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"Il pianeta delle disuguaglianze. E’ l’ingiustizia che uccide la democrazia", di Zygmunt Bauman

Nel suo nuovo libro Bauman tratta il tema della ricchezza che non dà benessere
“La corsa al profitto individuale non è un vantaggio per tutti: le disparità crescono”. Uno studio recente dell’Istituto mondiale per la ricerca sull’economia dello sviluppo (World Institute for Development Economics Research) dell’Università delle Nazioni Unite riferisce che nel 2000 l’1 per cento delle persone adulte più ricche possedeva da solo il 40 per cento delle risorse globali, e che il 10 per cento più ricco deteneva l’85 per cento della ricchezza mondiale totale. La metà inferiore della popolazione adulta del mondo possedeva l’1 per cento della ricchezza globale. Ma questa è solo l’istantanea di un processo in corso… Notizie sempre più negative e sempre peggiori per l’uguaglianza degli esseri umani, e quindi anche per la qualità della vita di tutti noi, si susseguono di giorno in giorno.
«Le disuguaglianze planetarie attuali avrebbero fatto arrossire di vergogna gli inventori del progetto moderno, Bacone, Descartes o Hegel»: è la considerazione con cui Michel Rocard, Dominique Bourg e Floran Augagner concludono l’articolo “Le genre humain menacé” pubblicato a firma di tutti e tre in Le Monde del 2 aprile 2011. Nell’epoca dei Lumi in nessun luogo della terra il livello di vita era di più di due volte superiore a quello della regione più povera. Oggi, il paese più ricco, il Qatar, vanta un reddito pro capite di ben 428 volte più alto del paese più povero, lo Zimbabwe. E questi, non dimentichiamolo, sono confronti fra medie, che ricadono quindi nella storiella del pollo di Trilussa…
L’ostinata persistenza della povertà su un pianeta alle prese col fondamentalismo della crescita economica è già abbastanza per indurre le persone pensanti a fermarsi un momento e a riflettere sulle vittime dirette e indirette di una così ineguale distribuzione della ricchezza. L’abisso sempre più profondo che separa i poveri e privi di prospettiva dai benestanti ottimistici, fiduciosi e chiassosi — un abisso di profondità tale che già è al di sopra delle capacità di scalata di chiunque salvo gli arrampicatori più muscolosi e meno scrupolosi — è una ragione evidente per essere gravemente preoccupati. Come gli autori dell’articolo appena citato ammoniscono, la principale vittima della disuguaglianza che si approfondisce sarà la democrazia, in quanto i mezzi di sopravvivenza e di vita dignitosa, sempre più scarsi, ricercati e inaccessibili, diventano oggetto di una rivalità brutale e forse di guerra fra i privilegiati e i bisognosi lasciati senza aiuto. Una delle fondamentali giustificazioni morali addotte a favore dell’economia di libero mercato, e cioè che il perseguimento del profitto individuale fornisce anche il meccanismo migliore per il perseguimento del bene comune, risulta indebolita. Nei due decenni che hanno preceduto l’accendersi dell’ultima crisi finanziaria, nella grande maggioranza dei paesi dell’OCSE il reddito interno reale per il 10 per cento delle persone al vertice della piramide sociale è aumentato con una velocità del 10 per cento superiore rispetto a quello dei più poveri. In alcuni paesi, il reddito reale della fascia al fondo della piramide è in realtà diminuito.
Le disparità di reddito si sono quindi notevolmente ampliate. «Negli Stati Uniti, il reddito medio del 10 per cento al vertice è attualmente 14 volte quello del 10 percento al fondo», si vede costretto ad ammettere Jeremy Warner, caporedattore di The Daily Telegraph, uno dei quotidiani più entusiasti nell’esaltare la «mano invisibile» dei mercati che sarebbe capace, agli occhi tanto dei redattori quanto dei lettori, di risolvere tutti i problemi da essi creati (e magari qualcuno in più). Warner aggiunge: «La crescente disuguaglianza del reddito, benché ovviamente indesiderabile dal punto di vista sociale, non ha necessariamente grande rilevanza se tutti diventano contemporaneamente più ricchi. Ma se la maggior parte dei vantaggi del progresso economico vanno a un numero relativamente ristretto di persone che guadagnano già un reddito elevato — che è quanto sta accadendo nella realtà di oggi — si avvia evidentemente a diventare un problema».
L’ammissione, cauta e tiepida nel suo tenore ma piena di comprensione anche se solo semivera nel suo contenuto, arriva al culmine di una marea montante di scoperte dei ricercatori e di statistiche ufficiali che documentano la distanza rapidamente crescente fra quelli che sono in cima e quelli che sono in fondo alla scala sociale. In stridente contraddizione con le dichiarazioni dei politici, che pretendono di essere riciclate come credenza popolare non più soggetta a riflessione né controllata né messa in discussione, la ricchezza accumulata al vertice della società ha mancato clamorosamente di «filtrare verso il basso» così da rendere un po’ più ricchi tutti quanti noi o farci sentire più sicuri, più ottimisti circa il futuro nostro e dei nostri figli, o più felici…
Nella storia umana la disuguaglianza, con tutta la sua fin troppo evidente tendenza ad autoriprodursi in maniera sempre più estesa e accelerata, non è certo una notizia. E tuttavia a riportare di recente l’eterna questione della disuguaglianza, delle sue cause e delle sue conseguenze, al centro dell’attenzione pubblica, rendendola argomento di accesi dibattiti, sono stati fenomeni del tutto nuovi, spettacolari, sconvolgenti e illuminanti.

La Repubblica 25.02.13

"L’Europa ci guarda. Il voto italiano può spostarla a sinistra", di Paolo Soldini

Nella cabina elettorale Dio ti guarda, Stalin no. Così recitava un memorabile slogan delle campagne elettorali democristiane negli anni ’50. Si potrebbe attualizzarlo così: nella cabina elettorale dell’anno di grazia 2013 è l’Europa che ci guarda. Anzi, non solo ci guarda ma è, per così dire, lì con noi. Oddio: può turbare qualcuno l’idea di portarsi dentro al seggio Angela Merkel, François Hollande, Cameron o Barroso e Van Rompuy. O magari Barack Obama, sia pure in spirito. Ma è proprio come se ci fossero. Perché mai nella storia le elezioni politiche italiane sono state attese con tanta partecipazione, e anche una certa ansia, al di là delle Alpi e oltre il mare. E mai sono state così influenti sulla vita dei non italiani.
Certo, da quando è iniziata la faticosissima corsa dell’Europa verso il proprio compimento politico ogni elezione è stata importante non solo per i cittadini del paese in cui si teneva ma per tutti gli europei. È un fatto logico, che ci dovrebbe spingere a capire quanto sia più che mai insensato, qui e oggi, parlare di «ingerenza». Ma mai come questa volta la posta in gioco è decisiva per tutti. Basta guardare i maggiori quotidiani europei e navigare tra i siti per accorgersi dell’attenzione enorme, in qualche caso venata da un filo di inquietudine, che l’opinione dell’opinione pubblica continentale dedica al voto in Italia. E quasi tutti prendono posizione. In base alle loro preferenze politiche, è ovvio, ma con una certa onestà super partes. Come fa, per citarne uno solo, il notissimo editorialista del Financial Times e dello Spiegel Wolfgang Münchau, il quale invita i suoi lettori a immaginare che alle elezioni dovessero scegliere tra «un clown, un miliardario condannato in prima istanza per evasione fiscale, un politico burocrate di sinistra che non capisce nulla di economia e un professore di economia conservatore che non capisce nulla di politica». Lui tutto sommato ha più simpatia per il «burocrate di sinistra» e gli augura di vincere nettamente le elezioni per non dover cercare compromessi con il «professore conservatore» che qualche tempo fa bollò come del tutto «inadatto» a guidare l’Italia fuori dalla crisi. Non è l’unico, va detto, a esternare anche in campo conservatore simpatie più o meno moderate per il centrosinistra, che è un giudizio diffuso meglio garantirebbe le ragioni della stabilità.
Il voto italiano è guardato con tanto interesse anche perché cade a metà cammino d’una stagione che vede in discussione il potere e gli equilibri politici nei tre paesi più importanti dell’Europa continentale. Si è partiti dall’elezione di Hollande nel maggio scorso e si arriverà alle elezioni federali del prossimo settembre in Germania. Nel giro di sedici mesi nell’Unione europea e nella comunità dei paesi dell’euro è già cambiato molto e potrebbe cambiare tutto: la politica, le prospettive economiche, gli umori dei cittadini, le loro paure e le loro speranze. Si decide e si deciderà in che modo i governi e le istituzioni di Bruxelles dovranno affrontare la crisi che si sta mangiando il benessere e la fiducia degli europei: se la disciplina di bilancio dovrà essere tirata fino alle estreme conseguenze come s’è fatto finora e come prescriverebbe l’attuazione rigida del Fiscal compact o se si potrà andare a cercare margini e risorse per cambiare strada, guardare in primo luogo al lavoro e puntare sugli investimenti possibili anche in questa stagione di vacche magrissime.
Che l’alternativa vera, importante, sia questa lo ha mostrato la campagna elettorale in Italia come lo aveva mostrato quella della primavera scorsa in Francia. Anche da noi si è parlato di economia, anche se soprattutto di tasse e troppo poco di occupazione e redistribuzione delle risorse. Se ne è parlato, purtroppo, in un modo pesantemente condizionato dal peggior populismo di Berlusconi, che i leader e le pubbliche opinioni degli altri paesi temono come la peste, e di Grillo, la cui spinta disgregante non è stata, forse, compresa del tutto fuori dai confini d’Italia. In gioco c’è stata, c’è, l’alternativa tra due strategie per combattere la crisi fondamentalmente diverse.
Una parte dello schieramento politico ha cercato di tenerci dentro il pensiero unico economico che aveva dominato le classi dirigenti per tre anni, condizionando anche l’iniziativa dei progressisti. Ma il centrosinistra si è sforzato di rompere quella unicità, sorretto anche da un abbozzo di programma comune di tutta la famiglia socialista e democratica europea. Anche in Germania il dibattito tra gli economisti e il confronto tra i partiti si sta spostando sempre più verso il discrimine dell’alternativa possibile: la recessione indotta dall’austerity à la Merkel comincia a insidiare le certezze un tempo solide di queste parti e l’ora d’un cambiamento di strategia appare sempre più probabile, anche se la popolarità della cancelliera resta ancora molto alta. È ragionevole pensare che dopo le elezioni di settembre, comunque vadano, la politica economica di Berlino non sarà più la stessa.
Dalle urne italiane, stasera, potrebbe uscire la conferma che l’Europa si sta spostando a sinistra e che proprio dentro questa sua mutazione cerca la strada giusta per risollevarsi dal disastro economico. Sarebbe anche un’utile lezione per quelli che vanno gridando che destra e sinistra non esistono più, che sarebbero scomparse insieme nella notte della crisi in cui tutte le vacche sono nere. Ma sarebbe soprattutto la prova che l’Italia, nonostante le sue storiche debolezze, il suo debito pauroso, le disastrose cadute di credibilità del recente passato, i rischi e le vergogne del populismo sfrenato, può riprendere a crescere e a far crescere l’Europa.

L’Unità 25.02.13

"Infanzia, investire sui servizi educativi", di Giovanna Zunino

Il problema numero uno quando si parla di servizi per l’infanzia nella fascia zero-tre anni sono i finanziamenti. Come spiega bene il rapporto sui costi dei nidi del Gruppo nazionale nidi infanzia insieme con il Cnel «il ritardo dell’Italia non è da imputare a enti locali disattenti ma soprattutto ai governi che si sono succeduti dagli anni Settanta». Quanto riportato sopra è tratto dal Rapporto di monitoraggio del III Piano d’azione per l’infanzia e l’adolescenza predisposto dall’Osservatorio nazionale. Ma nel nostro Paese oggi non sono in sofferenza solo i servizi educativi per la fascia 0-3 anni perché anche la scuola dell’infanzia statale, per la prima volta dal 1968-anno di sua istituzione-, ha subito un calo nel numero di sezioni mentre sono aumentati i bambini e questo significa che in troppe situazioni ci sono sezioni che superano i trenta. L’aumento di richiesta di iscrizione alla scuola statale deriva da un incremento delle nascite, ma dipende soprattutto dal fatto che la scuola statale è gratuita e, come si comprende facilmente, in tempo di crisi questo è un elemento assai importante per le famiglie. Quando nel 2002 si stabilirono a Barcellona gli obiettivi riguardanti l’offerta formativa da assicurare ai bambini da zero a sei anni, si era capito subito che il punto cruciale era rappresentato da una parte dalla fortissima differenziazione dei servizi educativi per i bambini da 0 a 3 anni sul territorio nazionale e dall’altra dai forti investimenti necessari per incrementare questa offerta formativa. Inoltre sulla fascia 0-3 anni si è in presenza di una titolarità legislativa delle Regioni non sempre da esse esercitata. A ben vedere dal 2002 ad oggi qualcosa «si è mosso» per qualificare i servizi educativi nella fascia 0-3 anni: la Legge finanziaria del 2002 nella quale per la prima volta si afferma che i nidi d’infanzia sono un servizio educativo; la legge finanziaria del 2007 che individua risorse specifiche per l’attuazione di un Piano nidi; ben tre sentenze della Corte Costituzionale che esplicitamente riconoscono la funzione educativa di questi servizi ; la legge delega n. 42 del 2009 che fa un chiaro riferimento ai nidi quali servizi fondamentali, superando il concetto dei servizi a domanda individuale che avevano tenuto legato strettamente i nidi al palo del sociale. Ma l’Italia è un Paese dalle forti contraddizioni e, mentre il Parlamento e la Corte emanavano le leggi e le sentenze di cui sopra, i ministri dell’istruzione Moratti e Gelmini giocavano sui diritti dei bambini perché -blandendo le famiglie in difficoltà nel trovare offerta formativa proponevano l’anticipo nella scuola dell’infanzia senza farsi scrupolo del fatto che ai bambini veniva chiesto di adeguarsi ad un servizio non pensato per loro negando così di vivere, come è nel loro diritto, esperienze educative distese nei servizi educativi per la fascia 0-3 anni. A questa bruttura ha cercato di porre rimedio la finanziaria per il 2007 istituendo le sezioni primavera che sono pensate a misura di bambini da 24 a 36 mesi di età. Questo servizio innovativo e a carattere sperimentale da allora ha accolto circa 25.000 mila bambini all’anno dimostrando di essere apprezzato dalle famiglie. È un servizio in grande difficoltà perché non è stato «curato» pedagogicamente come doveva essere, né sostenuto con adeguate risorse. Oggi è ancora in piedi grazie agli operatori che in questo servizio credono. Ma tutto ciò non basta per assicurare ai bambini un servizio educativo degno di questo nome. Credo che il nuovo governo dovrà, su quest’ultimo punto e più complessivamente sul sistema educativo della fascia 0-6 anni, assumere la responsabilità di investire in modo inequivocabile in termini di sviluppo di politiche educative per l’infanzia, come peraltro viene raccomandato all’Italia dal Comitato sui diritti dell’infanzia e suggerito dal documento della Commissione europea del febbraio 2011, nel quale si afferma che i bambini per affacciarsi con successo al mondo devono poter andare al nido d’infanzia e alla scuola dell’infanzia e che in entrambi questi servizi ci deve essere una alta qualità educativa. Credo sia indispensabile una legge che disegni i livelli essenziali a partire dai diritti costituzionali, tenendo in considerazione le Indicazioni 2012 per la scuola dell’infanzia e il primo ciclo di istruzione, di recente emanate dal Ministero dell’Istruzione. I bambini sono soggetto di diritto: diritto alla qualità dei servizi educativi che frequentano, diritto a stare in luoghi sicuri, diritto ad avere educatrici e maestre «professionalmente sostenute» e che lavorano con regolare contratto nazionale, diritto ad imparare giocando perché per loro il gioco è la principale attività, diritto a sentirsi in un percorso in continuità nel quale gli adulti che si prendono cura di loro condividono il progetto educativo, diritto a far le cose con la calma necessaria perché essere bambini è un diritto e se questo diritto non consentiamo che venga esercitato commettiamo un grave delitto sociale.

*Responsabile Infanzia Cgil

"Grillo è il frutto della cultura berlusconiana degli anni 80", di Maria Zegarelli

Parlare in queste ore con i candidati di centrosinistra vuol dire rassegnarsi a scrivere con parecchi condizionali. E con la certezza che ogni discorso sarà accompagnato da una buona dose di scongiuri. «Se vinceremo», «se il centrosinistra ce la farà anche al Senato»…
Miguel Gotor, storico, candidato capolista in Umbria per il Senato, usa con moderazione i «se», tuttavia preferisce soffermarsi su questa lunga fase storico-politica del nostro Paese, più che sulle previsioni sul futuro.

Gotor, siamo al tramonto del ventennio berlusconian-leghista o è solo una battuta d’arresto?
«Ho fondate speranze che ciò avvenga. Non parlerei però di ventennio sul piano politico perché Berlusconi e la Lega hanno governato per otto degli ultimi dieci anni, mentre negli anni Novanta Berlusconi ha governato per soli sei mesi».
Quando è iniziata la trasformazione antropologica della politica? «Parlerei di un trentennio di egemonia culturale berlusconiana,iniziata negli anni Ottanta, e quel processo ce lo porteremo dietro ancora per diverso tempo. Ha cambiato un nostro modo di essere (anche a sinistra) e credo che il risultato di Grillo rientri in quell’onda lunga populista, sia cioè dentro il tramonto del berlusconismo».
Ci stiamo mettendo in linea con l’Europa, dove lo scontro è tra populismo e riformismo?
«Ormai è così in Italia come in Europa. Qui da noi, anche a causa dell’egemonia culturale del berlusconismo, il populismo si articola in forme variegate e sincretiche. La destra, dal punto di vista sociale e antropologico, è più forte e più estesa della sua rappresentanza parlamentare, è un dato della struttura profonda del nostro Paese. Il fatto che il grillismo sia il frutto della fase terminale del populismo berlusconiano dipende da una circostanza precisa: Berlusconi ha cambiato il dna dei moderati, li ha estremizzati e radicalizzati, ha fatto cioè il contrario della Dc che li governò a “fuocolento”. Per questo non mi sorprende il successo di Grillo e prevedevo che la prospettiva centrista non avrebbe sfondato perché i moderati italiani sarebbero saliti su un altro carro a guida populista e carismatica».
Un Paese di destra con spinte populiste. Analisi pessimista alla vigilia dei risultati delvoto.
«Realista ma non pessimista e le spiego perché. Se noi vinciamo vorrà dire che siamo riusciti a spaccare in due il fronte populista, abbiamo cioè disarticolato la destra attraverso un’azione politica e parlamentare. Nel 1996 si prevalse perché Pdl e Lega si separarono, oggi perché si separano i reduci berlusconiani dal nuovismo grillino».
Il Movimento 5 Stelle potrebbe essere addirittura il secondo partito del Paese. Secondo lei è un’ipotesi avventata?
«Non credo, potrebbe accadere e devo dire che preferisco confrontarmi in Parlamento più con i 5 stelle che con i berlusconiani. Il Movimento 5 Stelle ha raccolto tutte le proteste possibili dando vita a un brand, attorno a un comico-istrione, una sorta di Gabibbo, ove istanze di destra e di sinistra si confondono e ove ciascuno ha le sue ragioni per esprimere un voto contro,anti-sistema. Ma attenzione, quello a Grillo è un voto auto-assolutorio, purificatore, che libera l’elettore dal dover fare i conti con le proprie responsabilità. È l’ennesima scorciatoia italiana che individua un capro espiatorio (la “casta”, i partiti) e impedisce a questo Paese di risollevarsi. Non è una soluzione, è la malattia, ma a rimetter ci saranno i più deboli, l’operaio che vota Grillo, non l’avvocato».
C’è da rimpiangere la vecchia Dc?
«Non dico questo, penso però che quel partito ha saputo contenere i moderati e ha funzionato da filtro. Li ha depurati da estremismo, radicalismo e qualunquismo, i tre tratti ereditari che avevano dato il consenso al fascismo. Il fascismo italiano è stato al tempo stesso iperpolitico, cioè mobilitante, ma antipartitico. L’onda populista italiana è presente in altre forme anche in Europa ed è alimentata da un effetto catartico e giustizialista per cui la colpa è sempre di qualcunaltro. Poi,in Grillo ci sono anche pulsioni antisistema di carattere libertario che derivano dalla tradizione della sinistra extraparlamentare e antiparlamentare italiana: il suo è un movimento complesso che tende a confondere destra e sinistra per annullarle. Ma i processi politici sono sempre molto complessi e inevitabilmente anche sociali».
Eppure dovrete farci i conti in Parlamento. Saranno tanti, secondo le previsioni.
«Non mi spaventa. Con il Movimento 5 Stelle ci sono tante cose che ci separano (la violenza verbale, l’arroganza del capo), ma anche temi sui quali sarà possibile trovare dei punti di contatto (penso alla riforma dei costi della politica, alla semplificazione burocratica) mentre con i berlusconiani non ne vedo, è una negatività già sperimentata».
Veltroni ha definito queste elezioni di portata storica.Concorda?
Lo sono per molti aspetti, uno di questi è che se vincesse il centrosinistra, per la prima volta dal 1861 andrebbe al governo un uomo di sinistra, per via elettorale, con un progetto riformista: non è poco, e comunque è la ragione del mio impegno».

da L’Unità

"La cittadinanza da restituire agli elettori", di Cesare Martinetti

Abbiamo votato mettendo una croce su un simbolo di partito secondo quella legge elettorale costruita dalla destra per santificare se stessa negli anni del berlusconismo trionfante e chiamata dal suo stesso autore (il leghista Calderoli, non dimentichiamolo) «una porcata». Speriamo che sia l’ultima volta. Non abbiamo votato per una persona, non abbiamo potuto scegliere il nostro rappresentante in Parlamento tra altri candidati in base alle proposte di ciascuno e, magari, anche per come pensava di affrontare i problemi della nostra città. Abbiamo dato una delega in astratto. Nelle nuove Camere, nessuno di noi potrà dire quello è il mio deputato, voglio sapere come usa il mio mandato, cosa fa per il mio territorio, che responsabilità si prende.

Quella legge che la Consulta ha sanzionato e che il capo dello Stato Giorgio Napolitano ha instancabilmente invitato il Parlamento a modificare, è simbolicamente il punto di svolta della seconda repubblica.

Seppellendo il bipolarismo, ha soffocato anche quell’idea di rinnovamento politico dopo gli anni di tangentopoli. È l’autobiografia di un sistema e di una classe dirigente: autosufficiente e autoreferenziale, che abbiamo imparato a definire «casta» per la capacità di autoriprodursi e autoalimentarsi. Gli scandali di questi mesi sull’uso dei rimborsi elettorali ne sono la rappresentazione più intollerabile e grottesca.

A voler conoscere i candidati si potevano leggere i nomi nei manifesti all’esterno dei seggi. In molti casi, nei primi posti, quelli «eleggibili», personaggi che nulla avevano a che fare con il territorio. E questo perché non essendoci sanzione popolare, i partiti (ad eccezione del Pd che ha fatto delle pur parziali primarie) hanno costruito le liste in base alle persone che volevano portare in Parlamento, sottraendo agli elettori la scelta delle persone. Una vera logica di casta.

Il nostro Paese ha molti problemi, apparentemente più importanti, ma la qualità di un sistema e la riconoscibilità che esso ha nei confronti dei cittadini è parte stessa del sistema. Il distacco maturato in questi ultimi anni tra elettori e «casta» è clamoroso. Il successo della lista di Beppe Grillo (che questa sera misureremo in termini di voti, ma che è già certificato dallo sconquasso che ha prodotto sul sistema), ha origine esattamente da lì.

In questi giorni in Francia si sta svolgendo un dibattito molto interessante da confrontare con i nostri problemi. Il Consiglio di Stato ha dato il via libera a una delle riforme del programma di François Hollande: il divieto di cumulo di cariche per i politici. In altre parole, chi è sindaco o titolare di un incarico esecutivo nelle autonomie locali non potrà più essere contemporaneamente parlamentare.

Per i francesi si tratta di una grossa rivoluzione perché il doppio incarico locale e nazionale appartiene al loro modo di far politica: tanto più si pesa localmente, tanto più forte sarà la propria voce in Parlamento e nei ruoli di governo. Chirac ha fatto il primo ministro conservando la carica di sindaco di Parigi. Mitterrand (sempre legatissimo alla sua Nièvre) raccomandava ai giovani socialisti che volevano crescere nel partito: «Fatevi un feudo (“fief”) in provincia». François Hollande, ha atteso nella sua Tulle di cui è stato sindaco per vent’anni l’annuncio della vittoria alle presidenziali. Persino il campionedei libertini Dominique Strauss-Khan è primo cittadino di Sarcelles.

La destra è contraria alla riforma, avendo un’idea notabilare del ruolo di parlamentare; il partito socialista è favorevole, ma spaccato sul farla subito o se aspettare il 2017, fine della legislatura. Il governo deciderà. Ma la cosa significativa su cui dovrebbe riflettere la politica italiana non è questo, bensì sul fatto che il presidente dell’Assemblée Claude Bertolone e il ministro dell’Interno Manuel Valls, entrambi socialisti, sono contrari a far subito la riforma perché un gran numero di parlamentari darebbero le dimissioni e questo provocherebbe una specie di autoscioglimento dell’Assemblée. Tradotto per noi: i politici francesi, messi di fronte all’alternativa tra mandato locale e mandato nazionale preferiscono il primo. Questo perché la politica o ha radici nel territorio o non è. Il collegio elettorale è tutto. E questo vale in ogni democrazia occidentale, a cominciare da quella storica inglese: il parlamentare è parte stessa della sua «costituency». E spesso, quando si determina un conflitto tra partito e interesse locale è quest’ultimo a prevalere.

Il nuovo Parlamento avrà molti dossier da affrontare: questo è uno dei più importanti. Restituire agli elettori la cittadinanza perduta. C’è da augurarsi che vi sia una maggioranza capace di guardare oltre l’interesse di partito perché la prossima volta sarà peggio. E che vi sia una maggioranza forte almeno su questa riforma, oltre gli schieramenti e magari con i grillini, a parole molto impegnati sui temi della democrazia di base e che nella realtà della politica (com’è il caso del sindaco di Parma Pizzarotti) potrebbero rivelarsi meno ideologici e più disponibili del loro intrattabile guru.

La Stampa 25.02.13

"Il populismo in Parlamento", di Nadia Urbinati

La demagogia non si traduce facilmente in rappresentanza parlamentare. Vive di politica diretta e il suo più grande ostacolo è la normalità che segue il voto. Si adatta meglio ad una permanente campagna elettorale perché retta sull’espressività e sull’arte affabulatrice del leader, la ricerca dell’applauso e del contatto diretto con il pubblico. La demagogia si avvale di una retorica spesso aggressiva. E rinasce ogni qual volta la distanza tra chi sta dentro e chi sta fuori i luoghi del potere si allarga fino ad aprire una falla nella quale si fa strada questa forma alternativa di espressione politica, la cui linfa vitale sono emozioni di opposizione, come la rabbia o l’esasperazione. La demagogia prende energia dalla relazione di vicinanza del leader con la folla: egli porta la massa dove vuole e deve farsi portare da essa per meglio eccitarla e averla sua. La demagogia non vive di azione differita, vuole un rapporto fisico diretto, come quello tra Beppe Grillo e le folle che si assembrano ai piedi del suo palco inscenando una drammatizzazione delle vicende politiche più problematiche e delle difficoltà sociali ed economiche che le accompagnano. Che cosa ci si deve aspettare dalla politica demagogica ora che le urne si chiudono e una folta pattuglia di eletti entra in Parlamento?
C’è un’incertezza palpabile su quel che sarà il post-elezioni dei movimenti populisti – certamente del M5S – proprio per l’oggettiva difficoltà a tradurre le emozioni delle folle in rappresentanza politica. Le ragioni dello scontento che fa da benzina al demopopulismo sono più che giustificate. È giustificato il disgusto urlato nelle piazze oceaniche che raduna Grillo per il modo con il quale amministratori delegati governano banche e imprese nel proclamato dispregio delle regole e con arbitrio – cloni di una classe politica che Mario Monti ha chiamato “cialtrona”. È giustificata
l’angoscia per il domani anche a causa di politiche di austerità senza progetto che hanno impoverito troppi italiani, senza peraltro riuscire a risolvere i problemi che dovevano risolvere. È comprensibile il disagio di molti onesti cittadini di fronte ai potenti che vorrebbero appropriarsi del bene della giustizia per garantirsi impunità. Indignazione giusta e sacrosanta che però stenterà a trovare un’efficace rappresentanza se si affiderà alla guida demagogica.
La demagogia che riempie le piazze e i siti Internet ha il potere di attrarre consenso ma non ha probabilmente alcun interesse a creare stabilità nel dopo le elezioni. La sua forza (che si paventa molto consistente) può essere di impedimento alla formazione di una maggioranza duratura. La stabilità del governo è del resto il nemico dei movimenti demopopulisti, la cui aspirazione sono piazze piene di scontenti (che restino tali). La democrazia consente di tenere i giochi aperti; a questo serve la regola della ciclicità elettorale, a mediare stabilità e mutamento, apertura del contenzioso e sua temporanea chiusura. È questa regola fondamentale che la demagogia mal digerisce e fa di tutto per sovvertire, per essere forza mobilitante permanente.
Inoltre la demagogia non è rappresentabile; rabbia e indignazione sono emozioni difficili da tradurre in progetti politici condivisi. Anche per questo ha senso temere scenari di instabilità. Che cosa faranno i rappresentanti del M5S in Parlamento? Dove si posizioneranno in rapporto alla maggioranza che si formerà?
E che proposte porteranno avanti che possano rappresentare quella rabbia che il loro leader fa montare ogni ora che passa? È vero che il M5S ha dimostrato, nelle amministrazioni locali, di esprimere eletti di buon senso. Ma il Parlamento non è un consiglio comunale e i pochi punti di programma che Grillo propone non sono paragonabili in efficacia e per portata alla voglia azzeratrice che la sua retorica alimenta.
Il caos che un conglomerato di eletti non uniti in partito e, soprattutto, senza idee guida “in positivo”, ma uniti principalmente dalla rabbia anti-sistema, è purtroppo prevedibile. L’unica speranza è che, proprio a causa della loro inconsistenza come partito, gli eletti del M5S si sentano totalmente liberi di seguire il loro buon senso; che, insomma, rappresentino solo se stessi al meglio della ragionevolezza di cui sono capaci. Non si può non vedere il paradosso: gli eletti di questo movimento demagogico non devono dar conto a nessuno e proprio da questa assenza di mandato politico e di controllo dipende la stabilità del quadro politico post-elettorale. Portati in Parlamento sull’onda dell’emozione, dobbiamo sperare che molti di loro sappiano e vogliano esprimere l’indignazione e la rabbia con comportamenti ragionevoli, volti a promuovere stabilità per potere picconare per davvero gli effetti del malgoverno che si è accumulato in questi anni di cialtroneria sistemica.

La Repubblica 25.02.13

Pier Luigi Bersani: «Solo il Pd può governare e cambiare», di Simone Collini

È partito tre anni e mezzo fa, provando a «dare un senso a questa storia». Poi ha guidato l’opposizione al governo Berlusconi, e quando le dimissioni sono arrivate ha rinunciato a «vincere sulle macerie», lavorando invece perché si insediasse in fretta un esecutivo che allontanasse il Paese dall’«orlo del baratro». Oggi Pier Luigi Bersani rivendica le scelte fatte, convinto com’è che con queste elezioni per la prima volta il Pd può andare al governo e cambiare veramente l’Italia.
Lei ha scelto come slogan di questa campagna elettorale “l’Italia giusta”, ma cosa direbbe a chi vuole soprattutto che ci sia un cambiamento radicale nel Paese, a chi è orientato verso il cosiddetto voto di protesta?
«Noi possiamo uscire dalla crisi soltanto se non concediamo tutto alla protesta e alla sfiducia e, al tempo stesso, se comprendiamo che non si può governare senza cambiare. Governo e cambiamento vanno tenuti insieme, e il Pd è l’unico partito che può farlo».
Perché?
«Il Pd ha saputo leggere per tempo la situazione italiana, l’incrocio tra la crisi democratica e la crisi sociale, ha saputo rispondere all’esigenza di allontanare il Paese dall’orlo del baratro su cui era finito per colpa della destra, si è dimostrato un partito nazionale e non ha mai smesso di lavorare concretamente perché venisse colmata la distanza abissale che si è venuta a creare tra i cittadini e la politica. Facendo le primarie ci siamo assunti anche dei rischi, ma era la cosa giusta da fare. Non so cosa sarebbe l’Italia, ora, se il Pd non avesse compiuto quella che è stata sia una scelta di responsabilità che una sfida verso il cambiamento. È per questo che noi possiamo davvero metterci all’incrocio delle due esigenze che ha questo Paese, essere governato e cambiare».
Che bilancio dà di questa campagna elettorale?
«Sicuramente non è riuscita a svolgere il tema, che è come usciamo dalla crisi. Abbiamo ascoltato tante favole, visto tanti conigli uscire dal cilindro. Noi abbiamo resistito a chi ci sollecitava a spararle grosse e fatto una campagna elettorale che ci consentirà dopo le elezioni di dire le stesse cose che abbiamo detto prima del voto. I nostri due punti cardine sono moralità e lavoro. E come abbiamo mantenuto in queste settimane il nostro tratto, che è fatto di partecipazione, sobrietà, consapevolezza della vita comune e volontà di ricostruire e di riscossa, anche in futuro metteremo al centro i cittadini, la moralità pubblica, il necessario cambiamento».
A giudicare dalla chiusura di questa campagna elettorale il vostro principale avversario sembra più Grillo, che non Berlusconi: è così?
«Noi siamo alternativi alla destra, a Berlusconi, al leghismo. Ed è rispetto a questo che vogliamo voltare pagina. Dopodiché, sappiamo bene che la semina di questi governi berlusconiani e leghisti ha portato a uno stato enorme di insofferenza nel Paese. Gran parte di quello che definiamo Grillo è uno stato d’animo che raccoglie tanti affluenti, la voglia di cambiamento ma anche la sfiducia, la rabbia, il rancore, e pure l’egoismo di qualche settore che è responsabile della situazione che viviamo oggi. C’è tutto questo mescolato. Il problema serio, vero, è che questo stato d’animo che contiene anche spinte verso il cambiamento viene portato da Grillo, Casaleggio e compagnia su una strada che ci porta alle macerie, sia sul piano economico e sociale che sul piano democratico. Le parole d’ordine e le proposte di Grillo sono totalmente destabilizzanti e irrealistiche, propagandistiche e oniriche. Dice che non ci sono né destra né sinistra perché si muove in un orizzonte populista nel quale comunque, seppure in salse nuove, c’è la ricetta dell’uomo solo al comando, che abbiamo visto quali e quanti danni può provocare al sistema politico e al nostro Paese».
Ne ha incontrate di persone che votano Grillo, in queste settimane?
«Certo, molte anche giovani».
E cos’è che gli ha detto?
«Che con loro sono pronto a discutere di tutto, che io sono il primo a pensare che in questo Paese ci sia molto da cambiare, e che però sul tema della democrazia io non concedo un millimetro perché c’è gente che ci ha lasciato la vita per la democrazia». Dirà lo stesso ai parlamentari del Movimento 5 Stelle.
«Ma certo. Sul resto si discute di tutto, ma sul tema della democrazia avremo un confronto molto aspro perché non si può costruire il consenso sulle macerie».
Con queste elezioni si può dire che si compie un percorso che ha iniziato nel 2009, quando si è candidato alla segreteria del Pd: l’ha trovato, le chiedo ripensando al suo slogan di allora, «un senso a questa storia»?
«Il senso non è da trovare ma da dare. E sì, in parte ci sono riuscito, ora manca l’ultima tappa. La prima era l’idea che ci potesse essere un partito popolare che non fosse il partito di una volta, un partito che fosse il contrario del populismo, aperto, plurale ma unito, a disposizione della riscossa civica. E su questo abbiamo fatto veramente dei passi rilevanti». L’ultima tappa sono queste elezioni? «Non c’è solo il voto. È chiaro che il Pd è un partito riformista, che cioè non può vivere senza una prospettiva di governo, senza l’idea che i nostri valori debbano diventare dei fatti concreti. Per noi è una prospettiva ineludibile quella di essere un partito di governo. Ora siamo alla prova e può succedere che per la prima volta il Pd vada al governo del Paese. Ma poi c’è una terza tappa, che comincia».
Sarebbe?
«Noi abbiamo voluto fare del Pd l’alternativa vivente a un sistema politico ventennale imperniato sul populismo e sul personalismo. È un assetto politico pericoloso, disastroso, sconosciuto alle altre democrazie, che tende a riprodursi per analogia. Noi siamo l’alternativa a questo sistema e i democratici devono essere non solo orgogliosi di questa diversità, ma devono sapere che vinte le elezioni dovremo sì dar vita a un governo di combattimento, per le riforme, per il cambiamento, ma dovremo anche continuare la battaglia per riformare il sistema politico, aprendo un orizzonte che vada oltre la prossima legislatura».
Parlava di sistema imperniato sul personalismo che tende a riprodursi per analogia: un riferimento a Monti, che dopo aver dato vita a una sua lista ha a fasi alterne evocato la centralità delle forze moderate e l’ipotesi della grande coalizione?
«Quello che a me sorprende è che ancora qualcuno ricada nell’idea che possa esserci una riconversione moderata e liberale della destra, quando la realtà storica di questo Paese dice il contrario, e cioè che la pulsione di destra da noi è prevalentemente di tipo populista. Evidentemente, o si persevera nell’illusione, o si vuole impedire ai riformisti, alla sinistra, di raggiungere l’obiettivo. Ora basta, ci si rassegni all’idea che l’unico soggetto in grado di reggere governabilità e cambiamento è quello che sappia essere sociale e liberale, e che abbia le sue radici popolari in un’area di centrosinistra».
Sta rivedendo la sua strategia circa il rapporto tra progressisti e moderati? «Ma no, io ho sempre detto che intendo governare cercando il confronto più ampio possibile, né escludo il rapporto con una soggettività centrale, moderata. Ma l’idea che questa posizione sia quella che può dettare il compito è infondata, nella realtà di questo Paese. Ribadisco la massima attenzione e disponibilità a discutere con queste posizioni, purché si prenda atto del dato di fondo, e cioè che queste soggettività devono concorrere, non possono pretendere».
Teme la reazione dei mercati nel caso martedì mattina non ci sia un quadro di governabilità?
«I famosi mercati hanno solo l’esigenza che ci sia qualcuno che riesca a orientare, a mettere il Paese su una strada sicura. Ma non ci sono soltanto loro, tutti, anche i nostri partner europei, sono preoccupati che dalle urne esca un esito chiaro e che il tema del rigore possa accompagnarsi a una prospettiva per l’occupazione. Come solo il centrosinistra può garantire. Noi senza l’Europa andiamo poco lontano, e se dalle urne dovesse uscire un messaggio di incertezza e antieuropeismo sarebbe una situazione piuttosto seria, per noi ma non solo. Per questo chi vota deve sapere che il risultato delle elezioni in Italia sarà importante anche per evitare di ritrovarci completamente isolati sul piano internazionale, per dire la nostra in Europa, per contribuire a far voltare pagina e affiancare anche a livello comunitario alle politiche del puro rigore misure per gli investimenti, l’occupazione e una maggiore giustizia sociale».

L’Unità 24.02.13

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Il leader Pd: “Per come è messa l’Italia non si può sbagliare”. Bersani tra gli amici di Piacenza “Calmi, andrà bene: non è il 2006”, di Marco Marozzi

«Ragazzi, stavolta ce la facciamo. Ma che fatica». Pierluigi Bersani arriva in via Giovanni Campesio che Piacenza ormai è tutta bianca. I dirigenti del Pd gli dicono che i sindaci soprattutto dei paesi della montagna sono preoccupati che la gente non vada a votare. «C’è chi sta a Milano, fino a Genova…». Lui sospira: «Calmi, andrà bene». E a chi gli ricorda il Prodi 2006 lui risponde: «Allora non c’era il Pd. Vendola non è Bertinotti, non ci sono dodici partiti. Per come è messa l’Italia non si può sbagliare. Abbiamo il senso della responsabilità di quel che ci aspetta. Ce la faremo. Ragazzi, qui il problema primo è il lavoro e solo noi abbiamo un’idea chiara in testa».
Stessa linea del Professore bolognese appena tornato da Mosca, dalle feste putiniane per Gazprom. Stessa di Vasco Errani, il presidente dell’Emilia- Romagna che voterà nella sua Ravenna, il collaboratore numero uno da decenni che sarà sottosegretario alla presidenza del Consiglio (se il centrosinistra vince…) e dovrebbe rimanere commissario per il terremoto. Il Pd stringe la file. «Nove mesi a girare l’Italia. — raccontano i
collaboratori di Bersani — E lui quando decideva una linea, una scelta, ha sempre tirato diritto. Senza impaurirsi per le critiche, nemmeno per le preoccupazioni degli amici. Una tensione continua».
A Piacenza Bersani si chiude nella villetta bianca di via Campesio con Daniela, la dottoressa Ferrari appena andata in pensione dalla farmacia comunale di Bettola in cui lavorava, con Elisa e Margherita, la prima arrivata da Milano dove lavora, la seconda da Parma dove studia. Hanno 28 e 20 anni, le figlie già donne; la signora Ferrari in Bersani dovrà (se il centrosinistra vince…) rivedere forse qualcosa nella sua appuntita autonomia che l’ha fatta sempre rimanere volutamente — lei iscritta e militante Pd — nella retrovia politica del marito. Fra Bettola e Piacenza. Già anni fa aveva annunciato che sarebbe andata a Roma «accanto a Pier Luigi, tanto le figlie sono già grandi» e invece non ha mai rinunciato al posto in farmacia nel paese piacentino dove lei e il marito sono nati.
Questo sabato sera si è rimasti tutti in casa, niente mitica «pizza sacchio » dagli amici della Pizzeria Boomerang. Causa neve e stanchezza. Alla pizzeria, in via Lanza, contano di fargli feste da premier. Oggi alle 11 i Bersani votano in gruppo alla Scuola elementare Renzo Pezzani in via Emmanueli 30, sezione numero 37. Tutte le domeniche poi la famiglia va a pranzo dai nonni, da Carla e Gino Ferrari, su a Bettola, alle pendici della Valnure. Ma oggi probabilmente si salta l’appuntamento e già nel pomeriggio parte per Roma. Ad attendere.
C’è tempo per la polenta e merluzzo preparati nel giorno delle primarie. Questa domenica, questo lunedì si pensa a Berlusconi e soprattutto a Grillo. «Capisco chi va in piazza per Grillo, io ce l’ho con Grillo. Ho parlato con ragazzi in birreria che votano Grillo. Ma sulla democrazia non si scherza, c’è gente che c’è morta e l’uomo solo al comando non lo accetto e su questo il Pd sarà inflessibile ».

La Repubblica 24.02.13