Latest Posts

8 marzo: Ghizzoni, molte elette ma l'Italia non è un paese per donne

Ratifica Convenzione di Istanbul per cambiare contesto maschilista anche della politica. “Il nuovo Parlamento che sta per insediarsi vedrà, per la prima volta, un cospicuo numero di donne elette. Ma non lasciamoci ingannare: l’Italia non è ancora un Paese per donne. Lo dimostrano le condizioni di vita, le discriminazioni sui luoghi di lavoro, il tasso di disoccupazione femminile tra i più alti in Europa e, non ultimi, i dati agghiaccianti sulla violenza di genere e sui femminicidi. – lo dichiara la deputata del Pd Manuela Ghizzoni, presidente della Commissione Cultura, scienza e Istruzione della Camera dei deputati, dopo la celebrazione della giornata internazionale della donna al Palazzo del Quirinale, avvenuta alla presenza del Presidente Napolitano – L’Italia sta vivendo un’emergenza, denunciata anche dalla Commissione Cedaw dell’Onu, che riguarda in numero di femminicidi, che non sono omicidi neutri, ma delitti compiuti sulle donne perché donne, agiti da uomini. Come tali devono essere affrontati.

È necessario – spiega Ghizzoni – che anche le istituzioni si facciano carico di sovvertire gli attuali modelli di rapporto tra i generi, attraverso un approccio organico che non riguardi solo la definizione del reato o la condanna connessa. Non possiamo più pensare che la violenza sulle donne possa essere sconfitta solo con l’inasprimento delle pene: il nostro compito è di porre in atto le condizioni per una vera e propria rivoluzione culturale, che parta dall’educazione dei bambini e delle bambine. Il rispetto delle differenze nasce dalla conoscenza, da una nuova rappresentazione, non stereotipata, delle donne e degli uomini e si fortifica con l’introduzione di una cultura di genere anche nei percorsi educativi e scolastici.

Mi auguro che in questa legislatura ci sia il tempo di porre le basi per una reale inversione di tendenza che porti l’Italia ad adeguarsi agli standard europei non solo sul fronte economico, ma anche su quello dei diritti delle donne. Ma in questo momento di instabilità istituzionale è necessario garantire almeno le emergenze. Per questo le forze politiche presenti in parlamento devono, dunque, assumersi la responsabilità di ratificare la Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, con la stessa urgenza con cui si chiede di intervenire sulle norme economiche o sui “privilegi della Casta”. Stiamo parlando della vita delle cittadine italiane, che non possono più essere subordinate agli interessi di parte o alle campagne di bandiera. La ratifica della Convenzione europea non sarà di certo la soluzione per sradicare definitivamente il femminicidio, ma – conclude Ghizzoni – è il primo segnale che la politica deve dare per dimostrare la volontà di cambiare un contesto maschilista e falsamente neutro.”

«Cancellate le ombre su me e i Ds, come per Telekom Serbia», di Giuseppe Vespo

Sindaco Fassino è soddisfatto? «Sì. Questa sentenza ristabilisce la verità e conferma che intorno a un’espressione ironica è stata imbastita una campagna denigratoria su di me e sui Democratici di Sinistra. È inoltre una conferma di quanto negli anni la politica sia stata inquinata da comportamenti illeciti. Mi riferisco alla strumentalizzazione di esodi analoghi, come gli scandali in- ventati di Telekom Serbia e della commissione Mitrokhin, o come molto più recentemente il caso del senatore De Gregorio e le sue dichia- razioni sulla compravendita di parlamentari per far cadere l’ultimo governo Prodi. È un modo di concepire la politica e l’azione politica privo di principi di legalità e finalizzato esclusivamente ad abbattere l’avversario. Pensi al caso Nixon, in altri Paesi per episodi simili cadono governi e presidenti. In Italia ci sono voluti otto anni per dimostrare l’uso illegittimo di quella intercettazione. E voglio ricordare che le mie parole non furono solo strumentalizzate ma anche manipolate. Dopo l’espressione ironica “abbiamo una banca”, io precisavo: “Scherzo, la banca è vostra”. Parole cancellate e mai pubblicate».

Quell’intercettazione pesò sulle elezioni del 2006?
«È difficile fare un ragionamento di questo tipo. Certamente vi fu una manipolazione delle regole democratiche e parte dell’elettorato può essere stato influenzato».

Oggi che peso politico ha questa nuova condanna di Berlusconi, dopo quella di qualche mese per frode fiscale? «Non voglio legare le due cose, ogni processo ha una storia a sé. Mi sem- bra più grave quello che sta emer- gendo con la vicenda denunciata da De Gregorio, che ha ammesso di essere stato assoldato per destabilizzare l’equilibrio politico di quegli anni. È la dimostrazione che c’è qualcuno disposto a violare la legge e il rispetto dell’avversario pur di farlo cadere, cancellando inoltre i pronunciamenti elettorali. È stato inflitto un colpo ai cittadini, alle loro opinioni e alla legittimità democratica». Tornando agli anni della scalata Unipol-Bnl, ha qualche rammarico per come si è comportato da segretario dei Ds?

«Perché dovrei: basta scorrere le pagine economiche dei giornali dell’epoca per rendersi conto che quello era il periodo in cui tutti gli analisti sostenevano il tema del superamento della frammentazione del sistema bancario. Si contavano ottocento istituti di credito, in molti sottolineavano la necessità di integrali per essere più competitivi sul piano internazionale. Bisognava costruire dei campioni nazionali capaci di far fronte alla concorrenza. Infatti sono di quegli anni le operazioni che hanno portato alla nascita di Unicredit, di Intesa San Paolo e di altri grossi gruppi. In questo quadro, l’operazione Unipol-Bnl era legittima e stava completamente dentro gli obiettivi del tempo. Non era strano che Unipol, uno dei primi gruppi assicurativi, pensasse di integrarsi con una banca, anzi. Poi non entro nel merito delle azioni messe in atto per perseguire quella strategia, ma l’idea era giusta. Del resto, sfido chiunque oggi a dire che Intesa San Paolo o Unicredit debbano essere spacchet- tate e tornare come prima o che quelle aggregazioni bancarie non andavano fatte. È per questo che la strumentazione delle mie parole era ancora più grave: io esprimevo condivisione per un’operazione che ritenevo a beneficio del Paese. Cosa c’era di scandaloso nel fatto che il segretario del primo partito si interessasse di quell’operazione?» Vicenda chiusa?

«Mi auguro di sì. In questi anni ho sofferto molto perché questa ingiustizia offendeva me e il mio partito. Sono in politica da molti anni, per passione e non per convenienza, e mai un’ombra si è posata sul mio comportamento. Questa era costruita, come Telekom Serbia, e ora è spazzata via».

Berlusconi invece si dice perseguitato dai magistrati.
«Mi sembra che siano dei magistrati quelli che l’hanno appena prosciolto dalle accuse del procedimento Mediatrade. Il fatto che nel giro di quarantotto ore ci siano state una sentenza di condanna e una di assoluzione, dimostra che non c’è pregiudizio».

Possiamo dire però che questa condanna è un motivo in più per non allearsi al Pdl nella formazione di un nuovo governo?

«Al di là delle vicende giudiziarie, le ragioni per cui non dobbiamo allear- ci al Pdl sono prima di tutto politiche e programmatiche. È per quello che Berlusconi dice sull’Europa, sul sistema fiscale o sulla giustizia, che non ci sono le condizioni per formare insieme il prossimo governo con il suo partito».

Le ha dato fastidio l’ironia che si è scatenata in rete sulle parole che aveva detto qualche anno fa in merito a Grillo e a un suo possibile partito? «L’ironia è uno dei rischi ai quali è esposto un politico. Non mi sono offeso, del resto quelle parole le dicevo nel 2009, quando Grillo sosteneva che il Partito democratico era inutile e allo stesso tempo voleva partecipare alle primarie per diventarne il segretario. Io dissi semplicemente che le due cose non mi sembravano compatibili. E poi, se dovessi fare io la rassegna di tutte le cose dette da lui dal 2009 ad oggi, sa l’ironia…».

L’Unità 08.03.12

******

La storia del «nastro di Natale» per confezionare i veleni

Aveva cercato un alibi nel turbo-sonnellino, l’assopimento che gli capita di avere in ogni occasione anche istituzionale come nelle aule parlamentari o dei tribunali, figuriamoci alla vigilia di Natale sotto un albero bianco e accanto a un camino acceso. «L’intercettazione di Fassino? Ma quando mai! Dormivo, ero stanco, non mi sono accorto di nulla». Non s’era accorto – raccontò Silvio Berlusconi – né di Paolo, il fratello, né di quegli altri due signori, Roberto Raffaelli e Fabrizio Favata, che si erano presentati ad Arcore il pomeriggio della vigilia di Natale 2005. Per fargli gli auguri, certo. Ma soprattutto per consegnargli un regalo molto speciale: un’intercettazione telefonica senza alcun valore per i magistrati che indagavano sulle scalate bancarie ma di grande impatto politico per- ché faceva sentire «il comunista Fassino» appassionarsi alla scalata Bnl e commentarla con l’amico Giovanni Consorte di Unipol.
I giudici non hanno creduto al sonnellino. Ieri hanno condannato Silvio Berlusconi a un anno perché convinti che l’allora premier fosse non solo ben sveglio ma anche consapevole del valore mediatico-politico che quell’intercettazione avrebbe avuto una volta data in pasto ai giornali. Il quotidiano di famiglia, il Giornale, avviò infatti le pubblicazioni il 27 dicembre 2005, segnando profondamente la campagna elettorale per le politiche dell’aprile 2006 con l’ombra della questione morale sul partito che fu di Berlinguer.

La sentenza su quello che l’Unità chiamò «il nastro di Natale» (l’inchie- sta giornalistica fu pubblicata in esclusiva nel dicembre 2009) fissa una clamorosa nemesi storica: Berlusconi, che ha tuttora come obiettivo primario lo stop alle intercettazioni sia come strumento investigativo sia come diritto di cronaca, viene condannato per averle usate per colpire l’avversario politico. Chi è causa del proprio mal… gli adagi si sprecano. Ma più di tutto questa sentenza e l’inchiesta giornalistica che c’è dietro verranno ricordate come la prima spia dell’esistenza di quel mondo di minacce e ricatti mediatici che abbiamo imparato essere il mondo di B.

Fabrizio Favata si presentò all’Unità ai primi di settembre 2009. Gentile, indossava il più classico dei gessati neri e aveva con sé la più classiche delle valigette nere. Si presentò come imprenditore dalle «incerte fortune», sposato, con figli e qualche acciacco di salute. Soprattutto in grave crisi economica. Buttò l’occhio sulla valigetta e ci disse: «Ma ora, dopo anni che lo prendo in quel posto, so come rivalermi di tanti sfruttatori e ingiustizie. Ha presente lo scandalo Watergate? Bene, quello che c’è lì dentro la valigetta gli assomiglia molto».

Favata ci raccontò una storia tanto credibile quanto il suo opposto. Per- ché a settembre 2009 c’erano già stati Patrizia D’Addario, lo scandalo Noemi Letizia e «il drago e le vergini» raccontati da Veronica Lario. Ma non c’erano ancora i Tarantini, i Lavitola, i De Gregorio e le Olgettine, quella tribù di faccendieri, sfruttatori e gente senza scrupoli che hanno abitato la sfera pubblica e privata del Cavaliere. Si parlava molto invece, in quei giorni, di intercettazioni a cui il Pdl voleva a tutti i costi mettere uno stop. «Pensi un po’ – ci disse Favata – che Berlusconi è stato il primo ad utilizzare in modo illecito le intercettazioni. Lui che le vorrebbe eliminare…».

Con l’imprenditore ci furono vari incontri. Si faceva vivo nei tempi e nei modi da lui stabiliti. La storia è quella che poi è stata raccontata nel processo milanese. I principali protagonisti sono Favata; Paolo Berlusconi, che di Favata è amico e socio dal 2005 in alcune società poi fallite; Roberto Raffaelli, amministratore delegato di Rcs, la società che ha vinto in procura a Milano l’appalto per la fonoregistrazione e quindi ha «accesso a tutte le intercettazioni di quella procura».

Gli antefatti sono questi: Raffaelli è interessato ad avviare una società di intercettazioni in Romania; i tre «amici» più un quarto, il commercialista Eugenio Petessi, decidono di rivolgersi al premier in carica, Silvio Berlusconi, per individuare i canali giusti e ottenere quanto vogliono in Romania. In cambio dell’aiuto offrono una merce preziosa: alcune intercettazioni scottanti che «sicuramente avrebbero fatto felice il Cavaliere».

Quella tra Fassino e Consorte ma anche altre con Briatore, Ricucci e l’avvocato Corso Bovio (poi scomparso, suicida).

Gli incontri tra Favata e l’Unità vanno avanti per due, tre mesi. Ogni volta ci offre una prova in più sulla veridicità di quello che dice: le foto con Ber lusconi a feste e matrimoni; i dettagli di come creare il nero per le tangenti; le prove degli incontri a Palazzo Chigi; le registrazioni rubate di alcuni incontri con gli avvocati di Silvio Berlusconi a cui Favata va a chiedere soldi ma sempre senza successo. Perché il succo di tutta la storia è che se in un primo tempo, nel dicembre 2005, Favata non vuole nulla in cambio dalla famiglia Berlusconi (la quale si dice «eternamente grata e pronta in ogni momento a sdebitarsi»), nel 2007, quando gli affari cominciano ad andare male, Favata chiede, anzi pretende ricompense. Direttamente o indirettamente. Per un po’ Raffaelli gli dà qualcosa (300 mila euro: per questi episodi Favata è stato arrestato per estorsione) poi chiude i rubinetti.

A quel punto si rivolge a l’Unità. Ci prova anche con il settimanale L’Espresso ma a suo avviso il nostro giornale può essere più interessato. La direzione del giornale prende tempo, i dettagli sono tanti, ma la prova regina, la smoking gun, il benedetto file audio con Fassino e Consorte, Favata dice prima di averlo nella valigetta, poi in una cassaforte segreta («capite bene che è la mia assicurazione sulla vita»), la volta successiva a casa. Ma noi non lo vedremo né sentiremo mai.

Il 9 dicembre 2009 l’Unità decide di pubblicare quel che sa. Subito dopo veniamo convocati uno ad uno dalla polizia giudiziaria. Come persone informate sui fatti.

Ormai l’inchiesta cammina sulle sue gambe. Favata sparisce. Fino ai primi di febbraio quando torna a trovarci in redazione. Altri dettagli, altre richieste, ma del file audio nessuna traccia. Quando lascia la redazione trova la polizia sotto il palazzo che lo ferma per una perquisizione. Nelle stesse ore perquisiscono anche la redazione. Gli investigatori cercano il file. Noi non lo abbiamo. Favata neppure. Il resto è la cronaca del processo. Fino al verdetto di ieri.

L’Unità 08.03.13

"Otto marzo: Madri, figlie, manager ecco quali sono i Paesi per donne", da la Redazione 27esimaora

Nessun Paese (ancora) ha eliminato del tutto le discriminazioni di genere, ma le nazioni scandinave hanno colmato l’80% del gap, la «distanza» di trattamento e opportunità tra donne e uomini. E quasi ovunque le disparità nell’accesso alla salute e all’educazione si sono ridotte (tra le eccezioni Yemen, Benin e Chad). È quanto emerge dal Global Gender Gap Report 2012, l’ultimo rapporto del World Economic Forum sulla condizione delle donne in 135 Paesi del mondo.

Al centro dello studio ci sono le differenze di possibilità tra uomini e donne, non il livello di sviluppo raggiunto, e non mancano le sorprese: la Mongolia, per esempio, è al primo posto nella classifica per la partecipazione all’economia, che misura occupazione, livelli salariali a seconda del genere, carriera. Le Filippine sono all’ottavo posto globale, mentre la Francia è solo 62esima, anche se fa parte dei venti Paesi che non discriminano le donne nell’accesso all’istruzione. Il luogo migliore per nascere con due cromosomi X, in ogni caso, rimane l’Europa del Nord: Islanda, Finlandia, Norvegia e Svezia occupano i primi posti in tutte le aree analizzate. E offrono le migliori politiche di sostegno alle madri. Questo se si misurano i numeri a livello globale.

La fondazione TrustLaw, invece, ha affidato la valutazione a 370 esperti di questioni di genere, che hanno analizzato la condizione delle donne nei Paesi più ricchi del mondo, quelli del G20. Il migliore è risultato il Canada, grazie alle ottime politiche contro violenza e sfruttamento, unite ai livelli di istruzione e all’assistenza sanitaria. Seconda la Germania, patria della donna più potente del mondo: Angela Merkel. Ultima l’India, dove molte bambine vengono uccise alla nascita, quasi la metà delle nuove spose sono minori, il lavoro domestico è spesso una schiavitù.

L’Italia lascia a desiderare comunque: 101 su 135 Paesi nel Gender Gap Report, ottava tra quelli del G20. Pesano la poca presenza in politica, le troppe donne che non lavorano, le differenze salariali, la scarsità di manager e dirigenti. Una perdita di opportunità economiche anche per gli uomini: il World Economic Forum ricorda che dove le donne sono meno discriminate ci sono anche la maggiore competitività e i redditi più alti.

Elena Tebano

Francia, tra i banchi le ragazze mettono i ragazzi in minoranza

Nell’educazione non c’è parità tra i sessi in Francia, ma nel senso contrario al solito: sono gli uomini a essere sotto-rappresentati. L’indice del World Economic Forum è pari a 1,28: significa che una ragazza accede agli studi universitari più spesso rispetto a un ragazzo. Le studentesse in facoltà sono oltre il 60 per cento del totale, rispetto al 40% dell’inizio degli Anni Sessanta. Il progresso è evidente e fa della Francia l’unico grande Paese europeo ad arrivare in testa alla classifica per questa voce (ex aequo con Olanda, Danimarca, Finlandia, Lettonia e Slovacchia). La battaglia dell’uguaglianza però non è finita, perché resta una disparità sospetta quanto al tipo di educazione prescelta: le ragazze rappresentano il 70% degli iscritti alle facoltà umanistiche e meno del 30% in quelle scientifiche.

Una differenziazione che comincia già al liceo e non perché le donne siano meno brave in matematica: secondo i dati del ministero dell’Educazione, già a partire dalle elementari le femmine ottengono risultati migliori dei maschi in tutte le materie, vengono bocciate di meno e arrivate al Bac (più o meno la Maturità francese) hanno voti più alti. Però, se prendiamo 10 allieve e 10 allievi con ottimi risultati in matematica, solo 6 ragazze scelgono un percorso scientifico, contro 8 ragazzi. «La persistenza di scelte legate al sesso è un’anticipazione dei ruoli da adulti, in funzione di rappresentazioni stereotipate», si legge in una nota del ministero. Ed è così che, quanto al ruolo delle donne nell’economia, il posto in classifica della Francia crolla dal primo al 62°: molte laureate in lettere, ancora poche dirigenti d’azienda.

Stefano Montefiori

Mongolia, parità di opportunità e ruoli sul lavoro

Tra le molte virtù della Mongolia, c’è che scantona dalle ovvietà. Stretta fra Russia e Cina, guarda all’Europa, per spezzare un assedio che vive con disagio. Si è desovietizzata in modo incruento (a parte qualche fiammata, ma nulla rispetto all’Asia centrale o ai Balcani) e ora è una democrazia, per quanto con i suoi problemi di trasparenza. Il World Economic Forum le riconosce un primato: il primo Paese al mondo per parità di partecipazione e opportunità economiche. Ci sono anche un 6° posto per le cariche pubbliche e un 7° per l’alfabetizzazione, benché la capacità delle donne di incidere sui processi decisionali non sia necessariamente elevata. Popolazione esigua, 3 milioni, e dunque la necessità di valorizzare al massimo i talenti. E si tratta di una società tradizionalmente nomade, inurbata in corsa, dove le spaventose ricchezze del sottosuolo (carbone, rame, giusto per cominciare un elenco infinito) aprono un cuneo tra i più ricchi, capaci di stravaganze da oligarchi moscoviti o maggiorenti cinesi, e i più poveri.

Ma il ruolo delle donne nei clan familiari resta fondamentale, la solidità e l’ingegnosa determinazione delle mongole sono risorse non solo per l’economia locale ma anche per le imprese straniereche battono avide Ulaanbaatar. Negli anni Novanta s’impose all’estero la generosa ferocia con la quale Erenjav Shurentsetseg, moglie di un ex premier, raccoglieva fondi per strappare alla fame i ragazzini nascosti nel sottosuolo della capitale. E basta trascorrere una mattinata in teatro con Bold Sergelen, volitiva direttrice dell’Opera nazionale, per accorgersi che qualche volta le statistiche hanno un’anima.

Marco Del Corona

Germania, sta decollando la partecipazione delle donne in politica

Le cifre non sono da record. La presenza femminile in Parlamento, per esempio, è del 32 per cento. Ma nel corso degli ultimi anni, grazie anche all’effetto Merkel, il ruolo delle donne nella politica e nelle istituzioni tedesche è cresciuto sempre di più. La Germania è un Paese dove, almeno in questo campo, l’uguaglianza è la regola. Diverso è il discorso per i vertici delle aziende (2,2 per cento), mentre molti sono ancora i problemi per chi deve conciliare la vita familiare e il lavoro nelle fasce meno privilegiate della società. È una questione anche di visibilità.

Nel governo Merkel, cinque dei quindici ministri sono donne che occupano posti chiave nell’amministrazione del Paese. È il caso soprattutto dei dicasteri della Giustizia, del Lavoro, dell’Istruzione. In aumento è anche la presenza femminile alla guida dei Länder. Le governatrici sono quattro su sedici e una di queste, la socialdemocratica Hannelore Kraft, è ritenuta da tutti una candidata con molte carte in regola per arrivare in futuro ancora più in alto. Anche in cancelleria. E alcune di loro hanno una storia personale di grande impegno e coraggio, come per esempio Malu Dreyer, ministra-presidente della Renania-Palatinato, malata di sclerosi multipla e costretta spesso a muoversi su una sedia a rotelle.

Un capitolo importante nell’ascesa delle donne tedesche in politica è determinato dalla scelta dei partiti di creare delle leadership «doppie». I Verdi hanno due copresidenti, Claudia Roth e Cem Özdemir (un ticket maschio-femmina è stato eletto per guidare il partito anche alle elezioni politiche del 22 settembre), e lo stesso avviene nella Linke. Marina Weisband, anima e cervello del Partito dei Pirati, si è invece dimessa per avere più tempo da dedicare a se stessa. Ma tutti invocano il suo ritorno.

Paolo Lepri

Scandinavia, essere madri e lavorare si può

Diventare mamme al Nord è meglio. Più facile, più sicuro e, difatti, più frequente. Le islandesi hanno in media più di due figli a testa, tallonate da francesi, danesi, svedesi e finlandesi con una media di 2 o almeno 1,9 figli ciascuna, in controtendenza con la Germania e l’Italia (1,4) e con l’Europa meridionale: 1 figlio e mezzo in media per ogni spagnola o per greca, e 1,3 per portoghese. Gli analisti non devono cercare lontano: le politiche sociali per le mamme lavoratrici segnano spesso il divario tra una gravidanza serena e una ansiosa alle diverse latitudini. E soprattutto incidono sui tassi di fertilità le leggi che proteggono le donne di fronte al datore di lavoro, al momento di allargare la famiglia senza restringere (o perdere) lo stipendio. Quindi è una questione di assistenza sanitaria, ma anche e soprattutto sindacale.

La Grecia si mantiene pure quest’anno in cima alla classifica per le garanzie offerte all’ingresso in sala parto: le probabilità di morire dando alla luce un figlio sono appena 3 su centomila. Ma a fare la differenza è il trattamento che lo Stato riserva alle puerpere al ritorno a casa. Imbattibili la Norvegia e la Svezia, che assicurano, rispettivamente, ai loro neonati da un massimo di 100 a un minimo di 68 settimane da trascorrere con i neo genitori per cominciare ad ambientarsi alla nuova vita in famiglia, oltre a pause (materne) senza limiti nel periodo dell’allattamento. Le 68 settimane svedesi sono divisibili fra padre e madre, a seconda dei rispettivi impegni di lavoro, e i primi 390 giorni sono pagati — in entrambi i casi — all’80 per cento del salario di chi sta casa; ma per legge ognuno dei due genitori ha il diritto (e il dovere) di passare almeno 60 giorni con il bebè. Un privilegio che può soltanto sognare una mamma in carriera newyorkese, o in un altro stato degli Usa, dove il congedo retribuito non esiste.

Elisabetta Rosaspina

Per un'Italia onesta. Misure per la lotta alla corruzione e il falso in bilancio

La corruzione è uguale alla disoccupazione: è la gamba zoppa della nostra economia. Nella classifica dei Paesi più corrotti l’Italia è al 72° posto su 178. Al pari della Bosnia, peggio del Ghana. A causa della corruzione le aziende investono sempre meno in Italia e le imprese nazionali subiscono un danno di crescita fra il 25 e il 40%. Significa meno lavoro e meno ricchezza. Il Partito Democratico combatte la corruzione in Italia con un disegno di legge che prevede pene e sanzioni più severe su: falso in bilancio, concussione, corruzione, ricettazione, traffico di influenze illecite.

DISEGNO DI LEGGE

DISPOSIZIONI IN MATERIA DI CONCUSSIONE, CORRUZIONE, TRAFFICO DI INFLUENZE ILLECITE, AUTORICLAGGIO e FALSO IN BILANCIO, scambio elettorale; PENE ALTERNATIVE ALLA DETENZIONE; MISURE PER LA DEFLAZIONE DEL PROCESSO PENALE

La lotta alla corruzione è diventata una priorità nelle agende politiche internazionali, anche per effetto della profonda crisi che coinvolge le più avanzate economie mondiali: il diffondersi delle prassi corruttive, minando la fiducia dei mercati e delle imprese, determina, tra i suoi molteplici effetti, una perdita di competitività per i Paesi.
Il raffronto tra i dati giudiziari (denunce e condanne) e quelli relativi alla percezione del fenomeno corruttivo evidenzia un rapporto inversamente proporzionale tra corruzione “praticata” e corruzione “denunciata e sanzionata”: mentre la seconda si è in modo robusto ridimensionata negli ultimi venti anni, la prima è ampiamente lievitata, come dimostrano i dati sul Corruption Perception Index di Transparency International, le cui ultime rilevazioni – rese note lo scorso 5 dicembre – posizionano l’Italia al 72° posto (a pari merito con la Bosnia) su 178 Paesi valutati, con un peggioramento rispetto alla precedente rilevazione, che ci vedeva al 69° posto (a pari merito con il Ghana e la Macedonia), con ciò riscontrandosi un progressivo aggravamento della corruzione percepita negli ultimi anni.
Analoga tendenza registra la Banca mondiale, attraverso le ultime rilevazioni del Rating of control of corruption (RCC), che collocano l’Italia agli ultimi posti in Europa e con un trend che evidenzia un costante peggioramento negli ultimi decenni.

I costi, anche solo percepiti, del fenomeno corruttivo sono enormi:

– quelli “economici” sono stati stimati dalla Corte dei conti (nella relazione del procuratore generale aggiunto per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2012) in circa 60 miliardi di euro;
– particolarmente pesante, poi, è l’impatto di questi costi sulla crescita del Paese, perché la corruzione diffusa altera, innanzi tutto, la libera concorrenza e favorisce la concentrazione della ricchezza in capo a coloro che accettano e beneficiano del mercato della tangente a scapito di coloro che invece si rifiutano di accettarne le condizioni;
– la sola discesa nella classifica di percezione della corruzione provoca la perdita del sedici per cento degli investimenti dall’estero;
– le imprese che operano in un contesto corrotto e che devono pagare tangenti crescono in media quasi del 25% in meno di quelle che non devono affrontare tale problema; mentre le piccole imprese hanno un tasso di crescita delle vendite di oltre il 40% inferiore rispetto a quelle grandi;
– vi sono, poi, i costi indiretti, di non agevole quantificazione economica, ma ugualmente rilevanti, quali quelli derivanti dai ritardi nella definizione delle pratiche amministrative, nonché dal cattivo funzionamento degli apparati pubblici e dei meccanismi previsti a tutela degli interessi collettivi;
– non sono da trascurare, infine, i costi di sistema, non misurabili in termini economici, ma fondamentali perché minano i valori che tengono insieme l’assetto democratico, quali, tra gli altri, l’eguaglianza, la fiducia nelle Istituzioni e la legittimazione democratica delle stesse.

L’entità del fenomeno corruttivo e la sua percezione sociale ne impongono una prioritaria valutazione all’interno di un intervento che sia al tempo stesso razionalmente condiviso ed efficace sul profilo preventivo e sanzionatorio, allo scopo, soprattutto, di favorire l’attrazione degli investitori stranieri.

Si ritiene, pertanto, indispensabile intervenire sotto i seguenti profili:

1) ripristino, nell’art. 317 codice penale (concussione per costrizione), della equiparazione tra pubblico ufficiale e incaricato di pubblico servizi, perché non ha senso punire soltanto il primo, quando lo stesso comportamento può essere posto in essere da un concessionario di un servizio pubblico (RAI, ENI ecc.) con effetti parimenti devastanti sull’etica dei rapporti.

2) La limitazione della punibilità dell’indotto nella fattispecie di cui all’art. 319 quater nel caso in cui la promessa o la dazione di denaro o altra utilità è funzionale al conseguimento di un indebito vantaggio da parte del privato.

3) Elevazione, nell’art. 346-bis (traffico di influenze illecite) della pena, che viene equiparata a quella per il reato base di millantato credito; in effetti chi si avvale illecitamente dell’influenza che ha presso un funzionario pubblico o un politico, con il quale ha un rapporto sostanziale di collegamento, è pericoloso almeno quanto chi vanta un rapporto preferenziale che non ha.

4) Applicazione dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici a tutti i soggetti che comunque compiano delitti contro la pubblica amministrazione sotto ogni forma (corruzione, concussione, peculato, traffico di influenze illecite, millantato credito ecc.). Prolungamento della durata dell’interdizione temporanea per un periodo ampio anche in corso di indagine.

5) Irrogazione di una pena specifica per il reato di autoriciclaggio, che nell’attuale ordinamento viene considerato un comportamento meramente consequenziale al delitto presupposto, mentre con evidenza costituisce un illecito autonomo: ad esempio, oggi, inammissibilmente, il trafficante di droga che trasferisca all’estero le somme che ha conseguito in Italia, come frutto del reato, non può essere punito per questa ulteriore attività illecita. Analogamente oggi non è punito l’evasore che trasferisca all’estero quanto ha sottratto all’erario.

6) Soppressione della necessità della querela per la punizione della corruzione tra privati, perché l’attuale previsione che richiede, appunto, per procedere contro questo reato, la querela di parte e il danno patrimoniale alla società determina un’eccessiva limitazione della punibilità di condotte capaci invece di generare gravi alterazioni nel mercato e nella libera concorrenza.

7) Modifica dell’art. 416 ter (scambio elettorale politico mafioso), con l’inserimento di “qualunque altra utilità” oltre e in alternativa all’erogazione di denaro quale corrispettivo della promessa di voto.

www.partitodemocratico.it

"Il Giano bifronte del Regolamento valutazione", di Annamaria Bellesia

Per il ministro Profumo il Regolamento sul Sistema nazionale di valutazione, inserito all’ordine del giorno del Consiglio dei ministri dell’8 marzo per l’approvazione definitiva, è un grande lavoro che va chiuso prima della fine del mandato, un atto dovuto. In ballo ci sono il miglioramento dell’efficienza e dell’efficacia del servizio scolastico, l’innalzamento dei livelli di apprendimento, lo sviluppo delle competenze degli studenti. Tra gli effetti attesi, c’è lo sviluppo di una autonomia responsabile, grazie alla rendicontazione sociale e alla comparabilità dei risultati. Niente premialità, almeno per ora.
A sentire il sottosegretario Elena Ugolini, alla cui tenacia va attribuito l’approdo finale del provvedimento in CdM, è dal 2001 che si discute di valutazione: il testo attuale è frutto di una mediazione e trae spunto dal lavoro di Governi diversi. L’esistenza di un SNV, a detta del Governo, è condizione necessaria per l’accesso ai fondi strutturali europei della programmazione 2014-2020.
L’altra faccia del Regolamento è il clima di forte tensione che si è venuto a creare per la fretta di licenziare un provvedimento di tale importanza fuori tempo massimo, con un nuovo parlamento che si sta per insediare. Politicamente poco corretto. C’è chi ha parlato di “un colpo di mano” e di “un modo di procedere arrogante e autoritario”.
Il fronte dei contrari è ampio e variegato. Non “contrari a priori”, visto che l’introduzione di un SNV è considerato necessario da tutti e già implicito nella riforma dell’autonomia. Contrari ai tempi e ai modi. La solita riforma calata dall’alto, si osserva, e per giunta ad opera di un Governo “scaduto”.
La solita riforma a costo zero, passata ai raggi X dal MEF, in modo da certificare che non ci siano “nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”. In Europa invece, alla quale guardiamo per copiare ed importare modelli, i sistemi di valutazione costano. Nella piccola provincia autonoma di Trento, spesso citata come esempio del fare, dove già da alcuni anni è stato implementato il controllo e la valutazione dei risultati, è previsto un apposito fondo per la qualità del sistema educativo.
Altro punto debole sono le carenze strutturali della famosa struttura a tra gambe del SNV: quella dell’Invalsi è preponderante, quella dell’Indire debole, quella del corpo ispettivo pressoché inesistente.
La riforma, così come è nata, sarà vissuta passivamente dalla scuola reale, destinataria e mai partecipe delle scelte “strategiche” che la riguardano. Col rischio che l’autovalutazione diventi una burocratica esecuzione di formali protocolli predisposti dagli “esperti” e il miglioramento sia di facciata.
Non è stato recepito il suggerimento espresso dagli organi consultivi di coinvolgere le scuole per renderle “protagoniste” e non mero “oggetto” della valutazione. Incerto anche il coinvolgimento degli enti locali. Chissà se e come potrà essere valorizzato quel personale scolastico sempre più schiacciato da vecchi e nuovi adempimenti.
Ma “piuttosto che niente è meglio il piuttosto” dice un vecchio adagio, assunto dai sostenitori di questa scelta. E così il Governo tecnico potrà vantarsi di avere messo a segno una riforma epocale.

La Tecnica della Scuola 08.03.13

"Più donne in Parlamento e nei cda grazie alle leggi e alla loro tenacia. Una ragione per una festa diversa, oggi, nell’Italia delle diseguaglianze", di Vera Schiavazzi

Nel giorno della Festa della Donna, c’è un genere di banca dati che vale più di qualunque altro. È quello che contiene le coordinate di signore pronte a prendere il potere, o almeno a provarci, entrando come un fiume in piena in migliaia di consigli di amministrazione piccoli e grandi, così come hanno appena invaso il Parlamento e potrebbero fare in ogni futura elezione. La Banca d’Italia, che nel 2012 aveva scelto di dedicare il capitolo “a tema” della relazione del Governatore proprio a questo argomento, ha lavorato per un anno, in collaborazione con la Consob, per “contare” le donne già entrate nei consigli di amministrazione, registrando un leggero aumento dal 10 all’11 per cento, quasi certamente collegato all’impulso ad adeguarsi alla legge del 2011 sulle “quote rosa” nelle società quotate e in quelle controllate da azionisti pubblici. A Milano, in poco più di un anno e mezzo di lavoro della giunta guidata da Giuliano Pisapia, le donne nei
sono salite dal 27 al 45 per cento. E due settimane fa il numero delle parlamentari è schizzato verso l’alto di dieci punti (dal 21 al 31, un trend più evidente alla Camera, dove si raggiunge il 32 per cento, che al Senato, dove si è arrivati a quota 30).
Le analisi dicono chiaramente che a questo risultato si è arrivati percorrendo due strade diverse: la doppia preferenza nelle primarie del Pd e il reclutamento di candidati giovani e neofiti del Movimento 5 Stelle. Definitivi o meno, i due indicatori, uno sancito per legge, l’altro promosso con il voto, disegnano una geografia italiana al femminile difficile da immaginare anche soltanto due o tre anni fa. «In politica, questo è un fenomeno ancora da studiare, specie per quanto riguarda il partito di Beppe Grillo — osserva Francesca Zajcick, docente di sociologia alla Bicocca e delegata di Pisapia per le Pari opportunità al Comune di Milano — Di certo c’è solo che la preferenza unica non favorisce le donne, come dimostrano le elezioni regionali lombarde, dove i voti si dovevano conquistare e il Pd è riuscito a eleggere solo due candidate ». Con la preferenza unica, infatti, contano i soldi che si è disposti a spendere, ma anche l’appartenenza a reti forti, come in Lombardia si sono confermate le grandi associazioni cattoliche, il sindacato o il fatto di essere già stati alla guida di un Comune. E le donne restano a casa. «Quanto ai gruppi parlamentari dei 5 Stelle — aggiunge Zajcick — dobbiamo augurarci che le tante giovani
donne delle quali stiamo imparando a conoscere il volto e il nome mantengano la promessa, cambiando l’immagine e la sostanza di una forza politica che fino a ieri, a cominciare dal linguaggio del suo leader, pareva fortemente maschile se non maschilista. Dei segnali incoraggianti arrivano dalla Sicilia».
Va detto però che, neo-elette in Parlamento a parte, essere giovani e donne sembra ancora rappresentare in Italia una doppia difficoltà. Alle prese con servizi tagliati e lavoro impossibile, forse non saranno loro a entrare nei cda, né a frequentare i corsi che spuntano un po’ ovunque per imparare a farlo. «La condizione lavorativa della maggioranza delle donne non è migliorata, anzi è relativamente peggiorata — dice Daniela Del Boca, docente di Economia all’Università di Torino e direttore di Child — Oggi in Italia lavora meno di una donna su due, eravamo al 47 per cento e siamo scesi un pochino, al 46.8, ultimi in Europa con l’eccezione di Malta. Se incrociamo l’essere donna con la giovane età, scopriamo che la disoccupazione giovanile è al 41,6 per cento tra le donne contro il 37,1 dei giovani uomini». Le possibili “ricette” sono già state elencate dalle studiose: per le mamme, più nidi, più voucher, part time dopo la nascita come in Francia, congedi condivisi tra padri e madri come in Svezia. E per le ragazze, politiche di istruzione che le sostengano nei percorsi che “pagano” di più, come ingegneria e economia, dove sono ancora molto sottorappresentate. Anche lasciando da parte ogni impietoso paragone con il nord Europa, dove i modelli culturali sono assai lontani dai nostri, basta guardare a Germania, Gran Bretagna, Francia. «Quello che bisogna scalfire — conclude Del Boca — è un mercato del lavoro rigido sommato a scarse o nulle politiche per le donne».
L’ingresso massiccio di donne nei luoghi dove si decide, tuttavia, potrebbe cambiare le cose. Le ricerche internazionali sono ancora controverse, solo la Norvegia ha accumulato una vera casistica (ma lì la quota obbligata di donne nei cda è del 40 per cento, e questa misura drastica e non graduale è criticata da molti ana-listi, che le attribuiscono gli effetti di avere abbassato il livello di competenza e costretto molte super-esperte a spostarsi freneticamente da una poltrona all’altra, occupando più ruoli). Ma le donne ai vertici aumentano il numero di donne anche alla base delle aziende.
Donna Redel, 60 anni, economista americana che ha collezionato più di un ruolo prestigioso, da managing director del Forum economico mondiale alla posizione di prima donna alla guida del Comex, la borsa merci di New York, ora guida a New York “Strategic 50”, una società che ha fondato con alcune colleghe. Racconta: «Appartengo a una generazione che per la prima volta ha
cercato di farsi strada ai vertici dell’economia. Per questo ora ho scelto di occuparmi di consulenza e di coaching, per insegnare ad altre donne, con workshop e seminari, come raggiungere posizioni di rilievo nel campo della produzione, della finanza e del business in generale. Personalmente non sono certa che le quote rosa siano una buona idea. C’è grande richiesta di donne qualificate, le aziende ci chiedono continuamente curriculum, ma le dirigenti sono solo il 30 per cento nelle imprese americane, mentre è donna la metà dei docenti universitari. Non è strano? Saremo soddisfatte solo quando la parità sarà effettiva e assoluta». Intanto però la massiccia iniezione di donne nei board italiani sta portando con sé effetti almeno in parte imprevisti: si riduce il numero delle poltrone, aumenta la quota delle consigliere indipendenti nelle grandi società, migliora l’efficienza (più riunioni dei consigli, e con un maggior numero di presenze).
È presto per i bilanci (l’onda lunga durerà fino a tutto il 2015, la legge prevede una prima tornata di nomine che porti il “genere meno rappresentato”, cioè le donne, a quota 20 per cento, per poi passare al 33 nei successivi due mandati) ma intanto già si intuisce che l’operazione-quote si tradurrà anche in una grande operazione-trasparenza, soprattutto nella politica locale, nelle miriadi — sono oltre 3.000 — di aziende di servizi dove gli azionisti pubblici, e i Comuni in primo luogo, sono ancora maggioranza. L’obiettivo è aumentare la competenza di tutti, anche se, come sottolinea Magda Bianco, che alla Banca d’Italia ha guidato la ricerca sulla presenza femminile nei cda, «i dati sulle aziende pubbliche mancano quasi del tutto, e occorrerebbe una nuova fase di studi per misurare gli effetti della legge».
Chi vuole può studiare. Nuovi network, come Valore D, si mobilitano e propongono decaloghi e corsi, la Women on Board Initiative ha pubblicato un elenco di oltre 3.500 donne pronte a occupare un posto in un cda. E l’Osservatorio dell’imprenditoria femminile di Unioncamere segnala che le imprese “rosa” resistono meglio delle altre alla crisi: nel 2012, in Lazio si sono registrate 1.149 nuove attività, 873 in Sicilia, 342 in Lombardia.
In the Boardroom è il titolo del corso, spalmato su un arco di 12 mesi, al quale iscriversi se si vuole partecipare all’assalto: una nuova classe di 35 donne è appena partita, per la prossima c’è tempo fino a aprile (Valore D e GE Capital). Difficile resistere alla tentazione.

La Repubblica 08.03.13

******

“Ma la battaglia dei diritti va combattuta ogni giorno”, di MARIAPIA VELADIANO
C’è una promessa nell’aria. Riguarda le donne. Ed è difficile anche solo dirlo mentre la cronaca non finisce di aggredirci con le sue notizie di donne uccise. Eppure qualcosa capita e guai a non saper raccogliere i segni di un nuovo possibile, come se il futuro fosse già scritto dal passato. Abbiamo una parola nuova, femminicidio, che è orrenda ma parlante, capace di raccontare che il delitto qui è proprio legato al genere. Donne oggetto di violenza e malamore. Oggetti. E tutti ormai sappiamo e cerchiamo cause e soluzioni. Abbiamo un movimento nuovo, Se non ora quando, trasversale per età, cultura e anche per genere. Un’alleanza. Abbiamo avuto un governo, nato per chiamata e in ogni modo discusso, ma in cui le donne finalmente hanno avuto ministeri decisivi. Abbiamo un Parlamento nuovo, e sarà da vedere come saprà comporsi, ma nel quale le donne, a sorpresa, sono più rappresentate di quanto siano mai state. E questo è davvero qualcosa di non scritto. E questo sta capitando. Ma bisogna essere sentinelle sempre. Ce lo dice il piccolo libro, severo e tranchant, di Marilisa d’Amico, dal titolo che è una tesi,
La laicità è donna(L’asino d’Oro edizioni), e che racconta come in Italia ci sia un silenzioso, subdolo arretrare dei diritti delle donne. Che coincide con l’arretrare della laicità. È uno sprofondare senza quasi combattere. Si scivola verso un fondamentalismo legislativo che tradisce la natura profondamente laica e paritaria della nostra costituzione. E tradisce le donne soprattutto.
Laicità è «quella casa comune in cui i cittadini, credenti e non, si riconoscono nel metodo e nelle proprie, diverse, visioni della vita, senza tentare di prevaricare gli uni sugli altri». È credere nella libertà, nel primato della coscienza. Che è sacro anche per i credenti. È fiducia nel cittadino capace di libertà. Così la via breve che vorrebbe moralizzare i comportamenti attraverso una legislazione rigida rende una cattiva testimonianza al valore che difende. Non fosse altro che perché il valore si mostra debole proprio nel suo bisogno della forza per affermarsi. E la donna? È lei a rischiare di più dalla crisi della laicità. Marilisa d’Amico i suoi argomenti li prende soprattutto dalla storia lacerata della legge 194 sull’aborto e della legge 40 sulla fecondazione assistita che diventano percorso inesemplare di battaglie fra diritti strumentalmente contrapposti.
Ma la società in cui viviamo oggi conosce situazioni nuove di alterazione dei diritti. Legate al contesto di forte immigrazione femminile, ad esempio. Capita che le strutture a sostegno delle famiglie siano tremendamente insufficienti, che allora la cura di bambini e anziani sia privatizzata e delegata alle donne immigrate, che la appena, forse, conquistata fragile emancipazione delle donne italiane sia difesa al prezzo di quella delle donne straniere e che comunque tutta questa alleanza obbligata e barbara, nel senso di incivile, sia lì lì per essere travolta dalla crisi economica perché il bisogno materiale frulla i diritti, e le donne italiane tornano a casa, le straniere fuori, non si sa dove.
E insieme a questo capita anche che alcune lotte fatte in nome dei diritti delle donne, ad esempio quella contro il velo simbolo di “sottomissione”, siano di nuovo strumentali, in realtà battaglie condotte dalla sponda di un fondamentalismo occidentale che appare forte e rassicurante quando viene contrapposto a un fondamentalismo islamico percepito come speculare e contrario. E sono sempre le donne le prime a patirne. Un arretramento.
Che fare? Serve qualcosa di tremendamente fuori moda,scrive Marilisa d’Amico:una«normazione leggera», un «bilanciamento dei diritti», serve «fiducia» nella libertà. Serve quella «democrazia paritaria» che vede le donne rappresentate nella politica tanto quanto gli uomini, non perché siano portatrici di un interesse particolare ma perché «rappresentano un modo di essere del genere umano». Non siamo al punto d’inizio, perché qualcosa di diverso lo abbiamo vissuto in quella straordinaria apertura di credito a un mondo più giusto che ha attraversato la seconda metà del secolo scorso, e abbiamo intravisto che meglio si può. Certo serve qualcosa di quasi inaudito oggi, cioè lo strumento di una razionalità discorsiva e misurata, per ricostruire l’arte del supremo comporre, di una politica che non sia più solo un facile far fuori. Serve una pacificazione che passi attraverso la difesa della laicità delle istituzioni. E ci si può chiedere quanta della violenza agita, sulle donne e in ogni campo, sia figlia della violenza vista, esibita, resa spettacolo proprio nei luoghi della scelta democratica.
Certo, fino a due settimane fa molte di noi hanno pensato che fosse finalmente arrivato il momento di ricostruire, dopo l’orgia ventennale di una politica che il femminile lo ha usato come attributo del potere. Adesso sappiamo che si tratta ancora di resistere resistere resistere. E anche se la laicità è donna, ad averne poi vantaggio è il cielo intero e non solo la metà dedicata. Perché bisogna vivere finalmente. Semplicemente vivere.

La Repubblica 08.03.12

"Beppe, permette una domanda?", di Curzio Maltese

A Berlusconi abbiamo fatto per anni tante domande, senza successo. A Grillo oggi se ne può rivolgere una sola. Questa: ma perché non consulta la sua base sull’eventuale alleanza col centrosinistra?
Beppe Grillo ha detto alla stampa tedesca che vuole far decidere la permanenza o l’uscita dall’euro dell’Italia attraverso un referendum on-line. Sarebbe una scelta storica, con conseguenze colossali e forse catastrofiche per la vita del Paese e l’economia europea, mondiale. Ma, spiega Grillo, queste sono le regole della nuova democrazia nell’era di Internet, dove non ci sono leader, uno vale uno e su tutte le decisioni, anche le più gravi, bisogna consultare direttamente la base attraverso il voto on-line. Benissimo. E allora perché non chiedere alla base degli elettori M5S, con un referendum, se vogliono o non vogliono allearsi per pochi mesi con il Pd allo scopo di approvare in Parlamento qualche urgente riforma, peraltro contenuta nei loro programmi?
Grillo, Casaleggio e tutti i cantori della democrazia on-line ammetteranno che si tratta di una scelta molto meno importante rispetto all’abbandono della moneta europea. Si tratta semplicemente di votare un accordo a termine, con pochi punti programmatici, dal quale si può recedere in qualsiasi momento, facendo mancare la maggioranza col voto di sfiducia, nel caso in cui gli impegni non vengano rispettati. Poca cosa davvero, al confronto di una drammatica uscita dall’euro, una strada dalla quale l’Italia non potrebbe mai più tornare indietro. E dunque, che cosa aspettano?
In questi giorni non si parla d’altro che di questo, fra italiani. Quelli che hanno votato Grillo e quelli che hanno votato centrosinistra o centrodestra. La domanda è una sola: che faranno adesso Grillo e Casaleggio? Ma perché Grillo? Perché Casaleggio? Non sono i leader, contano come qualsiasi altro, non si sono neppure fatti eleggere.
Il movimento 5 Stelle è nato per tornare a far contare i semplici cittadini, per restituire loro il potere decisionale usurpato dall’orrida partitocrazia. Quindi, di fronte alla prima importante scelta del movimento, dovrebbe essere naturale ricorrere alla consultazione on-line della base. Così come si è fatto per le parlamentarie. Se si è deciso in questo modo chi doveva andare in Parlamento, non si capisce perché non si debba sottoporre ai cittadini le prime scelte degli eletti. Grillo stesso se l’è appena presa con l’articolo 67 della Costituzione, sul libero mandato, sostenendo con qualche approssimazione democratica, che in questo modo i deputati e i senatori sono liberi di tradire il mandato degli elettori. Ha parlato di «circonvenzione di elettori». Ma qual è il mandato? Chi lo stabilisce, Grillo o gli elettori stessi? Come fa Grillo a sapere, senza consultare nessuno, che gli elettori non vogliono l’alleanza col centrosinistra?
Chi scrive ha naturalmente una risposta prevenuta su tutto questo. Grillo e Casaleggio non lanciano la proposta di consultare la base del movimento sull’alleanza col centrosinistra perché, semplicemente, perderebbero. Due elettori del M5S su tre, forse di più, sono favorevoli a un accordo a termine per portare a casa qualche risultato immediato. Ripeto: Grillo e Casaleggio perderebbero. Quindi la consultazione non si fa, non se ne parla nemmeno. La democrazia della rete, la regola uno vale uno, la volontà dei cittadini sono tutte balle, nuova retorica, in realtà vecchissima, per sdoganare un altro partito padronale all’italiana, dove conta quello che decidono Grillo e Casaleggio, nelle belle ville un po’ troppo vicine alle spiagge per degli ecologisti convinti, emettendo di tanto in tanto il comunicato numero 56 o 57 ai fedeli. Come la pensano davvero i fedeli, e magari anche gli eletti, non conta un accidente.
Ma questa è la versione prevenuta di un giornalista mascalzone, servo dei partiti che stranamente ha passato la vita a criticare. Quindi non vale. Sarebbe più interessante conoscere a questo punto la verità, dai soli detentori di verità autorizzati, i leader, pardon: i portavoce del Movimento. Qualcuno vuole rispondere a questa banale domanda: perché non vogliono fare un referendum on-line sulla proposta di governo del Pd? La domanda è rivolta a Grillo e Casaleggio, in primis. Che non risponderanno, perché sono troppo furbi per farlo, come lo era Berlusconi. Ma il grande Dario Fo, padre culturale del movimento, magari potrebbe farlo. O Stefano Benni o uno dei tanti stimabili simpatizzanti del movimento. O la stessa base, gli elettori del Movimento 5 Stelle, che Grillo non consulta, ma dei quali a noi di Repubblica interesserebbe moltissimo conoscere l’opinione su questo tema. Qualcuno insomma in grado di chiarirci questo paradosso. Sì al referendum sull’euro, no al referendum sull’alleanza col centrosinistra. Qual è il problema? Le masse sono mature per scegliere se uscire dall’Europa, ma non abbastanza da decidere se accettare gli otto punti del Pd? In fiduciosa attesa, grazie.

La Repubblica 08.03.13

******

“Quella ferocia contro i media”, di MICHELE SERRA

“L’unico giornale del quale mi fido è la Settimana Enigmistica”. Sono parole di Beppe Grillo. Me le ricordo bene anche perché le ho scritte
io. Non so se su una vecchia Olivetti o sul mio primo computer, nella remota età di transizione dalla scrittura metalmeccanica e quella digitale. Era l’autunno del 1990, lo spettacolo si chiamava “Buone notizie”, la regia era di Giorgio Gaber.
Come è facile immaginare, quelle parole mi sono tornate in mente molte volte, mano a mano che la figura di Giuseppe Piero Grillo detto Beppe, nato a Genova nel luglio del 1948, trasmutava dal comico al rivoluzionario. Soprattutto in questi giorni, assistendo al gigantesco cortocircuito mediatico innescato dal suo movimento, quel “non mi fido” che Beppe traduceva, sul palco, nello sbeffeggiamento della presunzione e dell’invadenza mediatica, mi sembra uno dei germi più importanti della storia in atto, e più esplicativi di quanto sta accadendo.
Con uno slogan, forse con una battuta: la crisi della rappresentanza è anche una crisi della rappresentazione. Quando si dice che l’onda travolgente delle Cinque Stelle è mossa dai “non rappresentati”, non si parla solamente di politica, non solamente della crisi dei partiti. Si parla, anche, di una rivolta dei non raccontati, che per necessità o per scelta hanno deciso che “non si fidano”, e dunque devono-vogliono raccontarsi da soli, con mezzi propri, linguaggi propri. Allo stesso modo, verso la fine degli anni Sessanta, quel nuovo soggetto collettivo che erano “i giovani” decise di fabbricarsi autarchicamente giornali, linguaggi, musica, abbigliamento. Non c’era ancora il web, a sostenere le alternative possibili e a millantare quelle impossibili.
Leviamo dal campo ogni possibile equivoco sulla “libertà di stampa”. E cioè: alle frequenti sbavature paranoiche di Grillo contro i giornalisti, evitiamo di contrapporre paranoie di senso contrario. Chiunque, anche il più devoto frequentatore del blog-tempio di Grillo, se una mattina di queste in edicola davvero trovasse soltanto la Settimana Enigmistica; o vedesse azzerati i palinsesti delle reti televisive; ne dedurrebbe che è tempo di fare i bagagli o entrare in clandestinità, perché il Paese è sotto dittatura, ha perduto le sue voci e dunque la sua libertà. Era, quello di Grillo nel ’90, un paradosso satirico. Ed è, questo di oggi, un paradosso politico: si fugge di fronte alle telecamere, ci si nega ai giorna-listi, non perché si ignori il valore della libertà di parola e della libertà di informazione. Ma perché si vuole manifestare il drastico rifiuto di una serie di convenzioni linguistiche, di abitudini mediatiche, che vengono giudicate inadeguate o distorcenti. Questo è Grillo che corre sulla spiaggia inseguito da torme di onesti lavoratori dei media “costretti” a rincorrere ciò che fugge e che gli sfugge; questi sono i deputati delle Cinque Stelle che fotografano i fotografi e i giornalisti, come la scimmia beffarda e ribelle che decidesse di rilanciare le noccioline al visitatore dello zoo.
Quando il vecchio Cuccia, in questo antesignano di Grillo, si finse muto e trasparente di fronte alla troupe televisiva che lo braccava per la strada, ignorandola, nessuno gridò alla lesa libertà di informazione. Si riconobbe piuttosto il diritto di un anziano esponente del potere a non sottostare alla regola (orribile, e di lì in poi dilagante) secondo la quale qualunque telecamera e qualunque microfono, in qualunque luogo, hanno il diritto assoluto di ottenere una risposta immediata. Magari su questioni complicate, spinose, che richiederebbero tempo e freddezza per essere non dico risolte, ma anche solo accennate; e non possono essere liquidate in una battuta, o nel dileggio stupido e feroce di chi non risponde, e non per reticenza, ma per dignità. La televisione degli ultimi vent’anni è in parte fondata su quel malinteso giornalismo “d’assalto”, che traduce in uno show da quattro soldi l’ansia del pubblico di sapere che cosa viene nascosto e taciuto.
Il diritto di essere informati, e di informare, è una cosa troppo seria, troppo nevralgica per assecondare l’urto polemico di Grillo, e rispondergli sullo stesso piano che – in questo momento – è quello della pura propaganda. A ciascuno il suo: così come “ai politici”, anche “ai giornalisti” viene richiesta una riflessione profonda, se è vero, come è vero, che ci siamo ritrovati più o meno tutti dentro uno scenario imprevisto, pur essendo deputati per mestiere, noi per primi, a prevederlo. Grillo, che spesso è sopraffatto dalle proprie idee, traduce questa crisi profonda della rappresentazione mediatica nella questione, piuttosto meschina, del “chi ti paga” (in questo, è l’autoparodia del ligure diffidente). Non si rende conto di essere molto riduttivo. La crisi è molto di più. È il frutto di linguaggi logori, categorie di giudizio consumate, pigrizie professionali. Un solo esempio: da quanti anni diciamo, noi dei giornali, che le schermaglie politiche romane, le cronache del sottobosco partitico, il gergo interno dei palazzi, non rappresentano più nessuno se non gli attori di quella commediola senza pubblico? E da quanti anni, noi dei giornali (per non dire dei telegiornali) continuiamo a dare spazio a quelle parole vuote e a quelle persone in buona parte poco significanti e poco rappresentative?
Il tanto e ottimo giornalismo che Grillo, per comodità polemica, evita di nominare (quello, per esempio, che su questo giornale raccontò a fondo gli scandali di Parma aprendo la strada alla vittoria di Pizzarotti) non deve servire da alibi a chi lavora nei media, li possiede o li guida o li fabbrica. L’accaduto, anche nei suoi risvolti sgradevoli, costringe a capire che una fetta importante di Italia e di italiani ha messo in moto una sorta di autarchia rappresentativa che può anche sfociare in autismo, e alimentare pulsioni settarie, impoverire la scena. Inseguirli su una spiaggia, o incatenarli a un bavero di microfoni che pare un plotone di esecuzione, non serve che a indurire il loro rifiuto. Parleranno, prima o poi parleranno, e forse parleranno addirittura con noi. Ma non in queste condizioni di fretta, di ansia, di assedio che rendono incongrui e ridicoli alla stessa maniera inseguiti e inseguitori. La libertà di stampa non è in pericolo (lo è stata molto di più sotto Berlusconi). Sono in pericolo l’autorevolezza, l’udibilità, la nitidezza delle parole e delle immagini che hanno rappresentato per anni un Paese, e rischiano di non riuscire più a farlo.

La Repubblica 08.03.13