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"Il braccio di ferro con il Quirinale", di Claudio Tito

La crisi politica che si è aperta dopo le elezioni assomiglia sempre più ad una partita di scacchi. Ognuno muove il proprio pedone, ma nessuno sembra in grado di arrivare in fondo. Di dare lo scacco matto. E la direzione del Partito Democratico ha plasticamente disegnato questa immagine. Una potenziale paralisi che contiene al suo interno il germe del ritorno al voto. Un rischio che tutti scansano ma che chiunque mette nel conto.
Pierluigi Bersani ha messo sul tavolo le sue carte.
Molte delle quali erano già note. Ha chiesto al suo partito di sostenerlo in questa prima fase di trattative. Basa il suo ragionamento sul risultato elettorale: il centrosinistra ha la maggioranza assoluta alla Camera, quella relativa al Senato. Un dato sufficiente per reclamare l’incarico di formare un governo. O almeno di provarci: di sondare fino in fondo l’indisponibilità di Beppe Grillo a far nascere qualsiasi tipo di esecutivo che non sia guidato da un esponente del Movimento 5Stelle. Una esplorazione avviata rimettendo sul tappeto due concetti che, a suo giudizio, potrebbero intercettare il gradimento grillino (e anche di Matteo Renzi): quello di unire l’opportunità di un’alleanza Pd-M5S al cambiamento; e quella della governabilità non disgiunta dalla società civile. Quasi che volesse dire all’ex comico: sono pronto a guidare il Paese tenendo conto delle istanze esplose nel voto al Movimento e provenienti dai ceti più disagiati e disgustati dai “vecchi” partiti. Certo, è il ragionamento di Bersani, se poi la risposta resta negativa, allora la responsabilità del caos non può che ricadere su Grillo: ci abbiamo provato ma se i vitalizi, gli stipendi dei parlamentari, i costi della politica sono sempre gli stessi, allora la colpa è loro e non nostra.
Un ragionamento che per ora è stato sufficiente per incassare il via libera dei Democratici. Per ora. Perché la vera partita si giocherà nei prossimi giorni. Nel Pd, infatti, in pochi scommettono sulla possibilità che il cosiddetto “piano A”, quello disegnato dal segretario, possa avere davvero successo. Non lo pensano i leader delle correnti e soprattutto non lo crede il presidente della Repubblica Napolitano. Il voto sostanzialmente unanime espresso al termine della riunione è il segno più marcato che si è trattato di un passaggio preliminare. Di un modo per tutelare la collegialità rinviando il confronto sulle “subordinate”. Quali? Un altro governo, con un presidente del Consiglio non di partito, che raccolga i voti in tutti gli schieramenti. Anche il Pdl. Oppure il ritorno alle urne. Il Pd, se e quando Bersani avrà esaurito il suo mandato, si troverà di fronte ad un bivio che può spaccarlo come è accaduto in passato.
Stavolta, però, il quadro è decisamente più complicato. Perché sulle due alternative è già in corso da dieci giorni un vero e proprio braccio di ferro tra il Quirinale e la segreteria democratica. Napolitano non può accettare di concludere il suo settennato lasciando l’Italia nel limbo di un’altra campagna elettorale, Bersani non può accettare di far cadere il suo partito nella trappola delle “larghe intese” consegnando un vantaggio competitivo ai grillini alle prossime elezioni. Soprattutto non può accettare l’idea di dar vita ad una coalizione con Berlusconi. Come dice Massimo D’Alema: con un centrodestra normale sarebbe naturale fare un “inciucio”, ma con il Cavaliere no. Una condizione che per la sua popolarità nel centrosinistra può diventare il vero atout contro il “compromesso” ma anche l’irresistibile chiodo a cui appendere lo scioglimento del Parlamento e le elezioni già questa estate.
Eppure nel Pd la faglia si è già aperta. Basti pensare che Veltroni non ha parlato e che lo stesso D’Alema ha comunque prospettato la necessità teorica di una Grosse Koalition.
La paura di sottoporsi di nuovo al giudizio dei cittadini infatti spaventa tutti: centrodestra e centrosinistra. Il fronte pronto ad ingoiare un’altra maggioranza spuria si è quindi già materializzato. E il Colle ha fatto intuire quali possano essere le subordinate. Il percorso che conduce ad un “governo del presidente” è la prima vera alternativa. La pressione dell’emergenza economica e i giudizi della comunità internazionale saranno i due fattori che condizioneranno la seconda fase della trattativa. Napolitano vuole fare in fretta: il suo mandato di fatto scade il 15 aprile, quando le Camere si riuniranno per eleggere il suo successore. Il fantasma che agita una parte del Pd (a cominciare dai bersaniani) è quindi quello di un esecutivo che agisca sotto l’ombrello protettivo del presidente della Repubblica, che offra le adeguate garanzie all’Europa e ai mercati internazionali, e che permetta l’approvazione di una nuova legge elettorale. Ma con una controindicazione: può un “governo del Presidente” nascere e restare in vita se il Presidente cambia? Come è accaduto per Monti, Napolitano è stato il vero tutor dei tecnici. Come è possibile che accada lo stesso se il settennato del Quirinale sta per scadere? Non è possibile, a meno che l’itinerario istituzionale non preveda anche la conferma sul Colle dell’attuale inquilino. Eppure ormai tutto spinge in quella direzione. Se poi le borse e lo spread faranno sentire il fiato sul collo della nostra politica, se le agenzie di rating dovessero lanciare un ennesimo avvertimento, allora la strada per un esecutivo del presidente diventerà obbligatoria.
Ma quella è forse la terza fase di questa lunga partita a scacchi. Tra due settimane il capo dello Stato affiderà il “primo” incarico. Da qui ad allora, Bersani scommetterà ancora sull’accordo con i grillini. Spera che alcuni dei senatori del M5S inducano il loro capo a più miti consigli e ad avallare almeno una iniziale nascita del governo Bersani. Una speranza che allo stato si sta rivelando vana. Esattamente la considerazione che molti democratici hanno fatto ieri. Forse per questo molti di loro hanno iniziato a sperare in una “seconda carta” interna al partito, magari una donna, se il centrodestra riuscirà concretamente a “deberlusconizzarsi” il prossimo 23 marzo quando è prevista la sentenza d’appello per il processo Mediaset. Ma affidare le speranze al passo indietro del Cavaliere significa non aver ancora capito come è fatta la destra italiana e quanto è tenace il suo leader. Una ulteriore sentenza di condanna non farà altro che rendere ancora più indigeribile l’opzione di una maggioranza con il Pdl. Anche se qualcuno le volesse mascherare dietro un abusato motto della Prima Repubblica: le convergenze parallele.

La Repubblica 07.03.13

"Crollo degli iscritti nelle università italiane: mai così bassi da 25 anni. E cala la qualità", di Salvo Intravaia

I dati diffusi dal Cineca: solo 267.076 nuove immatricolazioni, settantamila in meno di dieci anni fa. L’ultima volta che gli iscritti hanno toccato questo livello era il 1988. Tengono le facoltà scientifiche, dimezzato l’afflusso a quelle sociali. E gli atenei italiani toccano il fondo nelle classifiche mondiali.
ANCORA giù le immatricolazioni all’università e gli atenei italiani precipitano in basso nelle classifiche internazionali. I dati relativi all’anno accademico in corso, forniti dal Cineca – il consorzio interunivesitario che gestisce l’anagrafe degli studenti universitari italiani – confermano il grido d’allarme lanciato qualche settimana fa dal Consiglio universitario nazionale (Cun) e se possibile lo aggravano ancora. In appena tre anni, si sono persi 30.000 nuovi iscritti negli atenei italiani e in meno di 10 anni, nove per la precisione, addirittura più di 70.000.

Era da 25 anni che in Italia non si registrava un numero di matricole così basso: nel 1988/1989 gli immatricolati erano 276.249. Quest’anno appena 267.076.

Il calo maggiore lo hanno subito i corsi triennali, che in meno di un decennio hanno perso quasi un terzo degli iscritti: 92.749 iscritti per l’esattezza. Nell’anno in corso se ne registrano 226.283, oltre 8.000 in meno rispetto a 12 mesi fa. Nello stesso periodo il numero dei diplomati è addirittura cresciuto di oltre 11.000 unità. Perché in Italia sempre meno giovani si iscrivono all’università? La recente crisi economica e occupazionale ha probabilmente fatto la sua parte: ormai tutti, laureati compresi, trovano difficoltà a centrare il primo impiego. Perché laurearsi?

Ma con tutta probabilità, l’interruzione degli studi dopo il diploma dipende anche dai costi sempre più alti che le famiglie sono costrette a sostenere, prima per la preparazione alla lotteria dei test di ammissione – ormai diffusi nella maggior parte degli atenei – e una volta ammessi, per le tasse di iscrizione, i trasporti e il vitto e l’alloggio per i fuorisede. Spese che evidentemente scoraggiano famiglie e giovani.

Una situazione che rischia di fare precipitare l’Italia ancora più in basso nella classifica degli iscritti all’università. Attualmente, il nostro paese è al quart’ultimo posto in Europa, con 3.302 iscritti all’università per 100.000 abitanti. Un valore che, se allarghiamo lo sguardo, ci colloca dietro l’Egitto, la Thailandia e il Paraguay.

Un trend che rischia di farci precipitare all’ultimo posto anche nella classifica europea dei giovani laureati. Nel 2011 l’Italia – col 21% di laureati tra 25 e 34 anni – occupava il poco lusinghiero penultimo posto, precedendo solo la Turchia. La Romania è al 24% e la Norvegia ci surclassa: 46,1%. Le aree disciplinari che hanno subito la maggiore contrazione sono quella sociale – ovvero Scienze sociali, Scienze economiche, Scienze della comunicazione, Sociologia – che in meno di un decennio è passata da 135.000 immatricolati triennali ad appena 72.000: meno 46%.

Perdono un terzo degli immatricolati triennali i corsi dell’area umanistica – come Lingue, Lettere, Filosofia – e lasciano sul campo più di un quarto (il 27%) degli immatricolati i corsi dell’area sanitaria – Medicina, Odontoiatria, Veterinaria e Professioni sanitarie. Tengono i corsi dell’area scientifica – Ingegneria, Matematica, Chimica, Fisica, Statistica, tanto per citarne alcune – che perdono appena il 3% di new entry. Le cose cambiano poco se si prende in considerazione il totale degli immatricolati nei corsi triennali e a ciclo unico, che si assottigliano del 21%. E anche in questo caso le defezioni maggiori si registrano nei corsi dell’area sociale: meno 29%.

Intanto, nella classifica 2012/2013 redatta dal The (il settimanale Times higher education), resa nota pochi giorni fa, le poche università italiane presenti nelle prime 400 d’Europa scendono verso il fondo della classifica. Nel ranking relativo al 2011/2012, gli atenei di Bologna, Milano e Milano Bicocca figuravano tra il 226° e il 250° posto. Nessun ateneo italiano si piazzava tra i primi 200 posti. Quest’anno, le prime tre università italiane (Milano, Milano Bicocca e Trieste) si ritrovano tra il 251° e il 275° posto. Gli atenei di Bologna, Trento e Torino figurano tra il 271° e il 300° posto.

Al primo posto si piazza Harvard e, in Europa, Oxford. Limitandosi alle sole università europee, tra le prime 250 posizioni c’è almeno una università di tutti i paesi dell’ex Europa occidentale, tranne appunto Grecia, Italia e Portogallo. Tra le prime 200 d’Europa figurano ben 7 atenei francesi, 11 tedeschi e 31 del Regni Unito. E anche atenei austriaci, finlandesi e danesi e irlandesi. Ma nessun italiano.

www.repubblica.it

"Solo se è unito, sarà utile all’Italia", di Claudio Sardo

E’ una crisi politica difficile, forse la più difficile dal dopoguerra. Perché sullo sfondo c’è una sofferenza sociale diffusa, c’è incertezza sul destino dell’Europa e dunque sulla tenuta del nostro Paese, c’è una domanda di cambiamento a cui le istituzioni da anni non riescono a rispondere. Camminiamo su un crinale pericoloso, ma quella domanda di cambiamento è emersa con forza e ad essa occorre rispondere come finora non è stato fatto.

C’è il rischio, drammatico, di cadere nella spirale dell’impoverimento, dell’impotenza politica, della rottura nazionale. Ma c’è anche l’opportunità di risalire la china, di ritrovare una speranza condivisa, pur in un quadro nel quale oggi sembra prevalere solo l’instabilità. Per il Pd è la prova della verità. Si è discusso per anni di partito liquido e solido, si è discusso della difficile amalgama tra idee socialiste e cultura cattolica, si è discusso del potere degli iscritti e di quello degli elettori. Ma è adesso che il Pd deve dimostrare di essere un partito. E lo deve dimostrare al Paese prima ancora che ai suoi militanti. È dalla fondazione che il Pd discute animatamente delle sue forme e dei caratteri della necessaria innovazione, tuttavia è sopravvissuto a sconfitte pesanti e anche ripetute, a dimostrazione che le sue radici politico-culturali erano profonde nella storia nazionale e nelle aspettative di ceti sociali che chiedono equità, Europa e cambiamento. In tutta evidenza, non erano quelle diversità sufficienti a inibire l’identità o la speranza «democratica».
Ora invece la crisi politica seguita al risultato elettorale può cambiare lo scenario e rendere più drammatico il bivio di fronte al Pd. Le elezioni non hanno dato al centrosinistra la maggioranza sperata, ma resta in capo al Pd la responsabilità di una proposta per l’Italia. È logico, naturale, inevitabile che i toni del confronto interno si facciano più forti, che le posizioni in campo vengano presentate con tutto il carico che oggettivamente hanno: si sceglie la strada che dovrà imboccare il Paese, non quella che riguarda un partito. In ballo ci sono le nostre istituzioni, il futuro nostro e dei nostri figli. Ma un punto non può sfuggire ai dirigenti del Pd: se vorranno dire qualcosa di utile al Paese, dovranno prima discutere senza delegittimarsi, poi decidere come un corpo unitario e attuare queste decisioni con coerenza. Senza questa dimensione unitaria, il Pd non rischia solo una frattura. Rischia di essere afono, di non essere utile all’Italia, di diventare oggetto di scorribande altrui, di farsi sfogliare da altri la margherita dei candidati, insomma di tradire il mandato che milioni di elettori gli hanno conferito.
Disse Aldo Moro nell’ultimo discorso ai gruppi parlamentari della Dc – era il ’78, la vigilia del suo rapimento e dell’ingresso del Pci nella maggioranza, in un quadro di instabilità che ha diverse somiglianze con l’oggi – che solo un partito unito avrebbe avuto la possibilità di contare qualcosa. Non disse mai che bisognava reprimere il confronto interno, o silenziare le diversità. Non tentò mai di delegittimare chi non la pensava come lui. Chiese soltanto di agire come un corpo collettivo, capace di tenere vivo l’ideale comune mentre il tempo nuovo imponeva un cambiamento fino a ieri impensato. Disse ancora un’altra cosa Moro in quel memorabile discorso: che tutti vorremmo fare un salto al domani, ad un domani dove sia più chiara la competizione tra schieramenti politici. «Ma questo non è possibile. Oggi dobbiamo vivere, oggi è la nostra responsabilità».

Il punto non è la paura del confronto interno ed esterno. Il punto è capire se il Pd ha idee e proposte forti per affrontare questa crisi. E, dopo aver deciso la rotta, il punto è capire se avrà la capacità di fare delle sue proposte il terreno del confronto politico. Non basterà il Pd per risolvere la crisi. Ma la coesione del Pd – forza di maggioranza relativa – è la condizione perché le altre forze si assumano le proprie responsabilità e perché i cittadini possano giudicare con trasparenza. Un Pd indeterminato perché diviso, rischia di essere una bandiera al vento. E stavolta anche di perdere quell’identità di «partito della nazione», che è il suo fondamento assai più di tante questioni discusse in questi anni. L’unità in questa crisi è la condizione per poter prendere la parola e lottare perché la parola produca dei fatti.

L’Unità 06.03.13

Gas, Ghizzoni e Vaccari “Una buona notizia, ma rimarremo vigili”

L’Independent ha confermato l’abbandono del progetto del sito per lo stoccaggio di gas. Con una nota destinata ai mercati, nella giornata di martedì 5 marzo, l’Independent ha annunciato di aver rinunciato definitivamente al progetto dello stoccaggio interrato del gas a Rivara e che Grayson Nash, l’uomo che incarnava il progetto stesso, non è più al vertice dell’impresa. “Cauto ottimismo” viene oggi espresso dai parlamentari Pd Manuela Ghizzoni e Stefano Vaccari: si tratta di una buona notizia, ma, ora più che mai, deve essere seguita da un atto legislativo che dichiari, anche da un punto di vista giuridico, l’impossibilità di proseguire su quella strada.

Grayson Nash non è più Ceo dell’Independent Gas Mananagement e la stessa pubblic company inglese annuncia di aver definitivamente rinunciato al progetto dello stoccaggio di gas interrato a Rivara per “cause di forza maggiore”, leggasi sisma del maggio 2012. Con una nota destinata ai mercati, resa pubblica nella giornata di martedì 5 marzo, che sembra annunciare soprattutto il cambio al vertice, la stessa impresa che lo aveva fortissimamente voluto mette una pietra tombale sul progetto di un sito di stoccaggio in acquifero che, negli anni, sia le popolazioni che le istituzioni locali hanno fortemente contrastato. “Accogliamo la notizia con cauto ottimismo. – commentano i parlamentari Pd Manuela Ghizzoni e Stefano Vaccari – “Ottimismo” perché l’impresa, negli anni, nonostante le numerose valutazioni negative aveva sempre riproposto con forza il progetto e solo oggi, a ben dieci mesi dal terremoto, sembra aver definitivamente gettato la spugna. “Cauto” perché crediamo, come abbiamo più volte sottolineato, che nonostante il ministro per l’ambiente abbia espresso a più riprese, a parole, l’abbandono del progetto, perché questo sia definitivo occorra un atto legislativo chiaro che metta fine a quella che si è ormai trasformata in una sorta di telenovela. L’Area Nord colpita dal sisma ha assoluta necessità di certezze, – concludono Ghizzoni e Vaccari – quella della chiusura definitiva della partita sul gas è indubbiamente una di queste”.

Otto punti per un governo di cambiamento

Proposta del segretario Pier Luigi Bersani alla Direzione del Partito Democratico per lo sviluppo, la crescita e il cambiamento.
1. Fuori dalla gabbia dell’austerità.
Il Governo italiano si fa protagonista attivo di una correzione delle politiche europee di stabilità. Una correzione irrinunciabile dato che dopo 5 anni di austerità e di svalutazione del lavoro i debiti pubblici aumentano ovunque nell’eurozona. Si tratta di conciliare la disciplina di bilancio con investimenti pubblici produttivi e di ottenere maggiore elasticità negli obiettivi di medio termine della finanza pubblica. L’avvitamento fra austerità e recessione mette a rischio la democrazia rappresentativa e le leve della governabilità. L’aggiustamento di debito e deficit sono obiettivi di medio termine. L’immediata emergenza sta nell’economia reale e nell’occupazione.

2. Misure urgenti sul fronte sociale e del lavoro

– Pagamenti della Pubblica Amministrazione alle imprese con emissione di titoli del tesoro dedicati e potenziamento a trecentosessanta gradi degli strumenti di Cassa Depositi e Prestiti per la finanza d’impresa.

– Allentamento del Patto di stabilità degli Enti locali per rafforzare gli sportelli sociali e per un piano di piccole opere a cominciare da scuole e strutture sanitarie.

– Programma per la banda larga e lo sviluppi dell’ICT.

– Riduzione del costo del lavoro stabile per eliminare i vantaggi di costo del lavoro precario e superamento degli automatismi della legge Fornero.

– Salario o compenso minimo per chi non ha copertura contrattuale.

– Avvio della universalizzazione delle indennità di disoccupazione e introduzione di un reddito minimo d’inserimento.

– Salvaguardia esodati.

– Avvio della spending review con il sistema delle autonomie e definizione di piani di riorganizzazione di ogni Pubblica Amministrazione.

– Riduzione e redistribuzione dell’IMU secondo le proposte già avanzate dal PD.

– Misure per la tracciabilità e la fedeltà fiscale, blocco dei condoni e rivisitazione delle procedure di Equitalia.

Ciascun intervento sugli investimenti e il lavoro sarà rafforzato al Sud, anche in coordinamento con i fondi comunitari.

3. Riforma della politica e della vita pubblica

– Norme costituzionali per il dimezzamento dei Parlamentari e per la cancellazione in Costituzione delle Province.

– Revisione degli emolumenti di Parlamentari e Consiglieri Regionali con riferimento al trattamento economico dei Sindaci.

– Norme per il disboscamento di società pubbliche e miste pubblico-private.

– Riduzione costi della burocrazia con revisione dei compensi per doppie funzioni e incarichi professionali.

– Legge sui Partiti con riferimento alla democrazia interna, ai codici etici, all’accesso alle candidature e al finanziamento.

– Legge elettorale con riproposizione della proposta PD sul doppio turno di collegio.

4. Voltare pagina sulla giustizia e sull’equità

– Legge sulla corruzione, sulla revisione della prescrizione, sul reato di autoriciclaggio.

– Norme efficaci sul falso in bilancio, sul voto di scambio e sul voto di scambio mafioso.

– Nuove norme sulle frodi fiscali.

5. Legge sui conflitti di interesse, sull’incandidabilità, l’ineleggibilità e sui doppi incarichi.

Le norme sui conflitti di interesse si propongono sulla falsariga del progetto approvato dalla Commissione Affari Costituzionali della Camera nella XV Legislatura che fa largamente riferimento alla proposta Elia-Onida-Cheli-Bassanini.

6. Economia verde e sviluppo sostenibile

– Estensione del 55% per le ristrutturazioni edilizie a fini di efficienza energetica.

– Programma pubblico-privato per la riqualificazione del costruito e norme a favore del recupero delle aree dismesse e degradate e contro il consumo del suolo.

– Piano bonifiche.

– Piano per lo sviluppo delle smart grid.

– Rivisitazione e ottimizzazione del ciclo rifiuti (da costo a risorsa economica). Conferenza nazionale in autunno.

7. Prime norme sui diritti

– Norme sull’acquisto della cittadinanza per chi nasce in Italia da genitori stranieri e per minori nati in Italia.

– Norme sulle unioni civili di coppie omosessuali secondo i principi della legge tedesca che fa discendere effetti analoghi a quelli discendenti dal matrimonio e regola in modo specifico le responsabilità genitoriali.

– Legge sul femminicidio.

8. Istruzione e ricerca

– Contrasto all’abbandono scolastico e potenziamento del diritto allo studio con risorse nazionali e comunitarie.

– Adeguamento e messa in sicurezza delle strutture scolastiche nel programma per le piccole opere.

– Organico funzionale stabile, piano per esaurimento graduatorie dei precari della scuola e reclutamento dei ricercatori.

Queste proposte, che non sono ovviamente esaustive di un programma di governo e di legislatura, ma che segnano un primo passo concreto di cambiamento, vengono sottoposte a una consultazione sia riferita alle priorità sia ai singoli contenuti. A questo fine verranno messi in rete l’elenco delle proposte e, via via per ogni singolo punto, i relativi progetti di legge o le specificazioni di dettaglio in modo da consentire una partecipazione attiva alla elaborazione e all’arricchimento dei contenuti.

"La politica che dimentica l’economia", di Mario Deaglio

Da circa una settimana, ossia da quando sono stati resi noti i risultati elettorali, tutte le forze politiche si comportano come se l’economia non esistesse: l’attenzione è pressoché totalmente indirizzata a uscire dal vicolo cieco in cui la politica stessa si è cacciata, senza alcuna vera attenzione né per la crisi economica né per le regole e i vincoli di un’economia che, come le altre dell’Unione Europea, non può più dirsi totalmente sovrana, risultando vincolata da regole che non è possibile trasgredire disinvoltamente.

Un atteggiamento del genere rischia di distruggere in poche settimane il risultato di un anno e più di sacrifici: l’Italia ha riacquistato credibilità ma deve prendere a prestito quasi un miliardo di euro al giorno solo per rifinanziare il debito in scadenza, un’operazione che già è ridiventata sensibilmente più cara. In queste condizioni il dialogo con l’Europa non può essere condotto burocraticamente; al tavolo devono sedere un presidente del Consiglio e un ministro dell’Economia pienamente legittimati, ossia in grado di impegnarsi sulla base di un sostegno generale espresso dal Parlamento con un voto di fiducia.

L’agenda degli argomenti che attende questo presidente del Consiglio e questo ministro dell’Economia è fitta e urgente: il 14 marzo si riunirà a Bruxelles il Consiglio Europeo di primavera, primo di una serie di appuntamenti in cui sarà messa a punto la strategia economica europea per i prossimi 6-12 mesi. E’ naturalmente troppo presto perché l’iter politico italiano sia stato completato ma qualche indicazione dovrà essere chiara: l’Italia proprio non può sedersi al tavolo e far scena muta, deve partecipare a decisioni collettive e usare l’autorevolezza conquistata per fare richieste precise. Queste richieste potrebbero essere tre.

In primo luogo, dovrebbe essere avviato un confronto sulla differenza tra Francia (alla quale si consente di arrivare al pareggio del bilancio nel 2017) e Italia (costretta, per impegni del precedente governo, al pareggio nel 2013). Non si tratta di guadagnare qualche rinvio ma di consentire una rapida messa a punto di strumenti di rilancio della domanda. Un’Italia divenuta più credibile deve ricevere un trattamento più prossimo a quello dei «cugini» francesi che consenta misure di rilancio; e deve sottolineare che l’Europa è ormai attanagliata dalla crisi, la stessa Germania ne è almeno sfiorata e la pazienza politica degli europei non è eterna.

Uno dei possibili strumenti di rilancio riguarda il debito dello Stato e degli enti pubblici verso le imprese, nell’ordine di 80 miliardi di euro. Le norme europee lo considerano un debito «commerciale» e pertanto non è incluso nel debito pubblico. Debito commerciale, però, non è più: successivi governi hanno ritenuto comodo non pagare i fornitori per rendere meno brutto il quadro della finanza pubblica. Chi andrà a Bruxelles deve richiedere che almeno una parte di questo debito venga «finanziarizzato», il che consentirebbe a Stato ed enti pubblici di farsi anticipare le risorse per pagarlo dal mondo bancario, per il quale si tratterebbe di un investimento analogo a un Btp o a un Cct.

Il pagamento dei debiti (ex)-commerciali è assolutamente prioritario per evitare il collasso di un gran numero di fornitori dell’amministrazione pubblica: l’immissione rapida nel circuito finanziario di almeno 40-50 miliardi sarebbe uno stimolo sufficiente a far ripartire l’economia, anche se non basterebbe a conservarne lo slancio e dovrebbe essere seguito da altre misure espansive. Una parte di queste risorse tornerebbe rapidamente al settore pubblico sotto forma di maggiori entrate fiscali e potrebbe essere nuovamente utilizzata per sostenere interventi pubblici rallentati o sospesi negli ultimi dodici mesi. L’elenco è lunghissimo c’è solo l’imbarazzo della scelta.

Nell’attuale emergenza economica non si può, inoltre, non rimettere sul tappeto il problema delle riserve auree italiane, molto ingenti e contabilmente valutate a circa 40 dollari l’oncia contro un prezzo di mercato di oltre 1500 dollari. La mera rivalutazione contabile (per un valore di circa 150 miliardi di euro) probabilmente indurrebbe i mercati finanziari a giudizi meno severi sull’Italia e a una riduzione dello spread. Com’è noto, spread più basso significa deficit più basso o più alta capacità di spesa pubblica a parità di deficit. L’oro potrebbe poi essere dato in garanzia a un ente internazionale – il miglior candidato è il Fondo Monetario – per ottenere non un nuovo prestito, di cui non c’è bisogno, bensì una linea di credito per fronteggiare attacchi speculativi: una sorta di Fondo Salva Italia, senza passare necessariamente per l’europeo Fondo Salva Stati.

Naturalmente per ottenere qualcosa è necessario che al tavolo di Bruxelles l’Italia non mandi degli «zombie» bensì ministri nella pienezza dei loro poteri, appoggiati da un voto di fiducia parlamentare. In ogni modo, la partita europea che si giocherà nei prossimi 2-3 mesi è essenziale perché l’Italia possa rimanere in serie A. Se le Camere e le forze politiche ritenessero di dedicare tutto il loro tempo, in questo periodo cruciale, a parlare dei loro problemi, della riduzione dei costi della politica, di fatto la politica potrebbe uccidere l’economia. E sarebbe inutile che dopo venisse a portare fiori sulla sua tomba.

La Stampa 06.03.13

"Che cosa è bruciato nel rogo di Napoli", di Roberto Saviano

Napoli oggi è di cenere. Un incendio durato più di tredici ore ha quasi totalmente raso al suolo Città della scienza, polo scientifico inaugurato nel 2001 e anima della sua rinascita dopo gli anni del potere doroteo. O così avrebbe dovuto essere. I 160 dipendenti che da undici mesi non percepivano lo stipendio oggi non sanno più nemmeno se e quando ricominceranno a lavorare. Di quel gioiello culturale della periferia occidentale di Napoli, oggi resta poco. Uno scheletro sul mare. Completamente distrutto lo Science center, il planetario, sei capannoni per dodicimila metri quadri e danni per oltre venti milioni di euro. Nulla sembra sopravvivere a Napoli. Mi ostino però a non credere a questa percezione. Resta il teatro, da lì bisognerà ripartire, e Corporea, cantiere fermo da tempo, l’ultima parte di museo che doveva rappresentare il corpo umano.
Chi non c’è stato, non può immaginare la bellezza di questo luogo: per descriverla bisognerebbe saccheggiare Virgilio, che di questa baia è il nume tutelare.

BAGNOLI è ai piedi della collina di Posillipo, sente l’alito della meravigliosa isola di Nisida, luogo incantevole, paradiso naturale che nessuno è riuscito a violare, nemmeno l’acciaieria — o piuttosto ciò che ne resta — che sembra ormai armonizzarsi al territorio, come archeologia industriale. Aver finora miracolosamente salvato questa zona dalla speculazione edilizia permette anche di poter leggere, attraverso Bagnoli, i capitoli dell’avventura napoletana: i sogni della città e le sue maledizioni, l’idea e il suo fallimento.
Bagnoli, Italsider, Città della scienza: territorio chiave per capire il Mezzogiorno. L’Italsider era stato il sogno di riscatto, l’idea che attraverso l’industrializzazione si potesse rilanciare il sud Italia, emanciparlo, costruire una classe operaia che acquisisse consapevolezza politica. Così un luogo meraviglioso venne trasformato in un’immensa fabbrica. L’acciaio ha bisogno di stare vicino al mare, e questa lingua di terra con il fuoco ci ha sempre avuto a che fare: con il fuoco degli altiforni. Il fuoco rovente della lega inattaccabile: l’acciaio.
Ma Bagnoli per le nuove generazioni non è l’Italsider: è il contrario. È un’area da salvare anche dai fallimenti di una sinistra finita sotto le macerie del muro di Berlino. È riappropriarsi di un territorio che secondo la storia recente di quei luoghi aveva enormi probabilità di diventare terra di conquista del cemento. Il sogno della Città della scienza sembrava essere stato realizzato perché la sua costruzione aveva sottratto quell’area alla speculazione edilizia. Lì, per la prima volta, avevo ascoltato il suono di una dinamite diversa che doveva servire a far saltare le
ciminiere e non a uccidere persone oppure a distruggere i negozi di chi non si piegava al racket.
La riconversione di quell’area sembrò davvero cambiare tutto. C’è un libro che ha raccontato questa epica del lavoro come redenzione, divenuta poi tentativo di salvare quel territorio: “La dismissione”, di Ermanno Rea. Il protagonista, Vincenzo Buonocore, è un ex operaio dell’Italsider che ha creduto nel lavoro e ha creduto nella «bellezza » di quel luogo convertito da gioiello naturalistico in acciaieria. E dinanzi alle fiamme ho pensato proprio agli ex operai dell’Italsider e a tutti coloro che avevano creduto prima nell’industria e poi nella cultura come leve per emancipare questa terra dal sottosviluppo e dal crimine. E ne sono rimasti delusi.
Un territorio che è riuscito a sopravvivere all’acciaio, alla speculazione politica, resistendo a quella edilizia, una terra che aveva costituito nella mia adolescenza il sogno realizzato di un Mezzogiorno completamente diverso da quello che avevano vissuto le generazioni precedenti, il sogno di vedere un luogo dove i bambini potevano stare vicino al mare e studiare la fisica, dove potevano giocare imparando le scienze, cosa che avevo visto fare solo in Germania. Era davvero un segno di speranza concretissima e ci aveva dato anche la percezione che una volta adulti ci saremmo realizzati non lontano dalla nostra terra. Così non è stato. Ma di quel sogno era rimasto almeno lei, la Città della scienza. Il suo museo.
Città della scienza non è però stata soltanto bellezza, un luogo dove la scienza diveniva vita. Città della scienza doveva resistere anche alle manate della politica, perché era diventata un succulento boccone delle clientele. Dall’arte alla musica tutto doveva passare sempre attraverso il filtro della politica che era per forza di cose legata ad Antonio Bassolino. Spessissimo quindi la macchina di Città della scienza è stata utilizzata come un’estensione del potere politico, e quindi scambi di favori, posti e lavoro, voti. Di tutto questo è stata vittima e di questo centinaia di persone sono testimoni. La prima grande tragedia che ha vissuto Città della scienza è stata politica e ha coinciso
con il passaggio da una politica riformista e realmente meridionalista, come provava a essere quella del primo Bassolino, alla seconda terribile parte della politica bassoliniana fatta di corporazioni, potere, scambio, sprechi.
Chi sia stato a darle fuoco solo le inchieste potranno dimostrarlo: ma certo era facile accedervi, era un luogo labirintico probabilmente difficile da monitorare. È ovvio il sospetto che possano essere state le organizzazioni criminali: la camorra ha innanzitutto un interesse nella bonifica dei territori contaminati dall’amianto a Bagnoli, l’area Eternit. Ma la camorra non ha da guadagnarci nulla direttamente, se non l’affronto, il gesto simbolico. Lì non si può realizzare il suo sogno, costruire condomini di lusso. Almeno per ora.
E allora chi è stato? Le organizzazioni criminali? Qualcuno che voleva incassare soldi delle assicurazioni e così trovare soluzione ai debiti? Ci sono anche ipotesi ancora più impervie. All’interno di Città della scienza vi era la possibilità da qualche anno di aiutare piccole imprese nella fase di
start up, di poter prendere in affitto a canoni vantaggiosi alcuni locali. Tra queste la SSRI (acronimo di Sicurezza Sistemi Reti Informatiche) un’azienda che si occupa anche di prestare consulenza alla Procura della Repubblica di Napoli. Lavoro che implica la possibilità di custodire presso il proprio ufficio e quindi presso Città della scienza, memorie fisiche sottoposte a sequestro per lo svolgimento di indagini? Qualcuno voleva forse distruggere prove? Per ora tutte queste sono solo ipotesi frutto di rabbia mentre si è asfissiati dal senso d’impotenza ben più soffocante dei fumi di ieri notte.
La verità è che Città della scienza ini-
zia a bruciare prima di questo rogo, inizia a bruciare quando non viene portata avanti la bonifica di tutta l’area. Inizia a bruciare quando la pressione politica non la fa crescere, non le permette il necessario sviluppo e la lascia incompiuta, come un bel sogno interrotto a metà. Spero che questa cenere sia elemento per ricostruire, per ricostruire meglio. Per ricostruire una città su cui nessuno può mettere le mani.
Spero insomma che questa città perennemente ferita a morte, trovi ancora una volta la forza di rialzarsi. Ma per farlo questa volta deve davvero chiudere con il suo passato più recente,
con uomini, con poteri, con aziende, figli di quella riforma diventati poi tiranni di un territorio. E allo stesso tempo deve trovare un nuovo corso non fatto di proclami ma costruito nella difficile e certosina concretezza che non porta a soluzione immediate ma a percorsi lungimiranti il cui inizio, però, non può che partire oggi. Napoli lo merita, i napoletani hanno i talenti per farlo. Sotto la cenere sta la brace ardente.

La Repubblica 06.03.13