondamente diversi, due vie già in partenza ugualmente improbabili, se non impercorribili.
Da una parte, come si poteva e si può immaginare un’alleanza con Grillo e Casaleggio, che teorizzano «un Parlamento senza i partiti» e puntano al raggiungimento del «100% dei suffragi» e poi all’autoscioglimento? Cosa si poteva e si può costruire, anche solo sul piano delle singole leggi da approvare, con un leader dispotico e un guru carismatico che mentre stai negoziando ti danno della «mummia» o del «padre puttaniere»? Bersani ci ha provato, per troppi giorni e persino al di là di ogni ragionevole misura, tentando di rispettare la promessa di un «governo da combattimento». Ci ha provato con gli otto punti di programma tagliati inutilmente e tardivamente a misura dei grillini. Con l’elezione a sorpresa degli «alieni» Boldrini e Grasso ai vertici di Camera e Senato. Con il rito umiliante delle consultazioni in streaming. Ma è stato tutto inutile. In cambio ha ottenuto solo insulti e irrisioni. Era prevedibile. Ma allora, prima di avventurarsi su questa strada, sarebbe stato opportuno sondare meglio il terreno. E verificare se esisteva una vera «faglia» interna, dentro un «non-partito» che nel suo «non statuto» prevede espressamente il rifiuto pregiudiziale di qualunque alleanza o coalizione con altre forze politiche.
Dall’altra parte, come si poteva e si può immaginare un accordo con Berlusconi e Alfano, che invocano da un mese la salvifica Grande Coalizione, dopo averne «assassinato» tre mesi prima l’unica prova esistente, cioè il governo Monti? Cosa si poteva e si può costruire, anche solo sul piano delle riforme istituzionali e costituzionali, con un Pdl che scende in piazza contro la magistratura e con un Cavaliere che per trattare pretende per se stesso il Quirinale? Anche qui, Bersani ci ha provato, per una settimana e con qualche ambiguità bizantina da Vecchia Repubblica, tentando di rispettare il «preambolo » auto-imposto del no a un esecutivo di «larghe intese». Ci ha provato con la formula del «doppio binario». Con l’offerta della presidenza della «Convenzione» per le riforme ad Alfano. Con l’escamotage delle «tecniche parlamentari creative» suggerite da Enrico Letta e ventilate da Roberto Calderoli, dall’uscita dall’aula al momento del voto di fiducia alla diserzione vera e propria grazie ai certificati medici fasulli.
Ma di nuovo, è stato tutto inutile. In cambio ha ottenuto solo l’accusa (ridicola e immeritata) di voler «occupare militarmente le istituzioni », formulata proprio da chi pur avendo perso le elezioni rivendica il Colle. Anche in questo caso, era prevedibile. Ma allora, prima di spingersi su questa strada, bisognava (e bisogna tuttora) dirimere una questione di fondo, in modo trasparente e unitario. Il Pd è in grado di dire inequivocabilmente e definitivamente no a qualunque forma di «intelligenza col nemico», respingendo al mittente i veti e i ricatti, senza subire la defezione dei renziani, dei dalemiani, dei veltroniani e di chissà chi altri? Oppure, all’opposto: il Pd è in grado di sopportare una stampella parlamentare del Pdl, cedendo pezzi della sua sovranità e della sua «verginità», senza patire la balcanizzazione del suo apparato e la diserzione del suo elettorato?
Questi nodi restano ancora tutti aggrovvigliati, sul tavolo del leader del Pd e soprattutto su quello del capo dello Stato. Comunque vada questo ulteriore «giro di giostra», una cosa è chiara a tutti. Entro stasera, al termine del nuovo ciclo di consultazioni sul Colle, il Paese ha bisogno di conoscere il suo destino. Di sapere se c’è un premier incaricato, un nuovo «governo del presidente», quali saranno la sua missione e la sua maggioranza. Oppure se non c’è nulla di tutto questo, e si dovrà tornare a votare «sotto la canicola», dopo aver già votato «sotto la neve». Ma non prima di aver affrontato il passaggio-chiave, critico e propedeutico allo scioglimento delle Camere: l’elezione del successore di Napolitano, che a questo punto potrebbe avvenire in un Parlamento trasformato in un Vietnam, dove Pd-Sel e Scelta Civica avrebbero comunque i numeri per far passare un proprio candidato. Mentre a Roma si discute di tutto questo, lo spread schizza oltre quota 350, i rendimenti all’asta dei Btp si impennano e la Borsa cede. È la prova che la tregua concessa all’Italia dai mercati sta finendo. Una Pasqua con la «sede vacante» sarebbe un suicidio. La Chiesa cattolica l’ha evitato. La Repubblica italiana non ancora.

La Repubblica 29.03.13

"Gli arretrati dello stato a 90 miliardi", di Antonella Baccaro

Operazione trasparenza sui crediti vantati dalle imprese. I miliardi dovuti dalla pubblica amministrazione sarebbero, secondo Banca d’Italia, circa 90 per il 2011, con una correzione di 20 miliardi sulle stime fornite sinora dall’Istat. Lo ha rivelato il direttore centrale per la ricerca economica di via Nazionale, Daniele Franco, in un’audizione presso le commissioni speciali in Parlamento, specificando che l’ammontare dei debiti corrisponde al 5,8% del Pil (prodotto interno lordo). «I 40 miliardi, quindi, non bastano a chiudere l’intero processo, ma aiutano» ha aggiunto.
«Oltre il 10% del totale, circa 9 miliardi, è stato ceduto a intermediari finanziari con clausolapro soluto e pertanto è già incluso del debito pubblico» ha specificato. Se dunque la liquidazione dei 40 miliardi in due anni aumenterà il deficit di 0,5 punti, la liquidazione dei restanti debiti aumenterebbe temporaneamente il deficit di altrettanto. «Finalmente – commenta il leader degli industriali Giorgio Squinzi rispetto ai nuovi dati -. Mi fa piacere che piano piano arrivano sulle nostre tesi». A maggior ragione, fa sapere via Facebook il ministro dello Sviluppo economico, Corrado Passera, «è urgentissimo risolvere questo problema con soluzioni semplici e automatiche».
Soluzioni che potrebbero arrivare in un decreto già la prossima settimana, secondo il presidente della commissione speciale di Montecitorio, Giancarlo Giorgetti (Lega). Intanto martedì la relazione del governo sulla variazione del rapporto deficit/Pil dovrebbe essere approvata in Parlamento.
Il ministro dell’Economia, Vittorio Grilli, audito a propria volta dalle commissioni speciali, non ha indicato tempi per il decreto, limitandosi a spiegare che sarà «immediatamente applicativo» senza decreti attuativi. Ma i pagamenti dovranno avvenire in ordine cronologico e «con un sistema a stadi che consenta un monitoraggio» per evitare di sfondare la soglia invalicabile del 2,9% deficit/Pil. Per questo, ha aggiunto, «consumare a priori tutti gli spazi sarebbe sbagliato. Chi ha spazi immediatamente paghi il 50%, poi le amministrazioni dovrebbero dire il totale dei debiti entro un mese, e spero che siano più sollecite che nel passato».
Ma come sarà organizzato il pagamento dei 40 miliardi? Grilli ha spiegato che saranno i Comuni a gestirne quasi la metà: a questi spetteranno 12 miliardi nel 2013 e sette nel 2014, al sistema regionale della Sanità cinque miliardi nel primo anno e nove nel secondo e allo Stato circa sette miliardi divisi nei due anni. Comuni e Regioni dovrebbero dar fondo agli avanzi di gestione e, in mancanza, usare prestiti a lungo termine, pagabili in 10-15 anni.
Quanto agli ulteriori debiti conteggiati da Bankitalia, anche Grilli rivela che le stime del Tesoro circa lo stock del debito «sono superiori ai 40 miliardi, ma una parte di questo è fisiologico. Partendo da questi 40 potremmo essere in grado, se necessario, di prevedere un’ulteriore tranche, di ampliare il meccanismo».
Intanto Grilli, mettendo fine a una questione sollevata dal Movimento 5 Stelle, ha chiarito che il governo vuole prima liquidare le fatture alle imprese e poi procedere con le banche che hanno scontato i debiti: per queste «dovrà esserci una terza immissione di liquidità o una parte minoritaria» dei primi 40 miliardi di rimborsi. L’obiettivo finale di tutta l’operazione è quello di immettere liquidità «che consente di far ripartire la domanda interna già nella seconda metà dell’anno in corso». Valutazioni forse troppo ottimistiche per Bankitalia, che ha ridimensionato le aspettative giudicando i potenziali effetti del decreto «contenuti e limitati». Ancora più preciso l’Istat: per il presidente Enrico Giovannini, audito dalle commissioni speciali, l’effetto sarà «nell’ordine di un decimale nel 2013, quindi con un effetto relativamente contenuto che poi si cumula nel 2014». Quanto alla ripercussione sull’occupazione sarà «molto limitata». Tanto dipenderà dai tempi di attuazione dell’operazione, spiega Bankitalia, e dalle modalità: «In situazioni normali interventi sulla liquidità delle imprese avrebbero effetti sul Pil relativamente contenuti — ha spiegato Franco —. Tuttavia nell’attuale fase ciclica il provvedimento potrebbe essere più efficace».
Il timore di Bankitalia e Istat è che l’aumento del rapporto deficit/Pil al 2,9% sia troppo vicino alla soglia del 3% e che possa pregiudicare il rientro della procedura d’infrazione. Ma Grilli ha assicurato che «anche in presenza di uno 0,5% in più i target sarebbero in ogni caso raggiunti», che il pagamento dei debiti «non comporta un allontanamento dal risanamento finanziario» e che l’Italia potrà dunque «uscire dalla procedura d’indebitamento eccessivo». Lo sfondamento dello 0,5% però potrà essere usato solo per il pagamento dei debiti e non per finanziare nuova spesa pubblica.

Il Corriere della Sera 29.03.13

"Fatta l'Europa, abbiamo perso gli europei", di Timothy Garton Ash

Dovremmo pensare con sollievo a ciò che non è accaduto – o non ancora e quanto meno non nella generalità dei casi. Fatta eccezione per i partiti neofascisti come Alba Dorata in Grecia, la rabbia europea non si è rivolta contro gli immigrati, le minoranze o ipotetiche quinte colonne. I tedeschi non danno la colpa dei loro guai agli ebrei erranti, ai musulmani o ai massoni, bensì ai greci inetti. I greci non danno la colpa dei loro guai agli ebrei erranti, ai musulmani o ai massoni: accusano i tedeschi spietati.
Comunque la situazione è maledettamente rischiosa. Il 2013 non è il 1913, su questo non c’è dubbio. La Germania potrà anche dettar legge nell’eurozona, ma non ha mai cercato questo posto al sole. Ai tedeschi non è mai stato chiesto di scegliere se abbandonare o meno il marco – avrebbero detto no – e un tedesco su tre oggi dichiara di voler tornare al marco. Lo dice senza capire che una scelta del genere è contraria al suo interesse nazionale,
ma questa è un’altra storia.
L’Ue nel suo complesso è l’impero più riluttante della storia europea e la Germania è un impero riluttante all’interno di questo impero riluttante. Il rischio di una guerra tra Stati nell’Europa dell’Ue è minimo. (L’analogia con il 1913 è più valida oggi per l’Asia, con la Cina nel ruolo della Germania guglielmina.) Esiste, tuttavia, un rischio reale che i legami di opinione e la solidarietà, che sono essenziali a qualunque comunità politica, vadano in pezzi.
Non dimentichiamo che per i paesi come Cipro il peggio deve ancora venire. Esito addirittura ad evocare un’ipotesi del genere – a “dipingere il diavolo sul muro”, come si dice in Germania – ma che succederebbe se un greco o un cipriota disoccupato con turbe mentali dovesse sparare ad un politico tedesco? Se va bene, lo shock getterebbe acqua sul fuoco delle polemiche e ricompatterebbe gli europei. Ma è meglio non aspettare che risuoni lo sparo.
Perché siamo entrati in questa spirale negativa di mutuo rancore? La causa va indubbiamente
ricercata nelle pecche strutturali dell’euro. Ma anche nelle politiche economiche sbagliate attuate nelle cosiddette “periferie” dell’eurozona e – più di recente – nel suo nucleo settentrionale. (Come ho spiegato su queste colonne tempo fa il grande problema della politica tedesca non sta nelle richieste rivolte agli altri, ma nelle proprie negligenze. La Germania dovrebbe contribuire al risanamento dell’eurozona promuovendo la sua domanda interna). Intanto qualunque provvedimento a breve termine pone le basi per una nuova crisi. Così, ad esempio, l’haircut del 50% deciso nell’autunno 2011 per i bond greci ha contribuito a far sprofondare le banche cipriote.
Ma le radici più profonde del problema stanno nel difficile connubio tra un’unica area valutaria e 17 politiche nazionali. L’economia è continentale, la politica ancora nazionale. Inoltre la politica è democratica. Se non siamo nel 1913 non siamo neppure negli anni Trenta. Non abbiamo l’Europa delle dittature ma l’Europa delle democrazie. Invece della “rivoluzione permanente” di Trotsky abbiamo le elezioni permanenti. C’è sempre qualche leader in Europa costretto a cazzare la randa e il fiocco, in vista di un voto imminente. Quest’anno tocca a Angela Merkel, in vista delle elezioni generali in calendario a settembre. I leader dei 17 Stati dell’eurozona e di tutti i 27 paesi dell’Ue pensano in primo luogo alla politica, ai media e ai sondaggi nazionali. Per quanto si possa essere tentati di dire “abbiamo fatto l’Europa ora dobbiamo fare gli europei”, la verità è che sotto questo aspetto non abbiamo fatto l’Europa.
Come risolvere il problema? Un ingegnoso professore italiano, Giorgio Basevi dell’Università di Bologna, recentemente mi ha dato un suggerimento: sincronizzare le elezioni nazionali e quelle europee. È un’idea geniale e, ovviamente, del tutto inattuabile. Vallo a dire agli elettorati europei! Altre proposte prevedono che il prossimo presidente della Commissione europea venga eletto direttamente, magari tra candidati scelti dai maggiori raggruppamenti politici del Parlamento europeo. Perché no? Ma se qualcuno pensa che questo trasformi all’improvviso i greci disoccupati e i tedeschi astiosi in ferventi europeisti com’erano, deve farsi vedere da un medico. Per ora semplicemente l’unica alternativa per i politici nazionali è andar contro la tendenza momentanea delle rispettive opinioni pubbliche e spiegare nelle loro lingue e dialetti nazionali – a seconda dei casi – che i greci non sono tutti inetti e spendaccioni, i tedeschi non sono tutti teutonici e spietati e così via. Sono loro che devono cogliere ogni opportunità di elaborare il concetto, perché, anche se siamo al freddo e a mollo sulla barca europea, saremmo ancora più al freddo e a mollo nell’acqua. E se serve un nuovo nemico? Come capro espiatorio etnico accettabile a quasi tutti gli europei continentali sarei in generale ben lieto di suggerire i miei ottimi compatrioti, gli inglesi. (Ci siamo abituati, possiamo prenderci la responsabilità.) Ma per quante accuse possiate fargli, non potete certo incolpare gli inglesi per il caos dell’eurozona.
www.timothygartonash.com (Traduzione di Emilia Benghi)

La Repubblica 29.03.13