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#GrilloDammiFiducia, di Viola Tesi

Caro Beppe,

scrivo a te e intendo parlare a tutti i nuovi parlamentari del Movimento 5 Stelle.

Mi chiamo Viola, ho 24 anni. Ho votato, e l’ho fatto con molta speranza, il M5S. Sono tra quei milioni di giovani che credono in una rivoluzione gentile: in un Paese solidale, più pulito e giusto, capace di tutelare i cittadini, il loro lavoro, l’ambiente in cui vivono. Io vorrei un’Italia in cui le persone tornino a essere cittadini e smettano di essere sudditi, un’Italia che rispetti i nostri sogni e li sostenga. Vi ho votati con queste speranze nel cuore.

Il M5S ha ottenuto una vittoria alla quale in pochi credevano. Ma un sistema elettorale malato ha prodotto un risultato che non garantisce governabilità. Il mandato del Presidente della Repubblica Napolitano è in scadenza, le Camere non possono essere sciolte, non da lui: non si può tornare subito alle urne. Questo Parlamento avrà forse vita breve, ma non brevissima.
Ti scrivo, e spero saranno in tanti a sottoscrivere questo mio appello, perché gli eletti del M5S hanno un’occasione storica. Da ciò che decideranno dipenderà un pezzetto di storia della Repubblica che può aprirci al futuro o consegnarci per sempre al passato. Dobbiamo scongiurare qualsiasi ipotesi di alleanza PD-PdL, e non permettere alla minoranza di Monti di condizionare gli equilibri parlamentari. Possiamo respingere il ritorno di Berlusconi e costringere Bersani ad accettare le sfide che i suoi stessi elettori vorrebbero raccogliesse.

Si possono fare poche cose, prima di tornare alle urne, in poco tempo:

1. Una nuova legge elettorale;
2. Una legge contro la precarietà e l’istituzione del reddito di cittadinanza;
3. La riforma del Parlamento, l’eliminazione dei loro privilegi, l’ineleggibilità dei condannati;
4. La cancellazione dei rimborsi elettorali;
5. L’abolizione della legge Gasparri e una norma sul conflitto d’interessi;
6. Una legge anticorruzione che colpisca anche il voto di scambio; e l’istituzione di uno strumento di controllo sulla ricchezza dei rappresentanti del popolo (il “politometro”);
7. Il ripristino dei fondi tagliati alla Sanità e alla Scuola;
8. L’istituzione del referendum propositivo senza quorum;
9. L’accesso gratuito alla Rete;
10. La non pignorabilità della prima casa.

Lo so, non sono tutte le cose che il M5S vorrebbe realizzare. Sono alcune, quelle che mi sembrano più urgenti e realizzabili in tempi brevi.

Trasformatele in realtà e tra pochi mesi l’Italia sarà già un Paese pronto per ripartire. Sono impegni, caro Beppe, che possono raccogliere il consenso di molte persone che come me hanno a cuore il futuro, i più deboli, il Paese. E non tutte hanno votato M5S.

Al PD sarà quasi certamente dato mandato di provare a formare un nuovo Governo. Non ci sono molte possibilità: se i senatori del M5S si astengono o votano contro, sarà paralisi, o peggio, vedremo un qualche Monti bis. I senatori del Movimento potrebbero anche uscire dall’aula, al momento delle votazioni, e così consentire forse la nascita di un Governo di minoranza: ma questa sarebbe vecchia politica, un patto di governo silenzioso che non renderebbe giustizia alla trasparenza che vogliamo portare nelle Istituzioni.

Allora poniamo noi le giuste condizioni al partito di Bersani: in cambio dovranno presentare in Parlamento quelle riforme che ci stanno a cuore e che possono far diventare l’Italia migliore.

Queste elezioni sono costate quasi 400 milioni di euro. Non è difficile capire ciò che gli elettori chiedono.A voi, che siete i nostri dipendenti, è stato dato un mandato. Raccogliete questa sfida e cominciamo subito a cambiare l’Italia, per il bene di tutti.

Caro Beppe, non sprecare il mio voto. L’ho dato con la testa e con il cuore.

Ti saluto con amicizia,

Viola

da Change.org

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"È in gioco l’unità del Paese", di Alfredo Reichlin

Cerchiamo di capire i massaggi molto seri e gravi che ci manda questo Paese. Essi interrogano non solo le capacità politiche di chi dovrà mettere insieme una maggioranza di governo, investono il pensiero sull’Italia di oggi e il sentimento di ciò che è in gioco. Spero che alla luce del terremoto elettorale sia più chiaro che cosa era (ed è) in discussione. Non una normale scelta tra progressisti e conservatori ma un problema costituente, di futuro della nazione. Il dilemma era chiaro.
Non c’era (e non c’è) altra speranza di evitare un destino di decadenza e di marginalità rispetto al mondo nuovo che non sia quella di ricollocare il grande, ma sempre più dissipato patrimonio storico italiano (produttivo, culturale, di capacità umana), in una vicenda più vasta; che è la creazione di una federazione europea, cioè uno strumento senza il quale e fuori dal quale un Paese come l’Italia non ha le risorse per affrontare i suoi problemi. Insomma il rischio di finire ai margini del mondo nuovo e di non contare più niente.
Questo era e resta il nostro ruolo: guidare il Paese in presenza di qualcosa che non è solo una gravissima crisi economica ma un
trapasso geo-politico rispetto al vecchio ordine mondiale. Ma l’interrogativo che mi preme, anche alla luce dei risultati elettorali, è questo: si può fare un’operazione così difficile senza una consapevolezza più profonda da parte delle grandi masse popolari e senza fare i conti – tornerò su questo punto che è cruciale – con una lacerazione così ampia e profonda del tessuto sociale (specie del rapporto con i giovani) e con una vacillante unità nazionale? Tutti danno consigli e lezioni al Pd. Ma il punto che si continua a eludere quando si innalza il vessillo del rinnovamento è sostanzialmente questo.
Dopotutto le nostre facce – vivaddio – sono pulite e i dirigenti nuovi e giovani sono tanti. Ciò che non si riesce a rinnovare è
altro: è la concezione della politica come gioco di vertice, è come impedire la riduzione del partito a strumento elettorale. Ma
soprattutto il fatto che non rappresentiamo gli «ultimi».
Abbiamo assistito allo spettacolo di volgarità, di cinismo, di fuga dai problemi reali e da ogni responsabilità verso il Paese che ci ha offerto la campagna elettorale. Ma è sbagliato prendersela con gli elettori. Ascoltiamoli, invece. Essi segnalano che la malattia è più profonda e riguarda il modo di essere dell’Italia. Ed è su questo che vorrei facessimo qualche riflessione. La verità – mi pare – è che il sistema italiano, cioè quell’insieme di strutture che formano lo Stato, l’amministrazione, la scuola, i compromessi sociali, il rapporto tra il Nord e il Mezzogiorno, non regge più. Siamo arrivati a un’ultima spiaggia.
E ciò per tante ragioni, ma la principale è che noi, così come siamo, non siamo in grado di stare al passo con i cambiamenti
del mondo. Non nascondiamocelo. Perciò da venti anni non cresciamo, e ciò rende incerto il futuro dei nostri figli e nipoti. Io credo che sia questo che spiega il terremoto politico in atto. La gente lo sente sulla sua pelle e disprezza «chi comanda». Sbaglia a dire «siete tutti uguali», ma io non ricordo una situazione simile, cioè un numero così grande di persone, di povera gente come di commercianti e soprattutto di giovani che appaiono così smarriti e sfiduciati, che non vedono un futuro sia pure non immediato.
Persone alle quali la politica non può dire solo che la crisi è grave, che non è finita, anzi che il peggio deve ancora arrivare e
che c’è ben poco da fare. Questa situazione non può durare. D’altra parte a che servono le ricette degli economisti se la società italiana si disgrega?
Dunque, arrivo al punto. Tutto ormai ci dice che è tempo di mettere in campo un pensiero politico sull’Italia più forte e più
autonomo rispetto al ricettario dominante (rigore senza sviluppo). Un pensiero che, tenendo ben fermi i vincoli e gli impegni europei, rimetta al centro quello che è più che mai il problema principale di questo Paese: la questione della sua unità, irrisolta da più di un secolo ma aggravata – diciamolo – dal modo come le forze dominanti, il cosidetto «asse del Nord» (Berlusconi, Lega e il «salotto buono» milanese) ha governato per quasi 20 anni. In nome degli interessi del più forte,
sul saccheggio dello Stato e sullo scatenamento degli egoismi sociali. Il risultato è che la povertà torna a presentarsi in larghe
zone del Mezzogiorno mentre al Nord si moltiplicano i fallimenti delle imprese.
L’Italia non è un problema di risorse scarse, né di «Roma ladrona». Se la cosa pubblica non funziona è perché si è rotto un organismo nazionale e un patto sociale. Quindi è la grande politica che deve tornare a occupare il suo spazio. Il suo compito
non è fare «inciuci» ma mettere fine alla scissione tra l’economia e la società. Lo spazio per le riforme esiste se si punta sul protagonismo delle persone, spingendole a misurarsi e a cooperare tra loro. I tecnici faranno quello che devono fare, ma il compito vero dei riformisti è mettere 60 milioni di italiani dotati di una qualche intelligenza (cioè persone, non derivati o titoli bancari) nella condizione di impadronirsi delle loro vite e quindi produrre cose, idee, progetti, bisogni, relazioni.
Tutto ciò in vista di che cosa? L’Europa. Ma anche qui dobbiamo uscire dal generico perché in Europa ci sono tante cose. C’è
una destra e c’è una sinistra, c’è il più grande deposito di civiltà e capacità dell’uomo e ci sono al tempo stesso le fratture create dalle troppe guerre. Ma c’è in Europa anche una nuova possibile strategia in nome della quale lo sviluppo dei Paesi del Sud come l’Italia non è un peso, ma una grande occasione anche e soprattutto ai fini di un protagonismo mondiale. Parlo di una Europa che decida di aprirsi non solo verso il Nord, ma verso l’Oriente e l’Africa (i grandi sviluppi futuri) e che in ciò riscopre come sua risorsa straordinaria questa grande penisola protesa nel Mediterraneo che è l’Italia, il luogo delle antiche civiltà e religioni che hanno plasmato l’uomo moderno. Stiamo attenti perché questo non è un mito astratto, è il solo modo per tenere unita l’Italia. Solo una Italia unita può andare in Europa. E solo una nuova Europa può riaprire all’Italia le vie dello sviluppo.

da l’Unità

"Così le reti Mediaset hanno creato il voto Pdl", di Riccardo Di Grigoli

Le frequenze televisive incidono sul voto. Riuscire a sintonizzare il proprio apparecchio sui canali delle reti Mediaset ha consentito a Forza Italia di guadagnare negli anni numerosi elettori. A incidere sarebbe stata soprattutto l’esposizione a un modello culturale compatibile con la retorica berlusconiana, caratterizzata dall’assenza, almeno nei primi anni di vita di Fininvest, di programmi di informazione.
Secondo una ricerca promossa da tre ricercatori (Ruben Durante, Paolo Pinotti e Andrea Tesei), nei comuni esposti ai canali Fininvest prima del 1985, quindi da più tempo esposte alle telenovelas e ai quiz degli esordi della tv commerciale, Forza Italia, il partito fondato da Silvio Berlusconi, ottenne una percentuale di voti più elevata nelle elezioni del 1994 della “discesa in campo” del Cavaliere. Il confronto viene effettuato con i centri raggiunti dai canali Mediaset solo dopo: l’effetto è, in media, di circa un punto percentuale. Quasi doppio al Sud e nei comuni più piccoli. Una differenza che persiste anche nelle successive elezioni del 1996, 2001 e 2006 (fino allo scioglimento di Forza Italia nel Pdl). Sembra quindi che aver guardato Mediaset più a lungo abbia avuto un effetto duraturo sull’orientamento politico di questi elettori.
Secondo gli studiosi, Mediaset avrebbe dunque contribuito a promuovere una cultura di disimpegno politico e sociale successivamente tramutatasi in supporto elettorale per il partito che meglio ha saputo rappresentare questa cultura. Per dar corpo a questa teoria, i ricercatori si sono serviti di un software per la simulazione della copertura radio-televisiva che ha permesso loro di ricostruire l’intensità del segnale dei canali in ognuno degli 8100 comuni italiani al 1985.
Tra i partiti della seconda Repubblica Forza Italia è l’unico a mostrare un effetto positivo ai danni di partiti come Pds/Pd e Rifondazione comunista, ma anche della Lega. Nella prima Repubblica, invece, l’unico ad avvantaggiarsi dall’esposizione a Mediaset è il Psi di Bettino Craxi, considerato da molti il precursore politico-culturale del movimento di Berlusconi.

da La Repubblica

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Clicca qui per leggere gli esiti della ricerca “Perché gli italiani votano per Berlusconi?” di Ruben Durante, Paolo Pinotti e Andrea Tesei

"Bersani replica agli insulti ma non cambia linea", di Maria Zegarelli

La doccia gelata arriva nel primo pomeriggio, sul blog: «Questo smacchiatore fallito ha l’arroganza di chiedere il nostro sostegno». Niente fiducia al Pd, avvisa Beppe Grillo mentre nel partito di Pier Luigi Bersani si ragiona attorno all’unico scenario possibile (ieri “benedetto” anche da Monti) per dare vita ad un governo: presentarsi in Parlamento con pochi ma incisivi punti programmatici e chiedere la fiducia anche e soprattutto al M5s.

Grillo, a supporto delle cannonate che lancia, posta tutte le dichiarazioni del leader Pd contro il Movimento in campagna elettorale ma non basta a fermare l’onda di protesta della sua base per questa posizione di chiusura totale e al Nazareno non sfugge quello che succede sul web, il luogo dove oggi sembra essersi spostato il nuovo fermento della politica. «Quel che Grillo ha da dirmi, insulti compresi, lo voglio sentire in Parlamento. E li’ ciascuno si assumerà le proprie responsabilità», replica Bersani, ormai sotto il tiro del fuoco nemico e di quello amico (Scalfarotto lo invita a dimettersi, idem Civati che annuncia la corsa per la segreteria).

Gioco tattico quello del leader M5s? È probabile, considerato che più tardi, quando il dibattito dentro il suo movimento non accenna a smorzarsi, twitta: «Se Bersani vorrà proporre l’abolizione dei contributi pubblici ai partiti sin dalle ultime elezioni lo voteremo di slancio». Inizia l’altalena che andrà avanti da qui fino al giorno della fiducia che il nuovo Parlamento dovrà votare al governo. Bersani in fondo se lo aspettava, sa che non sarà facile, che gli è toccata l’ultima delle imprese che in cuor suo avrebbe mai voluto dover affrontare: provare a dare vita ad un governo che si annuncia sin da ora debole, appeso agli umori di Grillo e di un Parlamento dove non può che fare i conti con Berlusconi da una parte e il M5s dall’altra. «Davanti al risultato uscito dalle urne noi non possiamo che presentarci in Parlamento e fare le nostre proposte di rinnovamento pensando al bene del Paese», spiega ai suoi collaboratori.

L’altra sera durante il coordinamento, al quale erano presenti anche i segretari regionali (e dove non è voluto andare Matteo Renzi) il segretario Pd ha spiegato la linea, la stessa illustrata durante l’incontro con la stampa e per la quale chiederà l’ok durante la direzione del partito convocata per il 5. L’altra sera nessun intervento contro e molti silenzi, a partire da D’Alema, Veltroni e Franceschini. Per ora nessuno intende aprire la faida interna, ma è qustione di tempo.

Non a caso Enrico Letta sente di dover precisare: «Il nostro candidato a guidare il governo è Bersani perché vogliamo metterci tutto l’impegno, perchè ha vinto le primarie e ha avuto la maggioranza alle elezioni. E spetta a noi provare a formare un governo di svolta. Grillo non faciliterà l’impresa, sarà così fino al giorno in cui Bersani si presenterà al Senato, ma intanto il lea- der del M5s deve fare i conti con la sua base che non mi sembra abbia gradito questa chiusura netta al Pd». Al quartier generale dei democratici fiutano l’aria: c’è chi vorrebbe in scena il sindaco di Firenze per formare un governo affidando a Bersani e Berlusconi un ruolo istituzionale. «Non se ne parla nemmeno», liquida Letta. Una maggioranza sostenuta da Bersani e Berlusconi, lasciando a Grillo l’opposizione, sarebbe la fine del Pd. «Il governo o lo fa Bersani o non si fa», taglia corto Beppe Fioroni che pure bersaniano non è mai stato.

Marina Sereni respinge l’ipotesi del governissimo e non si spaventa davanti alle stroncature di Grillo: «Vediamo cosa succederà da qui ai prossimi giorni, anche gli eletti del M5s sanno quali sono le condizioni in cui versa il Paese, non so se vogliono assumersi la responsabilità di una situazione di in governabilità». Stefano Fassina è sulla stessa linea: «Vedremo in Parlamento se la partita con Grillo è chiusa».

Ieri Bersani ha incontrato a pranzo Nichi Vendola, primo faccia a faccia dopo il voto, per fare il punto. Il governatore vede come fumo negli occhi l’ipotesi di governi di emergenza, la strada, dice al segretario Pd, non può che essere quella imboccata. Proposte forti su cui chiedere la fiducia, concordano: abbattimento dei costi della politica, legge elettorale, dimezzamento del numero dei parlamentari, legge sulla corruzione, misure di moralità «pubblica e privata», interventi per sollevare le fasce più esposte della società. Con questo programma la coalizione, compatta, deve presentarsi in Parlamento e «stanare» i parlamentari del M5s. «Se diranno no si dovranno assumere la responsabilità di non aver voluto cambiare il Paese», è il ragionamento.
Walter Veltroni non parla ma non gli piace l’idea di doversi affidare a Grillo. C’è chi già ipotizza l’ipotesi di un incarico a Giuliano Amato (aleggia anche il nome di Passera) per un governo tecnico Pd-Pdl-Monti, se dovesse fallire il tentativo di Bersani. «Non possono essere Amato o Passera la risposta a quello che gli italiani hanno detto con il loro voto», commentano dal Nazareno. Per ora l’ipotesi «B» resta sullo sfondo. Ieri Bersani ha avuto anche un lungo colloquio telefonico con il presidente francese Francois Hollande sull’esito del voto italiano. Entrambi sono convinti che quello che è successo qui è un monito per l’intera Europa e che ora più che mai è necessario un cambio di rotta. «Riformare il sistema politico italiano e rilanciare misure tese a risolvere i problemi sociali causati dalla recessione sono due obiettivi decisivi per l`Italia», ha spiegato Bersani. Grillo permettendo.

da L’Unità

Elezioni, la squadra modenese del Pd è ora di ben 10 eletti

Pure la vignolese Laura Garavini è stata confermata alla Camera nella ripartizione Europa. Con la conferma, arrivata in mattinata, della elezione della vignolese Laura Garavini, la squadra modenese del Partito democratico in entrambi i rami del Parlamento è ora di ben 10 eletti. Sono Maria Cecilia Guerra e Stefano Vaccari al Senato della Repubblica e Carlo Galli, Matteo Richetti, Cécile Kyenge, Giuditta Pini, Edoardo Patriarca, Laura Garavini, Davide Baruffi e Manuela Ghizzoni alla Camera dei deputati. Pur in una situazione nazionale estremamente difficile, la squadra dei parlamentari modenesi, che non ha precedenti per dimensioni, è motivo di orgoglio per il Pd modenese.
In mattinata, dal Vimininale, è arrivata anche l’ultima attesa conferma. Anche la vignolese Laura Garavini, classe 1966, è stata confermata dal voto degli italiani all’estero, ripartizione Europa, alla Camera dei deputati. Garavini, già capogruppo Pd nella Commissione Antimafia della Camera, ha raccolto nel suo collegio il maggiore numero di preferenze tra gli elettori del Partito democratico: ben 36mila. Con la conferma di Laura Garavini, il numero dei parlamentari modenesi del Partito democratico è arrivato così a 10 eletti. La squadra più folta di sempre, espressione di competenze ed esperienze variegate. Al Senato sono, infatti, stati eletti la docente universitaria Maria Cecilia Guerra e l’amministratore pubblico Stefano Vaccari. Alla Camera dei deputati il politologo Carlo Galli, il giornalista e amministratore pubblico Matteo Richetti, il medico e portavoce dei diritti dei nuovi italiani Cécile Kyenge, la segretaria provinciale dei Gd Giuditta Pini, il membro del Cnel Edoardo Patriarca (eletto nella circoscrizione Piemonte 1), la specialista di integrazione Laura Garavini (eletta nella circoscrizione Europa), il segretario provinciale del Pd Davide Baruffi e la parlamentare uscente Manuela Ghizzoni. “Pur in un quadro nazionale estremamente complesso la cui gestione è tutta da costruire – commenta il coordinatore della segreteria provinciale del Pd Paolo Negro – la squadra dei parlamentari modenesi non può non essere motivo di grande orgoglio per il partito locale. Orgoglio per il numero fuori dal comune, certo, ma orgoglio soprattutto per la qualità e le competenze degli eletti. A loro va il nostro augurio per un lavoro proficuo a favore e a sostegno di un Paese in grande difficoltà e di un territorio che merita risposte concrete su crisi economica e ricostruzione”.

"Basta «strane» maggioranze", di Claudio Sardo

No, il governissimo no. Se il Parlamento dovesse rispondere al voto di domenica e lunedì con la riproposizione della «strana» maggioranza, sarebbe un suicidio per il Paese e forse per le stesse istituzioni. Non c’è alcuna superbia, né disprezzo dei numeri in questa considerazione. Semplicemente l’alleanza tra Pd e Pdl verrebbe percepita come un patto difensivo e di potere, per di più precario e in contrasto con gli umori di fondo – la domanda di cambiamento, la sfiducia, la paura degli effetti sociali della crisi – che gli elettori hanno manifestato con forza.
Se è vero che l’esito incerto delle elezioni ci ha drammaticamente spinto sulla via della Grecia, è ancora più vero che un governo di Grande coalizione oggi ci farebbe correre lungo quella strada verso un esito che purtroppo appare già segnato: la chiusura in un fortino dei partiti che hanno avuto esperienze di governo nazionale e la contrapposizione sempre più radicale delle forze anti-sistema, che verrebbero spinte a loro volta per inerzia in una dimensione sempre più anti-europea. Proprio la Grecia ha sperimentato questa catastrofe politica. E oggi appare incapace di ricostruire una democrazia funzionante, in grado di assicurare al tempo stesso il legittimo cambiamento, la sicurezza nazionale, il mantenimento degli impegni internazionali.

Chi pensa che Pd e Pdl, per senso di responsabilità, debbano ancora rinunciare alla loro alternatività politica in nome di un non meglio precisato interesse del Paese, farebbe bene a riflettere sul vuoto democratico che una simile intesa aprirebbe. E sulle conseguenze: la prima delle quali è proprio la rappresentazione della politica come del luogo dell’inefficacia e del malaffare, come la notte dove tutte le vacche sono nere, come la fine della destra e della sinistra. Sarebbe come non aver capito nulla di queste elezioni. Anzi, sarebbe come aver capito il contrario di ciò che gli elettori hanno voluto dire.
Certo, l’ingovernabilità resta una dimensione reale, concreta. Ma, dopo tanto disprezzo riversato sul Parlamento negli anni della seconda Repubblica, sarebbe forse opportuno recuperare un po’ della saggezza, e della flessibilità, che abbiamo conosciuto in tempi passati. I tempi di Aldo Moro, ad esempio, come ci ricorda Domenico Rosati in un articolo che pubblichiamo in un’altra pagina del giornale. Nel ’76 la Dc si assunse l’onere di una proposta di governo pur in presenza di un secondo vincitore alle elezioni, il Pci, e la legislatura partì con una convergenza molto limitata: le forze principali non rinunciarono alla loro alternatività ma trovarono il modo di esprimere, nella battaglia strategica, anche un sentimento nazionale.
È probabile che pure questa legislatura, senza una maggioranza omogenea alla Camera e al Senato, sia destinata ad un percorso breve. Ma ciò non vuol dire che sia condannata alla paralisi e all’inutilità. Può invece avviare un cambiamento, e anche rispondere ad alcune delle domande più sentite e urgenti dei cittadini. Il partito di maggioranza relativa può avanzare un suo progetto senza egoismi, senza trappole, senza ostilità preconcette verso gli avversari. Può anche accogliere alcune delle istanze che questi hanno esposto in campagna elettorale, raccogliendo su quelle basi il proprio consenso. Far nascere un governo di minoranza, con un programma limitato (e limpidamente formato in un confronto parlamentare), non è una rinuncia per alcuna forza politica. Non lo sarebbe per Grillo, che potrebbe portare a casa alcune delle sue bandiere. Non lo sarebbe per Monti, che fa della governabilità europea uno dei fattori identitari. Non lo sarebbe neppure per Berlusconi. E ognuno degli attori potrebbe, nel confronto in Parlamento sui singoli temi, conservare e sviluppare la propria autonomia politica in vista di nuove elezioni. Ovviamente al centrosinistra, che non ha vinto le elezioni ma è pur sempre arrivato primo, toccherà anche costruire le condizioni affinché i suoi avversari si sentano garantiti nelle istituzioni. Si dovrà insomma procedere all’elezione dei presidenti delle Camere in uno spirito di apertura, molto diverso rispetto al 2006, quando l’Unione fece bottino pieno sfruttando al meglio l’esigua maggioranza politica. Sia il Pdl che il movimento di Grillo, che la lista di Monti hanno tutti i titoli di chiedere per sé e per i loro rappresentanti gli uffici parlamentari più importanti: se Bersani si riserva di formulare una proposta di governo, che non contempli alleanze politiche preventive, non può che favorire un’assunzione di responsabilità istituzionale degli altri partiti.
Il rischio che la legislatura non nasca neppure è alto. Ma non è detto che le elezioni immediate siano ciò che il Paese chiede. In ogni caso, il no al governissimo non è affatto un presuntuoso rifiuto. È semmai la premessa necessaria affinché il confronto possa svilupparsi in un periodo di pericolosa incertezza e di indispensabile cambiamento istituzionale e sociale. Occorre fare le riforme. Senza riforme non sarà possibile alcuna ordinaria amministrazione. La politica non conosce tempi neutri. E tanto meno lo sono i periodi di crisi sociale, come quelli che stiamo vivendo. Ma siccome bisogna cambiare, siccome destra e sinistra devono mantenere la loro coerenza e la loro legittimità, è indispensabile che il governo futuro mantenga un suo profilo. E una sua responsabilità verso il Paese e verso chi, legittimamente, coltiva altre strategie. Un governo senza maggioranza, del resto, affida sempre una parte del suo destino ad altri. Tuttavia la dialettica democratica, in un Paese fondatore dell’Europa, non può annullarsi fino a scomparire. Altrimenti, perché lamentarsi del populismo crescente? Proprio la pigrizia delle grandi coalizioni – che da strumento eccezionale diventano l’alibi dell’impotenza politica – aiuta il populismo a diventare sempre più forte.

L’Unità 27.02.13

Bersani: no al governissimo. «Grillo dica cosa vuole fare», di Simone Collini

La delusione c’è e si percepisce tutta. Si sente dal tono della voce, si vede dall’espressione tirata di chi ha passato ore a fare i conti con dei dati che gli sono piombati addosso come una doccia gelata. Ma mentre Pier Luigi Bersani parla emerge anche la sua determinazione a non arrendersi, a giocare fino in fondo questa partita. Per rispetto nei confronti degli oltre otto milioni di italiani che hanno votato Pd e per il senso di responsabilità di chi sa che se non viene garantita la governabilità, questo Paese corre un grosso rischio.

A metà pomeriggio il leader del Pd arriva alla Casa dell’Architettura di Roma per commentare il risultato elettorale, ma soprattutto per indicare quella che giudica l’unica possibile strada da seguire a questo punto: sfidare il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo a comportarsi come si richiede al partito più votato, che adesso è presente in Parlamento con 109 deputati e 54 senatori: «Fin qui hanno detto “tutti a casa”, ma ora ci sono anche loro, o vanno a casa anche loro o dicono che cosa vogliono fare per questo Paese loro e dei loro figli».

NESSUNA INTESA CON BERLUSCONI

La strada che vuole percorrere Bersani è stretta, in salita e piena di insidie, ma come avrebbe spiegato in una telefonata con Giorgio Napolitano è anche l’unica percorribile. Il leader del Pd ritiene infatti che non ci siano né le condizioni né un interesse generale a ripetere l’esperienza del governo delle larghe intese insieme al Pdl. Per questo, alla proposta di dialogo avanzata da Silvio Berlusconi, Bersani risponde a distanza con un no grazie, proponendo invece a tutte le forze interessate ad approvare una serie di riforme «per il cambiamento» e un altro sbocco politico alla crisi che si è aperta dopo queste elezioni: «Berlusconi e il Pdl? Si riposassero. Non intendo imbastire accordi basati su non si sa cosa, nessuno capirebbe che cominciassero dei balletti di diplomazia. Dobbiamo ribaltare lo schema. Adesso si discuta di cosa serve al Paese».

Per questo la proposta che Bersani mette sul piatto, pubblicamente, discutendo con gli altri dirigenti del Pd convocati in serata al Nazareno, nei primi contatti con il Quirinale in attesa delle consultazioni, è quella di un governo guidato da lui e che potrebbe essere definito di scopo (anche se il leader Pd continua a chiamarlo «di combattimento» e «per il cambiamento») che si presenti in Parlamento con un programma essenziale comprendente una serie di «riforme istituzionali, la riduzione dei costi della politica e una legge sui partiti, moralità pubblica e privata, difesa dei ceti più esposti alla crisi, impegno per una nuova politica in Europa per il lavoro».

Un programma che difficilmente potrebbe essere sostenuto dal Pdl e che invece, stando alle valutazioni di Bersani, potrebbe essere votato anche dai parlamentari del M5S. Ai quali Bersani, che parlando non cita mai Monti, potrebbe offrire anche la presidenza della Camera. Dice il leader del Pd: «Su questioni istituzionali siamo favorevoli a corresponsabilità. Tra l’altro M5S è il primo partito alla Camera, allora secondo i grandi modelli democratici ciascuno si prende le sue responsabilità».

Ovviamente, perché questo governo possa vedere la luce, è necessario che prenda la fiducia sia a Montecitorio che a Palazzo Madama. Dove ci sarà la prima prova del fuoco con l’elezione del presidente. In quel passaggio si capirà cioè se e quale maggioranza potrebbe prender vita al Senato. E, in base a quel risultato, si capirà quali successivi passi compiere. Bersani vuole proprio procedere passo dopo passo, ma sa che per garantire uno scenario di stabilità è necessario chiarire fin dall’inizio alcuni punti. Per questo a Grillo, che ha fatto sapere che il M5S deciderà come votare legge per legge, manda a dire che quest’impostazione «è apprezzabile ma è piuttosto comoda» e che i governi «funzionano con una fiducia». Che, certo, si costruisce se c’è un accordo sui programmi, ma va data prima di cominciare con i lavori. Basti questo per capire come sia complicato il percorso. Ma alternative, per Bersani non ce ne sono.

PRIMI MA NON VINCITORI

Il dato definitivo, comprensivo dei voti all’estero, consegna un Parlamento in cui il centrosinistra ha la maggioranza alla Camera (345 deputati) ma non a Palazzo Madama, dove la coalizione costruita attorno al Pd si ferma a 123 senatori, cioè 37 in meno di quelli necessari. «Chi non riesce a garantire la governabilità al suo Paese non può dire di aver vinto le elezioni. E quindi noi non abbiamo vinto anche se siamo arrivati primi».

La voce e l’espressione tirata sono quelle di chi ha passato la notte e poi ancora le ultime ore chiuso da solo in casa e poi con i più stretti collaboratori a seguire lo spoglio, ad analizzare i dati, a cercare le risposte di fronte a una situazione che non è quella che era stata prefigurata. Soprattutto per il pieno di voti incassato dal Movimento 5 Stelle. «La sfiducia nelle istituzioni e nella politica noi progressisti l’abbiamo vista da tempo e abbiamo cercato di rispondere introducendo un cambiamento nei meccanismi e nel nostro modo di essere, ma devo riconoscere che il problema ha nettamente sopravanzato le nostre ricette».

NON ABBANDONO LA NAVE

Il pensiero va alle primarie, pensate come strumento per colmare il divario tra cittadini e politica. E se qualcuno, anche dentro il Pd, comincia a contestare quel passaggio, comincia a sostenere che soltanto in apparenza era la soluzione ai problemi, Bersani manda a dire che «se non avessimo fatto quello che abbiamo fatto saremmo stati in una situazione ancora più complicata». E poi ci sono anche un paio di altri messaggi che Bersani lancia a uso e consumo interno ed esterno al Pd, ora che qualcuno inizia ad evocare il tema delle dimissioni, a sostenere che bisognerebbe anticipare il congresso in primavera, a dire che se il candidato premier del centrosinistra fosse stato Matteo Renzi oggi saremmo in un’altra situazione. Dice Bersani: «Ho sempre detto che la ruota deve girare nel congresso del 2013. Io non abbandono la nave, dopodiché io posso starci da capitano o da mozzo». E poi: «Io più di fare le primarie e far scegliere tre milioni di persone non so cosa potessi fare. Può darsi, tutto è possibile, non vorrei però si oscurasse un problema più profondo. La dimensione europea e nazionale di impoverimento che la politica non riesce a gestire dà luogo a risposte sem- plificatorie, a questo bisogna rispondere a prescindere dalle persone».

L’Unità 27.02.13