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"La lunga marcia nelle istituzioni", di Barbara Spinelli

Nessuno può dire di cosa parleranno Bersani e Grillo, se mai si parleranno. Tante voci, tante forze impaurite sono coalizzate contro questo tentativo – del tutto inedito, sgradito a chi resta appeso alle proprie abitudini – di immaginare non solo un’Italia ma un’Europa diversa, dove trovino spazio iniziative cittadine, proposte che circolano da anni nella società. Ad esempio, reddito di cittadinanza, leggi anti-corruzione, nuove definizioni del prodotto interno lordo, diritti civili non negoziati con la Chiesa. Sono le idee che un quarto degli italiani ha cercato in 5 Stelle. Non sappiamo se Bersani saprà udirle – e quanto sarà condizionato dalle riluttanze dentro il Pd – ma neppure sappiamo se Grillo e Casaleggio desiderino davvero farsi udire.
Quel che è certo, è che in queste ore comincia per il movimento di Grillo qualcosa che lui stesso non aveva previsto: comincia quella lunga marcia attraverso le istituzioni, che per forza porterà il M5S – forte ancor ieri della sua natura extraparlamentare – ad assumersi responsabilità nella Repubblica.
Di Lunga marcia attraverso le istituzioni parlò nel 1967 Rudi Dutschke, il leader degli extraparlamentari tedeschi che auspicava una democrazia diretta e che subì una campagna diffamatrice, ordita dall’editore Axel Springer, simile a quella inflitta oggi a Grillo. Ferito da una rivoltellata l’11 aprile ’68, Dutschke non si riprese più: morì nel ’79. Ma il suo appello a conquistare un’egemonia culturale (una sovranità discorsiva, disse) facendo leva sulle istituzioni mise radici: il partito dei Verdi, nato grazie a lui, fu l’approdo di quella marcia. Oggi siamo nel mezzo di una mutazione, i paesi industrializzati perdono forza e ricchezze, ma la sfida resta quella. Specie nel nostro continente, siamo immersi in una depressione da cui non usciremo senza radicali reinvenzioni, e la reinvenzione più grande riguarda l’Europa, che il ’68 ignorava. L’Europa quindi non dovrebbe essere uno degli argomenti trattati da Bersani o da chi proverà dopo di lui con 5 Stelle: è il punto decisivo, da cui tutto il resto discende. Il tema è schivato da Grillo, come dal Pd. L’idea-forza del suo Movimento è che di fronte all’impotenza degli Stati, i cittadini devono sollevarsi e dire: «Lo Stato siamo noi». Ma l’idea è troppo poco ambiziosa. Forse è venuta l’ora di mirare molto più in alto, e di affermare: «L’Europa siamo noi», cittadini inascoltati in casa e nell’Unione. Dobbiamo darci una vera costituzione europea, che inizi come quella americana: «Noi, il popolo….». Questo diceva l’appello di Daniel Cohn-Bendit e Ulrich Beck, il 3 maggio 2012 su Repubblica: se tanti s’indignano, se la crisi sgretola un’intera generazione, è perché «incombe una bancarotta degli Stati-nazione». L’Europa fatta dall’alto va riedificata dal basso. L’appello reclamava un «nuovo contratto fra Stati, Unione europea, strutture politiche nella società civile, mercato, previdenza sociale, sostenibilità ambientale».
Certamente ci sono, nelle 5 Stelle, avversari dell’Europa unita: considerata un’utopia, quando la sola chimera è la sovranità assoluta degli Stati. Ma essere scettici non è sinonimo di anti-europeismo. I federalisti stessi sono scettici, sull’Unione che non è all’altezza della crisi. Essere scettici – non contentarsi delle apparenze – è d’obbligo anche per chi esige oggi un’altra Europa. Per Martin Schulz, presidente del Parlamento europeo, il voto italiano segnala la voglia di rinnovare la politica, e un rifiuto dell’austerità e della mancanza di risposte europee: «L’Europa ha le sue responsabilità, non può permettersi di fare lo struzzo mettendo la testa sotto la sabbia. Deve chiedersi fino a che punto una strategia di solo rigore, senza forti misure per la crescita, abbia spinto in Italia a un voto di protesta» (Corriere, 1 marzo 2013).
La risposta non sarà il referendum di Grillo sull’euro: referendum online, riservato solo a chi padroneggia Internet (come superare il divario digitale fra chi accede e chi no, tra anziani e no?). Se M5S vuol marciare attraverso le istituzioni europee oltre che nazionali, non potrà fare a meno di pensare l’Unione da capo, come formidabile opportunità per recuperare la sovranità perduta dagli Stati-nazione. Non potrà non guardare la realtà: 6 Stati d’Europa sono di fatto «commissariati» dall’Unione e spesso dal Fondo monetario (Grecia, Irlanda, Spagna, Portogallo, Italia, Cipro). Non è lontano il giorno in cui anche l’Italia, con un debito pubblico non riducibile tagliando solo i costi della politica, dovrà rivolgersi al Fondo salva-Stati, e negoziare il Protocollo d’Intesa previsto dalle sue regole.
Di questo dovrebbe parlare Grillo con le controparti: che faremo, se avremo bisogno del Fondo? Come operare perché l’Unione si accolli parte dei debiti (un piano esiste già, elaborato in Germania: il cosiddetto Fondo di redenzione) e imbocchi finalmente la via di Hamilton, quando accelerò la nascita in America di un potere federale forte, con poteri impositivi e un proprio bilancio, e su questa base assunse i debiti di Stati stremati dalla guerra d’indipendenza? Lo fece perché il paese usciva da una guerra, è vero. Ma l’Europa traversa una guerra, oggi, tra Stati e mercati.
È utile ripercorrere il tracollo greco. Quando si trovò sull’orlo del default, il Premier Papandreou scelse come consigliere Tommaso Padoa-Schioppa, ex ministro dell’economia nel secondo governo Prodi, e Padoa-Schioppa suggerì questo: sarà inevitabile ridurre il debito, ma come condizione chiedete che l’Europa si dia i mezzi per ri-crescere e sostenervi. La formula era: «Agli Stati il rigore – all’Europa lo sviluppo». Papandreou divenne un pariah, quando su quest’idea volle indire un referendum.
Joseph Stiglitz, il premio Nobel, ha scritto che il male non è negli Stati, ma nell’Unione restata a metà strada: «L’austerità è una strategia anti-crescita ». L’Europa ha bisogno di un’unione bancaria vera, e di comuni risorse ben più consistenti del «minuscolo bilancio appena decurtato dagli avvocati dell’austerità». Grillo ammira Stiglitz. Ma per ascoltarlo non dovrà accettare di governare in qualche modo?
Si diceva nel ’68 che l’immaginazione era andata al potere. Oggi deve andare al potere anche in Europa, perché lì si deciderà quel che saremo. Si dovrà decidere la politica estera e di difesa, che non potrà più dipendere dagli Usa. Si deciderà l’impoverimento o la ripresa. I militanti M5S sono addestrati a pensare assieme il globale e il locale. Manca loro il cruciale anello europeo. Lo fa capire un articolo pubblicato su Eurobull.com dal federalista Antonio Longo: lo Stato-nazione «non offre oggi che briciole». Non basterà combattere la corruzione, per una nuova crescita sostenibile. Solo uno sviluppo europeo potrà controbilanciare le austerità nazionali, perché «garantirebbe costi complessivi più bassi, maggiore efficienza grazie alle economie di scala e benefici per tutti». Solo la Federazione salverà l’Italia.
Chiunque parlerà con Grillo avrà davanti a sé qualcuno che esecra i partiti, ma spesso guarda lontano. Grillo vede arrivare banche statali molto plausibili. Invita a scommettere tutto sulla ricerca scientifica (intervista a New Scientist, 27-2-13). Malandata com’è, l’Europa non è nel suo campo visivo. Vale la pena che la faccia entrare. L’occasione è ora. Se torneremo alle urne, l’Italia impaurita sceglierebbe la destra forgiata da Berlusconi. Stesso disastro con un governo tecnico appoggiato dal Pdl (un governo di partiti camuffati): sarebbe l’esplicito riconoscimento che il malcostume, la frode, la compravendita del consenso in Parlamento non sono un crimine. Convaliderebbe l’idea più che mai incongrua che i politici siano «tutti eguali », «tutti ladri». Potrebbe ferire a morte la nostra democrazia, e con essa la cittadinanza attiva voluta da Grillo.

La Repubblica 06.03.13

"Telecom cede La7 a Cairo con una dote milionaria", di Luigina Venturelli

«Non si vende a qualsiasi prezzo» aveva assicurato mesi fa il presidente esecutivo di Telecom, Franco Bernabè, quando il percorso per cedere La7 era ancora alle battute iniziali. Eppure quello con cui Urbano Cairo si è aggiudicato ieri la rete televisiva, o «la patata bollente» come lui stesso l’ha definita, è sicuramente un prezzo d’occasione. Un milione di euro tondo tondo, è il prezzo con cui l’editore ha acquistato la testata intorno alla quale si attaccano da anni tutte le speranze italiane di un terzo polo televisivo in chiaro.
Una testata che passerà di mano corredata di preventiva ricapitalizzazione per arrivare a una posizione finanziaria netta di almeno 88 milioni. Più la sottoscrizione a favore di Cairo di un contratto di fornitura di capacità trasmissiva di durata pluriennale. Più la rinuncia da parte di Telecom ai crediti finanziari vantati nei confronti di Ti Media per un importo complessivo pari a 100 milioni.
LE CONDIZIONI D’ACQUISTO
Le condizioni accettate dal consiglio d’amministrazione di Telecom Italia per portare a termine l’operazione rettificano l’impegno di Bernabè. La7 doveva essere ceduta a qualsiasi costo, anche se le fasi finali della vendita hanno coinciso con le conclusioni della campagna elettorale, visto che tenerla accesa costava al gruppo perdite da 100 milioni di euro all’anno. Ti Media, la società del gruppo che controlla l’emittente, ha infatti chiuso l’esercizio 2012 con una perdita netta di 240,9 milioni di euro, in peggioramento di 157,1 milioni rispetto al rosso di 83,8 milioni del 2011. L’indebitamento è salito a 260 milioni. La Borsa non ha apprezzato i dettagli dell’operazione, visto che Ti Media ha chiuso in profondo rosso, in flessione del 6,4% a 0,157 euro. Piatta invece la controllante Telecom (più 0,09%), giù Cairo Communication (meno 0,65%) in linea con l’andamento del listino.
Il neoproprietario l’ex assistente di Berlusconi diventato editore con la passione per il calcio, presidente e proprietario anche della squadra del Torino si è limitato a commentare l’affare con una battuta: «Mi sono preso una bella patata bollente». Si è così conclusa la gara per la tv che alla fine rifiutata l’offerta fuori tempo massimo di Diego Della Valle si era ristretta a una corsa tra il fondo di private equity Clessidra, guidato da Claudio Sposito, e l’editore di magazine e concessionario della pubblicità Urbano Cairo, il favorito, benchè a lungo incerto (a fine anno mancava ancora un’offerta vincolante).
«È importante mettersi velocemente al lavoro per dare slancio alla rete, che ha dei punti di forza notevoli ma anche costi notevoli. Bisogna trovare un equilibrio» aveva preannunciato Cairo a metà febbraio, all’indomani della scelta di Telecom di proseguire le trattative in esclusiva con l’editore piemontese. Ristrutturazione in vista, dunque, per l’emittente televisiva che un tempo si chiamava Telemontecarlo e che nel 2001 diventò La7 dopo l’acquisizione da parte dell’allora Seat-Pagine Gialle. Prima del trasferimento della partecipazione del 100% de La7 (con l’esclusione della quota del 51% di Mtv Italia), la televisione sarà ricapitalizzata «per un importo tale per cui la società avrà, a quella data, una posizione finanziaria netta positiva non inferiore a 88 milioni di euro» e un livello di patrimonio netto pari a 138 milioni. Gli accordi prevedono, inoltre, la sottoscrizione di un contratto di fornitura di capacità trasmissiva di durata pluriennale tra La7 Srl e Ti Media Broadcasting. Infine, Telecom Italia è tenuta a rinunciare al momento dell’intervenuta sottoscrizione del contratto di cessione ai crediti finanziari vantati nei confronti di Ti Media per un importo complessivo pari a 100 milioni. Mentre Cairo, dal canto suo, si è impegnato a non cedere la rete tv per almeno 24 mesi.
FREQUENZE E ANTENNE
Non saranno invece vendute le frequenze digitali e le antenne di trasmissione detenute da Telecom. Il gruppo presieduto da Franco Bernabè ha dunque scommesso che i multiplex digitali abbiano più valore di quello attualmente riconosciuto dal mercato, e che se un giorno dovessero essere espropriati per mettere all’asta le frequenze, il governo dovrà riconoscere a TiMedia almeno quei 350 milioni investiti dalla società nelle frequenze e nell’infrastruttura delle piattaforme digitali.

L’Unità 05.03.13

«La mia Italia senza bussola non la salverà un comico», di Pedrag Matvejevic

«Alcune settimane prima del voto sono tornato in Italia, un Paese che ho imparato ad amare negli anni dell’inferno nella ex Jugoslavia, la martoriata terra da cui provenivo. L’immagine che in quei giorni ho avuto del Paese, era di una Italia sospesa, senza bussola, impaurita dal presente e in cerca di una speranza per il futuro. Questa Italia non può essere salvata da un comico innalzato a leader politico». L’Italia investita dallo «tsunami Grillo» vista attraverso la sensibilità culturale e la lucidità intellettuale di Predrag Matvejevic, scrittore, saggista, docente universitario i cui libri sono tradotti in tutto il mondo. Il suo percorso culturale e umano (nato a Mostar, da madre croata e padre russo) è quello di un intellettuale che ha cercato nel cuore dell’«inferno balcanico» di costruire «ponti» di dialogo tra identità, etniche e religiose, diverse e spesso violentemente contrapposte. «L’Italia dice a l’Unità Matvejevic non può pensare di potere uscire dalla crisi che non è solo economica o politica, ma anche etica, valoriale da sola. Certo, l’Europa che si riavvicina ai suoi popoli, che si fa amare, non può essere l’Europa degli speculatori finanziari, un’Europa che non sa parlare né al cuore né alla mente delle persone. L’Europa dell’iper austerità alimenta solo il malessere sociale, ma l’Europa in quanto tale non è il problema, è semmai una soluzione. Che va costruita assieme, il più forte con il più debole, perché nessuno, da solo, ha un futuro». Di una cosa il grande scrittore si dice certo: «L’Italia non potrà essere salvata da un comico».
Professor Matvejevic, iniziamo dal suo rapporto con l’Italia…
«Ho trascorso quattordici anni in Italia, fra asilo ed esilio. E come tanti intellettuali dissidenti dell’Est Europa, mi ha pesato essere “fra”. Ma in Italia ho trovato una straordinaria accoglienza in quegli anni terribili in cui a pochi chilometri dalle vostre frontiere a Est, un Paese, la Jugoslavia si frantumava tra odio, pulizia etnica, fosse comuni… Questa Italia, dove per anni ho insegnato alla Sapienza di Roma, mi è rimasta nel cuore. Ed è con questo sentimento che anche oggi che non vivo più in quello che considero ancora il “mio” Paese, mi accosto alle vicende italiane. con un misto di speranza e di apprensione». Quando è stato per l’ultima volta nel nostro Paese e che impressione ne ha ricavato?
«Sono tornato in Italia in piena campagna elettorale, per un ciclo di conferenze e per incontrare amici di una vita. Ho visto un’Italia che facevo fatica a riconoscere. Un Paese piegato su se stesso, senza bussola. Quello che riusciva a trasmettermi è un senso di angoscia, di sospensione. Non è stato così nel passato. Penso agli anni difficili del dopoguerra, quelli che imparai a conoscere soprattutto grazie alla straordinaria stagione del neorealismo nel cinema. Allora c’era una classe dirigente che seppe portare su di sé il fardello della ricostruzione, una classe dirigente che seppur da fronti opposti si faceva carico del destino del Paese. Oggi non è più così. Ciò che più mi ha colpito è stato l’incontro con diversi miei studenti alla Sapienza. Quasi tutti erano alla ricerca di un lavoro. Ecco, il lavoro. La prima tra le emergenze. In quei giovani c’era tanto dolore, rabbia, e allora mi sono detto che chi avrebbe intercettato quel malessere sarebbe uscito vincitore dalle urne…».
E quel vincitore è stato Beppe Grillo.
«Avevo una simpatia per il comico, ma non per il politico. Da politico il suo “vestito” naturale, il suo abito mentale, è quello dell’oppositore, di chi è bravissimo a distruggere come è incapace a costruire. Grillo ha saputo mettere all’indice i vizi e le malefatte della vecchia politica, ma non è nelle sue corde avanzare progetti. Chi ambisce a guidare un Paese non può limitarsi alla denuncia, deve avere anche il coraggio e l’onestà intellettuale di prospettare soluzioni, “sporcarsi le mani”, dire con chi intende governare. L’Italia non può essere salvata da un comico incapace di trasformarsi in uno statista. E invece proprio di uno statista che l’Italia avrebbe bisogno: uno statista che, è bene sottolinearlo, non ha nulla a che vedere con l’”uomo della provvidenza”».
Lei ha insegnato anche alla Sorbona…
«Ecco, la Francia dovrebbe servire da esempio. E non mi riferisco alla Francia che pure ha cercato di porre fine al ciclo conservatore votando Francois Hollande. Penso anzitutto alla Francia che nei momenti di maggiori difficoltà seppe anteporre l’interesse nazionale a quelli di parte. È la Francia dei “comitati di salute pubblica”. L’Italia dovrebbe trarne insegnamenti…».
Grillo ha intercettato anche un sentimento di diffidenza, se non di aperta ostilità, verso l’Europa.
«Ed è un fatto inquietante. Perché con tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni, l’Europa non è il “problema” ma può essere la “soluzione”. C’è bisogno di più Europa ma anche di un’altra Europa. L’Europa che sappia riconquistare le sue genti, che metta al primo posto il lavoro, l’istruzione, un futuro per i giovani. Una Europa solidale, sociale, che costruisce ponti di dialogo e infrange i “muri” di odio e di diffidenza. Guai a sacrificare l’ideale europeista sull’altare di nuovi populismi nazionalisti. Ho ancora su di me, nel mio cuore, nella mente, le ferite delle guerre nella ex Jugoslavia. So che significa additare l’altro da sé come il Nemico mortale, usare la fede religiosa come arma ideologica, l’appartenenza etnica come l’assoluto identitario. L’Italia non deve cadere in questa trappola, sarebbe una trappola mortale. Spero molto nella saggezza di un grande europeista italiano: Giorgio Napolitano».
Grillo ha rilanciato l’idea di un referendum «via internet» sull’uscita dall’Euro. «L’Europa non può essere solo una moneta unica, deve essere molto di più. Una visione, una politica. Una speranza. Ma il comico che sa distruggere non è anche un grande costruttore».

L’Unità 05.03.13

Città della Scienza, Ghizzoni “Ricostruire per far ripartire il futuro”

“Non aspettiamo un minuto di più per ricostruire quanto il fuoco ha distrutto a Bagnoli”. “Bisogna far ripartire al più presto le attività della realtà scientifica più importante del Mezzogiorno”: è il primo commento della presidente della Commissione Cultura, Scienza e Istruzione della Camera dei deputati Manuela Ghizzoni, dopo aver appreso che il fuoco, forse causato da una mano mafiosa, ha distrutto la Città della Scienza di Bagnoli, simbolo di un Sud virtuoso e capace di offrire cultura e speranza per il futuro.

“Non aspettiamo un minuto di più: il Governo e le istituzioni locali convochino immediatamente un tavolo per ricostruire al più presto quello che ha rappresentato un simbolo di buone pratiche per il lavoro, l’ambiente e la scienza – lo dichiara Manuela Ghizzoni, presidente della Commissione Cultura, Scienza e Istruzione della Camera dei deputati, commentando quanto accaduto alla Città della Scienza di Bagnoli, distrutta ieri sera da un incendio – Se i rilievi effettuati dovessero provare che l’incendio è di origine dolosa ci sarebbe un motivo in più per fare in fretta e dimostrare che le mafie non possono avere la meglio. Purtroppo gli attacchi mafiosi degli anni passati hanno dimostrato che nel mirino della criminalità organizzata ci sono proprio i simboli della cultura, i luoghi in cui è al centro l’uomo: senza vittime, ma con conseguenze sulla vita di molti, sia in termini occupazionali che di patrimonio culturale. La Città della Scienza – spiega Ghizzoni – sorgeva in un’area recuperata miracolosamente grazie alla volontà di sviluppare una connessione virtuosa tra scienza, industria e cittadinanza. Le istituzioni dovranno compiere ogni sforzo per far ripartire immediatamente le attività della realtà scientifica più importante del Mezzogiorno e – conclude Ghizzoni – di quello che è divenuto il simbolo di un Sud virtuoso e in grado di progettare e offrire cultura e speranza nel futuro.”

"Dalla piazza al Parlamento", di Nadia Urbinati

La sfida lanciata alla stabilità istituzionale e politica dal voto del 24 e 25 febbraio scorso è terribilmente complessa ma non priva di potenzialità: riuscire a governare un voto di protesta e di movimento (dai toni anche populisti) mettendo i parlamentari del M5S di fronte alle loro responsabilità, che sono prima e sopratutto verso il Paese. La protesta ha a questo punto l’opportunità — e il dovere — di tradursi in fatti e decisioni. È democraticamente legittimo che i parlamentari del M5S provino a fare quanto hanno promesso. Rifiutare questa opportunità metterebbe il M5S nella condizione di dimostrare ai suoi elettori di non produrre quel che promette, di non servire al Paese. Avendo scelto la via della rappresentanza, rispondere a questa sfida sarà inevitabile. E non si tratta di una sfida priva di interesse anche perché ha l’opportunità di far comprendere a tutti il potere del Parlamento, nel quale siedono rappresentanti, come dice la nostra Costituzione, del popolo italiano. Che Beppe Grillo o altri fuori del Parlamento cerchino di imporre le loro visioni ai rappresentanti eletti è prevedibile, ma inutile perché essi hanno la libertà e dunque il potere di decidere seguendo il proprio giudizio.
La sfida per il M5S è conseguente alla decisione di non aver scelto di restare un movimento di protesta, di non aver rifiutato la rappresentanza politica. Come ha fatto per esempio Occupy Wall Street, che ha evitato ogni dialogo con le istituzioni, che ha voluto essere solo movimento di denuncia, che non ha cercato di presentare propri candidati (e che per questo si è sciolto nel volgere di pochi mesi). Ma il M5S ha preso la strada della persistenza nel tempo. Ha scelto pertanto di incardinarsi nelle istituzioni. Porta quindi la responsabilità di rendere possibile il governo del Paese. Ha anche una grande opportunità: far sì che il magma di indignazione e di scontento svolga una funzione innovatrice invece che distruttrice.
Il M5S non esalta la democrazia diretta. Ha intenzione di inaugurare quel che solo un ossimoro può rendere: una democrazia rappresentativa diretta,
cioè senza l’intermediazione del partito politico, e con la promessa di mantenere un filo diretto via Internet tra i cittadini e i rappresentanti. Una democrazia rappresentativa sempre in rete. Questa è la novità più dirompente e complicata da gestire. Il M5S ha l’ambizione di dimostrare che un dispositivo tecnico come il web riuscirà a scalzare l’intermediazione partitica, ce lo dicono Grillo e Dario Fo, lo si legge sul sito del movimento. Con Internet, i grillini vorrebbero tenere in mano il Parlamento, se così si può dire, ecco perché si ostinano a chiamare gli eletti “cittadini” mettendo in secondo piano il fatto, centrale,chesonoinvecedei“rappresentanti”. Come tradurre questo proposito in realtà?
Le espressioni antipartitiche di politica democratica sono una realtà che non si può ignorare, soprattutto quando occupano posti in Parlamento. Come governare questa forma di scontento eletto riportandola nell’alveo delle regole e delle istituzioni, usando al meglio quell’energia che le emozioni hanno messo in circolo e il dispositivo del web reso efficace? La democrazia ha la capacità di essere elastica e di riflettere le trasformazioni magmatiche che vengono dalla società; è capace, quando è matura come lo è quella italiana, di metabolizzare i mutamenti, arricchendosi anche grazie alla sua immaginazione istituzionale e politica. Quindi, lo scontento espresso dal voto al M5S, uno scontento che i partiti della sinistra non sono riusciti a intercettare, va messo di fronte alla sua responsabi-lità: accettare di competere per seggi parlamentari significa mettere in conto la necessità di far funzionare le istituzioni consentendo la formazione di un governo e garantendo stabilità al Paese. Le elezioni fanno quindi rimbalzare la palla nel campo movimentista, che deve sapere dire agli italiani dove vuole stare e che cosa vuole fare per tener fede alla sua promessa di rinnovamento.
Il M5S ha, è vero, uno spiccato spirito populista ma non è un partito e questo lo rende meno immune alle ambizioni cesaristiche del suo leader. Non essendo un partito, in Parlamento non sarà impossibile mettere in campo una pattuglia di suoi eletti per far passare alcune necessarie e buone leggi. Non essendo un partito, ciascun rappresentante sarà davvero libero di seguire la propria coscienza, rappresentando al meglio, se lo vuole, il mandato libero. È infatti proprio il libero mandato che Beppe Grillo oggi teme (e attacca). Così, dopo avere accettato la regola elettorale ora invoca un modello di democrazia diretta, una specie di mandato imperativo. Si deve mettere in conto che Grillo, stando fuori, avverte il rischio di vedersi sfuggire il controllo degli eletti. E si deve mettere in conto anche che egli può trovar conveniente impedire la governabilità perché sa che il suo movimento cresce in misura proporzionale all’emergenza che riesce a generare e non alla risoluzione dei problemi. M5S dentro il Parlamento e M5S fuori dal Parlamento possono divaricarsi ed essere mossi da diverse esigenze.
In aggiunta, cacciare i parlamentari dal blog, com’è avvenuto per gli eletti nelle amministrazioni locali, rischia di non avere alcun effetto poiché quei parlamentari hanno nelle loro mani un potere straordinario che il web non ha: quello di fare le leggi, di determinare per davvero i destini del Paese. Svolgere un ruolo di responsabilità è un segno tangibile di autonomia e di potere.

La Repubblica 05.03.13

"Napoli, in fiamme la «Città della Scienza». Brucia il museo interattivo: danni ingenti", da corriere.it

Sono quattro i capannoni completamente bruciati a Città della Scienza a Napoli, il museo interattivo considerato tra i gioielli culturali della città. In totale i capannoni del complesso sono sei. L’intera area è stata posta sotto sequestro dalla magistratura. Secondo quanto riferiscono i vigili del fuoco, all’arrivo delle squadre lunedì sera le fiamme erano già completamente estese su tutta la parte museale, dal lato del mare, eccezione fatta per il teatro. Martedì mattina sono arrivati sul posto la polizia Scientifica e il nucleo investigativo antincendio dei vigili del fuoco.

Il vasto fronte di fuoco, lungo più di un centinaio di metri, ha devastato la struttura di fronte a Bagnoli. Fortunatamente il lunedì, durante i mesi invernali, la struttura è chiusa al pubblico e quindi le autorità almeno per il momento ritengono che il rogo non abbia coinvolto persone. QUATTRO CAPANNONI – Lunga e difficile l’opera di spegnimento per i vigili del fuoco, intervenuti con almeno cinque mezzi. Nell’area del polo divulgativo scientifico campano sono rimasti in piedi soltanto i muri perimetrali, mentre l’interno dei padiglioni è devastato. Le testimonianze riferiscono di un’estensione rapidissima dell’incendio, complice la gran presenza di legno e altri materiali infiammabili. Il custode ha raccontato di aver visto una colonna di fumo, e di aver dato subito l’allarme: ma in pochi minuti il fuoco ha divorato i padiglioni dall’interno, diventando indomabile.

LA STORIA – La «Città della Scienza», nata dall’intuizione di Vittorio Silvestrini, presidente della fondazione Idis, ha una media di 350 mila visitatori l’anno. Oltre al museo interattivo, ospita un planetario, un centro congressi, un centro di alta formazione e un’area per mostre d’arte. Sorge in via Coroglio, di fronte al mare di Bagnoli, nell’area dell’ex Italsider e proprio per questo è tra i luoghi-simbolo dei progetti di bonifica e rinascita dell’area industriale. In una dozzina d’anni aveva guadagnato consensi e credibilità, non solo come luogo dove apprendere praticamente le leggi della scienza grazie a decine di esperimenti pratici e dimostrazioni dal vivo, ma anche come centro congressi, centro di alta formazione, incubatore di imprese.
I DIPENDENTI – Fuori del museo sono accorsi quasi tutti i 160 dipendenti, angosciati anche per il loro futuro occupazionale. Con loro i tanti che lavoravano nell’indotto creato dal museo. L’area distrutta dalle fiamme è stimata in 10-12 mila metri quadrati, praticamente l’intero centro, a eccezione del «teatro delle Nuvole», un corpo separato che ospitava rappresentazioni.

www.corriere.it

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“Ricominciare dalla Città della Scienza”, di Marco Cattaneo

Sono più di due ore ormai che fisso sgomento le foto sempre più ravvicinate, sempre più desolate di ciò che rimane della Città della Scienza di Napoli.
E ancora adesso continuo disperatamente a cliccare sul link di google per rimandarvi al sito, ma deve essere andato in fiamme anche il server.

Erano le 23 quando ho visto di sfuggita la prima notizia, che annunciava l’apocalisse nelle 140 battute di un tweet. Erano appena uscite le prime agenzie. Luigi Amodio, direttore della Città della Scienza, era quasi senza parole al telefono, mentre osservava un simbolo della speranza di riscatto di Napoli andare in fumo sotto i suoi occhi. Perché Luigi abita a pochi passi da lì, e ci ha messo cinque minuti ad arrivare quando, intorno alle 22, le fiamme hanno avvolto in un amen i capannoni dell’ex complesso Italsider di Bagnoli dove sorgeva uno dei più visionari poli museali italiani.

Non ho nemmeno le parole per raccontarla, Città della Scienza, per ricordare la pazza idea di Vittorio Silvestrini che prese forma dai successi di “Futuro Remoto”, l’ormai classica rassegna scientifica che ebbe inizio alla Mostra d’Oltremare un quarto di secolo fa. Per rievocare tutte le iniziative, l’impegno, la passione che l’hanno animata in questi quindici anni.

E d’altra parte non ho voglia di scivolare nella retorica, perché Città della Scienza era una speranza solida, mattone su mattone, un’impresa titanica e coraggiosa. Tra i drammi e le contraddizioni di Napoli, persino nella nefasta stagione della monnezza Città della Scienza era un monumento a ciò che si può essere, a un futuro che si alimenti di conoscenza, di iniziativa, di volontà.

Clicco ancora, ma nulla, il server di Città della Scienza se n’è andato nel rogo, ed è come se il fuoco potesse paradossalmente cancellare anche la memoria che abbiamo delle cose.

Allora ve la lascio così, in tutto il suo splendore (foto) . Perché non ho più nemmeno la forza di spendere lacrime per questo disgraziato paese. E mi tuffo già da adesso nella speranza rabbiosa che con l’impegno di tutti la si possa restituire a Napoli e a tutto il paese. Perché sarebbe un crimine non investire tutte le nostre forze per ricostruirla. Anzi, pensateci bene. Si potrebbe proprio ricominciare anche da qui, dalla Città della Scienza, a ricostruire il futuro.

http://cattaneo-lescienze.blogautore.espresso.repubblica.it/

"Il vento anti-sistema", di Ian Buruma

Avendo dimostrato di non avere alcuna fiducia nella classe politica, l’Italia potrebbe diventare ingovernabile.
Gli italiani però non sono soli: la rabbia contro l’establishment politico infatti è diventata ormai un fenomeno globale. I blogger cinesi, gli attivisti del Tea Party negli Usa, gli eurofobi britannici, gli islamisti egiziani, i populisti olandesi, i sostenitori dell’estrema destra in Grecia e le “camicie rosse” tailandesi sono tutti accomunati dall’odio per lo status quo e il disprezzo per le élite dei loro rispettivi Paesi. Viviamo in un’epoca di populismo. L’autorità dei politici convenzionali e dei mezzi di comunicazione tradizionali si sta erodendo rapidamente.
Quando i partiti politici si sclerotizzano, i mezzi di comunicazione divengono troppo compiacenti (o troppo vicini al potere) e le burocrazie si dimostrano indifferenti alle esigenze della popolazione, il populismo può rappresentare una correzione necessaria. In un mondo globalizzato, gestito da banchieri e tecnocrati, molti hanno l’impressione di non avere alcuna voce in capitolo nell’ambito degli affari pubblici; si sentono abbandonati.
I nostri politici, sempre più incapaci di far fronte a delle gravi crisi, sono sospettati, e spesso a ragione, di curarsi esclusivamente dei propri interessi. L’unica cosa che possiamo fare è di cacciare i farabutti a colpi di voto, preferendogli in alcuni casi dei candidati che in circostanze più normali non saremmo disposti a prendere seriamente in considerazione.
Le élite italiane non sono le sole ad aver bisogno di uno scossone. Raramente però il populismo è un fenomeno benigno: negli anni Trenta, ad esempio, sfociò in movimenti violenti, guidati da uomini pericolosi in uniforme. I populisti di oggi sono diversi, e di norma non promuovono la violenza: alcuni di loro sostengono che i musulmani stiano distruggendo la civilizzazione occidentale; altri ritengono che il presidente Obama sia una sorta di comunista, votato alla distruzione dell’America.
Tra i populisti dei nostri giorni spiccano tuttavia due tipologie: i magnati super-ricchi e i clown. Nel mondo dei media anglosassoni Rupert Murdoch, proprietario di un numero eccessivo di testate giornalistiche, stazioni televisive e studi cinematografici, è un tipico magnate populista. Ma non ha mai aspirato a guidare una nazione. A differenza di Silvio Berlusconi e dell’ex primo ministro tailandese, Thaksin Shinawatra, che ancora vorrebbero poterlo fare.
Né i comici né i magnati sono adatti a diventare dei leader democratici. Si tratterebbe semmai di stabilire chi tra loro rappresenterebbe il male minore.
I pagliacci hanno sempre giocato un ruolo nelle questioni politiche: nel Medioevo i buffoni di corte erano spesso gli unici a poter dire la verità ai sovrani dispotici. E oggi molte volte sono i comici che affermano di dire la verità a chi è al potere e al pubblico.
Negli Stati Uniti i liberali ascoltano i commenti politici di comici televisivi quali Jon Stewart e Stephen Colbert, considerati oggi più affidabili dei tradizionali commentatori televisivi, mentre i ridicoli presentatori dei talk show radiofonici di destra esercitano su molti elettori conservatori un’influenza maggiore rispetto ai più sobri giornalisti della stampa tradizionale.
Qualche anno fa in Messico il più popolare commentatore politico
televisivo era un comico di nome Brozo, che con il suo grande naso rosso e una parrucca color verde squillante era corteggiatissimo da chiunque fosse in lizza per una carica pubblica. Nel 1980 il clown francese Coluche si ritirò dalla campagna presidenziale quando un giornale annunciò che il suo sostegno popolare era del 16 per cento: aveva paura di influenzare eccessivamente gli esiti del voto.
Il prototipo del populismo europeo moderno era un appariscente uomo di spettacolo olandese di nome Pim Fortuyn, assassinato nel 2002 da un fanatico. La sua originalità era deliberatamente provocatoria e immancabilmente avvincente. Le sue invettive contro le élite apparivano spesso confuse, ma lui era divertente, e faceva apparire i vecchi politici dell’élite come delle mummie scorbutiche e retrograde, quali molti di loro erano.
E adesso l’Italia ha Beppe Grillo, che in seguito al successo riportato nelle recenti elezioni nazionali è divenuto il primo comico di professione a capo di un grande partito politico europeo.
Sono pochi i clown che aspirano a guidare il proprio Paese. Pare che Fortuyn fosse terrorizzato dall’idea di diventare primo ministro. Ma cercano soprattutto di provocare, e in questo possono essere utili. A differenza di quanto accade ai politici di professione, le loro opinioni solitamente non sono influenzate da calcoli personali. E talvolta affermano cose scomode ma vere, che devono essere dette.
Ad animare i magnati che si danno alla politica sono invece ambizioni di tipo diverso. Attaccano le vecchie élite non per scuoterle, ma per assumerne il potere. Con la promessa di diffondere le ricchezze accumulate per se stessi sfruttando le speranze di chi ha poco e vorrebbe di più. Berlusconi ha compreso i sogni di molti italiani. La sua eccentricità, la sua comicità, e persino le sue ragazze fanno parte del fascino che esercita sul popolo.
In Tailandia il miliardario di origini cinesi Thaksin Shinawatra, un magnate del mondo dei media che si è fatto da sé, era ammirato soprattutto dai poveri delle zone rurali. Al pari di un sovrano munifico, distribuiva loro denaro e prometteva di sfidare le vecchie élite di Bangkok: i banchieri, i generali, i giudici, e persino i cortigiani che circondavano il re.
Ma i magnati non sono innatamente democratici: il loro principale interesse risiede nei propri affari. E quando i loro interessi commerciali sono a rischio, non esitano ad attaccare la stampa o la magistratura indipendenti. Benché il potere sia ormai nelle mani di sua sorella Yingluck, Thaksin continua a tentare di sottrarsi a dei processi per numerosi reati finanziari.
A detronizzare Thaksin nel 2006 è stato, guarda caso, un golpe militare sostenuto per lo più dalle élite di Bangkok. Berlusconi è stato rimpiazzato da un governo guidato da dei tecnocrati appartenenti all’élite, le cui linee politiche erano soggette all’approvazione dei banchieri europei e dei burocrati dell’Unione Europea.
È improbabile che simili reazioni al populismo possano promuovere la democrazia. Al contrario: potrebbero peggiorare la situazione. Vi è bisogno invece di politici tradizionali, in grado di capire cos’è che alimenta la rabbia popolare, e porvi rimedio. Mettersi all’ascolto dei clown potrebbe rappresentare un primo passo nella direzione giusta.

La Repubblica 05.03.13