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Berlusconi se la prende con le toghe mentre il Paese affonda

Non cambia, i suoi problemi vengono prima delle priorità del Paese

“La disoccupazione in Italia non è mai stata così alta. Sono tre milioni le persone nel nostro Paese senza lavoro. Ai massimi livelli anche la disoccupazione giovanile. I consumi sono crollati e la pressione fiscale è alle stelle. Questi sono i dati economici diffusi oggi dall’Istat, dati drammatici che descrivono una situazione davvero preoccupante”.

“Berlusconi propone di scendere in piazza. Peccato che lo faccia non per manifestare contro la situazione insostenibile e di precarietà assoluta in cui versa il Paese ma per prendersela con la magistratura, una delle istituzioni che sono alla base della nostra democrazia”.
Lo dichiara Nico Stumpo, responsabile Organizzazione del Pd, dopo l’annuncio da parte di Silvio Berlusconi di voler scendere in piazza il 23 marzo “contro l’attività di una parte della magistratura che usa la giustizia per combattere ed eliminare gli avversari politici”.

L’ultima vicenda in cui Berlusconi si trova coinvolto è quella della compravendita di senatori all’epoca della caduta del governo Prodi, per la quale l’ex premier è indagato dalla procura di Napoli per il reato di corruzione e finanziamento illecito ai partiti.

“Berlusconi non cambia – aggiunge Stumpo -. I suoi problemi vengono prima delle priorità del Paese. Così ci ha già portato sull’orlo del baratro”.

www.partitodemocratico.it

Gotor: "Governissimo? Senza Pier Luigi", di Carlo Bertini

Gotor, lei è uno dei più stretti consiglieri di Bersani. Nel Pd son già scattate le faide contro il segretario. Si dovrebbe dimettere?

«Per semplificare: se si farà il governissimo, con dentro il Pdl e Berlusconi, non ci sarà Bersani. Abbiamo già dato. E in ogni caso nel Pd ci sono organi dirigenti che dovranno esprimersi con un voto e un percorso per il congresso. E se ci sarà una richiesta in tal senso ci si conterà. Bersani da mesi dice che non si ricandiderà alla segreteria e non è disponibile a guidare il Pd in un governissimo. In questo caso, si dovrà trovare un altro segretario, ma per farlo bisogna avere i numeri. Eviterei di dare la rappresentazione di un Pd che continua a farsi del male nel chiuso di se stesso, e l`ultima cosa di cui il partito avrebbe bisogno in un momento così delicato è mettere in discussione un centro di responsabilità e di prospettiva per l`Italia. Vedo riflessi di veterocomunismo e veterodemocristianismo in questo dibattito incentrato su autocritiche di facciata e riposizionamenti tattici. Stiamo scherzando con il fuoco, il Paese ha bisogno di essere governato e stabilizzato, gli italiani hanno parlato e la situazione richiede la ricerca di una maggioranza al Senato».

Perfino Enrico Letta dice che la carta del futuro è Renzi. Concorda?

«Renzi è una risorsa del Pd, ma non credo che il futuro possa nascere nelle attuali condizioni. Si tende a dimenticare che ci sono state proposte politiche costruite attorno all`agenda Monti, rivelatesi minoritarie nelle urne e questo discorso interroga anche lui. Ma affrontare la questione a partire dalla leadership e dalle forme di comunicazione è un modo autoreferenziale di procedere. I processi avvenuti sono estremamente profondi: gli 8 milioni di voti che ha preso Grillo non sono soltanto il prodotto di una militanza sui social network o di una piazza riempita. Qui c`è un fenomeno più grosso sul piano sociale, una mescolanza di alto e basso, un voto moderato anti-sistema che si confonde con un movimentismo antiparlamentare ed extraparlamentare di sinistra. C`è anche una protesta e una critica molto decisa che viene da sinistra a un modo di essere della sinistra che interroga il Pd e non deve essere inseguita, ma ascoltata con umiltà».

Qualche autocritica sul modo di condurre la campagna elettorale?

«Vedo riflessi di tafazzismo. Siamo ancora dentro un processo politico aperto e non è il momento di consumare ambizioni personali, sfogare rancori o tentare l`occupazione di posti. Se l`analisi corretta è quella di una crisi di sistema economica, politica e istituzionale, il Pd ha il dovere di continuare il suo impegno per rappresentare una possibile risposta che coincide con il coraggio e la pratica del cambiamento. Chi si ferma ora è perduto, nel dinamismo c`è l`unica speranza».

E se si votasse tra sei mesi?

«Vorrebbe dire che Grillo avrebbe rifiutato una proposta con punti così qualificanti anche verso il suo elettorato che non credo vincerebbe le elezioni. Se il Pd facesse il governissimo farebbe la fine del Pasok greco. E invece un partito ha il dovere di stare in connessione sentimentale, per usare un`espressione di Gramsci, non con le architetture di sistema ma con il proprio popolo. Che ha parlato in maniera chiarissima e solo un sordo può non sentirlo. Siamo in montagna con la bufera, si procede un passo alla volta, prima di fare il passo successivo devi vedere se hai messo bene il piede sul terreno. Non credo che il tema dei 5 Stelle sia riducibile alle poltrone, per l`energia e la forza della critica che porta con sé: la vedo più complicata. Tocca a noi e faremo una proposta rivolta a tutto il parlamento su cinque o sei punti: e chi dirà no si assumerà la responsabilità di non consentire il cambiamento. Trasformandosi da forza anti-sistema a forza di conservazione di una palude. Stiamo cercando di portare l`Italia fuori da questa palude e lo faremo con chi è libero e forte».

da La Stampa

Disoccupazione a Gennaio è record: dati istat, 3 milioni senza lavoro

Il numero di disoccupati a gennaio sfiora i 3 milioni. Lo rileva l’Istat, precisando che con un aumento di 110 mila unità (+3,8%) su dicembre si è arrivati 2 milioni 999 mila. Su base annua la crescita è di oltre mezzo milione di disoccupati (+22,7%, +554 mila unità). A gennaio – secondo i dati Istat – gli occupati sono 22 milioni 688 mila, in calo dello 0,4% (-97 mila unità) rispetto a dicembre 2012. Su base annua si registra una diminuzione dell’1,3% (-310 mila unità). Il calo dell’occupazione riguarda sia gli uomini sia le donne. Il tasso di occupazione è pari al 56,3%, in calo di 0,3 punti percentuali nel confronto congiunturale e di 0,7 punti rispetto a dodici mesi prima.

Il numero di disoccupati, pari a 2 milioni 999 mila, aumenta del 3,8% rispetto a dicembre (+110 mila unità). Su base annua si registra una crescita del 22,7% (+554 mila unità). La crescita della disoccupazione riguarda sia la componente maschile sia quella femminile. Il tasso di disoccupazione si attesta all’11,7%, in aumento di 0,4 punti percentuali rispetto a dicembre e di 2,1 punti nei dodici mesi.

Tra i 15-24enni le persone in cerca di lavoro sono 655 mila e rappresentano il 10,9% della popolazione in questa fascia d’età. Il tasso di disoccupazione dei 15-24enni, ovvero l’incidenza dei disoccupati sul totale di quelli occupati o in cerca, è pari al 38,7%, in aumento di 1,6 punti percentuali rispetto al mese precedente e di 6,4 punti nel confronto tendenziale. Il numero di individui inattivi tra i 15 e i 64 anni diminuisce dello 0,1% rispetto al mese precedente (-10 mila unità). Il tasso di inattività si attesta al 36,2%, stabile nel confronto congiunturale e in calo di 0,7 punti percentuali su base annua.

Nel 2012 l numero dei precari ha toccato i massimi, con 2 milioni e 375.000 contratti a termine e 433.000 collaboratori: si tratta di 2,8 milioni di lavoratori senza posto fisso. Il livello di dipendenti a termine è il più alto dal 1993 e quello dei collaboratori dal 2004, cioè dall’inizio delle serie storiche relative.

da Huffington Post

"Napolitano: l'Italia non è allo sbando", di Lina Palmerini

«Non c’è un’Italia allo sbando e non vedo la possibilità di un contagio perché noi non abbiamo preso nessuna malattia». Le prime parole di Giorgio Napolitano a Berlino cercano di fermare la scia di polemiche e preoccupazioni sull’instabilità politica italiana e la possibilità che contamini l’area dell’euro. I giornali tedeschi sono zeppi di titoli in prima pagina sull’Italia, non solo per l’incidente provocato da Peer Steinbrück sui due «clown» – Berlusconi e Grillo – ma anche per le frasi del ministro delle Finanze tedesco Schäuble sul «rischio contagio» da un Paese che appare sempre più simile alla Grecia. E allora tocca al capo dello Stato – che ha un ruolo chiave nella soluzione del puzzle politico – rassicurare i suoi interlocutori tedeschi. Aveva già incontrato a Monaco il presidente della Repubblica federale Joachim Gauck ma ieri, a Berlino, il faccia a faccia è durato a lungo, così come lungo è stato il colloquio con Angela Merkel. Le pressioni affinché si trovi – in fretta – una via d’uscita sono molte ma altrettanto forti sono le preoccupazioni che il futuro Governo non rispetti la tabella di marcia europea.
È quindi in questa chiave che si devono leggere le parole che Napolitano pronuncia accanto al presidente Gauck nel breve incontro con la stampa che segue il colloquio al Castello di Bellevue. «L’Italia non è senza Governo. L’attuale Governo è in carica fino al giuramento del nuovo e Monti rappresenterà l’Italia al Consiglio europeo di metà marzo e lo farà in continuità con la sua azione prendendosi tutte le responsabilità, anche consultando le forze politiche uscite dalle elezioni». Ecco che il capo dello Stato vuole essere chiaro: «La strada dell’Italia non può non essere in Europa, faremo la nostra parte di sacrifici».
Ma il tema nell’agenda dei suoi colloqui è anche sulla tabella di marcia strettamente interna: cioè il nuovo Governo e se sarà possibile fare più in fretta. Ma il presidente frena sui tempi: «Non vedo quali siano le possibilità di accelerazione: non c’è stata nemmeno la proclamazione degli eletti in Parlamento, ci deve essere la verifica di tutti gli eletti e secondo la Costituzione le Camere devono riunirsi entro 20 giorni dal voto e la data per l’insediamento delle nuove Camere c’è già ed è il 15 marzo». Dunque, la data di partenza del percorso verso la formazione del nuovo Governo resta dopo il 15 marzo: «Le consultazioni non potranno iniziare fino a quando non saranno prima costituiti i gruppi parlamentari».
Un percorso pienamente compreso sia dal presidente Gauck – che ha escluso un rischio contagio dall’Italia – sia dalla cancelliera Angela Merkel. Con entrambi il presidente Napolitano ha parlato molto di Italia ma moltissimo di Europa spingendo soprattutto sul tema della crescita. Tema condiviso anche se con la premessa d’obbligo che l’Italia «si assumerà le proprie responsabilità facendo la sua parte di sacrifici». L’appendice di Napolitano è, però, ciò che fa la differenza: «È essenziale che questo processo venga integrato da adeguate decisioni comuni per il rilancio dello sviluppo economico e sociale». Non è la prima volta che Napolitano batte su questo tasto sapendo che democrazia e crescita sono i punti cruciali del futuro europeo. E lo ribadisce «alla fine del suo mandato, in questa mia ultima visita di Stato», come ribadisce più volte quasi a voler scacciare le ipotesi di chi a Roma vuole la sua rielezione. Nel colloquio Angela Merkel ha espresso «fiducia nel senso di responsabilità delle forze politiche italiane che devono in questa situazione complessa formare un governo in grado di agire», riferisce il portavoce Steffen Seibert che parla di un’atmosfera «amichevole» nella quale tutti i punti sono stati toccati, anche quelli spinosi, come il difficile compito che spetta a Napolitano a cui la Cancelliera ha augurato «di avere successo».
Intanto resta una piccola coda sulla gaffe di Peer Steinbrück che Napolitano ieri ha definito «uno spiacevole imprevisto: ognuno è libero di pensare quello che crede però quando si parla di libere elezioni in un paese amico non si deve venir meno alla discrezione e al rispetto». Oggi è l’ultimo giorno della sua visita di Stato ma con il presidente Gauck c’è già un impegno in agenda: andare insieme a Sant’Anna di Stazzema in segno di un’amicizia solida tra Italia e Germania rinata dopo la guerra e tante storie tragiche.

Il Sole 24 Ore 01.03.13

"L'euro, l'Italia, diritti e doveri", di Adriana Cerretelli

«Che cosa succederà in Spagna e in Europa quando non ci sarà più la leva della svalutazione e l’industria tedesca con la moneta unica si imporrà dovunque grazie ai suoi enormi aumenti di produttività?» tuonava l’euro-scettico Gerard Schroeder nel 1997 contro Helmut Kohl, il grande europeista che voleva quella moneta per un’Europa federale e integrata. Sono trascorsi sedici anni, è arrivata la grande crisi dell’euro (che non passa).

Nella profonda depressione che soffoca la Grecia, nella recessione che scuote Portogallo, Grecia e Italia, i disoccupati Ue sono oltre il 12% e i debiti in pervicace ascesa nonostante la sferza costante del rigore.
Dopo responsi elettorali che regolarmente hanno bocciato i Governi in carica premiando partiti populisti, anti-europeisti o anti-sistema, la risposta a quella domanda allora tanto scandalosa non appare più così univoca e ovvia.
Certo, si potrebbe ragionevolmente affermare che, ci fosse stato ancora Kohl, la crisi non avrebbe preso la brutta piega che ha preso, la Germania non avrebbe messo in liquidazione cultura e sensibilità europee, il bilancio non si sarebbe ridotto per la prima volta nella storia del 3,5% in termini reali nell’Unione che non cresce ma la solidarietà, vera, avrebbe attenuato i contraccolpi delle necessarie cure di austerità. Salvando lo spirito di famiglia, evitando di approfondire la drammatica frattura Nord- Sud dentro l’euro e l’Europa.

La storia non si fa con i se e con i ma. A Berlino oggi regna Angela Merkel, espressione della nuova Germania riunificata, egoista, nazionalista, tronfia dei propri successi, insofferente ai “paria” del Mediterraneo. Il suo epitome è l’antagonista del cancelliere alle elezioni di settembre, l’ex-ministro socialdemocratico delle Finanze Peer Steinbrueck, che non non prova neanche a mostrarsi all’altezza della sua ambizione politica ma, forse per questo, si ritiene in diritto di scaricare insulti su due protagonisti delle elezioni italiane.

Verbali o no, le intemperanze tedesche verso il Sud purtroppo non sono nuove. Se però si vuole davvero tenere insieme l’euro, forse è venuto il momento di scrivere una carta dei diritti e dei doveri dei suoi membri. Qualcosa di più di un galateo ma meno di una Costituzione, per ora off-limits nella Ue.
I doveri dei Paesi dell’arco mediterraneo attualmente sono chiarissimi: rigore nei conti e riforme strutturali a largo spettro per recuperare competitività e crescita. Tutti li stanno rispettando, sia pure a fatica. In cambio dovrebbero aver diritto a un’iniezione di solidarietà: investimenti europei nella crescita economica collettiva e nel lavoro. Non come benevolo premio di incoraggiamento ma a indispensabile tutela dell’interesse generale alla stabilità. Perché senza una crescita solida e duratura, deficit e debiti del Sud salgono invece di scendere rendendo inutili tanti sacrifici.

Il primo dovere del Nord dovrebbe essere il rispetto reciproco, contraltare del suo diritto alla disciplina da parte di tutti i partner. Il secondo dovrebbe essere quello di riconoscere che su questa crisi ha marciato alla grande, rifinanziando il proprio debito a costo zero e sulle spalle dei partner più poveri, carburando la competitività della sua industria a danno dei concorrenti più deboli, anche grazie al differenziale dei tassi Nord-Sud e al crescente drenaggio di cervelli in fuga dalla desertificazione industriale e occupazionale di paesi tramortiti da rigore e recessione.

Il terzo dovere è quello della memoria: nel 2003, quando era il grande malato d’Europa e Schroeder diventato cancelliere lanciò il suo grande programma di riforme per guarirla, la Germania insieme alla Francia organizzò il “golpe” contro il patto di stabilità e le sue regole, nella consapevolezza che non sarebbe riuscita a fare riforme e disciplina di bilancio insieme. Quel colpo di mano è ritenuto da molti il principio degli attuali guai dell’euro. Ma perché, se i tedeschi allora non ritennero possibile fare entrambe le cose insieme, oggi le pretendono dai propri partner già strutturalmente più deboli di loro?
In un’economia sempre più integrata e interdipendente, il quarto dovere dovrebbe essere quello del graduale riequilibrio dell’abnorme deficit corrente tedesco combinato con la rinuncia al totem dell’euro forte per definizione. Entrambi i tasti restano però intoccabili a Berlino.

Questo breve (non esauriente/elenco di alcuni fondamentali diritti e doveri che dovrebbero regolare la convivenza tra europei mostra in modo evidente che nessuno ha il monopolio dei torti e delle ragioni in Europa. Per questo Nord e Sud dovrebbero sforzarsi di intendersi. Non di cannibalizzarsi economicamente e finanziariamente. E men che meno di sputare sentenze politiche dal basso di ignoranza e pregiudizi su società e sistemi democratici altrui.
In caso contrario, quel vecchio interrogativo di Schroeder finirà un giorno per trovare una sola risposta: distruttiva. Per continuare a fare sacrifici, tutti i popoli hanno bisogno di vedere una luce in fondo al tunnel dell’Europa. Altrimenti non serve biasimare i populismi che si alimentano.

Il Sole 24 Ore 01.03.13

Bersani “Ecco il mio piano per il Paese non esiste il governissimo chiedo la fiducia a tutti partiti”, d Massimo Giannini

«Chiamatelo come volete: governo di minoranza, governo di scopo, non mi interessa. Mercoledì prossimo lo proporrò in direzione, poi al Capo dello Stato: io lo chiamo un governo del cambiamento, che mi assumo la responsabilità di guidare, che propone sette o otto punti qualificanti e che chiede in Parlamento la fiducia a chi ci sta». Pierluigi Bersani si gioca così le ultime carte. Chiuso nel suo ufficio, tormenta il solito toscano spento.
Ma appare molto più battagliero della mesta conferenza stampa di martedì scorso. Il leader del Pd prova a uscire dall’angolo rilanciando la sfida a Grillo («i suoi insulti non mi spaventano»), aprendo alle ipotesi di offrire le alte cariche dello Stato a M5S e Pdl («sui ruoli istituzionali siamo pronti a esaminare tutti gli scenari») ma chiudendo definitivamente la porta a qualunque “governissimo” con Berlusconi («ora basta, di occasioni per dimostrarsi responsabile ne ha avute e le ha sprecate tutte»).
Segretario, partiamo dall’inizio. Il giorno dopo lo tsunami. Cos’ha provato, lunedì sera?
«Come ho già detto: una delusione per una governabilità a rischio ».
Vogliamo dirlo? Queste elezioni le avete perse.
«Anche se per la prima volta un partito di centrosinistra ha avuto la maggioranza assoluta alla Camera e relativa al Senato questo non ci ha consegnato di per sé la soluzione, come avverrebbe in altre democrazie del mondo…».
Non parli in politichese. Avete vinto numericamente, ma avete perso politicamente. Il Pd ha dilapidato 3 milioni 600 mila voti, con il neo-liberismo in crisi, l’onda lunga delle sinistre in Europa, la destra berlusconiana distrutta in Italia. Quando vi ricapiterà un’occasione
del genere?
«Certamente questa ondata di protesta ed esigenza di cambiamento ci è arrivata in casa. Ma non è vero che le “condizioni di sistema” erano così favorevoli. Sul terreno sociale non lo erano affatto. E questo io l’avevo percepito. Si vada a rileggere tutto quello che ho detto in campagna elettorale, e
vedrà se non è vero».
Se fosse vero, gli italiani l’avrebbero votata in massa. Se non è successo la colpa di chi è? Degli italiani che non hanno capito, o di voi che non vi siete spiegati?
«Ne vedo tanti di dotti, medici e sapienti che sdottoreggiano col senno di poi. Io non ho mai pensato che se non vinciamo la colpa è degli italiani che non ci capiscono. E neanche penso che quel che è avvenuto sia riconducibile a errori della campagna elettorale che possono sempre esserci. Si sono fronteggiati una destra che proponeva soluzioni fiscali oniriche e Grillo che proponeva la palingenesi. Mi vuol far dire che avremmo dovuto coltivare anche noi un messaggio che si inserisse tra l’impossibile e l’irrazionale? Avremmo dovuto essere un po’ meno “realisti”? Non sono convinto di questo. In campagna elettorale ho sempre detto che il cuore della crisi italiana nasceva dai temi sociali, dall’impoverimento e dall’allargamento della forbice delle disuguaglianze».
L’impressione è che siate rimasti ingabbiati tra la solita paura di scoprirvi a sinistra e la solita necessità di aprire al centro, tanto più che sapevano tutti che dopo il voto avreste fatto l’accordo con Monti.
«È innegabile che la necessità di non rompere con Monti ci ha condizionato. E in questo condizionamento qualcosa abbiamo pagato ».
In più avete sottovalutato la rabbia degli italiani, che mentre pagavano l’Imu vedevano moltiplicarsi gli scandali e non vedevano
limiti ai privilegi della casta.
«Ho sempre avuto chiaro quanto contassero anche i nodi dei costi e dei meccanismi della nostra democrazia, che via via sono diventati una pregiudiziale ineludibile per tanti elettori che hanno scelto il Movimento 5 Stelle…».
Ma lo tsunami vi ha travolto lo stesso. Evidentemente il messaggio sul cambiamento è stato vago, o non abbastanza forte.
«No, su questo non ci sto. Si può dire che non siamo riusciti ad evitare che il fenomeno del voto del disagio e della protesta ci venisse in casa. Ma non mi si venga a dire che non avevamo visto il pericolo. Se non l’avessi visto non avrei fatto le primarie, mettendomi in gioco, e non avrei fatto le “parlamentarie”. E oggi lo tsunami non l’avremmo preso di striscio, ma in piena faccia. Se abbiamo un Parlamento tutto nuovo il grosso del merito è nostro: il 42% dei nuovi sono donne, e su 340 deputati dei nostri eletti alla Camera io ne conosco al massimo il 10%. In campagna elettorale ho passato giorno e notte a divincolarmi, tra chi mi chiedeva a quanti centimetri di distanza il Pd dovesse stare da Monti o da Vendola. Mi sono sgolato a rispondere “voi siete matti, non vedete che il problema non è questo”?».
Lei si sgolava pure, ma non si chiede perché non l’abbiamo sentita?
«Vuol dire che abbiamo sbagliato qualcosa in campagna elettorale? Accetto anche questo. Ma vede, insistere su questo vuol dire rimuovere la questione di fondo. Le ragioni che spiegano la novità del voto le ho indicate più volte e ora devo solo rafforzarle. Negli ultimi due anni la riduzione di Pil e la distruzione di valore aggiunto e posti di lavoro è comparabile solo con quello che è successo dopo l’ultima Guerra Mondiale. Di fronte a questo dramma la politica è apparsa impotente o immorale. Chiedersi “quanto ci costa un parlamentare” è l’altra faccia del chiedersi “a che serve un parlamentare”. La democrazia rappresentativa ha dimostrato di non padroneggiare l’avvitamento in atto tra austerità e recessione. È un tema europeo, ma è un tema ancora di più italiano. Questa crisi ha creato correnti fortissime, l’opinione pubblica si è divisa tra istanze di innovazione, proteste radicali, linee di fuga utopiche, scorciatoie per cercare il meglio dal peggio, tipo “usciamo dall’euro”. Qui, in questo punto, sta il che fare…».
Bene, ce lo spieghi. Che fare?
«Prima di tutto c’è da rispettare l’esito del voto. In secondo luogo c’è bisogno che ciascuno si assuma le sue responsabilità. A noi spetta la prima parola perché abbiamo la maggioranza, larga alla Camera e relativa al Senato. E allora, per noi responsabilità significa cambiamento. Il cambiamento non è un’esclusiva di M5S. Anche noi l’abbiamo chiesto, l’abbiamo praticato e oggi e lo invochiamo con
ancora più forza».
In che modo? Qual è la sua proposta per dare governabilità al Paese?
«Voglio ribaltare lo schema. Mercoledì prossimo in direzione mi assumerò la responsabilità di formalizzare la proposta di un governo di cambiamento, che segnali in modo netto il cambio di fase con sette-otto punti programmatici. Il primo tema è l’Europa. Voglio che il prossimo governo ponga una questione dirimente, di cui ho parlato al telefono con Hollande l’altroieri: l’austerità da sola ci porta al disastro. In sede europea, tutti devono mettersi in testa che il rientro dal debito e dal deficit è un tema che va spostato nel medio periodo: ora c’è un’altra urgenza assoluta, il lavoro. Il secondo tema è quello sociale. Il disagio è troppo forte, i comuni devono poter aprire sportelli di sostegno, bisogna sbloccare subito i pagamenti della PA alle imprese e introdurre sistemi universalistici negli ammortizzatori sociali. Il terzo tema è la democrazia. Il nuovo governo, immediatamente, deve dimezzare il numero dei parlamentari, abbattere gli stipendi al livello di quelli dei sindaci, varare leggi che regolino la vita dei partiti e non solo per i finanziamenti, che inaspriscano drasticamente le norme anti-corruzione e che regolino finalmente i conflitti di interessi. Ciascuno di questi punti si tradurrà in un specifico disegno di legge, che giorno dopo giorno farò pubblicare in rete già da giovedì mattina. Questo mi offrirà la gradevole opportunità di rilanciare anche qualche vecchia idea, come la creazione di un ministero per lo Sviluppo Sostenibile, visto che l’economia verde deve essere il cuore del nuovo governo che ho in testa».
Perfetto. E con questa piattaforma programmatica cosa ci farà, una volta ottenuto il via libera dalla direzione del Pd?
«Quando il Capo dello Stato mi chiamerà per le consultazioni, io presenterò questa piattaforma come base per un governo di cambiamento…».

Di cui lei si candida a fare il presidente del Consiglio?
«Sì. Questa sarà la mia proposta a Napolitano. Con questa piattaforma io mi presento in Parlamento, perché è ora che questo Parlamento fortemente rinnovato torni a svolgere fino in fondo il suo ruolo. Con questa piattaforma io mi rivolgo a tutte le forze politiche, per vedere chi è pronto ad assumersi le proprie responsabilità».
E questo cosa sarebbe? Un governo di minoranza, un governo di scopo, che si va a cercare i voti dove li trova, senza maggioranze precostituite?
«Lo chiami come vuole. Per me è un governo di cambiamento, che come tutti i governi chiederà la fiducia. La mia partita la gioco a viso aperto, e questo vuol dire che non ci sono tavoli segreti, inciuci o caminetti ».
Grillo dice: “sceglierò legge per legge cosa votare”…
«Leggendo la nostra costituzione, votare legge per legge non è sufficiente, perché un governo nasce con un voto di fiducia o non nasce per niente. Ora sta a lui scegliere. Il cambiamento non lo fai con quelli che di una torta si vogliono mangiare solo la ciliegina. Il Paese va governato, non può essere lasciato allo sbando di fronte all’Europa e ai mercati».
D’Alema propone di cedere a M5S e al Pdl la presidenza di Camera e Senato. Lei è d’accordo?
«Non mi discosto da quello che ho detto in campagna elettorale. Chi arriva primo non ha l’esclusiva sulle cariche istituzionali. Ma ci sono due aspetti che mi preme sottolineare. Il primo: l’emergenza non si affronta con i vecchi schemi da cittadella assediata della politica. Il secondo: quando ci sono in ballo le istituzioni sono aperto a tutte le ipotesi, ma quando si parla di governo non possono esserci ambiguità…».
Appunto, Hic Rhodus. Se salta lo schema del suo “governo di cambiamento” lei è pronto o no a fare il patto col diavolo, cioè un governo di larghe intese con il Berlusconi “statista” che dice “questa è l’ora della responsabilità”?
«Senta, in questi anni Berlusconi di “ore della responsabilità” ne ha avute a bizzeffe, e le ha mancate tutte. La responsabilità lui non la concepisce al di fuori degli interessi suoi e dei suoi. Dunque, lo voglio dire con assoluta chiarezza: l’ipotesi delle larghe intese non esiste e non esisterà mai».
Eppure sembra che anche nel Pd ci siano forti pressioni su di lei.
«Pressioni ce ne sono tante, e di tutti i tipi. Anche la base preme, e in direzione opposta a quella delle larghe intese. Per fortuna siamo un grande partito, che discute e decide in organismi collegiali. Proposte di governissimo finora non ne ho sentite. Sarebbero la morte del Pd, sarebbero risposte di una politica che rifiuta la realtà e si chiude in se stessa. Io ho un’altra idea: come ho detto sempre in campagna elettorale serve un governo di combattimento, e io sono pronto a guidarlo».
Ma se Grillo le risponde picche, e le ripete che lei è “un morto che cammina” che si fa?
«Mi aspettavo che Grillo rispondesse così. Ma sbaglia di grosso, se pensa di aver davanti uno che si impressiona. A Grillo voglio solo dire che accolgo il suggerimento di Vasco Rossi: “fottitene dell’orgoglio”. Lui può insultare finchè vuole, ma deve venire in Parlamento a dirmelo. Gli lancio questa sfida. Il governo di cambiamento che propongo non risponde solo al sentire del suo popolo, ma anche del mio. Finora il suo slogan è stato “tutti a casa”. Bene, ora che dentro la casa c’è anche lui dica con chiarezza se vuole andare via anche lui o se è interessato a ristrutturare
la casa».
Non mi ha detto se nel suo pacchetto c’è anche la riforma della legge elettorale, visto gli ennesimi disastri prodotti dal Procellum.
«È certamente una priorità. Bisognerà verificare le posizioni altrui.
Noi la nostra proposta l’abbiamo già presentata in Parlamento: maggioritario a doppio turno, sul modello francese».
D’Alema, evidentemente per blandire il Pdl, propone di inserire il presidenzialismo. Lei condivide?
«Nella nostra proposta deliberata dall’assemblea nazionale il presidenzialismo
non c’è».
Senta, ma se il suo governo di cambiamento fallisce che succede? Si torna a votare?
«Non ho subordinate. Questa è la mia proposta. Deciderà il presidente della Repubblica, con la sua consueta saggezza».
Lei si sta giocando l’osso del collo. Non ha mai pensato di dimettersi, in questi giorni? E che farà se la sua proposta non va in porto?
«Dimissioni? Sono due anni che dico che questo 2013 per me è l’ultimo giro. Lo so e l’ho sempre saputo. Ma da mozzo o da comandante, io non lascio la nave…».
Segretario, dica la verità. Quanto pesa l’istinto di sopravvivenza delle nomenklature?
«Non scherziamo. Qui c’è un Paese da salvare. Per quel che riguarda me chi pensa che sia in gioco una questione personale o è un meschino, o è un cretino».

La Repubblica 01.03.13

"Contributo per i disabili, scuole in rivolta", di Lorenzo De Cicco

«Se li possono riprendere questi otto euro. Non vogliamo essere presi in giro da nessuno». A parlare è Nicola, 49 anni, papà di una ragazza di 19 che frequenta il terzo anno all’Istituto di istruzione superiore di via Asmara. Gli otto euro di cui parla sono il contributo che il ministero dell’Istruzione ha deciso di destinare per l’anno scolastico in corso ad ogni studente con handicap. La cifra riguarda il periodo che va da gennaio ad agosto 2013, cui vanno aggiunti altri quattro euro per il periodo settembre-dicembre dello scorso anno. Totale: dodici euro l’anno a disabile, in pratica un euro al mese. «Un insulto, tanto valeva che se li tenessero, avrebbero risparmiato una spesa che in queste proporzioni è assolutamente inutile. Che cosa si può fare con otto euro?».
LE REGOLE

La decisione arriva dal ministero dell’Istruzione, più precisamente dal «programma per il funzionamento amministrativo-didattico del 2013». Una sorta di tariffario diramato dal dicastero di viale Trastevere a cui devono fare riferimento i presidi nella presentazione del bilancio preventivo. Alla voce «didattica alunni diversamente abili» c’è scritto «12 euro per alunno», importo da sommare al fisso che ogni anno ricevono gli istituti a seconda della tipologia (da 8 a 48 euro per alunno, a seconda dell’indirizzo didattico della scuola). A cosa servono questi soldi? «Fino ad un paio di anni fa c’erano dei laboratori integrati di informatica o di musica in cui gli alunni con disabilità potevano esprimersi con maggiore facilità. Tutto questo oggi è stato tagliato».
Al liceo scientifico Talete, quartiere Mazzini, è iscritto un solo alunno disabile. Quindi dal ministero sono arrivati solo 8 euro. «Fino a qualche anno fa c’era un capitolo di bilancio specifico di circa 6-700 euro e con quelle risorse era possibile pensare di acquistare alcuni strumenti per i ragazzi con disabilità – spiega il preside Antonio Panaccione – Oggi, se avessimo solo questi dieci euro scarsi non sarebbe possibile fare nessun tipo di investimento. Per fortuna ci sono le famiglie: grazie ai contributi volontari riusciamo ogni anno a mettere su un piccolo fondo di 600 euro. Ma non è giusto che si debba sempre fare affidamento sulla generosità degli altri genitori».
I PRESIDI

«Questo contributo è irrisorio e assolutamente insufficiente – denuncia Mario Rusconi, ex dirigente del liceo Newton, oggi alla guida dell’associazione presidi di Roma e del Lazio – Molti dirigenti scolastici sono costretti ad attingere dalle altre risorse della scuola per far fronte a spese che a volte sono davvero necessarie. Per esempio: se in una scuola c’è uno studente cieco sarebbe utile acquistare un sistema elettronico per consentire al ragazzo di ascoltare i libri su cui studia. Ma con dodici euro l’anno non si compra nulla». Secondo l’associazione presidi «questa situazione è il frutto di un’operazione selvaggia di tagli indiscriminati adottati dagli ultimi governi, a partire dalla riforma Gelmini. Chi amministra lo Stato sembra non capire che investire sulla formazione dei ragazzi disabili a livello fisico o psichico, può avere dei vantaggi anche economici nel medio-lungo periodo, perché l’aiuto che viene fornito dalla scuola può essere utile a queste persone per essere più autonome in futuro».

Il Messaggero 01.03.13