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"Così si muore all'Ilva", di Adriano Sofri

Moccia, dirà il direttore dello stabilimento tarantino in un comunicato di condoglianze, è “lavoratore modello… sempre disponibile”. Ambedue disponibili a salire, alle 4 e mezzo di notte, sul ponte che sovrasta le batterie della cokeria: vi corrono i binari della macchina caricatrice che va su e giù ai forni. Sulla batteria 9, ferma per i primi lavori di messa a norma, una rotaia ha un rialzo che intralcia la corsa, i due devono ripararla. Lavorano a cielo aperto, fra i binari c’è una passerella assicurata, ai lati invece sono state posate alla meglio delle lamiere, solo per impedire che cadano materiali sugli operai che lavorano sotto. La lamiera cede e i due precipitano: Liddi è sopravvissuto solo perché è caduto addosso al compagno. In ospedale, le sue sorelle raccontano che anni fa avevano perduto un altro fratello precipitato da un ponteggio. Moccia, un omone cordiale di origine napoletana e di famiglia tarantina di “Paolo VI”, il quartiere che prese il nome dalla visita del Papa, ha moglie, che lavora alla mensa dell’Ilva, e due figlie adolescenti. Arrivano alle undici di mattina, tre generazioni di donne affrante, all’infermeria della fabbrica mutata in obitorio. Intanto i sindacati hanno dichiarato lo sciopero generale. Tanti operai vanno via in fretta con le facce scure, alcuni si fermano a discutere. Dicono cose dure. I capi che minacciano e fanno i prepotenti. I rapporti disciplinari che fioccano – per esempio al movimento ferroviario, dove da mesi si svolgono scioperi lunghi e compatti, contro l’obbligo di manovrare da soli sui treni, a costo di non poter chiedere soccorso. Successe così al macchinista morto 4 mesi fa, Claudio Marsella. Aveva 29 anni, ora alla porta il suo fratello maggiore, Dario, abbraccia i compagni prima di andare all’ospedale: “Forse fra noi che ci siamo passati possiamo dirci qualche parola più vicina”. È lunga la catena di quelli che ci sono passati. Ero venuto a Taranto per guardare il voto di una città in cui si è fatta terra bruciata. Gli operai hanno votato come altrove, ma di più: più astensione (“Taranto libera”), più Grillo. Di prima mattina mi è arrivato il messaggio di Francesca Caliolo, che perse suo marito all’Ilva sette anni fa. “Ogni volta questa notizia mi fa tremare”, ha scritto. Chissà se è così mattiniera per abitudine, o per una fatica a prendere sonno. Alle porte gli operai sono esasperati: l’Ilva non compra più nemmeno i guanti, dicono, per una tuta nuova bisogna mettersi in coda. “Perfino sulle prescrizioni dell’Aia tirano a risparmiare!”. La manutenzione ordinaria non esiste, dicono, si va solo a rattoppare. Sono molto giovani, ma sapeste quanti vi spiegano di andare avanti a psicofarmaci, e tirano fuori i certificati dal portafoglio. Moccia è il terzo morto in meno di quattro mesi. Incontro dei gruisti che dopo la sciagura del tornado e la morte terribile di Francesco Zaccaria non se la sono sentita di risalire sulle gru e si sono fatti trasferire – “Mia moglie non me l’avrebbe perdonato”.
Va così, nella “più grande acciaieria d’Europa”. Che ha decretato una cassa integrazione per due anni di 6.400 dipendenti, un po’ più della metà del totale: più o meno la riduzione corrispondente al dimezzamento della produzione di una (molto eventuale) Ilva rimessa in riga. Da dove arriverà il denaro per la cassa e per la rimessa in riga, è un mistero. Non è affatto un mistero il doppio regime della fabbrica travolta dalla ribellione cittadina e dall’azione della magistratura: sequestri e controlli delegati a custodi da una parte, imperterrite violazioni dall’altra. Con una proprietà arrestata a domicilio e screditata senza scampo, e una successione di dirigenti la cui promozione suonava come un annuncio di rovina (da ieri il nuovo direttore e altri dirigenti sono indagati per omicidio colposo), l’Ilva ha continuato come per inerzia a raschiare il fondo del barile. Ispezioni dell’Ispra, accompagnate da Regione, Arpa, Asl, che si sono trovate di fronte a plateali disastri: perdite di vapori acidi ad altezza d’uomo nel camino di granulazione dell’altoforno, miscelazione di vietatissimi benzene e catrame al reparto sottoprodotti della cokeria, materie micidiali da smaltire ad alto costo spregiudicatamente vendute come materiale edilizio. Continua a succedere fin sotto gli occhi esterrefatti dei controllori. Per anni le analisi si erano rassegnate alle autocertificazioni dell’Ilva e ai campioni raccolti dai suoi: la diossina impestava miracolosamente più i pascoli che l’interno dello stabilimento. La prima volta che l’Arpa ordinò il prelievo di campioni freschi all’agglomerato, tutto cambiò. Le fumate perenni sopra l’Ilva incombono sullo sguardo e sull’anima dei tarantini e la rendono pesante, “ma le peggiori porcherie stanno nel sottosuolo”, nel sistema di discariche interne che nessuna Aia ha intaccato, e che farà inorridire gli archeologi futuri, se ci sarà un futuro. Si smaltivano nella cokeria di Taranto le polveri di desolforazione della cokeria di Genova, saturando i filtri in un batter d’occhio. Fanghi sversati nei parchi non pavimentati, con la falda acquifera a un metro, e vanno a finire dritti nel Mar Piccolo, quello delle cozze prelibate, che ora nei ristoranti della città vecchia arrivano, scipite, dalla Spagna. Fanghi prelevati dal canale industriale e buttati negli altiforni. Il piano degli interventi scritto nella legge Clini non ha alcuna certezza normativa, i suoi costi non prevedono alcuna fideiussione, le sue violazioni comportano solo una multa – presentata come terribile: il 10 per cento alla fine dei tre anni. La mancata ottemperanza delle prescrizioni dell’Aia comporterebbe, con le sanzioni penali, la sospensione dell’esercizio dell’attività; se non che la legge ad hoc consente la prosecuzione del reato. La magistratura aveva confidato a quattro “custodi” lo stabilimento: due uomini e due donne, giovani, ciascuna con una sua competenza, che hanno mostrato in una prova enorme, a proposito di elezioni, che cosa potrebbero fare per questo paese degli esordienti capaci e soprattutto disinteressati. Un governo che si voleva “tecnico” ha messo le garanzie dell’Ilva tarantina nelle mani di un vecchio signore ben pagato e del tutto ignaro di acciaio. Se toccasse a quelle “custodi” di trent’anni e ai loro colleghi, dallo stipendio di 2 mila euro e dalla preparazione internazionale, forse la siderurgia italiana ce l’avrebbe, un futuro, e anche l’incolumità dei lavoratori e la salute e la dignità delle città.

La Repubblica 01.03.13

"Blocco stipendi nel 2014 allarme pubblico impiego", di Barbara Corrao

Il governo prepara una proroga al 2014 del blocco degli stipendi nel pubblico impiego e degli scatti di anzianità nella scuola? A lanciare l’allarme è stata Rossana Dettori, segretario generale della Funzione pubblica Cgil che ha chiesto al governo di smentire le indiscrezioni che da qualche giorno hanno messo in fibrillazione se non tutti, almeno una buona parte dei 3 milioni di dipendenti pubblici. «Sarebbe davvero inopportuno – ha osservato la sindacalista ieri mattina – un decreto approvato dal Governo Monti, una forzatura ai danni dei lavoratori delle pubbliche amministrazioni. Il ministro della Funzione pubblica Patroni Griffi dovrebbe smentire le voci che lo annunciano come imminente». «Un’altra proroga al blocco dei contratti pubblici sarebbe inaccettabile», aggiungono i segretari generali Funzione pubblica e Scuola della Cisl, Giovanni Faverin e Francesco Scrima, ricordando che le retribuzioni sono già ferme dal 2010, «mentre la spesa pubblica continua a crescere». Dello stesso tenore le dichiarazioni Ugl.
Il governo si è limitato, con una nota serale del ministero Economia, a precisare che «nulla è stato deciso» e che della questione si occuperà il prossimo consiglio dei ministri, previsto per la prossima settimana. In verità, la situazione è complessa perché l’intervento del governo sarebbe tutt’altro che discrezionale ma espressamente previsto dal primo decreto sulla spending review, convertito in legge nel luglio 2012. Tuttavia, per attuarlo si starebbe valutando la possibilità di ricorrere a un Dpr, come quello previsto dalla manovra Tremonti dell’estate 2011. In quel decreto si prevedeva infatti la possibilità, non l’obbligo, di prorogare di un ulteriore anno il blocco degli statali con un Decreto del Presidente della Repubblica (Dpr). Questa formula avrebbe se non altro il vantaggio di trasferire al nuovo governo la scelta definitiva. Infatti, la procedura prevede un primo passaggio in consiglio dei ministri, poi la consultazione del Consiglio di Stato, quindi un passaggio alle Camere e infine l’approvazione definitiva del provvedimento con l’invio al Quirinale. Tempi? da 4 a 6 mesi, del tutto compatibili con il blocco esistente, che resterà in vigore fino al 2013.
La decisione finale spetterà a Palazzo Chigi e al ministro dell’Economia Grilli, ma un testo circola già e indica il blocco «senza possibilità di recupero» delle procedure negoziali e contrattuali del biennio 2013-14 e dei riconoscimenti contrattuali eventualmente previsti dal 2011. Quanto all’indennità di vacanza contrattuale per il triennio 2015-2017 verrebbe erogata a partire dal 2015 con nuovi criteri di calcolo. Infine, il testo stabilisce il blocco degli scatti di anzianità, a valere sul 2013, per tutti i dipendenti della scuola (docenti e non).
Insomma, una nuova batosta. Il blocco delle retribuzioni sarebbe costato circa 1500 euro ai dipendenti pubblici secondo i calcoli della Cgil.

Il Messaggero 01.03.13

"Le riforme della ricostruzione", di Stefano Rodotà

L’invenzione politica e istituzionale battezzata “Seconda Repubblica” è crollata miseramente e rischia di seppellire il paese sotto le sue rovine. Un esito purtroppo prevedibile, viste le illusioni sulle quali quella nuova fase era stata fondata. Ricordiamole. Il bipolarismo come bene in sé, che avrebbe inevitabilmente prodotto stabilità governativa, governabilità a tutto campo, efficienza, fine della corruzione grazie all’alternanza al governo di diverse coalizioni. Oggi sarebbe persino impietoso ricordare con nomi e cognomi chi ha assecondato questa deriva, anche se prima o poi bisognerà pur farlo. Ma, intanto, si deve almeno sottolineare come non si sia voluto vedere l’abisso crescente tra quelle illusioni e la realtà, tanto che si arrivò addirittura a dire, dopo le elezioni del 2008, che l’orribile “Porcellum” aveva comunque avuto come effetto quello di stabilizzare il bipolarismo. Se vogliamo comprendere il presente, e progettare il futuro in maniera meno avventurosa, si dovrà partire proprio da una severa lettura critica dell’intera storia della cosiddetta Seconda Repubblica.
In questo momento, il criterio di analisi e di valutazione è ovviamente rappresentato dalle vere novità politiche del voto di domenica e lunedì. Che sono tre: la vittoria del Movimento 5 Stelle, il rifiuto dell’Agenda Monti, il ritorno della politica dei contenuti. La vittoria di Grillo e del suo movimento è già stata commentata nei modi più diversi. Ma la sua “anomalia” si somma al fatto che critiche sostanzialmente analoghe alla politica condotta e poi rilanciata da Mario Monti sono state l’elemento forte della campagna di Silvio Berlusconi. Che gli elettori hanno bocciato in modo sonoro la personificazione di quell’Agenda affidata alla lista “Scelta civica” e che da Monti aveva preso le distanze anche una parte del Pd. Questo dato politico non può essere minimizzato e anzi, nel momento in cui si insiste sulla necessità di andare in Parlamento con proposte precise, contiene una indicazione importante per quanto riguarda appunto i criteri di selezione delle proposte.
Il dimezzamento dei parlamentari e il taglio radicale dei costi della politica, che compaiono in cima all’ipotetica nuova agenda di governo, sono proposte che circolavano da anni e sono la conferma evidente di quel che si diceva all’inizio, dunque della lontana origine della crisi attuale. Ma ridurre della metà il numero dei parlamentari è misura certamente assai simbolica, che tuttavia avrebbe risultati economici
modesti, e persino qualche effetto negativo. Nell’ultimo decennio è emersa una enorme manomorta politica, alimentata da aumenti ingiustificati e insensati delle indennità corrisposte agli eletti a qualsiasi livello, accompagnati da una ulteriore attribuzione di risorse a singoli e gruppi che nulla ha a che vedere con lo svolgimento dell’attività istituzionale. Questa manomorta deve essere abbattuta, eliminando ogni beneficio aggiuntivo rispetto alle indennità, a loro volta riportate a cifre socialmente accettabili, con un intervento che azzeri gli appelli alle competenze locali.
Questa operazione, però, deve andare al di là del ceto politico in senso stretto. Un’altra deriva degli anni passati è quella che ha portato ad un altrettanto ingiustificato dilatarsi delle retribuzioni nella dirigenza pubblica. Sono molti i dirigenti che hanno compensi persino doppi rispetto all’indennizzo previsto per il Presidente della Repubblica (248.000 euro). Si può polemizzare con Marchionne sottolineando che la sua retribuzione è 415 volte superiore a quella di un operaio Fiat e ignorare del tutto che sperequazioni ancora maggiori vi sono tra dirigenti pubblici e poliziotti in strada o impiegati ministeriali? Interventi in
queste direzioni, insieme alla rottura delle cordate di magistrati amministrativi che ormai governano le strutture pubbliche, non garantirebbero soltanto risparmi, ma sarebbero un segnale importante verso un recupero dell’eguaglianza.
Proprio i principi di eguaglianza e di dignità sono all’origine di un’altra tra le proposte che circolano, quella riguardante il reddito di cittadinanza.
Anche qui, tuttavia, bisogna liberarsi delle genericità, evitando di guardare a misure del genere come l’avvio di una fulminea palingenesi sociale. Vi sono ipotesi serie, già trasformate in proposte di legge d’iniziativa popolare, che possono essere subito sottoposte all’attenzione parlamentare, avviando così anche l’indispensabile riordino degli ammortizzatori sociali e sfidando un certo conservatorismo sindacale. È tempo, peraltro, di restituire al mondo sindacale una pienezza democratica per troppi versi perduta, con una legge sulla rappresentanza che davvero può stare in un programma dei cento giorni. Allo stesso modo, ai diritti del lavoro deve essere restituita la loro dimensione costituzionale, abrogando l’articolo 8 del decreto dell’agosto 2011 che permette di stipulare accordi anche in contrasto con le leggi vigenti, ampliando in maniera abnorme il potere imprenditoriale.
Questi esempi vogliono ricordare che un vero governo di programma, capace di abbandonare stereotipi e chiusure d’orizzonte, deve essere esplicito su provvedimenti che riguardino la dimensione sociale, ponendo basi solide per vere politiche del lavoro. Non si tratta di dare un “segnale”, ma di stabilire
le giuste priorità in una situazione che, data la tensione sociale crescente, non può essere affrontata insistendo soltanto su misure istituzionali. Intendiamoci. La tensione è alimentata anche dalle gravi inadeguatezze istituzionali che, di nuovo, ci riportano ai vizi della Seconda Repubblica. Enormi si rivelano oggi le responsabilità di quanti, da troppe parti, hanno impedito
la riforma della legge elettorale, invocando la necessità che una nuova legge salvaguardasse bipolarismo e governabilità. Abbiamo visto com’è andata a finire. La riforma elettorale, dunque, è una priorità assoluta, ma pure una buona legge faticherebbe a funzionare se non venissero rimossi gli ostacoli al suo funzionamento, che esigono norme severe sui conflitti d’interesse, riforma del sistema dei mezzi di comunicazione, disciplina davvero severa contro la corruzione, a cominciare dalle norme penali sul falso in bilancio. E nuove norme sulla partecipazione dei cittadini, per riaprire i canali necessari alla comunicazione tra società e politica. Tutte cose che sappiamo a memoria e fin da troppo tempo, e che devono essere prese terribilmente sul serio se si vuol dare una pur minima credibilità ad una prospettiva di governo.
Se questa prospettiva dovrà essere coltivata in primo luogo dal Pd, come buona logica istituzionale vuole, bisognerà considerare un’altra novità politica. Il tracollo dell’Udc, considerata come partner necessario, libera dalla subordinazione alle pretese di questo partito su due questioni chiave: i diritti delle persone e i beni comuni. Il Pd ha ormai l’obbligo di proporre norme finalmente sottratte ai diktat fondamentalisti sulla procreazione assistita, sulle unioni tra persone dello stesso sesso, sulle decisioni di fine vita. E deve dichiarare esplicitamente la sua volontà di seguire la strada indicata dai referendum sull’acqua.
È un compito difficile, una sfida ai conservatorismi e alle incrostazioni che sono il lascito pesantissimo di un ventennio. Un compito, allora, che non può essere affidato ad alcun tecnico. I punti programmatici diventano credibili solo se vengono incarnati da un governo dichiaratamente politico e provveduto di un altissimo tasso di competenze. Solo così può essere ripreso l’impervio cammino della ricostruzione della fiducia nella politica. E, se uno spirito deve essere invocato, forse è quello del discorso sulle quattro libertà pronunciato da Roosevelt all’indomani dell’attacco giapponese a Pearl Harbor. La ricostruzione della Repubblica esige che agli italiani vengano restituite due di quelle libertà: quella dal bisogno e quella dalla paura.

La Repubblica o1.03.13

"L’ombra dei Lavitola sulla Terza Repubblica", di Filippo Ceccarelli

E nell’Italia sconvolta dalle attese e dai pericoli, dalle novità e dai vuoti, l’unica certezza è il ritorno di Lavitola e De Gregorio, il gatto e la volpe del berlusconismo più oscuro e ruspante. TOH, guarda chi si rivede! Non si dirà qui che i morti afferrano il vivo, le due condizioni risultando piuttosto relative in un paese decisamente in bilico. Ma certo questa duplice e graziosa ricomparsa, con un corredo antropologico e giudiziario di risonante attualità, non rischia solo di tradursi in un ulteriore colpo a uno dei presunti vincitori, che il Cavaliere oltretutto si aspettava, ma soprattutto alla speranza di chiudere un ciclo di ricordi e di potere. Mentre queste due figure, più che riaprirlo, lo squarciano, lo spalancano, lo squadernano riportando l’orologio a tempi ormai lontanissimi.
La storia ha infatti a che fare con l’«acquisto» – così crudamente definito in atti – di un certo numero di senatori che avrebbero dovuto mandare a casa il governo Prodi. Sembra di ricordare che Berlusconi aveva battezzato tale proposito «Operazione Spallata», o qualcosa del genere. Ma siccome l’Italia è il paese della commedia, e Berlusconi vi svolge il ruolo di impresario, regista e attore, occorre ricordare che di quell’annoso mercimonio si venne a conoscenza nel primissimo ciclo di intercettazioni telefoniche, deflagrato come una «bomba», così disse il Cavaliere, nel dicembre 2007.
Bene, delle cinque attrici che egli cercava affannosamente di arruolare in qualche fiction Rai, una – la stessa che gli aveva regalato un gattino, di nome Miele, con annesso topo meccanico ribattezzato Romano, come Prodi – sarebbe appunto stata «a cuore» di un senatore dell’opposizione che in tal modo, vistola sistemata in qualche sceneggiato, sarebbe passato con il centrodestra.
Era in realtà una balla, come poi comprese anche la poverina, che qualche illusione se l’era pure fatta, e ci rimase un po’ male di quell’interessamento di un senatore che nemmeno la conosceva. Ma pazienza. Per tornare al gatto e alla volpe, si viene a sapere oggi che Berlusconi si affidò a Valterino Lavitola per portare a sé Sergio De Gregorio, con la consueta lungimiranza selezionato dal talent scout Di Pietro. I due personaggi arrivarono in braccio a Berlusconi come cespiti relazionali dell’eredità di Craxi (vedi i documenti, anche iconografici, lodevolmente messi a disposizione e on line dall’omonima fondazione) . Gente sveglia, comunque, pure troppo.
Sarebbe impossibile seguirli nel viluppo rovinoso delle loro peripezie, spesso contraddittorie e non di rado reciprocamente conflittuali. Tra affari, ambizioni, gelosie e beghe la comune origine napoletana, come documentata da irresistibili
intercettazioni in dialetto, arricchisce senz’altro la tonalità farsesca di alcune vicende, che tuttavia restano così gravi da interessare diverse procure. Ma il fatto decisivo è che entrambi, almeno fino a un certo punto, si posero al servizio del Cavaliere traendone un certo beneficio.
De Gregorio, giornalista avventuroso e uomo d’affari non proprio solidissimo, divenne un autentico leader, alla testa del movimento «Italiani nel mondo», fondato alla presenza del cardinal Martino, che fece anche recitare il Padre nostro, e socio fondatore del Pdl. Per le vie d’Italia apparvero poster che lo raffiguravano sorridente sotto lo slogan «Il Coraggio dei Valori». Promise in seguito di imprigionare chi rimuoveva il crocifisso dagli uffici ed ebbe pure una tv che però, nei momenti di scanca, si scoprì mandare in onda porno. Poi si stufò della politica, ma eccolo qui.
Lavitola, d’altra parte, va ricordato come il terminale berlusconiano in Sudamerica: affari Finmeccanica, paradossale costruzione di carceri, e altri «bingo biblici», come li designava. Oltre ad operazioni più o meno coperte sul disvelamento contundente della casa di Montecarlo e alla gestione romana, invero assai costosa, di quell’altro gentiluomo e procacciatore di signorine, insomma di Gianpy Tarantini, nei riguardi del quale Valterino non fu in verità poi così leale. Ma anche di questo, con la rivoluzione grillina e ciò che si delinea per i destini del paese, i lettori potranno farsi una ragione.
Certo la fidata segretaria berlusconiana, Marinella, non lo sopportava per la sua insistenza: «Mi togli il fiato» diceva, come pure «Lasciami vivere ». Ma il Cavaliere lo stava a sentire, eccome. Forse perché Lavitola era molto abile nell’adulazione, e a tale proposito non si resiste a riportare un gioiellino di pestilenziale oscenità: «Io sinceramente non credo che ci sia una donna che al mondo che se lei telefona e le dice: “Vieni qui e fammi una pompa”, quella non viene correndo». E quindi, con magico tocco fantozziano: «Dottore, lei mi perdona se mi permetto».
Più che perdonato. E infatti è Lavitola l’interlocutore al quale il Presidente del Consiglio, vincitore molto parziale delle ultime elezioni, affidò un dimenticato, ma in fondo anche ragionevole proposito: «Non me ne fotte niente, io tra qualche mese me ne vado per i cazzi miei, e quindi vado via da questo paese di merda di cui sono nauseato. Punto e basta».
Ecco: punto sì, ma evidentemente non basta, infatti non basta mai, e tutto cambia, in Italia, ma il peggio resta ed è sempre più difficile sperare, anche se ci si prova sempre.

Walter Lavitola è stato per anni editore e direttore dell’Avanti!, foglio dell’ex Psi. I soldi pubblici ottenuti dalla testata sono al centro di un’inchiesta
Silvio Berlusconi su uno dei primi manifesti di Forza Italia. Il partito fu fondato nel 1994 dopo la dissoluzione della Prima Repubblica causata da Tangentopoli
L’AMICIZIA TRA BETTINO E SILVIO
Un giovane Silvio Berlusconi con l’amico Bettino Craxi. Nella cerchia del leader socialista c’erano anche Sergio De Gregorio e Valter Lavitola, poi passati al Cavaliere e ora al centro dell’inchiesta per corruzione a Napoli.

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“Mi pagava in nero con mazzette a rate”, DARIO DEL PORTO CONCHITA SANNINO

UN «patto scellerato» da tre milioni di euro. Concepito da Silvio Berlusconi per comprare il senatore Sergio De Gregorio. Obiettivo: «sabotare» il governo Prodi.
SETTE anni dopo l’insediamento nella primavera del 2006 di quella risicata maggioranza, all’alba di una nuova Repubblica, un parlamentare confessa di aver venduto la propria funzione. De Gregorio, eletto con l’Idv di Di Pietro e poi passato nel centrodestra proprio mentre diventa presidente della Commissione Difesa, fornisce le prove. Mette a verbale la verità: «Due milioni li ho avuti in nero, il resto come sostegno al mio movimento». Intermediario e “postino”: Valter Lavitola. E sottolinea: «Non mi voglio giustificare, so che è un reato». Ma «avevo debiti fino al collo». I pagamenti? «Avvenivano inesorabilmente, mese dopo mese». Dilazionati anche perché, secondo i magistrati, Berlusconi non si fidava. Soldi che, per uno strano giro, dai conti del senatore finiranno anche a gente di camorra.
Ora Berlusconi è indagato dalla Procura di Napoli per corruzione e finanziamento illecito ai partiti. Stessa accusa per il senatore uscente De Gregorio, ormai in procinto di finire agli arresti domiciliari per la precedente indagine sui
finanziamentia L’Avanti!, e il faccendiere Valter Lavitola, in carcere da dieci mesi, che in una lettera rinfacciava all’ex premier il suo ruolo nella compravendita dei senatori. I pm Curcio, Milita, Piscitelli, Vanorio e Woodcock, coordinati dai procuratori aggiunti Cafiero de Raho e Greco, hanno trasmesso ieri al Parlamento la richiesta di perquisizione di una cassetta di sicurezza ritenuta riconducibile all’ex premier. E il nucleo di polizia tributaria della Finanza ha notificato al Cavaliere l’invito a essere interrogato martedì prossimo. De Gregorio, intanto, solo pochi mesi fa, ha cercato di ottenere dall’ex premier ulteriori «aiuti» rivolgendosi a Niccolò Ghedini, a Marcello Dell’Utri e a Denis Verdini. Tutti a conoscenza del denaro che gli era stato versato. Per caso, De Gregorio non è di nuovo in Parlamento. «Il 19 dicembre il partito mi ha chiesto di ricandidarmi, ma io ho rifiutato», assicura. Il Pdl insorge. «È un’inchiesta priva di fondamento, la cassetta è intestata al Pdl», afferma Ghedini.
«COSÌ MI HA PAGATO CON TRE MILIONI».
Dal luglio 2006 fino al marzo 2008, il Cavaliere ha versato tre milioni a De Gregorio. Un milione, “in chiaro”, è giustificato da un accordo federativo «tra Forza Italia e il mio movimento Italiani nel mondo». Altri due versati “in nero” e depositati sui conti del senatore. Che racconta. «Ho partecipato all’Operazione
libertà diretta a ribaltare il governo Prodi. Già dopo il voto che mi vide eletto presidente della Commissione Difesa, discussi a Palazzo Grazioli con Berlusconi di una strategia di sabotaggio, della quale mi intesto tutta la responsabilità. L’accordo si consumò nel 2006. Il mio incontro a Palazzo Grazioli con Berlusconi servì a sancire che la mia previsione di cassa era di 3 milioni. Subito partirono le erogazioni. Ho ricevuto 2 milioni in contanti da Lavitola a tranche da 200 e 300mila euro». «Ed è qui che entra in gioco Lavitola, che frequentava molto Palazzo Grazioli perché era intimo del senatore Comencioli, pace all’anima sua». De Gregorio aggiunge: «Non sto qui a giustificare di aver ricevuto 2 milioni in nero. Ho commesso un reato. Non mi domando perché Berlusconi affidasse a Lavitola la pratica di consegnarmi il danaro». Ribadisce: « (Quei soldi, ndr) sono una parte del patto scellerato che io fino al 2007 ho accettato da Lavitola. Inutile dirlo, è una mia responsabilità».
«SOLDI ANCHE A ROTONDI E MUSSOLINI»
Ma De Gregorio dice d’aver nutrito dubbi sulle modalità dei pagamenti. «Io insistetti: ma perché non me li date al partito? Che senso ha questa roba in nero? Mi venne spiegato, dallo stesso Lavitola, che gli altri partiti minori avevano ricevuto somme più o meno uguali, se non inferiori al milione di euro che mi era già stato
bonificato». Precisa ancora il senatore: «Ricordo addirittura che fu indicata la cifra di 700 mila euro, e non di un milione, (nell’accordo Italiani nel mondo-Fi,
ndr) per non fare irritare Rotondi, la Mussolini e gli altri che avevano ricevuto sostegno dal partito in misura più o meno equivalente a questo contratto».
“PUOI OFFRIRE FINO A 5 MILIONI DI EURO”
«Quando mi sono riavvicinato a Berlusconi abbiamo combattuto insieme una guerra. E di guerra vera si trattava, perché Berlusconi voleva che Prodi, che aveva prevalso per una manciata di voti, ritornasse a casa. Prefigurare dal punto di vista politico la caduta del suo governo non era difficile. Berlusconi era deciso a individuare il malessere di alcuni senatori, di alcuni deputati, che potessero determinare l’evento finale». De Gregorio cercò di portare dalla parte del centrodestra il senatore Giuseppe Caforio. Fu un boomerang. «Dissi a Berlusconi che forse Caforio poteva ascriversi al ruolo degli indecisi e lui mi disse: “Cosa gli puoi offrire?” Risposi: che magari gli diate un finanziamento alla sua forza politica. Allora lui disse: “Puoi proporgli fino a 5 milioni”. Ma Caforio mi registrò e mi denunciò». Invece De Gregorio, raggiunto l’accordo, cambiò casacca solo all’ultimo per non destare sospetti. «Avendo fatto quel ragionamento con Berlusconi — racconta sempre ai pm — chiamo il senatore Schifani e gli dico: Renato, se mi votate io accetto i voti e mi prendo la responsabilità di farmi indicare dal Presidente della commissione Difesa».
LA STRATEGIA DEL SABOTAGGIO IN AULA
«Berlusconi aveva promosso l’Operazione libertà per determinare in ogni modo possibile la fine del governo Prodi», dice De Gregorio. “Cosa facemmo noi per far cadere il governo Prodi?”» Era il gennaio 2007. «Ci attivammo, intanto». E quando i pm chiedono, «Noi, plurale maiestatis?», risponde: «Noi come centrodestra ». Ed ancora: «Io continuavo in Commissione Difesa a respingere i provvedimenti del governo. Era sicuramente un motivo che indeboliva Prodi».
“LAVITOLA ARRIVÒ CON I SOLDI AL SENATO”
Uno dei testimoni chiave dell’inchiesta ed ex collaboratore di De Gregorio, il commercialista Andrea Vetromile, offre riscontri significativi al racconto della compravendita del senatore De Gregorio. «Mi risulta che solo Lavitola abbia consegnato a De Gregorio 4-500mila euro nella sede del Parlamento. Assistetti a quell’operazione. Ricordo che stavo con De Gregorio nel suo ufficio, all’epoca era presidente della Commissione Difesa, quando si presentò Lavitola con una borsa che io sapevo essere piena di soldi. Fu lo stesso De Gregorio ad annunciarmi la visita di Lavitola che gli avrebbe consegnato i soldi di Berlusconi quale ringraziamento
per il passaggio al suo schieramento politico. Quando Lavitola entrò, dopo i primi convenevoli, mi chiese di uscire. Quando rientrai, la scrivania di De Gregorio era piena di soldi».
QUEI SOLDI FINITI ALLA CAMORRA
Su De Gregorio indaga il pool anticamorra. Negli atti, appena depositati alla Camera, si fa riferimento agli esami di «flussi finanziari per decine di milioni di euro » sui conti di De Gregorio. «Fra le numerose operazioni finanziarie emergevano alcune che apparivano ad un tempo singolari e significative». Quel denaro, erogato dal Cavaliere a De Gregorio, finirà — all’insaputa dell’ex premier — nelle casse di personaggi vicini ai clan. Scrivono infatti i magistrati: «All’origine e alla fine di alcuni flussi economici che passavano attraverso le società e i conti del senatore De Gregorio, si ponevano dalla parte iniziale, di origine, l’allora capo dell’opposizione Berlusconi ovvero la sua formazione politica; e dall’altro, quello di destinazione ultima, soggetti vicini a un’associazione camorristica operante nell’area napoletana».

La repubblica 01.03.13

"Scienza gratis per tutti le scoperte solo sul web", di Elena Dusi

«I cittadini americani devono poter accedere alle ricerche scientifiche che sono state portate avanti grazie al loro contributo ». Se un esperimento ha usufruito di soldi pubblici, non potrà più essere coperto da tariffe o abbonamenti. La decisione appena presa dalla Casa Bianca sembra un deciso passo avanti verso la libera circolazione della scienza. MA È ancora poco rispetto a quel che chiedono i ricercatori. L’accesso gratuito agli studi scientifici finanziati con le tasse degli americani avverrà infatti solo un anno dopo la pubblicazione. Per i primi 12 mesi gli esperimenti potranno essere letti a pagamento. Dal giorno successivo entrerà in vigore quel regime di libera circolazione delle scoperte che i ricercatori cominciano a chiedere con una voce che ormai assomiglia a un boato. In Europa un provvedimento simile a quella della Casa Bianca è stato preso l’anno scorso dalla Commissione ed entrerà in vigore gradualmente a partire dal 2016. Ma prima di arrivare alla decisione è stata necessaria una petizione firmata da 13mila scienziati che si sono impegnati al boicottaggio di una delle più esose fra le case editrici di riviste scientifiche.
La pressione dei ricercatori contro tariffe a volte decisamente sproporzionate (gli abbonamenti arrivano a 40mila dollari e quasi sempre le riviste non possono essere acquistate singolarmente, ma in pacchetti) sta diventando sempre più dirompente. Da un lato ci sono gli editori, aggrappati agli introiti degli abbonamenti e alle regole della proprietà intellettuale. Dall’altro gli scienziati sono desiderosi di scrivere e farsi leggere, firmano petizioni, fondano nuovi giornali ad accesso libero, stirano le regole del copyright e pubblicano i loro studi sulle pagine web personali o su siti internet senza barriere.
Quella per la libertà e la gratuità della scienza sta diventando una battaglia mondiale. La decisione di smantellare il muro delle tariffe — sia pure con 12 mesi di ritardo dalla pubblicazione — è stata presa dalla Casa Bianca a seguito di una petizione di 35mila cittadini. Le 19 agenzie federali che finanziano
la scienza Usa con almeno 100 milioni di dollari l’anno avranno tempo fino al 22 agosto per decidere come rendere pubblici gli esperimenti. Ogni anno, calcola l’ufficio della Casa Bianca specializzato nelle politiche per la scienza e la tecnologia, 180mila articoli scientifici potranno essere letti senza pagare. Un analogo provvedimento preso in Gran Bretagna nel 2012 diventerà efficace il
prossimo primo aprile.
Parallelamente alle decisioni ufficiali, cresce il lavoro di quelle riviste che dell’ “open access” fanno il loro ideale. Fra i pionieri ci fu, nel 2003, la prestigiosa “Public Library of Sciences” (nata sempre a seguito di una petizione, questa volta avviata da un buochimico di Stanford). Ieri dal suo sito la rivista cantava vittoria: “La decisione della Casa Bianca è il segno che il principio del libero
accesso si sta affermando con forza”. L’anno scorso, sull’onda della petizione europea dei 13mila scienziati, sono nati altri giornali liberi, fra cui “eLife”, finanziato dalla fondazione britannica Wellcome Trust.
Le riviste gratuite vivono grazie a istituzioni non profit (è il caso di eLife o delle case editrici universitarie), alla pubblicità o a un contributo che si aggira tra i 500 e i 3.500 dollari pagato dagli autori degli articoli. La comunità di fisici e matematici ha creato un proprio sito (www. arxiv. com) su cui ognuno è libero di pubblicare le proprie ricerche e di leggere le altrui. L’abitudine è ormai talmente consolidata da non essere nemmeno più osteggiata dalle case editrici. Su un totale di quasi due milioni di articoli scientifici pubblicati nel mondo ogni anno, uno su cinque oggi è gratuito. Il giro d’affari degli editori è ancora enorme: 10 miliardi di dollari, pagati in gran parte da università ed enti di ricerca per gli abbonamenti. Ma la scienza libera, con l’aiuto un po’ titubante anche dei governi, sembra destinata a guadagnare posizioni.

La Repubblica 28.02.13

"Così lavora un sindaco a 5 Stelle", di Paolo Scarpa

Il dialogo con il Movimento 5 Stelle sembra l’opzione scelta dal Pd per superare lo stallo politico dell’Italia del dopo-elezioni. Utile allora vedere come vanno le cose laddove la formazione di Beppe Grillo è al governo di una città. Un resoconto sui primi mesi della giunta Pizzarotti a Parma.

L’ORIGINE DELLA VITTORIA
Federico Pizzarotti è stato eletto sindaco di Parma al ballottaggio contro il candidato del centrosinistra del 21 maggio 2012 con oltre il 60 per cento dei voti, dopo che al primo turno il Movimento 5 Stelle avevano ottenuto il 19 per cento. Il centrosinistra sulla carta era ampiamente favorito, a causa dello sfacelo provocato dalla giunta precedente di centrodestra, con arresti, scandali e un forte indebitamento del comune.
La vittoria di Pizzarotti è ascrivibile a due cause principali: un bisogno diffuso di discontinuità rispetto alle amministrazioni precedenti di centrodestra e l’errore del centrosinistra nella scelta del candidato. Non insignificante anche il fatto che Pizzarotti fosse giovane, del tutto nuovo alla politica, mentre il suo avversario era il navigato presidente della provincia, politico di professione, sostenuto anche da una parte significativa del mondo industriale.
L’amministrazione Pizzarotti ha iniziato il proprio mandato puntando su un profilo di rigore, unito all’ostentazione di modelli comunicativi sobri. L’idea di città e di amministrazione è vagamente ispirata ai principi della decrescita felice; nella realtà l’amministrazione 5 Stelle ha attuato finora una politica piuttosto avara di proposte innovative o strategiche, concentrandosi soprattutto nella gestione ordinaria.
Sul piano della capacità di governo, Pizzarotti nei primi mesi ha evidenziato una generale impreparazione (per altro prevedibile) sulle questioni amministrative, a cui ha cercato di fare fronte con collaborazioni esterne, estranee a passate esperienze amministrative. L’annuncio di un rapporto stabile di consulenza con personaggi come Loretta Napoleoni, Maurizio Pallante, Pierluigi Paoletti non ha avuto seguito, mentre la lentezza e alcuni incidenti di percorso nella scelta degli assessori hanno condotto alla formazione della giunta in forte ritardo rispetto ai tempi previsti.
Sul piano politico i 5 Stelle hanno subito escluso ogni alleanza con le altre forze rappresentate in consiglio comunale, preferendo l’autosufficienza e un sostanziale isolamento. La maggioranza 5 Stelle appare solida e coesa, forte di un principio di appartenenza e di fedeltà al Movimento.
La partecipazione democratica dei cittadini, uno dei cavalli di battaglia elettorale del Movimento, si è finora espressa solo tramite alcune assemblee di quartiere, gestite da psicologi-facilitatori, prevalentemente vicini al pensiero del Movimento. Sui temi forti, la giunta sembra invece evitare il confronto diretto con la popolazione: nell’assemblea di presentazione del bilancio, il pubblico non ha avuto diritto di parola. Scarsa anche la ricerca di confronto partecipato con le categorie e con fasce specifiche di popolazione, mentre è intenso invece l’uso del web come strumento di comunicazione politica da parte del sindaco e della giunta.

DAL PROGAMMA AI FATTI
Nei primi mesi la giunta ha rivolto l’attenzione in primo luogo alle misure per fronteggiare il debito del comune e delle aziende partecipate: 840 milioni, di cui circa 200 del comune e 640 delle partecipate.
Non è stata tentata una politica di contrattazione complessiva con le banche, né di rivalsa sui responsabili del debito. Le misure adottate sono costituite da un aumento ai livelli massimi della tassazione locale, addizionale Irpef e Imu, (che hanno fruttato maggiori entrate per 56 milioni contro una diminuzione delle risorse da Stato, Regione, fondazioni per circa 29 milioni), da un aumento massiccio di rette e tariffe e da tagli ai servizi, alle manutenzioni, agli investimenti. Tutto ciò comporta un aggravio sui cittadini, in termini di maggiori tasse e di minori servizi.
Su alcune tariffe la giunta ha tentato di addolcire il carico sulle fasce più deboli con una tariffazione progressiva in base al reddito. Tuttavia, le misure appaiono solo di facciata. Le rette, al centro di proteste da parte delle famiglie, sono aumentate del 20 per cento per i nidi (fino a 650 euro/mese) e del 100 per cento per le materne (sino a 280 euro/mese). Sono bloccate ai minimi solo per i redditi con Isee famigliare inferiore ai 20mila euro l’anno, oltre questa cifra scattano gli aumenti progressivi sino all’importo massimo applicabile già per nuclei con un Isee di 32mila euro.
In campagna elettorale, Pizzarotti aveva promesso che avrebbe rivoluzionato il sistema distorto delle partecipate su cui grava la maggiore parte del debito, costruito dalla passata amministrazione per aggirare la legge di stabilità e i vincoli di controllo. Di fatto, però, è stato mantenuto il sistema preesistente. E il castello delle partecipate rischia ora di saltare: per il 26 marzo è attesa la decisione del tribunale sul fallimento di una delle più importanti, Spip, che appartiene a sua volta alla Holding Stt (a totale controllo pubblico), con un concreto rischio di effetto domino su tutto il sistema e sulla credibilità del comune verso le banche. Pur nella situazione di incertezza attuale, la giunta ha deciso ora di trasferire a una partecipata già fortemente indebitata (Parma-infrastrutture) tutto il pacchetto delle competenze dei lavori pubblici, che potrebbe configurarsi come un’anticamera per la liquidazione anche di quel settore.
Una parte significativa del debito del comune è dovuta alla gestione opaca delle passate amministrazioni e il programma del Movimento 5 Stelle prevedeva un impegno nell’individuazione delle responsabilità, per il momento però Pizzarotti sembra evitare una politica di verità sul passato (salvo l’apertura di una commissione d’inchiesta limitata all’affare “public money”), delegando la questione solo alle indagini della magistratura. Questo rende sostanzialmente impossibile ogni tentativo, anche solo simbolico, di recupero di risorse pubbliche distratte a favore di interessi privati.
Altro tema centrale della campagna elettorale è stata la vicenda del termovalorizzatore. Il Movimento 5 Stelle si era impegnato a bloccarne la costruzione, ma il comune non ha emanato alcun provvedimento e la sua realizzazione procede, in attuazione di un piano provinciale del 2005. Secondo quanto annunciato da Iren, entrerà in funzione ad aprile.
Intanto, cresce il degrado complessivo dei luoghi pubblici, per carenza di cura e manutenzione. Piazzale della Pilotta (prospiciente il palazzo farnesiano) di Mario Botta ne è l’esempio principale. E anche altri piccoli segnali contribuiscono a un quadro complessivo di fatiscenza: le fontane della città sono state spente, eliminate le risorse per cancellare i graffiti dai muri.
Risulta in aumento la cosiddetta microcriminalità, mentre i piccoli esercizi commerciali del centro storico vivono una crisi profonda: oltre 120 attività hanno chiuso i battenti nel corso degli ultimi mesi. Non sono previste politiche specifiche sulla sicurezza, né misure a difesa del commercio, mentre i negozianti lamentano di essere ulteriormente penalizzati da nuove norme restrittive.
La giunta Pizzarotti finora non ha dato corso anche ad altri “punti forti” proposti dal Movimento in campagna elettorale. Per esempio, al centro del programma c’era il “consumo zero di suolo”. Tuttavia, la giunta ha già approvato numerosi piani attuativi di espansione edilizia ereditati dalla precedente amministrazione, e non sono state avviate forme di pianificazione urbanistica alternativa.
Gli sforamenti dei limiti massimi di concentrazione per polveri sottili (Pm10) dovuti a traffico automobilistico restano stabilmente al di sopra della norma. Il problema è stato finora affrontato solo con misure palliative dimostratesi inefficaci (alcuni blocchi del traffico), mentre non sono state poste allo studio politiche strutturali sulla mobilità.
Per la prima volta nella sua storia, poi, Parma rinuncia a una stagione concertistica e la lirica è di fatto esangue. Nonostante l’incarico di amministratore del Teatro Regio affidato a Carlo Fontana, non vi sono prospettive chiare, e forse neppure i soldi stanziati dal Governo per il bicentenario verdiano riusciranno a dare ossigeno a un teatro indebitato che produce pochi spettacoli e di livello inferiore alla sua tradizione.

EVOLUZIONE DEL CONSENSO
Le elezioni politiche del 24 e 25 febbraio hanno visto un consistente successo del Movimento 5 Stelle anche a Parma, dove ha ricevuto il 28 per cento dei voti. È il segnale che il consenso del Movimento è in crescita, anche se non è automatico collegarlo alla specifica azione della giunta locale. Verso la quale anzi si registrano numerosi segnali di insofferenza e di disagio, in modo particolare per l’inerzia decisionale e di proposta di fronte alla crisi strutturale della città, oltreché sulle questioni specifiche che segnano una distanza tra quanto indicato in campagna elettorale e gli atti finora realizzati.

da lavoce.info

"Se la propaganda fa i conti con la Costituzione", di Enrico De Mita

La proposta di trattenere il 75% delle imposte riscosse nelle regioni del Nord appartiene a una forma di propaganda che non è idonea ad essere proposta politica. Non è stata alla base del successo elettorale della destra nelle ultime competizioni elettorali. È una proposta di una piccola parte dello schieramento politico sulla quale non c’è stata discussione e accettazione delle forze che contano di più nel Nord. Basta qui ricordare che quando il centro-destra è stato al governo ha tentato una ipotesi di federalismo fiscale che è stato un autentico fallimento, soprattutto per mancanza di idee sui concetti di autonomia fiscale, di tributi propri degli enti locali e di partecipazione al gettito dei tributi erariali. La verità è che con proposte come quella di «trattenere le imposte riscosse» nel territorio di un indefinito Nord si allude a un’ipotesi di secessione sulla quale non c’è accordo di una larga parte dello schieramento politico.
E, poi, la secessione, si realizza con la forza, non è una proposta politica che possa essere negoziata.

Giuridicamente la vaghezza della proposta risulta ancora di più. Che cosa vuol dire «trattenere», da parte di chi, come e quando? In termini immediati, a voler prendere le cose sul serio dovrebbe essere una legge finanziaria che impegni lo Stato a restituire a determinate Regioni il 75% delle imposte riscosse. Qui la proposta diventa irrealistica per ragioni politiche ed economiche per chi voglia ragionare in termini responsabili, che attengono alla congiuntura politica ed economica del Paese, sia in termini di schieramenti politici che in termini di vincoli finanziari. Volendo ipotizzare una riforma della Costituzione tocca ai proponenti specificare che cosa voglia dire «trattenere» rispetto a due concetti oggi esistenti nella Costituzione di «tributi propri» e «partecipazione al gettito dei tributi erariali».
In sede costituzionale, se si pensa a un assetto che valga solo per determinate Regioni, quelle del Nord, bisognerebbe prima di tutto pensare a Regioni a statuto speciale, a una loro finanza speciale, come oggi è previsto per alcune Regioni. Ma se si pensa che oggi in sede costituzionale si propone di riportare tutte le Regioni alla formula dello statuto ordinario, ne consegue che la proposta del «trattenere» è meno di una allusione politica sulla quale devono interloquire prima di tutto le forze politiche che si rifanno alla questione settentrionale. Passate le elezioni è tempo di uscire dalla propaganda.

da www.ilsole24ore.it