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Le donne sono il motore del cambiamento

Con il 38% alla Camera e il 42% al Senato il PD porta in Parlamento il più nutrito gruppo di donne in Parlamento. “Le donne – ha detto il segretario del Pd Pier Luigi Bersani all’incontro di presentazione di tutte le nuove elette – sono il motore del cambiamento, un cambiamento che è responsabilità, principio da cui non si prescinde”, e che rappresentano il punto di partenza per “rispondere alla profondità del sommovimento delle democrazie europee, che vanno gestite senza il deperimento della democrazia rappresentativa e l’avvitamento alle ricette di austerità”.

“Abbiamo creato dei meccanismi irreversibili di rappresentanza che non saranno più eludibili -ha aggiunto Bersani – e abbiamo fatto girare la ruota in Parlamento, abbiamo più new entries e più donne di Grillo”. Ascoltare la domanda di cambiamento, la disperazione, le proteste – “che pure portano segnali di dinamismo e non solo negatività” – attraverso le capacità e le competenze delle donne, “da sempre più capaci nel capire quali siano i possibili punti di incontro per il necessario avanzamento di sistema che il Paese chiede. Il protagonismo femminile è il traino dell’intero avanzamento dei diritti, civili e sociali: partiamo da una piattaforma che abbia il tema femminile al centro, da cui derivano tutti gli altri, e su cui – al di là del famoso scouting di cui ci accusano – è possibile trovare un’accoglienza trasversale”.

Bersani ha quindi esortato tutti a “impegnarsi sul femminicidio”, delitto odioso che “contiene il messaggio che una donna non può fare quello che sceglie lei”. A questi numeri che “non sono solo numeri, ma contenuti, pensiero, competenze, proposte espresse in Parlamento, si è arrivati attraverso il lavoro svolto da noi tutte e dalle nostre parlamentari, ad esempio sulla doppia preferenza di genere nei Comuni” ricorda la portavoce della Conferenza delle Donne Roberta Agostini “e attraverso le primarie parlamentari, che hanno visto l’affermazione netta delle candidate. Un risultato che va valorizzato come risorsa e iniziativa, attraverso gli 8 punti presentati in Direzione nazionale, che prevedono l’attuazione immediata della legge contro il femminicidio e di politiche di contrasto alla violenza, così come il sostegno all’occupazione femminile, in particolare al Mezzogiorno, nelle misure per la crescita”.

Ragionare sulla presenza femminile nelle Commissioni parlamentari, e non rimanere confinate a tematiche di genere è stato l’invito rivolto da Federica Mogherini, in Commissione Difesa alla Camera nella precedente legislatura, che ricorda come sia possibile ratificare subito, in tempi da primo giorno di scuola, la Convenzione di Istanbul.

Lo sguardo femminile trasversale su ogni tema, ma anche la “proposta di modi e tempi nostri nella politica, per una conciliazione che fa bene anche all’uomo” nelle parole di Josefa Idem, e in quelle di tutte l’esigenza di essere elemento dinamico nella soluzione dei problemi reali. Rosy Bindi si è richiamata alle parole di Michela Marzano, che invitava a risparmiarle, le parole, e a non considerarsi migliori in quanto donne. “Rappresentiamo la parte del mondo che è stata più estranea alla politica, e pesa su di noi la sfida più grande, dell’avvicinamento della gente alle istituzioni”.

www.partitodemocratico.it

Minacce Kyenge e Chouaki, parlamentari Pd “Atto gravissimo”

Nota comune di sostegno e solidarietà di tutti i neo-parlamentari modenesi del Pd. I neo-eletti del Pd modenese esprimono piena vicinanza personale e politica a Cécile Kyenge e Khalid Chaouki che, secondo quanto riportato dal blogger de L’Espresso Daniele Sensi, sono stati oggetto di insulti e minacce di tono xenofobo proferiti su Internet. “Accoglienza, solidarietà, integrazione – scrivono Baruffi, Galli, Ghizzoni, Guerra, Patriarca, Pini, Richetti e Vaccari – saranno le direttrici portanti per mettere il paese al riparo dal fallimento culturale e politico che ci ha lasciato in eredità la destra”.
A quanto riportato dal blogger dell’Espresso Daniele Sensi, insulti e minacce sarebbero stati proferiti nei confronti della neo-eletta parlamentare modenese del Pd Cécile Kashetu Kyenge. Si tratterebbe di frasi di natura xenofoba e di minacce esplicite indirizzate non solo a Cécile Kyenge, ma anche all’altro parlamentare del Pd che si occupa di integrazione e nuova cittadinanza Khalid Chaouki. “Un atto gravissimo, se confermato” commentano, indignati, i neo-eletti senatori e deputati del Pd modenese che con Cécile Kyenge entreranno in Parlamento il prossimo 15 marzo. Davide Baruffi, Carlo Galli, Manuela Ghizzoni, Maria Cecilia Guerra, Edo Patriarca, Giuditta Pini, Matteo Richetti e Stefano Vaccari sottolineano con amarezza come le idee di democrazia e rispetto dell’altro, in questo Paese, non siano ancora un patrimonio di tutti. “Il Pd è orgoglioso – scrivono i neo-eletti Pd – di avere tra i propri rappresentanti persone che con competenza e convinzione sapranno difendere e promuovere i diritti dei tanti nuovi cittadini. Condanniamo con forza ogni forma di violenza, – continuano – anche se solo verbale. Esprimiamo piena vicinanza personale e politica a Cécile e Khalid, riconfermando il nostro impegno assoluto a promuovere assieme a loro, anche dalle aule del Parlamento, una politica di segno opposto a quella fino ad ora espressa dalla destra: accoglienza, solidarietà, integrazione saranno le nostre direttrici portanti per mettere il Paese al riparo dal fallimento culturale e politico che ci ha lasciato in eredità la destra. Il nostro primo impegno – concludono i parlamentari Pd – sarà appunto per una riforma radicale del diritto di cittadinanza: chi nasce in Italia è cittadino italiano senza se e senza ma.”

8 marzo, le parlamentari Pd “Rendere l’Italia un Paese per donne”

Nota delle neoelette Manuela Ghizzoni, Maria Cecilia Guerra, Cécile Kyenge e Giuditta Pini. Il nuovo Parlamento è quello con il più alto numero di elette, senatrici e deputate entrate nella massima istituzione democratica che possono, e devono, tentare di rendere l’Italia un Paese davvero per donne. I temi sono tanti: dal lavoro con il suo carico di diseguaglianze alle carenze del sistema del welfare, dalla mancanza di un vero diritto di cittadinanza per tutti fino alla drammatica emergenza della violenza sulle donne. Occorre un deciso cambio di rotta, ma il cambiamento deve essere prima di tutto di tipo culturale. “Ratifichiamo la Convenzione di Istanbul” dicono le nuove parlamentari modenesi del Pd. Ecco la nota congiunta di Manuela Ghizzoni, Maria Cecilia Guerra, Cécile Kyenge e Giuditta Pini:

Il cammino per rendere l’Italia un Paese per donne è ancora lungo. Le riforme da affrontare per consegnare agli italiani una democrazia compiuta, che rappresenti donne e uomini, devono partire dal lavoro e dalle carenze del welfare, passando per un diritto di cittadinanza per tutti, per arrivare fino alla violenza portata alle estreme conseguenze del femminicidio. E’ sotto agli occhi di tutti che la crisi economica ha acuito le già gravi difficoltà delle donne a entrare nel mercato del lavoro. Il tasso di occupazione femminile è in Italia di 12 punti inferiore alla media europea. Tra le donne è maggiore l’incidenza del lavoro a termine e parasubordinato e difficilmente occupano posti di vertice. La retribuzione netta mensile è inferiore di circa un quinto a quella degli uomini. Le difficoltà a entrare e rimanere nel mercato del lavoro si acuiscono quando il carico di lavoro di cura (per figli e anziani) si fa elevato: solo 4 madri su 10 riprendono a lavorare dopo la gravidanza. Ogni anno, in questo periodo, ci si domanda il significato attuale della Festa della donna. L’8 marzo può essere l’occasione per riflettere su questi dati che ci dicono quanto sia importante mettere in atto politiche di conciliazione. Politiche che puntino alla creazione di asili nido, all’attuazione di politiche di cura per disabili e non autosufficienti, ad una maggiore flessibilità nell’organizzazione del tempo di lavoro. Ma occorre anche che il lavoro di cura e domestico sia meglio distribuito fra donne e uomini. In Italia, nonostante le lotte, le conquiste e le aperture, nelle coppie con figli, questi impegni ricadono sulle donne per il 72,1%. L’8 marzo ci invita allora anche a riflettere sull’urgenza di un mutamento culturale, che coinvolga anche gli uomini. Ed è in questa logica che il lavoro e le carenze del welfare diventano temi che si intrecciano con l’emergenza drammaticamente attuale della violenza contro le donne. Non sono temi slegati: le statistiche confermano quanto la ricattabilità economica sia un fattore importante nelle mancate denuncie del proprio aguzzino e le donne immigrate, senza veri diritti, sono su questo fronte ancora più fragili. Questi temi dovrebbero essere parte di una legge di sistema che riporti le cittadine al centro degli interessi e dell’attività politica. Ora, in un momento di instabilità istituzionale, è necessario garantire le emergenze. E’ per questo che lanciamo una proposta che può sembrare una provocazione. L’Italia deve ratificare la Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica. Potrebbe essere questo il primo atto del nuovo Parlamento – che per la prima volta vede un così alto numero di elette – per dimostrare la capacità di inserirsi in un percorso europeo che guardi non solo alla finanza ma anche ai diritti. Un diritto di cittadinanza la donna è più fragile.

"Scarsi in matematica? Colpa della volgarità", di Benedetto Vertecchi

L’ultimo bollettino di Caporetto per la scuola italiana è costituito dal rapporto sui livelli di apprendimento nella matematica pubblicato dall’Associazione Iea (International Association for the Evaluation of Educational Achievement). Ancora una volta, la comparazione dei risultati ci vede relegati in una posizione tutt’altro che esaltante. E, ancora una volta, i commenti non sono andati oltre le consuete lamentazioni che, in un modo o nell’altro, tendono a far passare in secondo piano le ragioni degli insuccessi che, una rilevazione dopo l’altra, si continuano ad accumulare. Anche in questo caso, si sono sentiti i soliti richiami alla necessità di migliorare la formazione professionale degli insegnanti e di individuare soluzioni più efficaci per la didattica. Mi sembra di aver sentito affermazioni analoghe già una quarantina d’anni fa, quando incominciavano a diffondersi i dati delle rilevazioni comparative tra i sistemi scolastici.
In questi decenni, i risultati italiani hanno continuato a peggiorare, ma i buoni propositi di volta in volta enunciati sono rimasti tali. La formazione professionale degli insegnanti costituisce ancora un nodo irrisolto, così come non ci sono stati progressi di qualche rilievo nell’organizzazione della ricerca didattica. Il fatto è che, in ogni caso, interventi nelle due direzioni indicate, che pure sarebbero auspicabili, non basterebbero a rovesciare la dinamica negativa che sia l’Associazione Iea, sia l’altra grande centrale della ricerca comparativa, l’Ocse, non cessano di segnalare. Le indagini comparative non servono, infatti, a stilare una graduatoria dal migliore al peggiore, ma a rendere evidenti i contesti che si associano a livelli di rendimento più o meno soddisfacenti.

Per quel che riguarda l’apprendimento della matematica, si dovrebbe incominciare con l’osservare che la crisi non riguarda solo l’Italia, anche se nel nostro Paese ha assunto dimensioni particolarmente preoccupanti. Si direbbe che un settore della conoscenza cui si deve molto dello sviluppo del pensiero europeo e del progresso scientifico e tecnologico abbia esaurito la sua spinta propulsiva, almeno a livello della cultura diffusa. Gli stili di vita prevalenti nei Paesi industrializzati riducono progressivamente l’uso delle competenze di base nelle pratiche quotidiane. Si legge e si scrive di meno, e c’è sempre minor bisogno di calcolare.

Se in Italia la situazione si presenta più grave che altrove, occorre ricercare quali siano gli aspetti non solo dell’educazione formale (quella scolastica), ma anche di quella informale (mi riferisco all’educazione che implicitamente si acquisisce nei contesti di esperienza) che concorrono a determinare atteggiamenti negativi nei confronti dell’apprendimento della matematica. La mia opinione, per quanto possa sembrare paradossale, è che il livello deludente dei risultati che si riferiscono alla matematica debba essere riferito non tanto alle difficoltà specifiche che presenta tale area della conoscenza, quanto ad una progressiva caduta della cultura diffusa nella popolazione, a cominciare dalla qualità delle competenze verbali. Credo che chiunque abbia qualche consuetudi ne con i comportamenti dei bambini e dei ragazzi (ma il fenomeno si va rapidamente estendendo alle età successive) non possa non aver notato una progressiva attenuazione della capacità di argomentare in modo proprio, corretto dal punto di vista grammaticale e adeguato da quello sintattico, di un registro appropriato agli argomenti sui quali ci si sta soffermando. L’uso sociale della lingua non contribuisce a sostenere il compito di apprendimento: i mezzi di comunicazione, e soprattutto la televisione, diffondono messaggi sempre più poveri di pensiero, il cui intento non è quello di stimolare la comprensione, ma di attrarre l’affettività. La volgarità dell’espressione verbale è stata, come si usa dire «sdoganata»: in altre parole, si ricorre a espressioni allusive e spesso scurrili per sollecitare una adesione istintiva, che non comporta una riflessione specifica. I bambini e i ragazzi sono immersi in un universo comunicativo rispetto al quale i messaggi dell’apprendimento formale appaiono lontanissimi ed estranei.

È del tutto improbabile che il quadro negativo che le rilevazioni internazionali pongono in evidenza possa essere modificato solo con rettifiche nel modo di operare delle scuole. Occorre, invece, definire un programma educativo di ampio respiro, che tenda a conferire una nuova qualificazione alla cultura della popolazione e ridefinisca il ruolo della scuola nello sviluppo di bambini e ragazzi. Per cominciare, c’è bisogno di definire una politica che valorizzi il patrimonio immateriale e le testimonianze storiche della tradizione italiana ed europea, e che sia aperta, in chiave di incremento e non di riduzione, agli apporti di altre culture. Essenziale in questa prospettiva è un forte incremento della presenza della scuola nell’organizzazione della vita di bambini e ragazzi: si tenga conto che i risultati migliori sono quelli che si ottengono nei sistemi scolastici che operano su tempi distesi e impegnano una parte più consistente del tempo degli allievi.

L’importanza di qualificare la cultura diffusa è più evidente se ci si riferisce all’apprendimento della matematica, ma non è inferiore se prendiamo in considerazione altri campi della conoscenza: la povertà del linguaggio parlato, e peggio che mai di quello scritto, costituisce un segnale predittivo dei risultati scadenti che si conseguono nella scuola.

Sarebbe utile orientare il maggior impegno nella valutazione istituzionale del sistema educativo all’analisi dei problemi posti in evidenza dagli insuccessi nelle rilevazioni comparative. Continuare a prendere atto delle differenze fra le aree geografiche o fra città e campagna è utile solo se si persegue l’intento di assicurare l’equità delle opportunità educative.

L’Unità 07.03.13

"Grillismo, l’illusione della democrazia senza più partiti", di Giancarlo Bosetti

Il salto mortale logico sta nella pretesa che “conoscere” significhi di per sé “risolvere” i problemi come se non esistessero più le differenze di opinione.Una formazione nuova, ambiziosa con intenti radicalmente innovativi si è aggiunta a una situazione già molto difficile. Ma non si può fare a meno della rappresentanza. Fino a che punto può spingersi la sfida di Grillo alla democrazia rappresentativa? Il movimento ripudia espressamente la delega, propugna la disintermediazione, vuole aumentare le dosi di quello che i politologi chiamano “direttismo”. Quest’ultimo non è una novità nelle democrazie, ma è stato finora interpretato come un ampio ricorso ai referendum, una strategia applicata sistematicamente in Italia con alterni risultati, ma il “direttismo” del M5S non consiste in questo, bensì nell’uso della Rete per costruire il movimento e il consenso. Ma in che modo si passa dal consenso alla deliberazione e alla legislazione?
Se si cerca una risposta nel video animato di Casaleggio, Gaia-The Future of Politics, sull’avvento del governo universale (dopo una sconvolgente guerra mondiale), si scopre che una risposta a questa domanda in verità c’è. Una volta che tutti saranno connessi “senza password” (finalmente), nel 2054, il fatto stesso di stare in Rete porterà a “risolvere problemi” attraverso una forma di pensiero collettivo. Si istituirà un regime di saggezza unificata. Un mondo in cui «partiti politici, ideologie e religioni spariscono». Voilà, dalla preistoria alla storia, avrebbe aggiunto il vecchio Marx. E di tali “armonie”, sappiamo, è pieno il Novecento. Ma l’ardimento teorico maggiore — sia pure in metafora — sta nel salto mortale dal “conoscere” al “risolvere”, come se non ci fossero più opzioni alternative tra le quali scegliere (e tra le quali gli esseri umani continueranno invece a dividersi). La Terra sarà sommersa da una dozzina di metri di acqua? Eppure il miliardo di sopravvissuti di sicuro litigherà sui metodi di sopravvivenza e anche sugli appalti pubblici.
Dunque per i grillini si profila un guado che non si capisce come superare e non c’è ipotesi di aumento dei voti che possa eliminare lo scoglio, a meno di immaginare la assoluta unanimità, come soltanto in questo sogno su Youtube, dove si istituisce una “conoscenza collettiva” rappresentata graficamente da un unico cervello, che sembra capace, automaticamente, grazie all’enorme quantità di informazioni, di superare “problemi complessi”. È evidente l’impasse: il M5S ha una formidabile pratica e teoria nella mobilitazione, ma è del tutto privo di una idea di come si passa da qui al processo legislativo. A meno che vogliamo prendere sul serio l’idea “organica” di un universo dotato di una specie di spiritualità vivente e autoregolantesi (il nome Gaia fa pensare indubbiamente all’attrattiva ipotesi teorica di James Lovelock, che si chiama appunto così). Se però prendessimo alla lettera l’idea dell’eliminazione dei
partiti e con essi di ogni forma di dissenso, questa non sarebbe una buona notizia, anche per liberali poco esigenti.
Non stupisce che di questi tempi ricompaia con successo nelle librerie Democrazia senza partiti di Adriano Olivetti, un protagonista dell’industria, del design e della cultura italiana de- anni Cinquanta, che fondò, tra le altre cose, la rivista e il movimento di Comunità.
Ma l’ispirazione liberale dell’imprenditore di Ivrea contrastava l’egemonia della Dc a destra e del Pci a sinistra, con un’idea di autogoverno basato su piccole comunità, e collocava al centro della vita pubblica la capacità critica della persona-cittadino.
Comunità pubblicava anche, con evidente soddisfazione, i taglienti contributi di Simone Weil, la filosofa pacifista e mistica, morta a soli 34 anni, come Appunti per la soppressione dei partiti politici, in cui la mentalità prevalente dell’epoca veniva torturata quasi sadicamente: i partiti sono «macchine di passione collettiva » che opprimono il pensiero individuale e perpetuano se stesse. Con loro trionfa la menzogna, «una lebbra che si può superare solo con la loro soppressione».
Ma quella era l’epoca d’oro del Parteienstaat, lo “stato dei partiti”, di quelle floride organizzazioni che hanno attraversato, con le loro sezioni, federazioni, scuole, direzioni centrali e segreterie, gran parte del secolo scorso. Dobbiamo riconoscere, come fa oggi la scienza politica, che il “partito organizzativo di massa”, nato nell’Ottocento con il socialismo, ha pur svolto una funzione pedagogica, di elaborazione della “domanda politica”, di integrazione nelle istituzioni, di assorbimento dei conflitti e anche che la democrazia rappresentativa finora non ne ha potuto fare a meno. Certo sono valide le ragioni di Roberto Michels, il sociologo tedesco, secondo il quale la complessità della partecipazione organizzata di tanta gente impone una tendenza inevitabilmente oligarchica alla struttura, determina la professionalizzazione dei ruoli dirigenti e finisce per consentire la manipolazione della base. E quando il peggio può accadere, accade. Arrivano i politici che vivono non “per” ma “della” politica (Max Weber). Oggi la presenza dei partiti in Italia non appare ingombrante per le stesse ragioni che lamentavano Olivetti e la Weil: sono diventati più piccoli e più deboli, non hanno la più potenza ideologica con cui elaboravano linguaggi e visioni del mondo, sono diventati “partiti personali”, aggregati cangianti, dai nomi incerti. La loro patologia non produce oppressione ideale, ma altro: una tendenza invasiva della società, lottizzazione, finanziamento pubblico smisurato, corruzione. Sono gli argomenti dei grillini.
«Nessuna fiducia a un governo dei partiti» sostiene il M5S. Nella stessa riunione però un deputato del gruppo dice: «Demoliamo il nostro ego per metterlo al servizio del movimento». E che altro è questo se non disciplina di partito? Quella battuta sarebbe piaciuta a un bolscevico. E Simone Weil ci avrebbe visto tracce della “lebbra” di cui sopra. Anche qui c’è aria di una contraddizione in via di esplosione.
Per stare ai fatti, un partito ambizioso, e con intenti radicalmente innovativi, si è aggiunto al difficile concerto politico italiano. E giacché di rappresentanza e di partiti non si può fare a meno, per far funzionare la democrazia parlamentare nella sua pienezza costituzionale e deliberativa, bisognerà allentare le maglie della “legge” di Michels, e scommettere sul miglioramento di quelli vecchi, e sulla maturazione di quelli nuovi.

La Repubblica 07.03.13

Bersani incassa il sì del Pd «Non c’è un piano B», di Simone Collini

Incassa il sì all’unanimità dai membri della Direzione Pd (con un’astensione) e poi telefona a Giorgio Napolitano per illustrargli di persona gli otto punti che intende realizzare guidando un «governo di combattimento». Pier Luigi Bersani inizia a realizzare il piano che aveva illustrato all’indomani del risultato elettorale. Il primo passo era un mandato pieno del suo partito per andare a chiedere l’incarico al Quirinale. E questo, anche grazie all’assenza di riferimenti alle urne anticipate e a toni ultimativi, è arrivato puntuale (nonostante delle assenze che si sono fatte notare, come quelle di Matteo Renzi e di Walter Veltroni).
Ora la partita entra nel vivo, ma anche Bersani muove il primo passo ribadendo la «fiducia» nell’operato del Capo dello Stato, torna a più riprese anche sull’indisponibilità a qualunque operazione che coinvolga il Pdl. «Non sono praticabili accordi di governo con la destra berlusconiana», sottolinea il leader Pd aprendo i lavori della Direzione: «No a una soluzione al di sotto dell’esigenza di cambiamento che il Paese invoca, e il cambiamento non possiamo cercarlo con chi lo ha ostruito fin qui». E poi, nelle conclusioni dopo otto ore di dibattito, prendendo atto del via libera alla sua proposta per un «governo di combattimento», dice partendo dagli otto punti illustrati che «va sfidato» Grillo, e aggiunge: «Di ipotesi B non ne sono venute fuori».
LA PARTITA DELLE PRESIDENZE
Bersani è il primo a rendersi conto che la strada è stretta e in salita, ma è determinato a percorrerla fino in fondo. La prima condizione per portare a casa il risultato, nel caso Napolitano gli dia l’incarico, è incassare la fiducia al Senato. Sulla carta il leader Pd parte dal sì di 124 senatori, a cui dovrebbe aggiungersi il via libera dei 22 parlamentari di Scelta civica. L’obiettivo può essere raggiunto soltanto se i senatori Cinquestelle si moveranno a favore. E come si può indurli a farlo? Anche se Bersani ribadisce che il Pd è aperto a soluzioni di «corresponsabilità istituzionali», che riguardino anche i vertici delle commissioni parlamentari, in queste ore sembra perdere quota l’ipotesi che possa essere eletto alla presidenza della Camera un esponente del Movimento 5 Stelle. Dovesse perdurare l’indisponibilità da parte dei parlamentari grillini, potrebbe essere eletto per quell’incarico Dario Franceschi, mentre allo scranno più alto di Palazzo Madama potrebbe andare un senatore di Scelta civica. Bersani non intende «corteggiare» Grillo, ma sfidarlo sul suo stesso terreno, sulla richiesta di cambiamento che è arrivata da queste elezioni. Da qui gli otto punti, che costituiscono una serie di proposte di legge che già da oggi saranno pubblicate on-line, sottoposte a questionari, discussione pubblica e poi portate al centro di una mobilitazione che nei prossimi giorni verrà avviata in tutte le regioni italiane.
SFIDA A GRILLO IN OTTO PUNTI
Per Bersani questi otto punti costituiscono non solo un programma di governo, in caso arrivi la fiducia, ma anche la base di un programma elettorale nel caso si vada a elezioni anticipate. Perché è chiaro che se il Pd vuole approvare quel programma qualificato, nessun accordo di governo con Berlusconi potrà essere siglato. Basta leggerle quelle otto proposte di governo, che hanno al primo posto la necessità di uscire dalla «gabbia dell’austerità», che propongono misure per il fronte sociale e del lavoro, che affrontano il tema dei costi della politica, ma che insistono molto sui temi della moralità pubblica e della legalità. E non è un caso se le prima misure che verranno illustrata nel dettaglio, oggi insieme a Pietro Grasso, sono la legge sull’anticorruzione e quella sul falso in bilancio.
Su questi punti nessun accordo può essere trovato con il Pdl, mentre la sfida è lanciata ai Cinquestelle. «Davanti al Paese ognuno prenderà le sue di responsabilità. In particolare, chi ha avuto il consenso di oltre 8 milioni di elettori deve dire cosa vuol fare di questi voti, per l’Italia. Non ci si può ridurre a una proposta sulla raccolta differenziata. Cinquestelle pensa di scegliere fior da fiore, tenendosene fuori? Aspetta una sorta di autodistruzione del sistema? Spera che noi si stia fermi e muti? Se è così fanno dei conti sbagliati».
Bersani aggiunge nella replica con cui chiude la Direzione la disponibilità ad affrontare anche il «superamento dell’attuale sistema di finanziamento dei partiti», ma «in connessione con il funzionamento democratico dei partiti». E anche questa è una sfida a Grillo, che però risponde a stretto giro pubblicando sul suo blog una lista di dieci punti su cui, a suo dire, convergono Pdl e Pd (che replica sempre via web: «solo falsità, un modo per scappare»).
APPELLO ALL’UNITÀ
Se i niet dei Cinquestelle dovessero essere ribaditi in Parlamento, il tentativo di Bersani finirebbe nel nulla e si aprirebbe una nuova fase. Cosa succederebbe a quel punto? Il leader del Pd chiude la relazione con cui avvia i lavori della Direzione con un appello all’unità del partito: «Continueremo a decidere negli organismi ma chiedo che il Pd, pur nel vivo della sua dialettica, garantisca unità. Un Pd che discute come sempre ma che è unito è una risorsa di cui l’Italia non può fare a meno. Il Pd è l’unica forza che può portare l’esigenza di cambiamento e novità a una dimensione di governo e che può sottrarre il cambiamento all’avventura. Questa è la generosità che deve avere ciascuno di noi, a partire da me, a fare quello che si deve e non quello che si vuole».
L’appello viene raccolto, con un voto che chiude la Direzione all’unanimità. Ma se il «cambiamento di combattimento» non dovesse nascere, bisognerà vedere come reagirà il partito di fronte a nuovi scenari. Bersani, in ogni caso, non abbandona la strategia del passo dopo passo, e registra con soddisfazione il via libera che è stato dato non solo alla sua richiesta di andare a chiedere l’incarico al Colle per il governo di scopo, ma anche alla sottolineatura che non ci sono «ipotesi B» e che «accordi di governo con la destra berlusconiana non sono praticabili». E poi chiude i lavori con questa frase: «Appena sarà chiaro l’andamento dei calendari dovremo fissare l’assemblea anche per la convocazione del congresso».

L’Unità 07.03.13

"Merkel: no alle quote rosa nei consigli delle aziende", di Marco Zatterin

La Germania è pronta a porre un veto all’ingresso della Romania e della Bulgaria nello spazio Schengen, l’area in cui i cittadini dell’Unione (e non solo) possono circolare liberamente. «I nostri cittadini accetteranno l’allargamento solo quando le condizioni fondamentali saranno rispettate», ha tuonato il ministro degli Interni, Hans-Peter Friedrich. Inutile che la Commissione Ue abbia dato il via libera dicendo che coi parametri di accesso Bucarest e Sofia sono in regola. Berlino paventa il diffondersi della corruzione e la migrazione dei Rom. A maggior ragione ora che mancano pochi mesi alla elezioni per il rinnovo del Bundestag.

A Bruxelles è sempre più chiaro a molti che l’approssimarsi del voto in Germania sta agitando più del dovuto il processo di integrazione comunitaria. I segnali sono molteplici. Già in dicembre si è assistito all’annacquamento del rafforzamento dell’Unione monetaria, in quel caso la cancelliera Merkel ha tenuto a distanza ogni tentazione di mutualizzazione e lassismo sul fronte del debito. Era il capolinea di tre anni di prediche rigoriste che hanno avuto un evidente effetto nel peggiorare le relazioni fra Nord e Sud dell’Ue, tra corazzieri dell’austerità e amici della solidarietà, tra economie ricche e quelle in difficoltà.

Dopo il vertice europeo si è capito che sino all’autunno del giudizio per Frau Merkel, l’Europa avrebbe possibilità ridotte di avanzare a passo spedito. Ora, però, si ha come la sensazione che si stia facendo qualche passo indietro. C’è la questione di Schengen, che è di per sé potenzialmente deflagrante per il clima interno ai Ventisette. Ma c’è anche il «no» che Berlino intende opporre alla normativa per l’introduzione delle quote rosa nei consigli delle società quotate. La proposta scritta dalla commissaria Viviane Reding, in discussione al Consiglio, riserva il 40% dei board alle donne entro il 2020, mentre le aziende pubbliche dovrebbero arrivarvi già nel 2018. Berlino non ci sta.

Secondo la Süddeutsche Zeitung avrebbe dato mandato ai suoi negoziatori bruxellesi di organizzare «il rifiuto della proposta normativa», da raggiungere con la «formazione di una minoranza di blocco». Anticipando in modo improprio l’8 marzo, la cancelleria si appella al principio di sussidiarietà e afferma che non c’è motivo per decidere a livello europeo in materia. Una fonte comunitaria spiega il contrario: «Le aziende sono europee, il mercato è europeo, la decisione deve essere europea».

«È per garantirsi il voto delle imprese», ammette un osservatore. Così come la strategia rigorista e quella contro Schengen per romeni e bulgari gratta la pancia del cittadino medio e più conservatore. Non si vuole che la cosa europea disturbi la campagna elettorale. Per il Consiglio Interni in programma oggi gli sherpa hanno scritto una formula per salvare tutti e agevolare un rinvio. Quasi impossibile sperare che i cieli di Bucarest e Sofia si aprano come previsto a fine mese, e a terra cadano le frontiere da luglio. Anche olandesi e finlandesi non sono d’accordo, sebbene gli economisti ribadiscano che serve manodopera nel grande mercato. Il premier romeno, Victor Ponta, ha segnalato che non chiederà un voto su Schengen e ha invitato tutti «a toni più moderati». Forse vuole altri scontri. Magari aspetta l’esito delle urne federali. Però, dice, «persiste una barriera che ricorda quella caduta nel 1989». Il che evidenzia ancora una volta il problema.

La Stampa 07.03.13