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Laura Boldrini: facciamo di questa Camera la casa della buona politica

Laura Boldrini è la nuova Presidente della Camera. E’ stata eletta con 327 con voti, cioè la maggioranza assoluta. Roberto Fico del M5s si è fermato a 108 preferenze. Le schede bianche sono state 155, le nulle 10 e i voti dispersi 18. I votanti sono stati 618. è la terza donna nella storia della Repubblica ad essere eletta alla presidenza della Camera.
Prima di lei solo Nilde Jotti, parlamentare del Pci e Irene Pivetti, eletta con la Lega.
Eletta nelle file di Sel, Boldrini arriva a Montecitorio dopo essere stata per 14 anni portavoce dell’Alto commissariato Onu per i Rifugiati (Unhcr).
Nata a Macerata il 28 aprile 1961, si laurea in Giurisprudenza a Roma nel 1985 e dopo una breve esperienza in Rai, inizia nel 1989 la sua carriera all’Onu, lavorando per quattro anni alla Fao. Dal 1993 al 1998 si occupa del Programma alimentare mondiale (Pam) come portavoce per l’Italia. Dal 1998 al 2012 è portavoce dell’Unhcr, per il quale ha coordinato anche le attivià di informazione in Sud-Europa. Si è occupata in particolare dei flussi di migranti e rifugiati nel Mediterraneo, e ha svolto numerose missioni in aree di crisi, tra cui ex Jugoslavia, Afghanistan, Pakistan, Iraq, Iran, Sudan, Caucaso, Angola e Ruanda.

Ricoprire la terza carica dello Stato è finora l’incarico istituzionale più alto raggiunto in Italia da una donna.

www.partitodemocratico.it

"I dati del Paese che non può più aspettare", di Fabrizio Forquet

La distinzione tra Paese reale e Paese legale appartiene al dna dell’Italia. Stato unitario nato tardi, con istituzioni deboli, minoritarie, lontane dai cittadini. Ma in giornate come quella di ieri la distanza si allarga fino a diventare una voragine. Un buco nero che rischia di inghiottire il futuro stesso del Paese.

Al Senato e alla Camera la macchina della politica ha girato a vuoto, tra votazioni senza possibili esiti positivi e, soprattutto, nessuna ipotesi di accordo tra forze politiche divise da un’incomunicabilità e un rancore senza precedenti. Fuori, nel Paese, nelle stesse ore 3.749 lavoratori venivano messi in esubero temporaneo all’Ilva, gli esercenti denunciavano un crollo del 50% nelle nuove aperture di attività commerciali, si assisteva all’ennesima revisione al ribasso delle previsioni del Pil.

Mai come in queste settimane è stata forte la percezione del rischio di una caduta senza ritorno dell’economia italiana. Lo dicono i dati della produzione industriale, che è tornata a diminuire a febbraio, con una contrazione record del 25,1% rispetto ai picchi pre-crisi. Le immatricolazioni di auto sono cadute ai livelli del 1979. Sono 70mila le imprese manifatturiere perse tra il 2007 e il 2012. Oltre 220mila i posti di lavoro bruciati nei soli mesi di novembre, dicembre, gennaio. La disoccupazione giovanile ha superato il 38 per cento. Le famiglie hanno visto contrarsi i redditi pro-capite di 3mila euro fino a tornare ai livelli del ’97. Un’ulteriore riduzione dei consumi è in arrivo, gli ordinativi delle imprese sono in calo e si teme una terza ondata di credit crunch.

Non ci si può permettere, in questa situazione, di non essere governati. Nessuno ha la bacchetta magica. Ma un esecutivo in grado politicamente di agire potrebbe, per esempio, sbloccare immediatamente almeno una quota di quei 100 miliardi di crediti che le imprese vantano con la pubblica amministrazione. Una boccata d’ossigeno fondamentale per aziende strozzate da una liquidità che ormai non circola più a nessun livello.

Ecco perché l’economia reale non può aspettare il Paese legale. Non perché le votazioni di ieri sono «costate 420mila euro», come ha osservato la capogruppo dei grillini alla Camera (sarebbero soldi ben spesi, se la democrazia funzionasse). Ma perché le centinaia di migliaia che contano davvero sono i lavoratori che perdono il posto e le imprese che chiudono mentre si attendono le schermaglie dei partiti. E questa volta i Cinque stelle sono dentro, non fuori dal Palazzo. Sono dentro e sono forse la forza più attiva nel determinare – cinicamente – lo stallo, senza alcuna responsabilità per le esigenze di quel Paese reale da cui si vantano di provenire.

Il Sole 24 Ore 16.03.13

"La lezione di Aldo Moro", di Roberto Gualtieri

Questo trentacinquesimo anniversario del rapimento di Aldo Moro cade in un momento particolarmente delicato della vicenda storica della democrazia italiana. Un momento di crisi che sollecita una riflessione sull’eredità della figura e dell’opera dello statista pugliese e sul significato storico-politico della sua tragica fine. Una riflessione che trascenda i confini del cosiddetto «caso Moro» e si misuri con la parabola complessiva del suo impegno politico. Liberando il prigioniero dalle mura di un carcere che si è proiettato nell’immaginario e nella storiografia in una duplice forma: da un lato con la rimozione della sua azione di statista e di dirigente, oscurata o banalizzata dalla preponderante storiografia sui “misteri” del suo assassinio. Dall’altro con la distruzione morale della sua figura operata dalle Brigate Rosse attraverso la sapiente manipolazione delle sue lettere e la capacità di affer- mare, come ha rilevato Miguel Gotor, l’interpretazione tendenziosa di una «casta» politica (termine in voga presso le Br) che rese inevitabile l’uccisione Moro perché si rifiutò di trattarne la liberazione per ragioni di lotta politica interna.

Al contrario, una adeguata «intelligenza storica» verso la politica e la riflessione di Moro offrirebbe strumenti analitici e concettuali preziosi per com- prendere alcuni caratteri di fondo della crisi della democrazia italiana. Certo, occorre sottrarsi al rischio di analogie e parallelismi affrettati con la situazione odierna, che risultano incoraggiati anche dall’inquietante riemergere nel discorso pubblico attuale e nella dilagante critica contro la democrazia dei partiti di stilemi e di analisi tipici del «partito armato» e del suo allora amplissimo fronte di fiancheggiatori politici e intellettuali. Piuttosto, andrebbe recuperato in tutta la sua densità storico-politica il concetto moroteo di «democrazia difficile».

Da un lato, come prisma attraverso cui comprendere le ragioni di fondo del-e tensioni che attraversavano il sistema politico e che riflettevano la fragilità della nazione italiana e la radicata ostilità di gran parte delle sue classi dirigenti verso il sistema democratico, contribuendo a «condannare» la Dc a una faticosa centralità dovuta alla «impossibilità di una alternativa». Dall’altro lato, come sforzo di inclusione politica e sociale incentrato sul parlamento e volto a superare i limiti derivanti da quella impossibilità, rispettandone al tempo stesso rigorosamente i confini e i vincoli di natura interna e internazionale.

La laboriosa «apertura a sinistra» che portò al centro-sinistra fu la prima espressione di quel metodo e di quell’impianto analitico, che poi di fronte al terremoto politico e sociale esploso nel ’68 si misurò in una ancora più impegnativa «strategia dell’attenzione». Una «attenzione» rivolta al partito comunista pur nella «impossibilità di una comune gestione del potere», ma anche ai fermenti e le proteste giovanili che esprimevano i «tempi nuovi» e in ogni caso testimoniavano «l’immissione della linfa vitale dell’entusiasmo, dell’impegno, del rifiuto dell’esistente propri dei giovani», che «nella società, nei partiti e nello Stato è una necessità vitale».

Di fronte al precipitare della crisi, l’attenzione verso il Pci divenne «uno sforzo di salvezza, il quale non può essere altro che uno sforzo di solidarietà nazionale». Una operazione resa difficile dal fatto che la convergenza richiedeva al tempo stesso «una certa rigidezza, una certa delimitazione di confini (…) che lascia ancora distanti le sponde che pure si vorrebbe avvicinare».

Quel delicato esperimento politico contribuì a salvare la democrazia italiana ma non sopravvisse alle tensioni che lo avevano reso indispensabile e alle resistenze che aveva generato, mentre l’uccisione di Moro rese ancora più insuperabili i già fortissimi ostacoli ad una evoluzione del sistema politico lungo le linee di una moderna democrazia dell’alternanza. Ciò concorse ad attribuire alla transizione italiana quei caratteri peculiari che ancora oggi rendono problematico un suo approdo di tipo europeo. Di fronte a questa persistente difficoltà, una riflessione adeguata sulla figura di Aldo Moro che si affranchi dalle interpretazioni dominanti della storia dell’Italia repubblicana incentrate sulle nozioni di «partitocrazia» e «consociativismo» sarebbe dunque di grande utilità. Contribuendo a superare i limiti che hanno caratterizzato la cultura politica della seconda repubblica, e ponendo delle fondamenta più solide allo sforzo e alla battaglia per edifica- re una nuova stagione della nostra democrazia.

L’Unità 16.03.13

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“Guai se la politica perde la virtù Ce l’ha insegnato Aldo Moro”, di Pierluigi Castagnetti

A trentacinque anni dalla strage di Via Fani non avere mai seriamente messo mano a quell’infragilimento istituzionale che l’evento ha rivelato e determinato, è in gran parte alla base della difficoltà dei nostri giorni

È oggi il trentacinquesimo anniversario della strage di via Fani e dell’inizio della prigionia di Aldo Moro, per mano delle Brigate rosse. Se né è giustamente fatta memoria ieri in parlamento all’apertura della prima seduta di una legislatura difficile e per molti aspetti politicamente “angosciante”.

Il ricordo che come ogni anno anche noi ripetiamo su Europa, ha oggi un sapore diverso: non c’è nulla di retorico o di abitudinario, ma solo la consapevolezza che la nostra democrazia da allora, soprattutto da allora, ha dovuto superare ostacoli e sfide sempre più complessi. Trentacinque anni di tensioni nella vita della repubblica sono tanti e i segni del logoramento sono sempre più visibili.

L’esaurimento della prima repubblica, la fine del comunismo, tangentopoli, Maastricht e l’euro, la scomparsa di tutti i partiti che avevano scritto la Costituzione, il leghismo, Berlusconi e il berlusconismo, la nascita dell’Ulivo, la faticosissima traversata nella crescente arsura valoriale del deserto del primo decennio del nuovo secolo, la tribolata costruzione del Partito democratico, la fine della Seconda repubblica e l’esplosione della perdita di credibilità del “sistema” schiacciato dal peso esorbitante di una crisi finanziaria globale. E, in questi giorni, le prime forme di strutturazione politica della rabbia sociale che ha fatto irruzione nel parlamento sino a determinare la paralisi istituzionale che è sotto i nostri occhi.

Non avrebbe alcun senso fare risalire questa lunga concatenazione di eventi a quel lontano 16 marzo 1978, eppure si può osservare che non avere mai seriamente messo mano al drammatico infragilimento istituzionale che quel lontano evento aveva in parte rivelato e in parte determinato, è in gran parte alla base della difficoltà di questi nostri giorni.

Non ha neppure tanto senso ricercare nel magistero di Aldo Moro soluzioni a problemi che appartengono a una stagione molto distante dalla sua. Da Moro si può invece assumere la sua concezione della politica, intesa in primo luogo come responsabilità e dovere («senza un nuovo senso del dovere questo paese non si salverà»), come capacità di disegnare il futuro, come arte di costruire convergenze e mediazioni, come educazione all “amore” dello stato senza scivolare nella statolatria, come rispetto delle diversità, come religione della misura e del buon senso. Insomma, la politica come virtù e non come fredda servitù. Certo, la politica non è esercizio per anime belle, anzi spesso è forza e scontro, ma guai se perde la virtù, cioè il suo senso. Ricercarne il bandolo è forse l’impresa più difficile e ineludibile oggi.

da Europa Quotidiano 16.03.13

"Diario di una matricola", di Michela Marzano

“Deputata o cittadina?” Mi volto per capire se stanno veramente parlando con me. Poi, senza fare troppa attenzione, rispondo in automatico: “Entrambe le cose, perché?”. Risposta sbagliata! La giornalista si volta e se ne va via senza aggiungere altro. Oggi, chiunque non sia del M5S non interessa alla stampa. Si precipitano in massa sui volti nuovi, ma il nuovo, ormai, ha anche lui un’etichetta. E chi non è M5S, per definizione, è vecchio. Meglio così, almeno avrò il tempo di capire dov’è l’aula, dove mi devo sedere, cosa devo fare. Poco prima di realizzare che, il primo giorno, i posti non sono stati ancora assegnati e posso sedermi dove voglio. Ma dove voglio sedermi? Un attimo di incertezza, poi entro spedita in aula: come potevo avere dubbi? È ovvio che il mio posto è in alto a sinistra. La seconda risposta sbagliata della giornata! Tutte le ultime file sono già occupate dai colleghi del M5S entrati compatti poco prima. A differenza di molti neo-eletti che vagano un po’ persi alla ricerca di un viso amico, loro di certezze ne hanno tante. Giacca e cravatta per gli uomini, tacco 12 per le donne, si muovono in gruppo, decidono in gruppo, si siedono in gruppo, applaudono in gruppo, snobbano in gruppo. Il resto non conta. Anche se nei corridoi si respira un’aria di tempesta.
Chissà dove la trovano tutta questa sicurezza!

La Repubblica 16.03.13

"Non sparate sull'Europa", di Tito Boeri

Questo vertice europeo verrà da noi ricordato, più che per le sue conclusioni, per il testamento politico lasciato da Mario Monti ai leader europei.
Il loro sostegno non lo ha certo aiutato in una campagna elettorale in cui è stato spesso agitato lo spauracchio da lui stesso evocato due anni fa, quello di un podestà straniero, di una nostra perdita di sovranità. Il voto per Grillo e il risultato deludente di Scelta Civica sono stati anche espressione di un diffuso disagio europeo, una ribellione contro un pesante aggiustamento fiscale condotto proprio nel mezzo di una doppia recessione. Eppure le vere insidie alla nostra sovranità nazionale vengono dalla scarsa credibilità della nostra classe politica. Ed è molto grave che le trattative oggi per risolvere la crisi politica ignorino completamente il nostro ruolo nell’Unione perché per poter decidere di più in Italia dobbiamo contare dipiùinEuropa. Untemaricorrenteincampagna elettorale è stato quello secondo cui il nostro paese è governato da Angela Merkel, attraverso il fiscal compact, le regole fiscali che i paesi dell’Euro si sono dati. In verità i vincoli di bilancio pubblico più stringenti ce li siamo inflitti noi stessi. È stato un nostro governo (guidato da Berlusconi) a imporci di azzerare il deficit nel 2013 ed è stato il nostro Parlamento (l’anno scorso) ad introdurre un farraginoso, ma alquanto stringente, vincolo di bilancio in pareggio nella Costituzione. Nessuno ci aveva chiesto di fare tanto. Le regole fiscali europee, il fiscal compact, non implicano un bilancio in pareggio. Prendendo per buone le previsioni del governo nei prossimi tre anni e poi continuando di lì in poi a crescere come nel 2015, potremmo centrare gli obiettivi di rientro del debito anche con (modesti) disavanzi. Perché allora abbiamo voluto legarci le mani? Per un problema di credibilità. Meno credibili i nostri governi, e la nostra credibilità era ai minimi sotto Silvio IV, più stringenti gli impegni necessari a convincere gli investitori privati a comprare i nostri titoli di stato.
L’Europa, oltre ai vincoli che ci impone, offre anche molte opportunità. Basta saperle sfruttare. È una direttiva europea, dopotutto, quella che impone alle amministrazioni pubbliche di pagare i fornitori entro 30 giorni. Colpisce la casta che impone ai cittadini e alle imprese di pagare le imposte, talvolta addirittura in anticipo e retroattivamente, e poi razzola malissimo quando è lei stessa ad essere debitrice. In nome di questa direttiva, dovremmo ora ottenere il sostegno a livello europeo per una liquidazione più rapida possibile dello stock di debito commerciale della PA, ottenendo l’assistenza tecnica della Commissione in modo tale da neutralizzarne gli effetti sulle regole fiscali europee. Presentando l’operazione come una scelta di trasparenza, sostenuta dall’Europa, non avrebbe certo effetti sulla percezione del rischio paese, nonostante comporti un aumento del debito pubblico di circa 4 punti e mezzo di pil. Immetterebbe nel nostro sistema economico fino a 67 miliardi di quella liquidità che oggi non viene fornita dalle banche alle imprese.
Altro esempio: pur in un bilancio ridotto, l’Unione oggi offre, in aggiunta ai finanziamenti del Fondo Sociale Europeo, 6 miliardi da qui al 2020 per imprecisate iniziative a favore dei giovani in aree caratterizzate da una disoccupazione giovanile superiore al 25 per cento. Il nostro paese purtroppo vanta anche un altro triste primato, quello del più alto rapporto fra disoccupazione giovanile e disoccupazione per le altre fasce di età, indice di una concentrazione del rischio di perdere o di non trovare lavoro tra chi ha meno di 25 anni. Perché allora non chiedere il cofinanziamento europeo di un sussidio condizionato all’impiego che beneficerebbe soprattutto i più giovani? Potremmo prendere spunto dal programma Aufstocker tedesco, coprendo la differenza fra il salario orario netto effettivamente percepito e 5 euro. Questa misura dovrebbe essere accompagnata, per evitare abusi, alla definizione di un salario minimo orario. In altre parole, lo Stato pagherebbe di fatto la differenza fra il salario minimo e 5 euro. È una misura che ha dei costi non indifferenti (tra i 3 e i 4 miliardi di euro), ma che dovrebbe far emergere sommerso e creare lavoro soprattutto fra i giovani, contribuendo in parte al suo finanziamento. E potrebbe, almeno in parte, essere finanziata dall’Unione e per il resto impiegando in modo più efficiente una parte di quei 7 miliardi che ogni anno destiniamo alle politiche attive del lavoro. Non abbiamo, in ogni caso, l’infrastruttura necessaria per attuarle su vasta scala e quando mancano i lavori piuttosto che i lavoratori, le politiche che attivano i disoccupati servono a ben poco.
Per ottenere questi risultati e utilizzare sapientemente la flessibilità che i vincoli europei ci consentono, ci vuole però un esecutivo in grado di prendere impegni ben più lunghi di qualche settimana. Dopo le elezioni tedesche in autunno, un governo italiano nel pieno delle sue funzioni potrà anche giocare un ruolo importante nel fare avanzare l’Unione Europea nell’unica direzione possibile, quella di una maggiore legittimazione democratica delle sue istituzioni sovranazionali. Non è infatti più possibile affidarsi solo alla tecnocrazia della Bce nel gestire la politica economica su scala europea. Abbiamo bisogno di più politica fiscale gestita a livello sovranazionale e, in questo caso, non è pensabile farlo affidandosi a organismi che non abbiano una qualche investitura democratica. I tecnici devono gestire le autorità di controllo, a partire dal Fiscal Council che vigilerà sul rispetto delle regole fiscali comuni, ma è sbagliato pensare che un esecutivo comunitario che gestisce un bilancio comune non sia eminentemente un organismo di tipo politico. Il problema è la scala, nazionale o sovranazionale, sulla quale l’operato di questi politici viene valutato. Significativo il fatto che il Parlamento europeo abbia mercoledì scorso, per la prima volta nella storia, bocciato un bilancio europeo pluriennale, frutto di un accordo intergovernativo pilotato da Germania e Regno Unito, in nome della coesione dell’Unione. Bene allora creare occasioni di investitura sovranazionale di leader europei. Una campagna elettorale europea per eleggere il Presidente dell’Unione, avrebbe il vantaggio di rendere ancora più evidenti agli elettorati nazionali le interazioni economiche fra i diversi paesi, oltre che quelle fra i politici europei. Tra gli effetti di una crescente differenza negli andamenti delle diverse economie europee, c’è anche la forte crescita dei flussi migratori verso la Germania, aumentati di 4 volte dal 2007 in poi. Risiedono per l’80 per cento in diversione diimmigrati extracomunitari che fuggono da Italia, Grecia e Spagna. E aumentano ogniqualvolta lo spread si allarga. L’opinione pubblica tedesca, memore dell’esperienza dell’unificazione, sa bene quanto forti siano le pressioni migratorie quando ci sono aree che hanno differenze di reddito marcate e scarse prospettive di convergenza economica e quando c’è un gran numero di immigrati in altri paesi dell’Unione pronto a spostarsi altrove sfruttando le frontiere comuni. È un ricordo che andrà ravvivato quando si tratterà di fare i primi passi verso quella politica fiscale sovranazionale nell’area dell’Euro di cui proprio non si può fare a meno.

La Repubblica 16.03.13

"La scuola del M5S", di Girolamo De Michele

Cosa succederebbe nel mondo della scuola se i programmi di Grillo e del M5S venissero realizzati?
Facciamo un esperimento mentale, al netto delle contraddizioni interne, per cogliere i potenziali o reali strati di consenso ai quali il M5S punta.
Il programma del M5S, alla voce “Istruzione”, prevede in sintesi: abolizione della legge Gelmini, abolizione dei finanziamenti alla scuola privata, abolizione del valore legale del titolo di studio, restituzione alla scuola pubblica degli 8 miliardi tagliati, didattica a distanza (e-learning), più internet per tutti, valutazione degli insegnanti da parte degli studenti.

A questo Grillo, nel post “Gli italiani non votano mai a caso” del 26 febbraio [ qui] aggiunge la proposta di abolire stipendi ai pubblici dipendenti sostituendoli con un reddito di cittadinanza (oscillante, stando a quanto dichiarato in campagna elettorale, tra 800-1.000 € al mese):

Ogni mese lo Stato deve pagare 19 milioni di pensioni e 4 milioni di stipendi pubblici. Questo peso è insostenibile, è un dato di fatto, lo status quo è insostenibile, è possibile alimentarlo solo con nuove tasse e con nuovo debito pubblico, i cui interessi sono pagati anch’essi dalle tasse. È una macchina infernale che sta prosciugando le risorse del Paese. Va sostituita con un reddito di cittadinanza.

È notevole che Grillo inserisca nel “blocco A” (assieme ai «ragazzi [che] cercano una via di uscita, vogliono diventare loro stessi istituzioni, rovesciare il tavolo, costruire una Nuova Italia sulle macerie»), «i piccoli e medi imprenditori che vivono sotto un regime di polizia fiscale e chiudono e, se presi dalla disperazione, si suicidano», mentre il “blocco B”, costituito «da tutti coloro che hanno attraversato la crisi iniziata dal 2008 più o meno indenni, mantenendo lo stesso potere d’acquisto», include «una gran parte di dipendenti statali»: dei quali dipendenti statali, una parte importante è costituita dai lavoratori della scuola.
Si potrebbe ipotizzare che Grillo, che già sembra ignorare che lo stipendio dei lavoratori della scuola è fermo al 2006, nel dichiarare che gli stipendi pubblici ammontino a 4 milioni al mese, abbia idee vaghe o inesatte sul pubblico impiego: in realtà gli stipendi pubblici sono circa 14 miliardi al mese (170 annui). Ma l’esattezza è un dettaglio: conta più far passare il messaggio che pubblici dipendenti, e quindi anche insegnanti e bidelli, siano tra i vecchi garantiti del “blocco B” che vogliono lo status quo e negano il futuro ai non garantiti del “blocco A”.

Andando a vedere oltre le parole, ci si accorge che alcune proposte sono semplici enunciazioni. Cosa vuol dire “abolizione della legge Gelmini”? Quale delle leggi di Gelmini? Il riordino dei cicli, e quindi tornare alla scuola secondaria superiore del 2008? La reintroduzione del maestro unico/prevalente nella scuola primaria? E delle riforme di Brunetta che incidono sulla dirigenza scolastica locale e territoriale che si vuol fare (posto che se ne abbia nozione)? E della riforma Moratti, sulla quale Grillo ironizzava un tempo nei suoi show, e che ora è scomparsa dai programmi elettorali? E dello spoil system che regolamenta i direttori scolastici regionali, che rimonta a Bassanini? Si intende restituire gli 8 miliardi da immettere nelle casse scolastiche dell’attuale sistema scolastico? Si vuol fare quel che si vuol fare con una terapia d’urto, o in modo graduale (quindi con un ciclo di studenti che continueranno a studiare nella scuola di Gelmini)? Tutto ciò, se non è dettagliato in modo concreto, equivale a un “vaffa Gelmini”: si può discutere se sia più efficace, come strategia elettorale, un “vaffa” piuttosto che un “se sta a noi” seguito da verbosissimi cani menati per l’aia dal programma della coalizione di Bersani, ma quanto a sostanza siamo lì.

Diversa, per concretezza, è l’abolizione del valore legale del titolo di studio, punto di programma condiviso dal Piano di Rinascita Democratica della Loggia P2 di Licio Gelli [verifica qui, al punto b1] e dalla Fondazione per la Sussidiarietà (ovvero Comunione e Liberazione) di Giorgio Vittadini in modo esplicito, in modo implicito da Gelmini (che aveva in Vittadini uno dei consiglieri): è il più grosso favore che può essere fatto alle scuole private, perché consente a qualunque soggetto privato di aprire un diplomificio deregolamentato. Se il prezzo da pagare è la rinuncia a 500 milioni, per le scuole private è un affare.
Vediamo perché.
Il sistema scolastico italiano stabilisce alcuni requisiti di base: numero minimo di ore, un certo numero di contenuti, soprattutto un certo elenco di cose che lo studente dovrebbe saper fare al termine degli studi (le cosiddette “competenze” e “capacità”). E ancora, a cosa serve la scuola: “scuola democratica”, o “costituzionale” significa formare all’esercizio attivo della cittadinanza. Sarà un caso, ma il programma elettorale del M5S era l’unico a non dire cos’è e cosa dovrebbe essere una scuola pubblica.
Il valore legale del titolo di studio è la garanzia che il percorso scolastico sia all’interno di questi parametri, per quanto declinati in modo da consentire una forte disparità tra le scuole private e quelle pubbliche (a favore delle private: vedi la possibilità di formare classi con soli 8 alunni). Chi apre una scuola privata non parificata deve sottoporsi a verifiche: ad esempio, i suoi studenti devono fare l’esame finale in una scuola pubblica. È una garanzia del cittadino, perché tutto questo costa molto di più di un corso di formazione, così come insegnare davvero l’informatica costa molto di più dell’insegnare l’uso di pacchetti di programmi predefiniti: la prima cosa è cittadinanza attiva, la seconda acquisizione passiva di nozioni.
Abolire il valore legale del titolo di studio significa in primo luogo abolire l’obbligo, per la scuola pubblica, di insegnare quelle competenze e contenuti: e, con i chiari di luna che corrono, significa sottoporre ancor di più la qualità insegnamento alla mannaia dei tagli di spesa. In secondo luogo, significa dare mano libera a chi crea scuole confessionali nelle quali non si forma la cittadinanza attiva: che ci sono già (vedi il metodo della “educazione secondo testimonianza” nelle scuole della Compagnia delle Opere/CL, o l’insegnamento del creazionismo in luogo dell’evoluzionismo), ma almeno oggi sono costrette entro certi vincoli, per quanto tenui. O scuole aziendali che promettono l’inserimento in azienda ai 18 anni, a scapito della formazione del futuro cittadino: e il modello in nuce, gli ITS creati in joint venture con Finmeccanica, c’è già.
L’abolizione del valore legale del titolo di studio equivale alla liberalizzazione dell’istruzione: quel modello anglosassone citato come esempio da Vittadini, Ichino (Andrea) e Checchi nel documento del 2008 in cui suggerivano a Gelmini di «collegare i risultati della valutazione [delle scuole] a misure di natura premiante o penalizzante per i budget delle singole scuole», tra le quali «reclutamento e rimozione degli insegnanti». Un modello che oggi sottoposto a critiche radicali perché ha portato alla formazione di poche scuole d’élite e alla catastrofe delle scuole pubbliche, soprattutto di quelle che non sono nel centro cittadino ma nelle periferie, nei quartieri di immigrati, ecc. E lo stesso accade in Francia e negli USA. Senza contare una peculiarità del sistema scolastico parificato italiano (uno dei rari paesi OCSE in cui ciò accade), dove le scuole private sono ben più scadenti di quella pubblica.

A ciò si aggiunga che il crollo degli stipendi degli insegnanti, dagli attuali 1.200 € in ingresso o in precariato ai 1.500 dopo 15 anni di carriera ai 1.000 del “reddito di cittadinanza”, e l’apertura di una pletora di diplomifici privati in grado di offrire più di quei 1.000 €, anche se con contratti a termine porterà a un’emorragia dal pubblico al privato degli insegnanti, scelti fior da fiore dai gestori delle scuole private con potere di sindacare (magari attraverso la “valutazione”) su stili di vita, orientamenti politici, religiosi e sessuali. Per non parlare dei diplomifici che venderanno neanche didattica reale, ma pacchetti di e-learning, in virtù della deregolamentazione consentita dall’abolizione del valore legale del titolo di studio.
E che dire dei migranti, il cui impegno scolastico non sarà garantito dal titolo di studio? I coccodrilli che davano il titolo al libro di Fabio Geda ed Enaiatollah Akbari non sono forse nel mare: ma esistono, hanno denti aguzzi e si preparano a cambiare referente politico.

da www.carmillaonline.com

Europa divisa sull’austerità «Rischio di rivolta sociale», di Marco Mongiello

Per far ripartire l’economia l’Unione europea deve autorizzare a calcolare fuori dai vincoli del Patto di Stabilità su deficit e debito gli investimenti produttivi e il saldo dei debiti della pubblica amministrazione con le imprese. È con questa richiesta che il premier Mario Monti, al suo ultimo vertice europeo, è arrivato ieri a Bruxelles per cercare di far breccia nel muro del rigore di bilancio, aiutato anche dal clima di protesta.
Mentre nell’edificio del Consiglio i ventisette capi di Stato e di governo dell’Ue discutevano del pessimo stato dell’economia, fuori oltre 15 mila manifestanti convocati dalla Confederazione dei sindacati europei (Ces) gridavano slogan contro l’austerità. Un centinaio ha anche occupato un edificio del dipartimento economico della Commissione ed è dovuta intervenire la polizia per convincerli ad uscire. C’è il rischio di una «rivolta sociale», ha ammonito il premier lussemburghese Jean-Claude Juncker.
ALLARME PIAZZE E URNE
Più della piazza però ad allarmare i leader europei sono le urne. Al vertice dei conservatori, che ha preceduto il summit, Monti ha raccontato la debacle della campagna elettorale italiana. Su Beppe Grillo «c’è preoccupazione», ha riferito Pier Ferdinando Casini, che ha partecipato alla riunione.
All’incontro del Partito popolare europeo non hanno partecipato invece né Berlusconi, per motivi di salute, né Angelino Alfano, per impegni alla Camera. I due sono stati rappresentati da Antonio Tajani, commissario Ue all’Industria e vicepresidente del Ppe. I popolari europei, che in campagna elettorale avevano puntato tutto su Monti ed erano pronti ad espellere Berlusconi per anti-europeismo, ora chiedono coinvolgere il Pdl in un governo di larghe intese. «Deploriamo che l’offerta fatta al Partito democratico per dare un governo stabile, democratico ed europeista all’Italia non sia andata a buon fine», ha dichiarato il portoghese Mario David, uno dei vicepresidenti del Ppe. «Il Pd ci ripensi», ha insistito, ammonendo che se si torna a votare tra tre o quattro mesi «Grillo non potrà che aumentare».
Le elezioni in Italia non sono che l’ultimo eclatante segnale che la politica dei risanamenti di bilancio a tappe forzate imposta da Bruxelles e Berlino ha conseguenze disastrose e Monti ha invitato i leader conservatori a «riflettere in positivo e in negativo sul caso italiano, perché al di là dell’importanza dell’Italia, si presta a riflessioni più generali». Parole molto simili a quelle utilizzate dal presidente socialista dell’Europarlamento, il tedesco Martin Schulz, che ha aperto la due giorni di summit a Bruxelles rivolgendosi ai leader europei: «Voglio invitarvi a non sottovalutare le conseguenze del risultato delle elezioni italiane: qualunque sia l’interpretazione che vogliamo dare a tale risultato dobbiamo capire che abbiamo fallito nel trovare sostegno dei cittadini al nostro approccio riformatore».
Francois Hollande, che ha domandato più tempo per riportare il deficit della Francia in pareggio, ha sottolineato che «a un’eccessiva rigidità corrisponde un’eccessiva disoccupazione». Inoltre, senza nominare la Germania, il presidente francese ha chiesto che facciano qualcosa gli Stati membri che «hanno eccedenze di bilancia commerciale e dei pagamenti e che possono stimolare l’attività interna e quella europea».
Nei giorni scorsi anche uno studio pubblicato dal think tank brussellese Bruegel ha detto chiaramente che per uscire dalla crisi «la Germania dovrebbe dare un contributo netto alla domanda aumentando le importazioni più delle esportazioni».
Nell’immediato però Monti ha puntato tutto sulle misure di stimolo alla crescita, soprattutto ora che le nuove regole sui programmi di austerità approvate nei giorni scorsi dal Parlamento europeo, il cosiddetto two pack», indicano esplicitamente che vanno evitati tagli che danneggiano la crescita e vanno salvaguardati gli investimenti produttivi. «Sono stati introdotti margini ragionevoli di flessibilità nella disciplina di bilancio ha detto Monti chiederemo di poterci avvalere di questi margini».
La discussione ieri è andata avanti fino a tarda sera, limitata nel dopo cena ai soli leader dei 17 Paesi dell’eurozona. Le bozze di conclusioni in circolazione sembrano indicare che il Consiglio è orientato ad avvallare le richieste italiane. Nel testo si legge che «pur nel pieno rispetto del Patto di stabilità, possono essere sfruttate le possibilità offerte dalle norme di bilancio esistenti per equilibrare i bisogni di investimenti produttivi con gli obiettivi della disciplina di bilancio».
Una concessione che ha subito scatenato le proteste della Finlandia. «Non sono d’accordo», si è opposto il primo ministro finlandese Jyrki Katainen, «è difficile stabilire quali siano gli investimenti che possono essere considerati fuori dal calcolo». Quindi, ha concluso, «è più onesto calcolare tutto quello che si spende».

L’Unità 15.03.13