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"In fabbrica la riscoperta dei contratti di solidarietà", di Luigina Venturelli

La ragione del loro esistere non potrebbe essere più evidente. Si chiamano contratti di solidarietà, puntano a risolvere i problemi in modo solidale tra gli occupati, lavorare meno per lavorare tutti. È meno evidente, invece, il motivo del loro crescente utilizzo in questa fase economica, con la crisi che non demorde e i vecchi pregiudizi aziendali sulla loro rigidità di gestione. «Appena si presenta una difficoltà, la prima tentazione delle imprese è sempre quella, avviare la mobilità e ridurre l’organico» racconta Michela Spera, responsabile dell’ufficio contrattazione della Fiom. «Ma le esperienze positive di questi anni e gli accordi sottoscritti anche da grandi gruppi industriali, dimostrano ampiamente che i contratti di solidarietà sono lo strumento migliore per gestire questa crisi».

TUTELA ED EFFICIENZA Così il ricorso a questo strumento – secondo i dati dell’Osservatorio Cgil sulla Cig – è aumentato del 65% nell’ultimo anno, passando dai 174 accordi applicati nel 2012 ai 286 registrati all’inizio del 2013. Una cifra notevole, ma che non tiene conto delle intese sottoscritte di recente. Solo pochi giorni fa, i contratti di solidarietà sono stati adottati all’Ilva di Taranto, allargando così il loro raggio d’azione a tutta la siderurgia italiana, comprese la Lucchini e la Magona di Piombino e tutti gli stabilimenti del gruppo Riva del centro-nord. E agli inizi di marzo è stato concluso l’accordo alla Electrolux, che ha evitato il licenziamento di quasi 650 lavoratori dell’azienda produttrice di elettrodomestici bianchi, settore tra i più esposti alla crisi di mercato internazionale: i dipendenti dei quattro stabilimenti per i prossimi due anni lavoreranno con turni giornalieri di sei ore a cui si aggiungeranno, se necessario, chiusure a giornate. E l’integrazione del salario sarà pari all’80% delle ore non lavorate. I vantaggi dei contratti di solidarietà, infatti, sono molteplici: non solo garantiscono i livelli occupazionali, mantenendo i posti di lavoro e le professionalità acquisite, ma assicurano anche una retribuzione dignitosa agli occupati, visto che, rispetto alla cassa integrazione, coprono circa l’80% della retribuzione di ogni singolo lavoratore, comprensiva delle componenti variabili, permettendo di maturare anche premi, tredicesime e anzianità. «Le tensioni salariali sono avvertite in misura sempre più drammatica» continua Spera, «è difficile mantenere a lungo una famiglia con la cassa integrazione». E questa crisi durerà a lungo». Inoltre, e qui sta la ragione del loro successo, i contratti di solidarietà «forniscono alle aziende tutta la flessibilità necessaria per assorbire il calo della produzione ma anche per far fronte ad ordini improvvisi». Perchè gli accordi stabiliscono le riduzioni massime dell’orario di lavoro, ma poi vengono applicati stabilimento per stabilimento, reparto per reparto, a seconda delle necessità. «Nel tessile, dove la crisi è iniziata oltre dieci anni fa, si sono ormai affermati. Adesso sono le aziende che ce li propongono» racconta la segretaria della Filctem piemontese, Luciana Mancin. Che può vantare pure un accordo di solidarietà estensiva, nel lanificio del lusso Loro Piana, dove la solidarietà tra i mille dipendenti è stata estesa anche ai precari che così, nel tempo, sono stati stabilizzati. Lo svantaggio – se così si può chiamare la ragione per cui molte aziende li rifiutano – sta nell’accordo sindacale che necessariamente li presuppone, mentre la cassa integrazione può essere chiesta e applicata unilateralmente dall’impresa. Presuppongono «il riconoscimento che le ragioni dell’impresa e quelle dei lavoratori hanno pari dignità », dunque buone relazioni industriali, pratiche di contrattazione che ne assicurino un utilizzo ottimale in ogni sede produttiva. Il che spiega perchè la Fiat non ne voglia sentir parlare.

IL CASO BRESCIANO Eppure anche il rifiuto opposto dal Lingotto conosce la sua eccezione. Non a caso, nel territorio che dei contratti di solidarietà – circa 120 quelli attivi – ha fatto la propria caratteristica sindacale, quello di Brescia: «All’Iveco sono applicati dall’estate 2011 e, dopo l’esclusione della Fiom dalla fabbrica, come in tutto il gruppo Fiat» spiega il segretario provinciale delle tute blu Francesco Bertoli, «sono stati rinnovati dalle altre organizzazioni sindacali. A riprova del fatto che un conto sono le mani libere dell’azienda, un altro la gestione efficiente delle fabbriche». Il problema che si pone per il futuro, piuttosto, è la possibilità di continuare ad utilizzare i contratti di solidarietà, la cui durata massima è di 48 mesi: «In molte aziende stanno scadendo» sottolinea il segretario della Cgil, Damiano Galletti. «Insieme al rifinanziamento degli ammortizzatori sociali serve una modifica per prolungare a 5 o 6 anni l’utilizzo della solidarietà, che in questo territorio, dove la produzione manifatturiera è calata del 25%, ha consentito di salvare 15mila posti di lavoro».

L’Unità 18.03.13

"La Costituzione partecipativa", di Andrea Manzella

Per fortuna, nel Parlamento che è cominciato, la grandissima maggioranza degli eletti ha meno anni della Costituzione. Ma vi è anche una giovinezza della Costituzione con la quale possono e devono incontrarsi. Basta saperne vedere le “ammorsature”. Con questa vecchia parola dell’arte muraria, Piero Calamandrei significava che la Costituzione ha molte sporgenze a cui, come nelle vecchie case, ci si può appigliare per continuarne la costruzione. È il progetto costituzionale, insomma, che si spinge nel futuro e perciò si mantiene giovane.
Presidenti delle Camere sono ora due rappresentanti della società civile, appena ieri incaricati in essa della funzione più alta: la tutela della comunità nazionale e internazionale contro la prepotenza e l’esclusione. Tocca a loro una parte rilevante nel portare avanti il progetto costituzionale.
Dal momento in cui sono eletti, i presidenti di Senato e Camera entrano a comporre, con il presidente della Repubblica, la triade che guarda all’equilibrio complessivo delle istituzioni. Devono stare accanto al capo dello Stato se arriva il momento più critico del regime parlamentare: lo scioglimento anticipato delle Camere (articolo 88). Capire cioè quando l’istituzione non riesce più a comunicare con gli elettori. È questo momento che colora giuridicamente tutto il resto: il loro dovere di essere, fin dall’inizio gli speaker di tutti, per parlare a tutti, dopo aver ascoltato tutti.
Questa opera di collegamento tra il lavoro della rappresentanza parlamentare e la società “informata” (e isolata) dei nostri giorni deve d’altra parte essere la bussola nella ricerca di una legittimazione smarrita. E se si seguono le “ammorsature” – le pietre che spuntano dall’ordinamento del passato per indicare l’avvenire – si scopre che la voce dei cittadini potrebbe continuare a sentirsi nelle procedure della democrazia parlamentare, lungo vie possibili in Costituzione, ma ostruite dal tempo e dalla cattiva volontà politica.
Si è fatto, ad esempio, un gran parlare di sotterfugi ideati per rendere trasparenti le sedute delle commissioni parlamentari. Ma la Costituzione dice che “le forme di pubblicità dei lavori delle commissioni” sono liberamente determinate dai regolamenti parlamentari (articolo 72). Non è difficile cambiarle con innovazioni comunicative se la grande ansia di parlare subito ai cittadini – di cominciare così a porre le premesse di una “procedura deliberativa” – è condivisa, come pare, dalla maggioranza assoluta dei parlamentari.
Ecco, ancora, la Costituzione dire che “ciascuna Camera può disporre inchieste su materie di pubblico interesse” (articolo 82). Il presidente Grasso ne ha già richiamato una, e cruciale. Ha fatto capire che questo “pubblico interesse” non può essere individuato solo dall’interno del Parlamento, in un gioco politico racchiuso tra maggioranza e opposizione. La Costituzione non si oppone infatti a che la richiesta di indagine su interessi e beni pubblici possa venire, rinforzata, dall’esterno: secondo procedure cittadine informatizzate e certificate in quel luogo di evidenza pubblica che è, di per sé, proprio il Parlamento.
Ecco l’opportunità costituzionale dell’iniziativa di progetti di leggi, redatti in articoli (articolo 71). Dice la Costituzione che ci devono essere almeno cinquantamila firme: ma è questo un problema con la possibilità di firme elettroniche certificate? E se i pigri regolamenti parlamentari fissano solo l’inizio e non la fine dell’esame di questi progetti sarebbe un problema modificarli per dare all’iniziativa popolare un percorso certo fino alla decisione obbligatoria? Per non parlare della possibilità che c’è ora di collegare iniziative popolari nazionali a iniziative cittadine europee (articolo 11 del Trattato: cittadini di almeno sette Stati dell’Unione che promuovono insieme “leggi” europee, ormai così incisive sul destino di tutti).
Ecco ancora la facoltà costituzionale di chiedere alle Camere “provvedimenti legislativi o esporre comuni necessità”( articolo 50). Le “petizioni”: strumento sorpassato? Così sembra da noi a leggere gli striminziti regolamenti parlamentari. Non però se guardiamo alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione (articolo 44) e al Parlamento europeo dove è istituito un registro informatizzato sul quale i cittadini possono dare, con la propria firma elettronica, il loro appoggio alle richieste di provvedere. E dove esiste addirittura una Commissione parlamentare per le petizioni (con una accurata procedura fatta da 24 commi contro l’avarizia dei nostri 9 commi, tra Camera e Senato).
E si potrebbe continuare. Ma già si vede insomma, che tra democrazia rappresentativa e democrazia partecipativa non c’è il vuoto che si vuole artificiosamente immaginare e propagandare. Non c’è per il semplice fatto che la Costituzione del 1948 pone tra i suoi principi fondamentali proprio quello della “effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”(articolo 3). Ancora oggi, non si potrebbe dire meglio.
Il punto è che per rendere davvero “effettiva” quella partecipazione è ormai tempo di sviluppare, con i nuovi strumenti disponibili, le risorse dimenticate, le “ammorsature” della Costituzione. Anche questo è un programma di cittadinanza: i nuovi presidenti del Senato e della Camera lo hanno subito colto.

La Repubblica 18.03.13

Napolitano: "Ritroviamo orgoglio e fiducia. Unità, volontà di riscatto, voglia di fare e stare insieme nell'interesse generale con spirito costruttivo e senso di responsabilità"

L’omaggio del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, all’Altare della Patria, insieme ai nuovi Presidenti di Senato e Camera, Pietro Grasso e Laura Boldrini, e al Presidente del Consiglio, Mario Monti, ha concluso le celebrazioni della “Giornata dell’Unità nazionale, della Costituzione, dell’Inno e della Bandiera”.

Prima di recarsi a Piazza Venezia, il Capo dello Stato ha assistito sulla Piazza del Quirinale al cambio della Guardia solenne con lo schieramento e lo sfilamento del Reggimento Corazzieri e della Fanfara del IV Reggimento Carabinieri a cavallo insieme ai nuovi Presidenti delle Camere giunti precedentemente per i tradizionali incontri di inizio mandato e poi trattenutisi in visita al Palazzo insieme a tanti cittadini.

Il Presidente Napolitano si è, nell’occasione, rivolto al Paese con un videomessaggio: “Festeggiamo oggi – ha detto il Capo dello Stato – come ricorrenza storica il 17 marzo, che nel 2011 ha segnato il compiersi del 150mo anno di vita dell’Italia unita. In quell’occasione, e lungo molti mesi, si sono svolte in tutto il paese innumerevoli celebrazioni, dalle più solenni sul piano nazionale e anche internazionale, alle più semplici e partecipate nelle scuole, in seno ad associazioni di ogni sorta, nei Comuni, nei centri più piccoli, con vaste e calorose adesioni di giovani e di cittadini. Ebbene, è molto importante non dimenticare quel che esse hanno significato : gli italiani si sono mostrati consapevoli di quel che di meglio abbiamo fatto nella nostra storia, e soprattutto di come siamo riusciti a superare momenti difficili e drammatici grazie a un grande sforzo per superare le divisioni tra noi, per unire le nostre energie e volontà. Così superammo le terribili prove della guerra e del dopoguerra, liberandoci dalla dittatura, dandoci con la Repubblica e la Costituzione regole di libertà e democrazia, ricostruendo l’Italia dalle rovine e facendola diventare già 50 anni fa uno dei paesi più sviluppati e moderni in Europa e nel mondo”.
“E’ per ricordare e rivivere tutto questo – ha aggiunto il Presidente Napolitano nel videomessaggio – che il 17 marzo lo celebriamo, e lo celebreremo ogni anno, come Festa dell’Unità d’Italia. Siamo oggi – noi italiani – credo che lo sappiamo bene, di nuovo in un momento difficile e duro, per l’economia che non cresce, per la disoccupazione che aumenta e dilaga tra i giovani, per il Mezzogiorno che resta indietro, per quel che non va nello Stato, nelle istituzioni, nella politica e che va modificato, che richiede, e già da tempo, di essere riformato”.

“Ritroviamo dunque – questo è il mio augurio – come nelle celebrazioni del Centocinquantenario, orgoglio e fiducia, e ritroviamo – ha concluso il Capo dello Stato – il senso dell’unità necessaria. Unità, volontà di riscatto, voglia di fare e stare insieme nell’interesse generale, senza dividerci in fazioni contrapposte su tutto, senza perdere spirito costruttivo e senso di responsabilità”.

La Giornata, caratterizzata dall’apertura della “Casa degli italiani”, ha visto al Quirinale una straordinaria partecipazione di pubblico sin dalle prime ore del mattino, tanto che si è reso necessario aprire con un’ora di anticipo. Alla fine della giornata si sono calcolati circa 10.000 visitatori tra i quali – appunto – i nuovi Presidenti delle Camere che hanno potuto ammirare per la prima volta insieme alle sale del Piano nobile del Palazzo anche le testimonianze storico e artistiche dei Giardini.

www.quirinale.it

"Ma la strada resta in salita", di Federico Geremicca

Un giudice antimafia, forse l’ultimo vero erede di Giovanni Falcone, e una donna da anni in prima fila – come portavoce dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati – nel soccorso e l’aiuto a migranti e profughi politici. Piero Grasso e Laura Boldrini, cioè: entrambi arrivati per la prima volta in Parlamento tre settimane fa, sono da ieri i nuovi presidenti di Camera e Senato. Pier Luigi Bersani, il leader che ha scommesso su di loro, ha commentato la doppia elezione con uno di quei tweet tanto di moda: «Se si vuole, cambiare si può».

L’ascesa di Grasso e Boldrini porta con sé due buone notizie ed una sensazione meno positiva. Le notizie, intanto. La prima: qualche tessera del complicato puzzle alla fine del quale dovrebbe esser rivelato l’assetto politico-istituzionale della nuova legislatura, comincia ad andare al suo posto. La seconda: le due tessere sistemate ieri costituiscono una (piacevole) sorpresa per novità, storia personale e perfino profilo etico, il che non guasta mai (a maggior ragione oggi, con la politica messa in un angolo dai frequenti scandali).

La sensazione meno positiva riguarda invece il prossimo – e ancor più importante – obiettivo da centrare: la formazione del nuovo governo.

Alla doppia elezione di ieri, infatti, ci si è arrivati alla fine di un incerto dialogo tra le parti che ha ora lasciato sul terreno rancori, delusioni e propositi di rivalsa. Lo stato dei rapporti tra Bersani e Monti, per esempio, è senz’altro assai peggiore di quanto lo fosse prima; il partito di Silvio Berlusconi denuncia l’«occupazione» delle presidenze da parte del Pd e spinge per elezioni il prima possibile; e il Movimento Cinque Stelle, infine, è letteralmente imploso – tra pianti, urla e recriminazioni – di fronte alla prima occasione in cui è stato chiamato a compiere una scelta: il che lascia presagire che tenterà di tenersi il più distante possibile da circostanze simili… Un quadro che non pare certo propedeutico – sia sul piano del clima che dei rapporti politici – alla formazione di una qualsiasi maggioranza di governo.

Anche perché, a differenza di quel che qualcuno aveva sperato, Pier Luigi Bersani non pare aver alcuna intenzione di cambiare la linea annunciata subito dopo la mezza vittoria (o la mezza sconfitta) del 24 e 25 febbraio. L’ha sintetizzata in uno slogan che sta diventando concretamente comprensibile ogni giorno di più: «Mai più responsabilità senza cambiamento». Che vuol dire: con larghe intese e governi tecnici abbiamo già dato, e con Berlusconi non si torna, a meno che della partita non sia anche Beppe Grillo. Cambiamento, dunque: come per i nomi ed i profili dei nuovi presidenti di Camera e Senato. Cambiamento: che ora, a proposito di governo, significa mai un esecutivo senza il Movimento Cinque Stelle, la dirompente novità politica frutto – appunto – della voglia di cambiamento degli italiani.

La maggioranza del Partito democratico è certa che Grillo non voterà mai la fiducia ad un governo-Bersani e si va ormai convincendo che il segretario non defletterà da questa linea: e che l’unico «piano b» che sarebbe disposto a prendere in considerazione sono elezioni anticipate a giugno. Il leader del Pd, infatti, è convinto che il no a soluzioni che replichino l’esperienza Monti, per esempio, può permettere di recuperare consensi tra i tanti elettori democratici incantati da Grillo. Senza contare il fatto che il precipitare verso elezioni da far svolgere in tempi brevissimi, renderebbe impossibili nuove primarie e toglierebbe dal campo Matteo Renzi.

Questo è un obiettivo gradito alla larga maggioranza del Pd, ma è soprattutto con i cosiddetti «giovani turchi» di Fassina, Orlando e Orfini che il segretario sta cercando di costruire un asse che abbia come obiettivo (dopo l’abbandono del Parlamento da parte di personalità come D’Alema, Veltroni, Turco e altri) una sorta di fase due della «rottamazione», da gestire da Largo del Nazareno – sede del Pd – piuttosto che da Palazzo Vecchio. Ma se questo è davvero il disegno, è chiaro che le acque potrebbero cominciare ad agitarsi notevolmente anche all’interno del Pd: con i prevedibili effetti destabilizzanti sul piano della formazione del governo…

Il lavoro che è di fronte a Napolitano ed alle forze politiche, dunque, resta difficile. Il primo passo, però, è compiuto: e due presidenze su quattro, sono assegnate. Resta da trovare una soluzione per le tessere più difficili dell’intero puzzle: capo del governo e Quirinale. Non sarà facile, e il tempo stringe. Non solo stringe per chi vuole tornare alle urne già a giugno: stringe soprattutto per le risposte urgenti da dare a un Paese squassato da una crisi economica e sociale che pare aggravarsi ogni giorno di più.

La Stampa 17.03.13

«Commissione d’inchiesta su tutte le stragi irrisolte», di Pietro Grasso

Care senatrici, cari senatori, mi scuserete, ma voglio rivolgere questo mio primo discorso soprattutto a quei cittadini che stanno seguendo i lavori di quest’Aula con speranza e apprensione per il futuro del nostro Paese. Il Paese mai come oggi ha bisogno di risposte rapide ed efficaci all’altezza della crisi economica e sociale, ma anche politica, che sta vivendo. (…).
Quando ieri sono entrato per la prima volta da senatore in quest’Aula mi ha colpito l’affresco sul soffitto, che vi invito a guardare. Riporta quattro parole che sono state sempre di grande ispirazione per la mia vita e che spero lo saranno ogni giorno per ciascuno di noi nei lavori che andremo ad affrontare: Giustizia, Diritto, Fortezza e Concordia. Quella concordia, e quella pace sociale, di cui il Paese ha ora disperatamente bisogno.
Domani è l’anniversario dell’Unità d’Italia, quel 17 marzo di 152 anni fa in cui è cominciata la nostra storia come comunità nazionale dopo un lungo e difficile cammino di unificazione. Nei 152 anni della nostra storia, soprattutto nei momenti più difficili, abbiamo saputo unirci, superare le differenze, affermare con fermezza i nostri valori comuni e trovare insieme un sentiero condiviso. Il primo pensiero va sicuramente alla fase costituente della nostra Repubblica, quando uomini e donne di diversa cultura hanno saputo darci quella che è ancora oggi considerata una delle Carte costituzionali più belle e moderne del mondo. (…)
La crisi è a un punto tale che potremo risalire solo se riusciremo a trovare il modo di volare alto e proporre soluzioni condivise, innovative e, lasciatemi dire, sorprendenti che sappiano affrontare le priorità e allo stesso tempo avviare un cammino a lungo termine: dobbiamo davvero iniziare una nuova fase costituente che sappia stupire e stupirci.
Oggi è il 16 marzo e non posso che ringraziare il Presidente Colombo che stamattina ci ha commosso con il ricordo dell’anniversario del rapimento di Aldo Moro e della strage di via Fani che provocò la morte dei 5 agenti di scorta. Al loro sacrificio di servitori dello Stato va il nostro omaggio deferente e commosso. Oggi bisogna ridare dignità e risorse alle Forze dell’ordine e alla magistratura. Sono trascorsi 35 anni da quel tragico giorno che non fu solo il dramma di un uomo e di una famiglia, ma dell’intero Paese: in Aldo Moro il terrorismo brigatista individuò il nemico più consapevole di un progetto davvero riformatore, l’uomo e il dirigente politico che aveva compreso il bisogno e le speranze di rigenerazione che animavano dal profondo e tormentavano la società italiana. (…).
Oggi inoltre migliaia di giovani a Firenze hanno partecipato alla «Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime delle mafie», e mi è molto dispiaciuto non poter essere con loro come ogni anno.(…) Ho dedicato la mia vita alla lotta alla mafia in qualità di magistrato. E devo dirvi che dopo essermi dimesso dalla magistratura pensavo di poter essere utile al Paese in forza della mia esperienza professionale nel mondo della giustizia, ma la vita riserva sempre delle sorprese. Oggi interpreto questo mio nuovo e imprevisto impegno con spirito di servizio per contribuire alla soluzione dei problemi di questo Paese. Ho sempre cercato verità e giustizia e continuerò a cercarle da questo scranno, auspicando che venga istituita una nuova Commissione d’inchiesta su tutte le stragi irrisolte del nostro Paese. (…)
Penso alle risposte che al più presto, ed è già tardi, dovremo dare ai disoccupati, ai cassintegrati, agli esodati, alle imprese e a tutti quei giovani che vivono una vita a metà. (…). Penso all’insostenibile situazione delle carceri nel nostro Paese (…). Penso alle istituzioni sul territorio, ai sindaci dei Comuni che stanno soffrendo e faticano a garantire i servizi essenziali ai loro cittadini. Sappiano che lo Stato è dalla loro parte, e che il nostro impegno sarà di fare il massimo sforzo per garantire loro l’ossigeno di cui hanno bisogno. Penso al mondo della scuola e agli insegnanti che fra mille difficoltà si impegnano a formare cittadini attivi e responsabili.
Penso alla nostra posizione sullo scenario europeo: siamo tra i Paesi fondatori dell’Unione e il nostro compito è portare nelle istituzioni comunitarie le esigenze e i bisogni dei cittadini. (…). Penso a questa politica, alla quale mi sono appena avvicinato, che ha bisogno di essere cambiata e ripensata dal profondo, nei suoi costi, nella sua immagine, rispondendo ai segnali che i cittadini ci hanno mandato e ci mandano in ogni occasione. Sogno che quest’Aula diventi una casa di vetro, e questa scelta possa contagiare tutte le altre istituzioni.
Di quanto radicale e urgente sia il tempo del cambiamento lo dimostra la scelta del nuovo Pontefice, Francesco (…)
Chiudo ricordando cosa mi disse il Capo dell’ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo Antonino Caponnetto, poco prima di entrare nell’aula del maxiprocesso «Fatti forza, ragazzo, vai avanti a schiena dritta e testa alta e segui sempre e soltanto la voce della tua coscienza».
Sono certo che in questo momento e in quest’Aula l’avrebbe ripetuto a ciascuno di noi.

L’Unità 17.03.13

"Ora si può voltare pagina", di Claudio Sardo

Laura Boldrini e Pietro Grasso. l’Italia che vuole il cambiamento, che ama la Costituzione, che combatte mafie e illegalità, che considera insopportabili le sofferenze dei più poveri, ha due presidenti delle Camere di cui andare orgogliosa. Se il voto ha prodotto uno scenario di incertezza, se la giornata d’esordio del nuovo Parlamento è stata confusa e inconcludente, ieri è stato un bel giorno di riscatto. Un giorno di speranza, che i discorsi dei neo-eletti hanno amplificato e abbellito. Proprio il 16 marzo, anniversario del rapimento di Aldo Moro e della strage degli uomini della sua scorta: allora, quell’attentato interruppe un processo democratico e deviò la storia nazionale verso esiti regressivi. Sarebbe bello se ora si aprisse davvero una pagina nuova, se, nella difficoltà, le istituzioni si mostrassero capaci di rispondere positivamente alla domanda di innovazione, alla richiesta di nuova politica, che le elezioni hanno espresso in modo dirompente.

Il Parlamento è profondamente rinnovato. Come mai era accaduto in passato. Sono le Camere più giovani d’Europa e finalmente la presenza femminile è vicina a un terzo del totale. Laura Boldrini e Pietro Grasso ne sono l’espressione migliore. Sono entrambi esordienti: l’elezione è arrivata appena dopo aver varcato le soglie delle aule. A loro è accaduto qualcosa di paragonabile soltanto ai tempi della Costituente: ma questo è esattamente il compito che attende la politica. Siamo nel mezzo di una crisi di sistema. Una crisi gravissima, che può portare l’Italia al collasso o alla divisione. Una crisi che ha già spezzato il circuito democratico, provocando sfiducia nella rappresentanza, nei corpi intermedi, nelle stesse istituzioni. Una crisi che intanto, nella società, allarga l’area delle povertà, delle sofferenze, dei lavoratori espulsi, dei giovani precarizzati, delle imprese senza credito e spesso costrette a chiudere perché lo Stato non paga neppure i suoi debiti.

In una crisi di sistema non si risponde con procedure ordinarie, né con arroccamenti. Il cambiamento è la sola via percorribile. Il Pd di Bersani – sbeffeggiato perché ha cercato fino all’ultimo di costruire con tutte le forze politiche (grillini compresi) un metodo condiviso di gestione del Parlamento – ha risposto ai no di Grillo, di Monti e degli altri proponendo due nomi che nessuno si aspettava. Due novità, due persone con valori forti e, al tempo stesso, con un forte senso delle istituzioni. Non una mossa per demolire, o per compiacere. Ma un cambiamento per ricostruire.

Laura Boldrini l’abbiamo conosciuta mentre si batteva per i diritti dei profughi e dei rifugiati: gli ultimi, i più deboli, quelli a cui viene negato persino il diritto alla dignità. Pietro Grasso l’abbiamo conosciuto alla frontiera dello Stato che combatte la criminalità organizzata: un magistrato impegnato – che ha messo in gioco la sua vita dopo aver visto morire suoi amici, servitori della legge come lui – e insieme un magistrato equilibrato, che ha sempre avuto a mente la divisione dei poteri segnata dalla nostra civiltà democratica. Vorremmo dire che sono nostre bandiere. Ma sappiamo che da oggi saranno anzitutto chiamati a mostrare la loro imparzialità e la fedeltà alla Costituzione, che è di tutti e non solo nostra.

Il Pd avrebbe potuto reagire al fallimento delle trattative con candidature di esperienza e di partito. Non lo ho fatto perché aveva in mente il fallimento della legislatura 2006-08. Ma non lo ha fatto anche perché ha capito che nel cambiamento stavolta si gioca il destino del Paese, e non solo il proprio. Il Movimento di Grillo si è comportato in Senato come i vecchi dorotei: ha dato indicazione per la scheda bianca; ha corso il rischio di favorire l’elezione di Schifani; qualcuno dei suoi senatori, nel segreto dell’urna, ha fatto il franco tiratore. I Cinque Stelle hanno preso troppi voti per sottrarsi alle responsabilità: non possono scappare. E per questo emergono al loro interno i primi segni di un salutare scontro politico. Su alcuni temi diranno la loro, e chiameranno gli altri a pronunciare dei sì e dei no. Ma ci saranno occasioni importanti in cui toccherà a loro decidere se stare dalla parte del centrosinistra oppure di Berlusconi. E la prima occasione sarà molto probabilmente il voto sul governo Bersani.

Il segretario del Pd ha fatto capire ieri che intende proporre un governo di alto profilo. Che il cambiamento delle politiche sarà radicale perché riguarderà l’Europa, il lavoro, l’etica pubblica, la sobrietà della politica e dei partiti. E che i suoi ministri somiglieranno a Laura Boldrini e Pietro Grasso. Sarà un governo parlamentare, senza maggioranza precostituita, perché così hanno voluto gli elettori. È una difficoltà, certo. Ma anche un’opportunità per rafforzare il Parlamento. Dopo l’elezione di questi due presidenti, è ora necessario che tutte le forze politiche siano rappresentate negli uffici di presidenza e nelle questure delle Camere, che la trasparenza sia massima, che la presidenze delle commissioni siano ripartite in proporzione alla consistenza dei gruppi. Sarebbe un’innovazione straordinaria, un rilancio del ruolo del Parlamento dopo le umiliazioni degli ultimi vent’anni.

Tutti dovranno pronunciarsi. Proporre in alternativa un governissimo, o un qualcosa di simile al governo Monti, sarebbe un suicidio. I gruppi parlamentari, compreso il M5S, non potranno sottrarsi alla responsabilità. Non è necessario che votino la fiducia. Devono dire se preferiscono sfidare Bersani e il Pd sul rinnovamento del Paese, oppure giocare allo sfascio portando l’Italia a nuove elezioni. Da ieri, però, abbiamo una speranza in più.

L’Unità 17.03.13

"Il lungo viaggio di Laura ridà nobiltà alla politica", di Adriano Sofri

Succede a volte di dirsi: non avrei voluto vivere fino a vedere… Non avrei voluto vedere l’Italia trasformata nel “paese dei respingimenti in mare”, e di troppe altre bandiere triste. Ieri ero incredulo e grato di poter vedere una donna giovane, emozionata e risoluta, che diceva dal seggio più alto di Montecitorio le cose più belle che si possano augurare al proprio paese, al mondo e a se stessi. Era un repertorio scrupoloso e imperterrito, e consentiva di reinterrogarsi sulla differenza fra la correttezza politica e la nobiltà politica. La differenza, se si eccettuino le sciocchezze dello zelo fanatico, che sono solo sciocchezze, non riguarda tanto le cose dette, ma il loro rapporto con chi le dice. Il pulpito. Laura Boldrini, deputata quasi per caso e appena dopo presidente della Camera dei deputati quasi per caso, stava argomentando principi e propositi cui si è ispirata e che ha perseguito nel lavoro e nella vita. In bocca ad altri, le belle parole sarebbero suonate stridenti come un gesso nuovo su una vecchia lavagna. L’assemblea, con le doverose eccezioni – innoblesse oblige – l’ha molto applaudita, e dalla seconda o la terza volta in poi si è sentito che gli applausi non erano più riservati a lei, ma andavano a chi applaudiva, e si sentiva incoraggiato a prendere sul serio quei nobili propositi, che si trattasse di navigati marpioni o di giovani donne e uomini al primo imbarco.
Il primo giorno di un parlamento può promettersi una vita nuova, come la prima pagina di un quaderno — di un file di testo, per chi non voglia più saperne dei quaderni. E quando il parlamento sia andato troppo oltre nella propria mortificazione, l’impressione di un riscatto possibile sarà tanto più forte e trascinante. Cose così succedono nei film, dal discorso finale del piccolo barbiere ebreo sosia del Grande dittatore a quello del fratello matto, cioè savio, del segretario del partito; i film di Hollywood sono maestri di questo genere di sostituzioni di un attore a un presidente alla Casa Bianca, finché ci arriva davvero un presidente nero che sembra un attore.
Un regista che avesse noleggiato l’aula di Montecitorio per mettere in scena un risarcimento alla depressione del pubblico italiano non avrebbe potuto fare meglio di così. E ora paragonate la giornata di ieri — in ambedue i rami del parlamento, per giunta – alla fretta rassegnata o ingorda con cui il giorno prima si era dichiarato indecente lo spettacolo offerto da una maggioranza che votava scheda bianca, e ammettete che si possa sbagliare anche per un piacere del disastro, e che il regista dello spettacolo reale cui abbiamo assistito – chiamiamolo Napolitano, che ha rimandato Monti dietro la lavagna, o Bersani e Vendola, per semplificare — ha avuto uno sguardo più lungo di quello dei critici indignati. Il Dario Franceschini che salutava i giornalisti dicendosi «l’ex presidente della Camera» faceva simpatia, naturalmente più che se l’avessero eletto.
La giornata di ieri ha confermato che ci sono due circostanze in cui si è forti: quando si è forti, oppure quando si è molto deboli. Il Pd è molto debole, dallo scorso 25 febbraio, e i 5Stelle molto forti. Ieri le parti si sono invertite, con la felice misurata eccezione del voto al Senato. Prendiamo la miglior formulazione – a me pare, soprattutto se la si confronti col delirante filmato su Gaia e i miliardi di morti e il Nuovo Ordine Mondiale e il Grande Fratello finale – di progetti di Grillo e Casaleggio, quella affabilmente esposta nella conversazione con Dario Fo: se se ne ricavasse il ritratto ideale di un candidato e del suo discorso di apertura, non se ne troverebbero migliori di Laura Boldrini e delle sue parole di ieri. Ora proviamo a immaginare che la legge demenziale non avesse dato al Pd la larghissima maggioranza che gli ha dato, e che l’elettorato di Laura Boldrini non fosse autosufficiente: che cosa avrebbero fatto i bravi giovani deputati e deputate di 5Stelle? Avrebbero lasciato passare un altro autorevole candidato, non so, Giovanardi?
Ci siamo rassegnati in molti, quanto alla vita pubblica, alla pazienza e alla riduzione dei danni: ieri, per un giorno almeno, le cose sono andate nel modo migliore. Un giorno di festa, e poi la quaresima di sempre? Probabile. Però un giorno in cui l’invidia per il conclave, che aveva tirato fuori da una crisi precipitosa un papa straniero e Francesco, è stata compensata da una presidente della Camera abbastanza straniera anche lei e donna – peculiarità alla quale la Chiesa non è ancora pronta. Non è la prima volta, ma è avvenuto nel parlamento più in bilico di sempre, e però quello in cui la presenza di donne, specialmente giovani, è significativamente cresciuta, nel Pd in primo luogo. Il quale Pd ha vinto le elezioni perdendole, o le ha perse vincendole, come preferite, ma, scalcagnato com’è, e ridotto troppo spesso al centro e nei famosi territori a cordate e clientele in cagnesco, ha impedito di un soffio che a vincere le elezioni – e vincendole – fosse Berlusconi. E tutte le meditate analisi sulla consunzione dei partiti vacillano fino a rovinare quando si traducono in una rinuncia o un dileggio del voto “utile”.
Detto questo, il discorso di Laura Boldrini di ieri ha dato, a chi guardava e ascoltava, la sensazione rara e commossa che il voto possa, oltre che scansare il peggio, tradursi in una realizzazione preziosa. Da domani (non) si fa credito, naturalmente. Ma sentire commemorare le migliaia di morti senza nome del Mediterraneo non da una fervida commissaria delle Nazioni Unite per i Rifugiati, ma da quello scranno alto di Montecitorio, valeva davvero la pena. Anche se fosse stata storia di un solo giorno. Lei però ha concluso: «Stiamo cominciando un viaggio». Allora buon viaggio.

La Repubblica 17.03.13