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Il ricordo contro le mafie "non uccidiamoli ancora", di Osvaldo Sabato

Quando sul palco si alternano le voci di chi legge uno per uno i nomi delle vittime della mafia, il silenzio è irreale nella grande piazza vicina allo stadio di Campo di Marte. Viene interrotto solo dagli applausi della gente. Sullo sfondo la marea dei centocinquantamila, che ieri a Firenze hanno sfilato in corteo nella Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo di chi ha perso la vita sotto i colpi della mafia, camorra e ‘ndrangheta, organizzata da Libera e Avviso Pubblico. Tanti gli striscioni, le bandiere (ci sono anche quelle dei sindacati di Cgil, Cisl e Uil) e i palloncini colorati. In testa al lungo serpentone i familiari delle 900 vittime. I Gonfaloni dei comuni e della Province fanno da contorno, come la lunga bandiera della pace che idealmente abbraccia chi ha dovuto sopportare il dolore per un parente o un figlio ucciso dalla criminalità di stampo mafioso. Sul palco ad uno ad uno sono ricordati i nomi dei magistrati, giornalisti, uomini delle forze dell’ordine e bambini morti per mafia. Dietro di loro una storia straziante, famiglie che ancora continuano a chiedersi il perché di questa strage. «Chi non lotta ha già perso» dice un giovane. «No alla camorra, sì alla vita libera» commenta un altro. Il silenzio è interrotto solo dalla voce di chi scandisce i nomi, uno per uno. Il ritrovo della manifestazione è alla Fortezza Da Basso, il punto di arrivo è allo stadio di Campo di Marte, dove è stato allestito il grande palco sul quale, a fine giornata, Fiorella Mannoia ha cantato l’Italia che non si arrende. Ci sono studenti, giovani e meno giovani giunti da Scampia, Bari, Palermo, Trapani, Torino, Salerno e dalla Valle d’Aosta. In pratica tutto lo stivale è a Firenze. Dalla folla parte un applauso spontaneo quando la speaker sul palco ricorda, oltre alle vittime delle mafie, che quella di ieri è anche la giornata di anniversario della strage di via Fani in cui le Brigate Rosse sequestrarono Aldo Moro, uccidendo gli uomini della sua scorta. «Ci sono tante belle facce, volti puliti qui a Firenze, facce di giovani che rappresentano un’Italia che manda un grido di dolore e una richiesta di giustizia al Parlamento. Credo che sia un bel modo di ricordare le vittime delle mafie» commenta Paolo Siani, fratello del giornalista napoletano Giancarlo, ucciso dalla camorra per le sue inchieste sulla criminalità organizzata. TANTA L’EMOZIONE Mischiati fra la gente ci sono anche i sindaci di Firenze e Napoli, Renzi e De Magistris, si vede anche il primo cittadino di Bari, Emiliano, il segretario della Cgil Camusso, la vedova Caponnetto, il premio Nobel Esquivel e l’allenatore della Nazionale Prandelli che ha letto, sul palco allestito nello stadio, alcuni dei 900 nomi delle vittime della mafia, accolti da un lungo e intenso applauso, il segretario di Prc Ferrero, il leader di Rivoluzione civile Ingroia, il procuratore capo di Firenze Giuseppe Quattrocchi. Il corteo ha anche sostato per alcuni momenti di raccoglimento sotto la casa dove il 26 giugno 1967 morì don Lorenzo Milani, il parroco di Barbiana del Mugello. Tanta l’emozione per le parole di Don Ciotti: «La mafia è come la peste. Dobbiamo unire ciò che le mafie e i potenti vogliono dividere» poi ricorda le vittime di tutti i grandi misteri dello Stato, dai morti per l’Eternit a quelli della strage di Viareggio, dalla Thyssen a Ustica. Dal palco hanno salutato le decine di migliaia di giovani il premio Nobel per la pace Adolfo Perez Esquivel e Giovanna Maggiani Chelli, presidente dell’Associazione dei famigliari delle vittime della strage mafiosa di via dei Georgofili. Tocca al prefetto di Firenze, Luigi Varratta, leggere il messaggio del Capo dello Stato, Napolitano. «Non uccidiamoli una seconda volta, non uccidiamoli con la ritualità, non uccidiamoli con la mafiosità che può annidarsi in ognuno di noi, nelle coscienze addormentate o addomesticate» tuona don Luigi Ciotti. A Firenze si guarda anche a che cosa succede nei palazzi della politica romana, e il fondatore di Libera si rivolge ai deputati e senatori «mi auguro una rivolta delle coscienze. Fate in fretta, il Paese ne ha bisogno» dice «c’è bisogno di un governo veloce». «C’è nel Paese una tendenza perversa – osserva il procuratore Giancarlo Caselli – di buona parte della politica e della cultura a delegare alle forze dell’ordine e alla magistratura le soluzioni di problemi che la politica non sa o non vuole risolvere, fino anche alla lotta alla mafia». Per il figlio di Pio La Torre, Franco «questa partecipazione significa una straordinaria voglia di riscatto dal sistema politico-mafioso che chiede il Paese e che la classe politica non capisce». Alla fine un lungo applauso e poi largo alle canzoni di Mannoia e alla sua «Io non ho paura».

L’Unità 17.03.13

"Sono 490mila i lavoratori a zero ore, +22% sul 2012. Risorse per la Cassa in deroga fino a maggio", di Laura Matteucci

Sono 490mila i lavoratori in cassa integrazione a zero ore, e per loro il taglio del reddito quest’anno è di circa 650 milioni di euro, il che equivale a circa 1.300 euro per ogni singolo lavoratore. E stiamo parlando solo della cassa a zero ore, quando cioè il dipendente non lavora affatto. Poi, c’è il ricorso medio alla cig, pari cioè al 50% del tempo lavorabile globale (4 settimane): in questo caso sono coinvolti 977.150 lavoratori. Tra i settori in cui se ne fa maggiore ricorso, al primo posto si conferma ancora una volta la meccanica, seguono il commercio e l’edilizia. Sono i numeri elaborati sulle rilevazioni Inps dall’Osservatorio Cig della Cgil nel rapporto di febbraio. Che riportano l’attenzione sull’emergenza lavoro, sulla perdita di potere d’acquisto e sull’esclusione sociale. Come ha ricordato la segretaria della Cgil Susanna Camusso ancora l’altro giorno: «Mi auguro un governo di cambiamento che si occupi di lavoro come del fondamento della politica economica. Le mere politiche di austerity non risolvono i problemi». I dati derivano dal ricorso alla cassa integrazione guadagni a febbraio che, seppure in netto calo rispetto al mese precedente (79.200.718 ore il totale dello scorso mese per un -10,88% su gennaio), è però in forte aumento da inizio anno sullo stesso periodo del 2012: 168.069.718 per un +22,71%. Il rapporto della Cgil segnala come a partire da gennaio 2009 e fino ad oggi, le ore di cassa integrazione autorizzate siano state stabilmente intorno agli 80 milioni per mese. Elena Lattuada, segretaria confederale Cgil, parla di «deperimento del tessuto produttivo» e di «progressivo processo di deindustrializzazione del Paese », mentre si augura che il prossimo governo proceda con interventi straordinari, «altrimenti il conflitto sociale e i livelli di povertà diventeranno insostenibili ». «Centinaia di migliaia di lavoratori – continua – si trovano in una condizione di grandissima sofferenza, acuita dalle complicazioni e dai mancati pagamenti della cassa integrazione in deroga che vanno assolutamente risolti e superati ». Un problema, questo, che rischia di scoppiare a breve, visto che con i soldi stanziati finora si può arrivare al massimo a maggio. E che la ministra Fornero continua a dichiarare che di risorse cui attingere non ce n’è. IL NODO FINANZIAMENTI Nel dettaglio dell’analisi la Cgil rileva come la cassa integrazione ordinaria (cigo) aumenti a febbraio sul mese precedente, per un totale pari a 32.347.693 di ore e un +4,73% su gennaio. Da inizio anno la cigo invece ha raggiunto quota 63.234.852 di ore per un +39,14% sui primi due mesi del 2012. La richiesta di ore per la cassa integrazione straordinaria (cigs), sempre per quanto riguarda lo scorso mese, è stata di 38.802.867, in calo su gennaio del 7,96%, mentre il dato da inizio 2013, pari a 80.963.469 ore autorizzate, segna un +71,66% sul periodo gennaio-febbraio dello scorso anno. La cassa integrazione in deroga (cigd) ha registrato a febbraio un drastico calo sul mese precedente, -49,12% per 8.050.158 ore richieste. Tra gennaio e febbraio di quest’anno, rispetto allo stesso periodo dello scorso, la riduzione della cigd è stata del 46,18% per un totale di 23.871.397. Ma il dato in realtà è deprimente: se la cassa in deroga cala, è solo perché non viene autorizzata, vista appunto la mancanza di soldi per finanziarla. Nel frattempo, è cresciuto a febbraio il numero di aziende che hanno fatto ricorso ai decreti di cigs. Da gennaio sono state 986 per un +19,66% sullo stesso periodo del 2012 e riguardano 1.792 unità aziendali (+14,29% sull’anno passato). Nello specifico si registra un forte aumento dei ricorsi per crisi aziendale (557 decreti, +24,61%) che rappresentano il 56,49% del totale. Diminuiscono invece le domande di ristrutturazione aziendale (29 in totale da inizio anno per un -30,95% sullo stesso periodo del 2012) e quelle di riorganizzazione aziendale (31, -32,61%). Sottolinea lo studio della Cgil che «gli interventi che prevedono percorsi di reinvestimento e rinnovamento strutturale delle aziende tornano a diminuire e rappresentano solo il 6,09% del totale dei decreti. Un segnale evidente del processo di deindustrializzazione in atto». Le regioni del Nord si segnalano ancora una volta per il ricorso più alto alla cassa. Al primo posto la Lombardia, con 41.769.479 ore che corrispondono a 121.423 lavoratori (prendendo in considerazione le posizioni a zero ore). Seguono il Piemonte (64.737 lavoratori) e il Veneto (44.554 persone). Nel Centro primeggia il Lazio (32.538 lavoratori), nel Sud la Campania (33.854 lavoratori).

L’Unità 17.03.13

“Scelti due testimoni, la mia rinuncia non è eroismo”, di Umberto Rosso

«Un segnale forte, di discontinuità, di cambiamento. Questo vuol dire l’elezione di Laura Boldrini e Pietro Grasso alle presidenze delle Camere, due importanti personalità che arrivano dalla società civile e con due bellissime storie alle spalle. La gente è stanca di parole, vuole testimoni».
E lei onorevole Franceschini, ha dovuto compiere il passo indietro dal vertice di Montecitorio.
«Il Pd aveva immaginato un altro percorso, per allargare la maggioranza. Ci siano ritrovati di fronte solo dei no. A quel punto, quando siamo stati nelle condizioni di fare la mossa nuova, un minuto dopo l’abbiamo fatta. E per me, l’interesse personale viene sempre dopo quello generale. Chi mi conosce lo sa. C’è la mia storia politica che parla».
Com’è andata?
«Siamo partiti, appunto, dalla necessità di scelte ampie per individuare i presidenti delle Camere. Non una cosa targata sola Pd. Passaggio obbligato, se vogliamo far nascere il governo. Abbiamo provato con il M5S: un muro. Abbiamo tentato anche con Monti: un altro muro. Con il Pdl non lo abbiamo trovato, quel muro, per il semplice motivo che siamo stato noi ad alzarlo: con Berlusconi non facciamo intese».
In questo percorso “condiviso”, lei era destinato alla presidenza della Camera…
«Mi è stata chiesta questa disponibilità da Bersani, in uno scenario di nomi finalizzati a costruire un allargamento a Scelta civica, e io l’ho data. Non facciamo gli ipocriti: per chi fa politica da tanti anni, come me, la presidenza della Camera è una bella sfida, un compito di grande prestigio e responsabilità».
Poi, dopo i no di Grillo, siete rimasti appesi al filo della trattativa con Monti che voleva il Senato.
«E’ andata avanti per quasi tutta la notte. Da Napolitano è venuto un no alle dimissioni da presidente del Consiglio. La discussione è andata avanti, si è provato con qualche altro candidato di Scelta Civica. Infine, da Monti è arrivato il rifiuto netto: nessun altro nome dei nostri e non voteremo nessuno dei vostri. A quel punto, non potevamo che fare da soli, per dare un presidente a Montecitorio e a Palazzo Madama. Ecco, la Boldrini e Grasso».
E Franceschini, davanti al gruppo del Pd che lo applaude, rinuncia e confessa umanamente il dispiacere…
«Se uno fa il parlamentare, il ruolo da presidente della Camera è l’aspirazione forse più grande.
Però, e penso di averne dato prova, cerco di mettere sempre prima gli interessi generali. E’ un atto dovuto, mica eroismo. In questi giorni ho silenziosamente sofferto nel vedermi rappresentato come uno che briga, nel leggere certe dichiarazioni acide. Spero che il dibattito si faccia nel Pd, non sui giornali, possibilmente senza cattiverie».
Segnali di disgelo con i grillini, dopo quei voti finiti a Grasso?
«Volevano nomi nuovi e abbiamo proposto i migliori. Mi aspettavo e mi aspetto scelte trasparenti, alla luce del sole, ciò che loro reclamano per ogni cosa. Non qualche voto segreto scappato al controllo ».
Ci sperate sempre?
«Al Senato, escludendo alleanze col Pdl, in base ai numeri il governo si può fare solo con il M5S oppure non si fa. Ci dicano perciò se intendono dare un esecutivo al paese o se pensano solo agli interessi del loro movimento».

La Repubblica 17.03.13

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Il Colle e il governo: ci vuole “il miracolo”, di FRANCESCO BEI

BERSANI inizia a crederci. «Si può fare, un passo alla volta – ripete – ma si può fare». E tuttavia per il capo dello Stato la questione principale (l’esistenza di una maggioranza di governo) resta
un rebus senza soluzione.
NAPOLITANO lo ha spiegato ai dirigenti del Pd, euforici per aver segnato un punto sulle presidenze delle Camere: «Voglio vedere una maggioranza. Il miracolo deve essere dimostrabile». Su questo dunque si lavora, per rendere “visibile” il miracolo. E il laboratorio è sempre quello di palazzo Madama.
Il primo terreno da dissodare è quello dei 22 montiani. «La scheda bianca su Grasso — ragiona Nicola Latorre al termine di una giornata lunghissima — è un segnale molto positivo e non affatto scontato. Hanno ricevuto lusinghe dal Pdl per votare Schifani, li abbiamo visti, ma hanno resistito ». Insomma, nel Pd considerano «interlocutori naturali» i civici, anche se il Professore si appresta a mettere sul tavolo della trattativa la poltrona più ambita, quella del Quirinale. Anche ieri, del resto, nei contatti di Monti con il Pdl, proprio la sua candidatura sul Colle è stata al centro della discussione. «Monti ci ha proposto i suoi voti per Schifani — racconta
un senatore del Pdl — in cambio di un nostro appoggio a Bersani premier e, soprattutto, a sostegno delle sue ambizioni per il Quirinale». Ma quella per la successione a Napolitano è una partita che si aprirà soltanto tra un mese, dopo quella del governo, e dunque non è difficile per il Pd far entrare anche Monti nella rosa dei papabili in cambio dei suoi voti per Bersani.
L’altro terreno dove seminare è il movimento cinque stelle. Se è eccessivo e sbagliato, come dice Paolo Romani, sostenere che «tra Pd e grillini c’è stato il primo inciucetto », non c’è dubbio che quella dozzina di senatori che hanno scritto “Grasso”, disobbedendo alle indicazioni del guru, costituiscono una prima, vistosa,
crepa nel centralismo democratico del movimento. Bersani ci spera. E con la trovata di due outsider di lusso per le presidenze delle Camere, scelti sacrificando le aspirazioni di Finocchiaro e Franceschini, il segretario ha dimostrato di avere ancora qualcosa da dire. Ma la vera carta segreta è ancora più difficile da giocare. E passa per il rapporto con il Carroccio. I 17 senatori leghisti sono un plotone compatto, non sono previste defezioni. Si tratta dunque di costruire un’intesa politica, quantomeno per far partire il governo nella comune consapevolezza che nessuno vuole le elezioni anticipate.
«Contatti sono in corso», racconta un senatore del Pd, «perché Maroni è una cosa, Berlusconi un’altra». D’altronde anche se Roberto Calderoli smentisce di aver avuto un colloquio segreto con Anna Finocchiaro per concordare la sua elezione alla presidenza, conferma comunque che con la capogruppo del Pd «ci sentiamo tutti i giorni». Un’offerta esplicita non è ancora arrivata. Ma i leghisti se l’aspettano. Dentro il Carroccio la prospettiva di riaprire le urne a giugno viene infatti vista con orrore, specie per lo strascico di problemi interni ancora aperti dopo il deludente risultato
elettorale. Con il leader ormai governatore, i maroniani non hanno intenzione di gettarsi di nuovo in campagna elettorale. Anche i rapporti con Bossi sono ai minimi termini. E lo dimostra la voce che il Cavaliere, che vede come prospettiva solo le urne, avrebbe anche prospettato al fondatore della Lega di lasciare Maroni al suo destino, dando vita a una «lista Bossi» alleata del Pdl.
Nel nome delle riforme e della governabilità, gli stessi berlusconiani non vengono dimenticati. A sperare in un loro coinvolgimento sono soprattutto i montiani. «In questi giorni — spiega infatti il coordinatore di Scelta civica Andrea Olivero — possono nascere disponibilità anche nel Pdl. Non mi sembra che lì dentro tutti abbiano questa fretta di rovinare verso elezioni anticipate. E noi possiamo costruire dei ponti». Un altro costruttore di “ponti” è il socialista Riccardo Nencini, che invita gli alleati del Pd, incassati i numeri uno di Camera e Senato, «a evitare ogni tipo di forzatura sulle presidenze delle commissioni».
Certo, resta da vedere se «il miracolo » di trovare una maggioranza sarà «dimostrabile», come
chiede Napolitano. Il capo dello Stato, per non farsi trovare impreparato, si tiene comunque aperta anche la possibilità di un governo del Presidente, affidato magari al direttore della Banca d’Italia Fabrizio Saccomanni. Resta per ora sullo sfondo la partita del Quirinale, la più importante. Oltre all’autocandidatura di Monti, in queste ore spuntano altri possibili papabili. Come l’ex presidente della Consulta, Alberto Capotosti, un moderato. Oppure lo stesso Pietro Grasso o Romano Prodi. Ma ogni giorno ha la sua pena. «Lo storico Huizinga — sospira Latorre — ha scritto “nelle ombre del domani”. Be’, per noi domani le ombre saranno un po’ meno scure ».

"Quesi segnali in arrivo dai 5stelle", di Eugenio Scalfari

Da molti anni non mettevo più piede a Montecitorio, è passato tanto tempo da quando nel 1968 entrai in quel palazzo da deputato e prima e dopo più volte da giornalista. Ancora ricordo l’incontro che feci in Transatlantico con Giorgio Amendola. Mi accolse con affetto, ci conoscevamo bene fin dai tempi dei convegni organizzati dal “Mondo”. Mi diede il benvenuto, «c’è bisogno di facce nuove », mi disse ma poi aggiunse: «Resterai deluso perché qui noi costruiamo castelli di sabbia, neppure bagnata». Non era una prospettiva incoraggiante costruire castelli con la sabbia secca, eppure in quelle stanze, in quei corridoi, in quell’aula c’erano i rappresentanti del popolo sovrano e questo mi dava orgoglio e speranza. Ieri ci sono tornato. Volevo respirare l’aria che tira nel momento in cui le facce nuove e giovani sono il settanta per cento dei deputati e le donne poco meno della metà. M’è sembrato che la curiosità fosse il sentimento dominante che animava tutti, insieme ad un certo imbarazzo sul contegno da assumere verso gli altri, i giornalisti anzitutto, ma anche i funzionari della Camera e i commessi nella
loro divisa. Curiosità, imbarazzo, timidezza. Distinguere tra quei giovani i grillini di 5Stelle non era affatto facile. Di loro si parla come “marziani”, ma marziani sembravano quasi tutti.
Sono andato in sala di lettura a sfogliare i giornali e lì si è avvicinato uno di quei giovani. «Volevo salutarla — mi ha detto – Lei ci tratta molto male nei suoi articoli ma io mi sono formato leggendola fin da quando ero al liceo, mio padre portava
Repubblica a casa e me la dava. Leggi con attenzione – mi diceva – leggi le pagine della cultura e dell’economia, ti aiuteranno a capire qual è il mondo in cui dovrai vivere e lavorare».
L’ho ringraziato invitandolo a sedersi. Ha voglia di scambiare qualche parola con me? Spero che non le crei problemi. «Nessun problema, anche se la mia posizione politica è quella del nostro Movimento, perciò lei la conosce già». Infatti, non ho domande politiche da farle, vorrei invece capire quali sono i suoi sentimenti ora che è arrivato fin qui. Lei guarda con interesse il lavoro che l’aspetta? «Sì, certamente, siamo qui per questo». Pensa che durerà a lungo oppure si augura nuove elezioni che forse vi darebbero più forza di oggi? «Credo che ci siano molte cose utili da fare, soprattutto per quanto riguarda la moralità pubblica, il lavoro precario e il sistema fiscale. Queste riforme non possono aspettare, la gente ci ha votato per realizzarle. Quando saranno state fatte si tornerà al voto».
Non potrete farle da soli le riforme che avete in programma. «Certo, ma non saremo noi a cercare gli altri, sarà il popolo ad imporle». Siete contro l’Europa? «Siamo europeisti ma vogliamo un’Europa dei popoli non della burocrazia e dei ricchi». Lei parla un linguaggio di sinistra. Posso chiederle chi ha votato cinque anni fa? «Non ho votato». Non ha mai votato prima che nascesse il grillismo? «Non lo chiami così. Dieci anni fa votai per Berlusconi ma presto mi sono accorto di aver sbagliato ». Non mi sembra che la lettura dei miei articoli abbia avuto molto effetto su di lei. «Non è così, capii alcune cose che mi sono rimaste bene fisse nella mente: l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, la libertà di ciascuno, i diritti di cittadinanza. Le 5Stelle vogliono queste cose, i partiti esistenti le vogliono a parole ma non le hanno tradotte in fatti, perciò con loro non collaboreremo, ma accetteremo i loro voti se ce li daranno». Non importa da dove verranno? «No, non importa». Qual è stato il suo lavoro finora? «Ho fatto volontariato per servizi all’estero dove ci sono i caschi blu dell’Onu. Sono stato in Libano e anche in Kenya». Ed ora è un cittadino di 5Stelle. «Già e mi sembra molto coerente col mio lavoro». Non ha figli? «No, non ancora». Un personaggio storico che sente vicino? «Direi Papa Giovanni ma adesso la saluto, sento suonare il campanello, si vota ». Lei è credente? «Lo sono a modo mio» e se ne andò correndo verso l’ingresso dell’aula.

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Poche ore dopo le due Assemblee parlamentari hanno eletto i loro Presidenti, Laura Boldrini alla Camera e Pietro Grasso al Senato. Bello il discorso di insediamento della Boldrini, bellissimo quello di Grasso, la cui elezione è stata tanto più importante perché resa più solida dall’apporto di dodici voti provenienti dai neo-senatori del Movimento 5Stelle. Era un fatto atteso da alcuni e del tutto imprevisto da molti altri. Non è la rottura del gruppo grillino ma il segnale di una sua evoluzione che potrebbe rendere costruttivamente utile l’inserimento di quel gruppo nelle istituzioni.
Pierluigi Bersani ha avuto l’intuizione di candidare alla presidenza delle due assemblee parlamentari due personaggi del tutto nuovi alla politica e il Partito democratico, anch’esso fortemente rinnovato nella sua rappresentanza, ha risposto con apprezzabile compattezza. Questo risultato non risolve il problema del governo ma segna comunque una tappa essenziale verso una discontinuità che sia creativa e serva ad un cambiamento profondo dell’etica pubblica e della solidarietà sociale.
Nel suo discorso subito dopo l’elezione Pietro Grasso ha ricordato alcuni nomi di riferimento: Aldo Moro, del cui rapimento ricorreva ieri la data; il suo punto di riferimento nel palazzo di giustizia di Palermo, Antonino Caponnetto; la moglie di uno degli agenti di scorta caduti con Falcone nella strage di Capaci ed ha inviato il saluto di tutto il Senato a Papa Francesco che appena poche ore prima aveva evocato una Chiesa povera a servizio dei poveri. A ciascuno di quei nomi l’intera assemblea ha tributato in piedi lunghi e intensi applausi. Purtroppo c’era nell’aula un settore dell’emiciclo semivuoto e non è stato bello vedere quelle assenze.
L’ultimo e forse e più prolungato applauso è stato per Giorgio Napolitano, la cui presenza istituzionale in questa vicenda è stata decisiva. Senza il suo intervento che ha fermato l’iniziativa di Mario Monti di candidarsi al Senato abbandonando il governo in un momento di particolare delicatezza economica e sociale, non potremmo celebrare oggi il risultato positivo che si è verificato.
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Può darsi che ora dopo le consultazioni che avverranno al Quirinale a partire dal 20 prossimo, un governo Bersani possa formarsi con la solidità necessaria, ma può darsi anche di no, nel qual caso spetterà al Capo dello Stato nominare un nuovo governo che possa riscuotere un ampio e solido consenso parlamentare.
Credo che non debba esser composto da professionisti della politica ma da persone tratte dalla società civile con le necessarie competenze che ogni governo richiede: economiche, giuridiche, culturali.
Nel frattempo i partiti debbono profondamente trasformarsi diventando o ri-diventando strutture di servizio della società, canali di comunicazione tra i cittadini e le istituzioni, tra i legittimi interessi particolari e quello generale del quale tutte le istituzioni a cominciare dallo Stato debbono essere portatrici.
Elezioni ravvicinate non sono un bene per questo Paese; comporterebbero un prolungato periodo di incertezza che aggraverebbe oltremodo la nostra posizione in Europa con le relative conseguenze sulla nostra già disastrata economia. Un governo solido è dunque estremamente auspicabile e spetta soprattutto al centrosinistra renderlo possibile.

La Repubblica 17.03.13

“Le mani in tasca”, di Massimo Gramellini

Uno vale uno, ma uno non vale l’altro. Messo di fronte alla scelta, onestamente non così difficile, fra Piero Grasso e Renato Schifani, l’apriscatole di Grillo si è un po’ inceppato. Intendiamoci. Sempre meglio dell’encefalogramma piatto dei montiani.
Le urla che uscivano dalla sala in cui i senatori Cinquestelle stavano discutendo il loro voto sono la musica della democrazia. Ma al momento della sintesi mi sarei aspettato che il buonsenso prevalesse sul pregiudizio, il pragmatismo sull’ideologia. Invece la maggioranza del gruppo che vuole aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno è rimasta fedele al suo Nostromo. Perché un vero rivoluzionario non scende a patti con il Sistema, meno che mai quando il Sistema, per blandirlo, gli mostra il proprio volto migliore: un procuratore Antimafia, una portavoce dell’Onu.
Il punto è proprio questo: l’elettore di Grillo ha votato Cinquestelle per distruggere il Sistema oppure per rinnovare il cast degli interpreti? Se fosse vera la seconda ipotesi, quella di ieri sarebbe stata la sua vittoria, dato che senza il cambio di clima imposto dal trionfo del movimento, oggi ai vertici dello Stato non siederebbero Grasso e Boldrini, e invece dell’effetto Francesco sul conclave della Repubblica si sarebbe abbattuto l’effetto Franceschini. Immagino che quell’elettore sarà rimasto perplesso nel vedere un leader che grida ai politici «Arrendetevi» imporre ai suoi parlamentari la scheda bianca: il colore della resa. La democrazia è scelta, anche del meno peggio. E’ contaminazione. Diceva don Milani: a che serve avere le mani pulite, se poi si tengono in tasca?

da La Stampa del 17 marzo 2013

Discorso della Presidente della Camera dei Deputati Laura Boldrini

Care deputate e cari deputati, permettetemi di esprimere il mio più sentito ringraziamento per l’alto onore e responsabilità che comporta il compito di presiedere i lavori di questa Assemblea. Vorrei, innanzitutto, rivolgere il saluto rispettoso e riconoscente di tutta l’Assemblea e mio personale al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano (Generali applausi – I deputati si levano in piedi), che è custode rigoroso dell’unità del Paese e dei valori della Costituzione repubblicana.
Vorrei, inoltre, inviare un saluto cordiale al Presidente della Corte costituzionale e al Presidente del Consiglio. Faccio a tutti voi i miei auguri di buon lavoro, soprattutto ai più giovani, a chi siede per la prima volta in quest’Aula (Applausi).
  Sono sicura che, in un momento così difficile per il nostro Paese, insieme riusciremo ad affrontare l’impegno straordinario di rappresentare nel migliore dei modi le istituzioni repubblicane.
  Vorrei rivolgere, inoltre, un cordiale saluto a chi mi ha preceduto, al Presidente Gianfranco Fini, che ha svolto con responsabilità la sua funzione istituzionale (Applausi).
  Arrivo a questo incarico dopo avere trascorso tanti anni a difendere e a rappresentare i diritti degli ultimi, in Italia come in molte periferie del mondo. È un’esperienza che mi accompagnerà sempre e che da oggi metto al servizio di questa Camera. Farò in modo che questa istituzione sia anche il luogo di cittadinanza di chi ha più bisogno (Applausi).
  Il mio pensiero va a chi ha perduto certezze e speranze. Dovremo impegnarci tutti a restituire piena dignità a ogni diritto. Dovremo ingaggiare una battaglia vera contro la povertà, e non contro i poveri. In questa Aula sono stati scritti i diritti universali della nostra Costituzione, la più bella del mondo. La responsabilità di questa istituzione si misura anche nella capacità di saperli rappresentare e garantire uno a uno. Questa Aula dovrà ascoltare la sofferenza sociale di una generazione che ha smarrito se stessa, prigioniera della precarietà, costretta spesso a portare i propri talenti lontano dall’Italia (Applausi).
  Dovremo farci carico dell’umiliazione delle donne che subiscono violenza travestita da amore (Prolungati applausi), ed è un impegno che fin dal primo giorno affidiamo alla responsabilità della politica e del Parlamento.
  Dovremo stare accanto a chi è caduto senza trovare la forza o l’aiuto per rialzarsi, ai tanti detenuti che oggi vivono in una condizione disumana e degradante (Applausi), come ha autorevolmente denunziato la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo.
  Dovremo dare strumenti a chi ha perso il lavoro o non lo ha mai trovato, a chi rischia di smarrire perfino l’ultimo sollievo della cassa integrazione, ai cosiddetti esodati, che nessuno di noi ha dimenticato (Applausi), ai tanti imprenditori che costituiscono una risorsa essenziale per l’economia italiana (Applausi) e che oggi sono schiacciati dal peso della crisi, alle vittime del terremoto e a chi subisce ogni giorno gli effetti della scarsa cura del nostro territorio (Applausi).
  Dovremo impegnarci per restituire fiducia a quei pensionati che hanno lavorato tutta la vita e che oggi non riescono ad andare avanti (Applausi).
  Dovremo imparare a capire il mondo con lo sguardo aperto di chi arriva da lontano, con l’intensità e lo stupore di un bambino, con la ricchezza interiore e inesplorata di un disabile.

In Parlamento sono stati scritti questi diritti, ma sono stati costruiti fuori da qui, liberando l’Italia e gli italiani dal fascismo (Prolungati applausi).

Ricordiamo il sacrificio di chi è morto per le istituzioni e per questa democrazia. Anche con questo spirito siamo idealmente vicini a chi oggi a Firenze, assieme a Luigi Ciotti, ricorda tutti i morti per mano mafiosa (Prolungati applausi). Al loro sacrificio ciascuno di noi e questo Paese devono molto. E molto, molto, dobbiamo anche al sacrificio di Aldo Moro e della sua scorta (Applausi), che ricordiamo con commozione oggi, nel giorno in cui cade l’anniversario del loro assassinio.
  Questo è un Parlamento largamente rinnovato. Scrolliamoci di dosso ogni indugio nel dare piena dignità alla nostra istituzione, che saprà riprendersi la centralità e la responsabilità del proprio ruolo. Facciamo di questa Camera la casa della buona politica (Applausi), rendiamo il Parlamento e il nostro lavoro trasparenti, anche in una scelta di sobrietà che dobbiamo agli italiani (Prolungati applausi).
  Sarò la Presidente di tutti, a partire da chi non mi ha votato. Mi impegnerò perché la mia funzione sia luogo di garanzia per ciascuno di voi e per tutto il Paese. L’Italia fa parte del nucleo dei fondatori del processo di integrazione europea. Dovremo impegnarci ad avvicinare i cittadini italiani a questa sfida, a un progetto che sappia recuperare per intero la visione e la missione che furono pensate con lungimiranza da Altiero Spinelli (Applausi). Lavoriamo perché l’Europa torni ad essere un grande sogno, un crocevia di popoli e di culture, un approdo certo per i diritti delle persone, appunto un luogo della libertà, della fraternità e della pace.
  Anche i protagonisti della vita spirituale e religiosa ci spronano ad osare di più. Per questo abbiamo accolto con gioia i gesti e le parole del nuovo pontefice (Generali applausi), venuto emblematicamente dalla fine del mondo.
  A Papa Francesco il saluto carico di speranza di tutti noi.
  Consentitemi un saluto anche alle istituzioni internazionali, alle associazioni e alle organizzazioni delle Nazioni Unite, in cui ho lavorato per 24 anni, e permettetemi, visto che questo è stato fino ad oggi il mio impegno, un pensiero per i molti, troppi morti senza nome che il nostro Mediterraneo custodisce (Applausi). Un mare che dovrà sempre più diventare un ponte verso altri luoghi, altre culture, altre religioni.
  Sento forte l’alto richiamo del Presidente della Repubblica sull’unità del Paese. Un richiamo che quest’Aula è chiamata a raccogliere con pienezza e convinzione. La politica deve tornare ad essere una speranza, un servizio, una passione (Prolungati applausi).
  Stiamo iniziando un viaggio, oggi iniziamo un viaggio: cercherò di portare, assieme a ciascuno di voi, con cura e umiltà, la richiesta di cambiamento che alla politica oggi rivolgono tutti gli italiani, soprattutto i nostri figli. Grazie (Vivi e prolungati applausi).

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"Dal cappio all’apriscatole. Le provocazioni in Aula", di Tonu Jop

Come in una sorta di sbilenco calendario cinese, eccoci giunti – se i segni del tempo non mentono come gli uomini – nell’era dell’Apriscatole. L’hanno inaugurata ieri sui banchi del Senato i portabandiera della new wave grillina che hanno provveduto a installare con pazienza didascalica un messaggio destinato ai posteri. L’immagine, poi, ha fatto il giro del web e ha certamente superato i confini del piccolo mondo antico che si chiama Italia. Un robusto apriscatole, affidabile, e accanto una spilletta del Movimento Cinque Stelle; il tutto, adagiato sul legno abusato dell’aula di Palazzo Madama; sul fondo, gradinate e figure, ombre di senatori.
Tre i firmatari di questo chiodo simbolico, con nome e cognome: Maurizio Buccarella, Barbara Lezzi e Daniela Donno. Su Facebook, dove hanno postato l’installazione, hanno scritto: «In tre dal Salento, con l’apriscatole in Senato». Una tenera cartolina per parenti e amici e sodali, spedita da un fronte sfavillante dove pare che la guerra non sia, che il Paese non sia in rotta, che chi non ha non sia condannato al sesto grado dell’esistenza. Curioso: in questa «guerra» all’implosione del Paese e alla povertà, il fronte è il luogo più dolce e garantito. L’inferno semmai abita le retrovie, lontano dagli stucchi, dai premurosi commessi, dalle telecamere, dalle interviste negate, dal teatro neoclassico delle verginità negate messo in scena dalle truppe grilline davanti all’allibito pubblico della sinistra.
Per questo, il messaggio Cinque Stelle porta con sé una bella voglia di gioco liceale, la comunicazione di una eccitazione da primo giorno di scuola che surclassa la tensione dei programmi, degli esami, delle lezioni da recuperare. Ci penseranno più avanti, adesso è il momento felice dell’Apriscatole. Nel nome e per conto del Capo. Perché è lui che li ha benedetti al grido: «Apriremo il Parlamento come una scatola di tonno», è lui che li ha messi sulla strada giusta e vien da ridere al pensiero che si stia qui a raccontare e a dare un senso meno scolastico a un evento chiuso in una cartolina spensierata spedita dai banchi della seconda Assemblea del Paese.
Il progetto politico è aprire il Parlamento come una scatola di tonno, il Capo non è lì con loro ma vogliono si sappia che sono con lui e con il suo spirito; sono loro l’anonimo Apriscatole, gli umili servitori della nuova era che cancellerà partiti e sindacati, destra e sinistra, giornali e tv che non si arrendono a questo abbagliante «Sturm und Drang» ornato di nuovi altari, dedito a nuove divinità.
LA RASTRELLIERA DEGLI ARNESI
Tuttavia, il nuovo rappresentato da quel semplice utensile domestico trova immediatamente posto nella sintetica ma significativa rastrelliera di oggetti di consumo chiamati nella prima scena del Paese a nuova soggettività, spinti dal bisogno di marcare altrettanto nuovi valori e nuovi simboli. Oggetti che la storia recente del Parlamento ha provveduto a sistemare in bacheca con infinita pazienza. E questa docilità rispetto alla classificazione del gesto, più che fratture sembra accreditare una fastidiosa circolarità della storia, una lettura della nostra vicenda istituzionale chiusa nella ruota di un irrefrenabile criceto.
Era il 16 marzo 1993, quando un poderoso rappresentante della Lega di Bossi armato di un doppio cognome degno di un re, Luca Leoni Orsenigo, tenne a battesimo sui banchi di Montecitorio l’Era del Cappio. Anche allora pareva si fosse all’alba di un mondo nuovo e al tramonto di una scena decrepita. Stava esplodendo Tangentopoli, un pugno di magistrati stava mettendo a nudo il verminaio custodito dietro le quinte del grande affare e della politica. Leoni Orsenigo, esultante, mostrò il cappio in aula. Uno strumento di morte, la forma di una condanna estrema senza civiltà e senza pietà, testimone, così doveva essere, di una tagliente morale che avrebbe fatto giustizia, finalmente.
IL NODO SCORSOIO
Nel ‘96, l’uomo del cappio si dimise dalla Lega, adesso vive la sua vita lontano dalla politica attiva; la Lega, annega tra gli scandali e le furberie da retrobottega; Bossi, divelto da una manovra degna dei «lunghi coltelli», ora accusa il fido Maroni di avere «un culo troppo grande» per una sola sedia. Ma l’eco di quella immagine tenebrosa e minacciosa tessuta dalla canapa e intrecciata da un nodo scorsoio, tenne a lungo. Finché, il 24 gennaio del 2008, un senatore della destra più severa dal cognome romantico pensò che fosse venuto il suo momento all’alba di un fragoroso tonfo, la caduta del governo Prodi.
Minato da una vigorosa compravendita di parlamentari che ne avevano fracassato l’esile ossatura, quel governo del centrosinistra crollò e Nino Strano, il nostro uomo del destino, tenne a battesimo l’Era della Mortadella. Sui banchi del Senato, stappò spumante e ingollò mortadella a fette intere facendole scendere lentamente nella bocca. Si erano divertiti a ridurre la figura di Romano Prodi, bolognese sorridente ed estimatore della celebre «mortazza», fino ad insaccarla: era Prodi la Mortadella.
Strano, nel 2011, è stato condannato in Appello a due anni e sei mesi per abuso d’ufficio e violazione della legge elettorale. Sia benedetto il Grande Apriscatole.

L’Unità 16.03.13