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"Rigore e crescita, i progressisti segnano un punto in Europa" di Roberto Gualtieri

L’Italia non ha futuro fuori dall’Euro e la disciplina di bilancio costituisce un requisito essenziale per la tenuta della moneta unica. Al tempo stesso, come anche le recenti previsioni economiche della Commissione hanno certificato, la linea dell’austerità è fallita determinando un avvitamento recessivo e un crollo degli investimenti che non ha solo pesanti conseguenze economiche e sociali, ma che non consente neanche di conseguire l’obiettivo della riduzione del debito pubblico. La difficile quadratura del cerchio tra disciplina di bilancio e crescita, tra risanamento e investimenti, costituisce insomma il cuore del problema politico ed economico dell’Europa e dell’Italia, e la capacità di offrire credibili soluzioni a questo dilemma dovrebbe costituire il metro per giudicare i programmi dei partiti. Differenziandosi sia dalla acritica difesa del rigore che dai populismi irresponsabili, il Partito democratico e Bersani hanno puntato le loro carte sulla possibilità di correggere la linea di politica economica dell’Ue in senso più favorevole alla crescita e agli investimenti nel quadro del rafforzamento dei meccanismi di disciplina di bilancio dell’eurozona. Pieno rispetto delle regole e dei vincoli europei a Roma, ma correzione a Bruxelles della ricetta macroeconomica indicata agli stati membri. Il compromesso tra Parlamento e Consiglio raggiunto questa settimana sul cosiddetto «two pack» (due regolamenti sui nuovi meccanismi di controllo della disciplina di bilancio), al quale i membri del Partito democratico nel gruppo S&D hanno dato un contributo fondamentale, costituisce da questo punto di vista un successo decisivo, che dimostra la credibilità dell’impostazione di Bersani. Dopo un lungo braccio di ferro infatti il Parlamento ha accettato di dare il via libera alle nuove norme, che consentiranno tra l’altro alla Commissione di intervenire direttamente nel processo di formazione delle leggi nazionali di bilancio, ottenendo però due fondamentali contropartite.
La prima riguarda l’istituzione di un gruppo di esperti con il compito di analizzare la fattibilità dell’istituzione di un Fondo di riscatto del debito, che sostituisca parte del debito pubblico degli Stati membri con eurobond garantiti collettivamente, e quindi in grado di ridurre sostanzialmente la spesa per interessi e rendere più credibile il percorso di abbattimento del debito.
La seconda contropartita riguarda una parziale ma significativa correzione di rotta nell’applicazione del Patto di stabilità (e quindi anche del fiscal compact, che a quelle norme rimanda). All’articolo 11 di uno dei due regolamenti del «two pack» infatti è stato inserito un paragrafo che impegna la Commissione a presentare entro il mese di luglio di quest’anno una comunicazione sul modo di sfruttare le possibilità offerte dal Patto di stabilità per conciliare la disciplina di bilancio con gli investimenti pubblici produttivi. Inoltre, la possibilità di «deviazioni temporanee» dagli obiettivi di medio termine di finanza pubblica (formalmente previste dal Patto di stabilità) è esplicitamente richiamata in un nuovo paragrafo dell’articolo 4 dello stesso regolamento, dedicato ai compiti delle nuove autorità indipendenti per il monitoraggio delle politiche nazionali di bilancio istituite dal fiscal compact. Infine, un paragrafo sulla necessità di un monitoraggio specifico delle spese per istruzione, sanità e occupazione da un lato, e per quelle di investimento dall’altro, che consenta di vigilare sulla coerenza delle manovre di bilancio con gli obiettivi europei in materia di crescita e occupazione, offre ulteriori strumenti per una correzione della linea dell’austerità nella direzione della crescita e della coesione sociale.
Si tratta di novità di grande rilievo, perché fino ad ora gli spazi offerti dalla normativa europea per realizzare politiche «anticicliche» facendo leva sugli investimenti pubblici nei momenti di recessione non sono mai stati utilizzati e la Commissione ha sempre seguito una interpretazione «prociclica» che si è tradotta nella famigerata linea dei «tagli lineari». Con il compromesso sul «two pack», che diventerà legge dell’Unione dopo la ratifica nell’aula di Strasburgo a marzo, la strategia del Pd di realizzare un grande «scambio» politico tra una più stretta unione fiscale e un rilancio della crescita a livello europeo segna un primo punto, che ora attende di essere sviluppato sulla base dei nuovi equilibri politici che la vittoria dei progressisti in Italia determinerebbe a Bruxelles.

L’Unità 24.02.13

"Un patto per cambiare il tempo delle donne", di Barbara Stefanelli

Il Parlamento della XVII legislatura accoglierà molte più donne di quante si siano mai viste nella storia della nostra Repubblica. Le proiezioni di questa vigilia parlano di un balzo: dal 20 per cento in uscita fino a un possibile 38-40. È un’occasione straordinaria rispetto alle blande percentuali di crescita alle quali nel frattempo ci eravamo (quasi) rassegnati, un lungo passo avanti per scavalcare quel fossato che ancora tiene l’Italia al di qua di ogni accettabile frontiera di modernità.
Alle donne — e agli uomini — che andranno a sedere in quelle due Camere, che decideranno quale uso fare delle risorse nazionali, vogliamo proporre un’agenda condivisa. Non una lettera di reclamo, non «un lamento» come a volte si dice delle donne (non chiedono, si lamentano). Ma il rilancio di un patto — nuovo, profondamente riformatore — in un Paese che sta finalmente studiando le sue mappe per navigare meglio il futuro.
Lavoro. Italia 2013: una donna su due non ha ancora un’occupazione retribuita, troppe possono contare solo su impieghi (e guadagni) precari. Favorire il lavoro femminile è un obiettivo strategico che non ammette altre distrazioni. I vantaggi economici sono indiscutibili: per le famiglie, che renderebbero più solido il proprio reddito, e per la società intera, che come sistema vedrebbe aumentare la richiesta di servizi. Senza considerare quanto una donna indipendente dal punto di vista economico sia in grado di affrontare le prove della vita con più serenità, e consapevolezza, rispetto a quante temono di perdere ogni sponda quando arriva il momento di cambiare e scommettere su di sé. E dunque: come far risalire la casella tricolore nelle scoraggianti classifiche globali su partecipazione e ruolo delle donne? Ci sono molte misure che sono state studiate: detassare il lavoro femminile, ridurre gli oneri sociali per le aziende attente agli equilibri di genere e di età; prevedere crediti agevolati per le imprese avviate da donne; favorire il rientro dopo la maternità. È tempo che le giovani smettano di domandarsi quale sia «la stagione giusta» per fare un figlio senza bruciarsi il profilo professionale. Aspiranti madri — e padri — dovrebbero poter guardare all’avventura familiare come a una moltiplicazione delle esperienze e non come a una sottrazione di tempi utili al cammino individuale.

Il Corriere della Sera 24.02.13

"La posta in gioco è la governabilità", di Claudio Tito

«Il mio primo compito è dare stabilità. Nessuno può pensare che in una fase come questa si possa tornare a votare in tempi brevi. Non ripeteremo gli errori del passato». Pierluigi Bersani anche nelle ultime ore che precedono il voto è sicuro che la sua coalizione uscirà vittoriosa dalle urne.
MA SA anche di non potersi permettere di replicare le esperienze litigiose dell’Ulivo e dell’Unione.
Il vero nodo di queste elezioni, infatti, è tutto qui: assicurare al Paese un governo solido e duraturo. Una maggioranza in grado di affrontare uno dei momenti più difficili della storia repubblicana escludendo la soluzione di un’altra interruzione anticipata della legislatura. Il centrosinistra è sicuramente lo schieramento che più di tutti “corre” per vincere le elezioni. E’ quello più accreditato. Eppure questa campagna elettorale si è chiusa lasciando diversi punti interrogativi. Tutti gravidi di potenziali conseguenze drammatiche. A cominciare dal rischio che la frammentazione del voto consegni un Parlamento paralizzato, bloccato nella palude dei veti incrociati e delle scelte confuse. Per la prima volta dal 1994 – da quando cioè è stato introdotto un assetto sostanzialmente bipolare – il sistema politico si presenta alle elezioni con quattro poli. Un dato che può riflettere, soprattutto al Senato, una situazione di assoluta ingovernabilità.
Se, infatti, la legge elettorale garantisce alla Camera una maggioranza netta con un premio che assegna alla prima coalizione circa 340 seggi, a Palazzo Madama il gioco dei “bonus regionali” potrebbe costringere Bersani a trattare dopo le elezioni il sostegno di altri schieramenti. Se si trattasse – come previsto da quasi tutti – di discutere con Mario Monti un patto di governo, il problema sarebbe con ogni probabilità risolto rapidamente. Basti pensare a quello che venerdì sera ha detto proprio il presidente del consiglio: «Mai con Vendola? Vedremo… ». Una sorta di “mai dire mai” che ha di fatto aperto la strada al confronto.
Ma il punto è proprio questo: l’alleanza Bersani-Monti sarà la strada più ragionevole e quella più agevolmente praticabile. L’attuale legge elettorale – il Porcellum – lascia però aperto uno spazio amplio all’imponderabile: potrebbe determinare dei risultati devastanti in virtù o a causa di un sistema politico diviso in quattro. Nella confusione di una Seconda Repubblica che ancora non si è incamminata verso la Terza, il patto tra centrosinistra e Scelta civica potrebbe insomma non essere sufficiente. Una prospettiva che non appare probabile. Ma sono emersi due elementi da questo punto di vista costituiscono delle vere e proprie incognite: il successo che sta riscuotendo il Movimento di Beppe Grillo e il calo di popolarità di tutti i centristi. Allora basta fare un po’ di conti per cogliere le possibili variabili: al netto dei senatori a vita, la maggioranza la Senato è fissata a quota 158. Secondo i tecnici parlamentari, però, la vera autosufficienza – anche nelle commissioni – si ottiene quando si supera soglia 167. La corsa alla pari tra centrodestra e
centrosinistra (e ora anche Grillo) in tre grandi regioni – Lombardia, Sicilia e Veneto – mette in pericolo l’autonomia di Bersani: se non vince in quelle tre circoscrizioni potrà contare su 143 o 146 senatori.
Se prevale solo in Lombardia può arrivare a 159. In questo quadro il sostegno dei montiani è sicuramente determinante. La condizione, però, è che sia capaci di abbattere lo sbarramento dell’8% ovunque. Se, ad esempio, Scelta civica si ritrovasse al di sotto nelle cosiddette “regioni rosse”, tutto si complicherebbe.
Poi c’è un altro dato che va considerato: cinque anni fa il centrodestra guidato da Berlusconi ottenne il 46,8%. Il centrosinistra con Veltroni il 37,5%. Questa volta difficilmente la coalizione vincente andrà oltre il 35%. E’ l’esito di una frammentazione amplificata dal Porcellum e già rimarcata dal presidente della Repubblica. In Francia i risultati sono stati analoghi: il Partito socialista di Hollande ha vinto le elezioni con il 28,6% , ma lì la compensazione è data dall’elezione diretta del presidente con il doppio turno. E’ quello che il professore D’Alimonte chiama «sistema disproporzionale».
In Italia, invece, la “vittoria in discesa” rischia di spiattellare in Parlamento una questione parlamentare della maggioranza ed uno di rappresentanza politica. Il probabile tsunami dei grillini farà emergere questi nodi soprattutto se l’ex comico andrà oltre il 15% e ancor di più se sfonderà il 20%. Ritrovarsi nelle aule di Camera e Senato circa 200 parlamentari che agiscono al di fuori di ogni profilo istituzionale può trasformare questa legislatura in una battaglia campale senza fine. Il segretario democratico ha quasi profeticamente parlato di «governo da combattimento ».
La situazione si acuirebbe se le formazioni “tradizionali” saranno penalizzate oltre previsto. Il Pd potrà opporre concretamente il suo risultato e legittimarsi come formazione-guida se riuscirà ad attestarsi decisamente sopra il 28-29%. Silvio Berlusconi se porterà tutto il suo polo ben oltre il 30%. Perderebbe circa un terzo degli elettori rispetto al 2008 ma manterrebbe la preferenza di un terzo degli italiani. In caso contrario la deflagrazione del Pdl e della Lega (in particolare se Maroni non conquisterà il Pirellone) sarà la prima conseguenza di questa consultazione. Stesso discorso per Monti. Il premier potrà vantare un successo se la sua Scelta civica infrangerà il muro del 14-15%, ma se scenderà sensibilmente sotto il 12% l’operazione politica si rivelerà una delusione. Considerando anche che per le coalizioni esiste a Montecitorio uno sbarramento del 10% al di sotto del quale non si elegge alcun deputato. Quella evenienza trasformerebbe la performance centrista in un disastro: scomparirebbe anche l’Udc di Casini. C’è poi chi come la Rivoluzione civile di Ingroia lotta per la sopravvivenza. Per loro la vittoria equivale a superare lo sbarramento del 4%.
Tutte incognite che verranno disvelate domani ad urne chiuse.

La Repubblica 24.02.13

"Il realismo che serve al Paese", di Mario Calabresi

Finalmente oggi si vota, la campagna elettorale delle promesse più miopi della storia è finita e si torna alla vita reale. Miopia è avere la vista talmente corta da cercare soluzioni della durata di una settimana dimenticando che la politica e la capacità di governare dovrebbero invece preoccuparsi di costruire progetti per un futuro più decente. Miopia è pensare che esistano soluzioni catartiche, capaci di risolvere ogni problema in un istante spazzando via tutto quello che non ci piace: è illusoria (e alla prova dei fatti dolorosa) l’idea che tutto possa cambiare per miracolo in un sol giorno. E’ un’illusione soprattutto se noi tutti continuiamo a essere gli stessi di prima, se non abbiamo il coraggio di rimetterci in gioco, se non abbiamo l’onestà di riconoscere la complessità e ci rifugiamo nell’autocommiserazione, nella lamentela o nell’eterno gioco di scaricare le colpe su qualcun altro.

«Non possiamo pretendere che le cose cambino se continuiamo a fare le stesse cose», ci ammoniva Albert Einstein e lo penso ogni volta che vedo gli italiani gridare agli sprechi e nello stesso tempo indignarsi per i tagli che cercano di eliminare quegli sprechi.

Ci vuole serietà, non si può chiedere una sanità più efficiente e ospedali capaci e contemporaneamente pretendere di avere un reparto maternità in ogni paese o in ogni quartiere. La vita reale che ci aspetta da domani è ancora fatta di difficoltà, di piccoli passi, di tentativi, ma dovrebbe essere fatta anche di speranza e di volontà.

Per questo dico che è stata una campagna elettorale deludente, complice l’oscena legge elettorale, perché tutta puntata sull’immediato e senza idee che parlassero di futuro, idee capaci di accendere l’immaginazione, di dare coraggio, di spingere all’impegno. Le campagne elettorali hanno però due soggetti, i politici e gli elettori. Anche noi siamo chiamati ad essere responsabili e credibili: nelle richieste che facciamo come nel voto che esprimiamo.

Abbiamo il dovere della memoria innanzitutto: spiace notare come né i candidati e nemmeno noi elettori siamo stati capaci di attribuire il giusto valore agli sforzi e ai sacrifici fatti nell’ultimo anno, dimenticandoci, immersi come siamo in un pessimismo e in una visione negativa che sembrano impedirci qualunque possibilità di ripartenza, che non saranno certo tsunami o facili scorciatoie a regalarci un Paese sano e migliore.

E abbiamo tutti il dovere di tenere la testa alta. Di pensare non soltanto a noi e all’immediato ma anche al Paese che vogliamo costruire per i nostri figli o i nostri nipoti. Dovremmo imparare a non illuderci di fronte a ricette di cortissimo respiro: ti rimetto in tasca alcune centinaia di euro, come una sorta di una tantum, ma ti nego la possibilità di pensare ad una sanità migliore, che riduca le umilianti liste d’attesa, a un welfare più al passo coi tempi, in cui una madre non sia costretta a scegliere tra il lavoro e la cura dei figli, a una scuola che rispetti gli insegnanti, valorizzi i bambini e non costringa i genitori a portare ogni settimana sapone, fogli e carta igienica.

Quando penso alla responsabilità di essere cittadini penso che questo contenga la necessità di non raccontarsi storielle facili e consolatorie: non è solo eliminando la cosiddetta «casta» che si risolveranno i nostri problemi. Non è sufficiente: è solo sostituendo i ladri, i corrotti e gli incapaci con persone più degne e preparate che ci incammineremo sulla strada giusta.

Il prossimo Parlamento, grazie alla pressione dell’opinione pubblica, avrà il merito di essere più giovane, di avere più donne, più volti nuovi e una percentuale di gran lunga inferiore di inquisiti e screditati. Questa è un’indubbia conquista, ma non pensiamo che questo sia tutto: ci vogliono idee per costruire e capacità di farlo, a questa sfida saranno chiamati tutti gli eletti.

Pensare che basti essere giovani e nuovi per aver risolto ogni problema è un po’ infantile e non riconosce nessun valore all’esperienza e alla capacità: mi immagino il futuro dell’Italia come un pullman che deve superare un passo di montagna, ci sono curve ghiacciate, salita e discesa, vorrei che a bordo con me ci fosse gente per bene, simpatica e solidale, ma mi farebbe anche piacere avere un autista che ha idea di dove andare, che conosca il percorso e magari non sia alla sua prima esperienza di guida…

Mi ha colpito, in questo senso, la seria prudenza con cui il sindaco di Parma Federico Pizzarotti ha parlato sul palco di Piazza San Giovanni dopo il roboante comizio di Beppe Grillo, perché ha riconosciuto che le cose si possono cambiare ma per gradi. La verità è che nessuno ha la bacchetta magica e i debiti le persone per bene li onorano, tanto che la giunta grillina – soffocata dall’immenso debito ereditato – ha dovuto aumentare le rette degli asili nido, l’Imu e le tasse e non sembra in grado di fermare il famoso inceneritore.

Oggi andiamo a votare e l’augurio migliore che posso fare a tutti noi e al Paese è che la prossima legislatura sia stabile, riesca a funzionare e soprattutto sia efficace: si sintonizzi sui bisogni degli italiani e provi a dare risposte vere e credibili. I nuovi deputati e senatori sono chiamati a dare prova di realismo, a convergere sulle leggi di cui abbiamo bisogno e a scegliere le priorità, non a cercare di difendere vecchi privilegi e rendite di posizione ma nemmeno a fare guerre di religione di stampo ideologico. Non si sente il bisogno di nuove macerie e di personalismo ma di ricostruire un’Italia in cui il lavoro non appaia un miraggio irraggiungibile a ogni ragazzo che finisce gli studi e in cui gli anziani pensionati possano andare al mercato a testa alta per comprare ai banchi e non a testa bassa per rovistare tra la frutta gettata via.

La Stampa 24.02.13

"B. prova a 'reclutare' anche Berselli", di Riccardo Bocca

B. prova a ‘reclutare’ anche Bersellidi Riccardo BoccaNella rincorsa elettorale, il Cavaliere non risparmia nemmeno i defunti. Così tra i destinatari della missiva-imbroglio sul rimborso dell’Imu in caso di vittoria del Pdl è finito anche Edmondo Berselli, lo scrittore ed editorialista di questo giornale scomparso nel 2010(24 febbraio 2013)Edmondo, il nostro caro Edmondo Berselli, avrebbe reagito con uno di quei suoi sguardi appuntiti che fulminavano il destinatario senza per questo perdere il sorriso o il buonumore. Avrebbe trovato grottesco, insomma, che per rincorrere il consenso elettorale Silvio Berlusconi potesse scrivere al popolo italiano una lettera con modalità e tempistica per farsi rimborsare l’Imu in caso di vittoria del Pdl.

E avrebbe addirittura catalogato nell’irresistibile il fatto che, in questo exploit populista, potessero finire tra i destinatari della missiva anche italiani poco utili al Cavaliere, in quanto già defunti e non in grado, anche volendo, di contribuire alla sua rimonta.

Per questo oggi ci manca, e tanto, il dolce veleno di Edmondo “Eddy” Berselli, scrittore, editorialista del nostro settimanale e de “la Repubblica”, saggista a tutto campo dalla musica alla politica, dal costume alla storia economica dell’Italia postbellica. Vorremmo infatti leggere il corsivo che stenderebbe, visto che anche lui, scomparso l’11 aprile 2010, ha ricevuto nei giorni scorsi la zuccherosa lettera con cui Berlusconi lo invitava a votarlo per recuperare l’Imu.

Righe in cui forse, tra un sarcasmo e l’altro, gli ricorderebbe quanto il cattivo gusto nella vita sia una dote naturale. E come lui, modestamente, possa vantarne parecchio.

da L’Espresso 23.02.13

"Per uno su dieci il voto è last-minute", di Ilvo Diamanti

Finalmente si vota. Dopo una campagna elettorale lunghissima, che, tuttavia non ha suscitato indifferenza. Tutt’altro. Il 46% sostiene, infatti, di averla seguita con interesse (sondaggio LaPolis-Università di Urbino). Solo il 16% di averla,
invece, ignorata. GLI italiani, di fronte al voto, si dimostrano, dunque, coinvolti ma anche indecisi. D’altronde, con la Prima Repubblica, è finito anche il tempo in cui si votava sempre allo stesso modo. Per “atto di fede”. Nella Seconda Repubblica — e dunque, da vent’anni — si è continuato a dividere il mondo in due. A votare “contro”: Berlusconi oppure la Sinistra. Ma le fedeltà si sono stemperate. I dubbi sono cresciuti. E i tempi della decisione si sono allungati. Alle ultime consultazioni politiche, nel 2006 e nel 2008, circa il 15% dei votanti (intervistati dopo le elezioni, indagine La-Polis-Università di Urbino) afferma di aver deciso — “di” e
“per chi” votare — nel corso dell’ultima settimana. Una componente del 6-7%, in particolare, solo nel giorno del voto. Se così avvenisse anche in questa occasione, dunque, vi sarebbe ancora una quota di elettori indecisi, che si apprestano a votare, in grado di spostare gli equilibri tra forze politiche e schieramenti. Ma io credo che quanti decideranno solo oggi e domani — “se” e “per chi” votare — siano più numerosi rispetto alle ultime consultazioni: forse uno su dieci.
I “votanti dell’ultimo giorno”, infatti, si distinguono dagli altri per due aspetti specifici (LaPolis 2008). Per una maggiore propensione astensionista e, di conseguenza, per un elevato distacco verso i partiti e le istituzioni. Inoltre: per la preferenza verso liste esterne ai due maggiori schieramenti.
Da ciò derivano le ragioni che, oggi, alimentano l’indecisione.
In primo luogo, per la prima volta nella Seconda Repubblica, la competizione elettorale è multi-polare. Non mette di fronte due soli schieramenti e leader in grado di intercettare la quasi totalità dei voti, come nel 2006. O, comunque, molto più dell’80%, com’è sempre avvenuto nelle precedenti elezioni politiche (dopo il 1994). In questa occasione le due coalizioni maggiori, insieme, sembrano in grado di superare il 60%, ma non di molto. Mentre altri due soggetti politici — Monti e il M5S — sembrano destinati a condizionare gli assetti successivi al voto. Ciò ridimensiona la logica del “voto utile”. In quanto rende “utili” — e influenti — scelte diverse, non riassumibili nelle fratture bipolari del passato.
In secondo luogo, il distacco verso i partiti e le istituzioni ha raggiunto un livello molto più elevato rispetto al passato. E la tentazione astensionista, per questo, si è allargata ulteriormente. Non per indifferenza, ma per ostilità.
Un terzo “incentivo” all’incertezza è offerto dal M5S guidato da Beppe Grillo. Il quale mette in rete diverse istanze sociali e diverse rivendicazioni. Ma riflette e amplifica anche il deficit di fiducia verso la politica e i politici. Costituisce, dunque, un’alternativa all’astensione.
Così, è probabile che, in questa fase, l’indecisione di voto sia cresciuta e, di conseguenza, l’elettore “last minute” si sia diffuso ulteriormente. Perché si sono indeboliti i fattori che garantivano la stabilità — se non la fedeltà e la coerenza — degli orientamenti politici. I riferimenti di valore — se non le ideologie — e i legami con i partiti.
Ma anche la fiducia nei principali leader e la credibilità dei principali canali di comunicazione politica. In primo luogo, la tivù. Che risulta ancora il “mezzo” più “usato”, attraverso cui si informa gran parte della popolazione (l’80%). Ma è, al tempo stesso, “ab-usato” e considerato poco affidabile. Per questo non riesce a garantire un legame stabile con gli elettori. Ridotti a “consumatori” di un prodotto — i candidati e i partiti — che, anche per questo, tende a “consumarsi” in fretta.
Non è un caso che, come ha mostrato Luigi Ceccarini (in un articolo pubblicato sull’ultimo numero della rivista “Paradoxa”), l’influenza della tivù sulla scelta degli elettori si riduca rapidamente via via che ci si avvicina al voto. In particolare, fra gli “elettori dell’ultimo minuto”. I quali attribuiscono valore ai consigli e ai suggerimenti espressi e raccolti da familiari, amici, colleghi. In altri termini, gli “indecisi estremi” si “affidano” alle figure di cui hanno maggior “fiducia”. Così, fra gli elettori last minute, l’importanza riconosciuta al mondo delle relazioni dirette e personali sale: dal 13% al 25%. Un “indeciso” su quattro — tra coloro che alla fine, tra dubbi e incertezze, si “rassegnano” a votare — lo fa perché indotto e convinto da chi gli sta vicino. Da chi incontra e frequenta nel suo mondo di vita. Dove un tempo, non tanto tempo fa, erano presenti la politica e i partiti. Oggi non avviene più. Sono personaggi di un serial tivù. Scomparsi dal territorio e dalla società. I volontari, i militanti impegnati sul territorio, porta-a-porta: chi li ha visti? Così, “non ci resta che la famiglia”. Gli amici. I compagni di lavoro. A soccorrere gli indecisi, a orientare gli incerti. Fino all’ultimo minuto.
Finché resterà qualcuno, tra loro, a credere che votare serva, sia utile, c’è speranza. Che la democrazia rappresentativa abbia ancora senso.

La repubblica 24.02.12

"Tramonta un sistema di patacche e bugie", di Eugenio Scalfari

Da questa mattina fino a domani alle ore 15 finalmente si vota e sapremo fino a che punto i sondaggi hanno previsto giusto. Per quel poco che se ne sa Grillo viene dato in forte crescita e la grande manifestazione di venerdì sera in piazza San Giovanni potrebbe farlo rafforzare ulteriormente portandolo a superare il Pdl (ma non la coalizione di centrodestra, Lega compresa). È un pericolo?
Certo non infonde allegria sapere che un elettore su cinque o addirittura su quattro dia il suo suffragio a chi ipotizza l’uscita dell’Italia dall’euro, la cancellazione di tutti i debiti, lavoro e tutela per tutti senza indicare nessuna copertura finanziaria. Se queste ipotesi dovessero realizzarsi la speculazione internazionale giocherebbe a palla con la lira, col tasso di interesse, col sistema bancario, con gli investimenti, con l’occupazione e l’Unione europea ci imporrebbe un commissariamento che ci obblighi al rispetto del pareggio fiscale, pena l’intervento della Corte europea che commina in questi casi elevatissime sanzioni.
Ma non credo che andrà così, per due ragioni: la prima è che Grillo non avrà la maggioranza dei seggi anzi ne sarà molto lontano; la seconda che un conto è quello che le sue concioni esaltate e demagogiche declamano e un conto saranno i parlamentari eletti nelle sue liste. Di politica quei deputati e senatori ne sanno poco o niente del tutto. Nel Sessantotto lo slogan era “l’immaginazione al potere”, oggi si potrebbe dire l’inesperienza al potere.
È molto peggio perché l’inesperienza politica non è un pregio. Governare un paese non è certo facile ma è facilissimo sgovernarlo. Berlusconi l’ha sgovernato (non solo per inesperienza); il grillismo lo sgovernerebbe se avesse il potere.
Il grillismo in Parlamento può essere una remora utile se la rabbia approderà ad una ragionevole proposta. È possibile che questo accada almeno per una parte degli eletti.
Certo se sommiamo i voti previsti per Grillo e quelli per il centrodestra berlusconiano-leghista, potremmo avere quasi la metà degli elettori che rappresentano una zavorra molta pesante. Governare bene in un Parlamento con quel sacco di pietre addosso sarà un’impresa.
Va tuttavia ricordato che, nonostante le sue molteplici nefandezze, la legge elettorale detta “porcata” nelle condizioni date offre un vantaggio: alla Camera chi vincerà avrà il 55 per cento dei seggi; il sacco di pietre sarà, in queste condizioni, più facile da sopportare.
Ci sarà comunque un uso e un abuso del “filibustering”, cioè dell’ostruzionismo con l’obiettivo di tornare a votare al più presto. Ma non credo che possa durare a lungo. Molti parlamentari del centrodestra non hanno alcun interesse ad un “filibustering” sistematico e ad una legislatura breve e molti grillini-brava gente (cioè la maggioranza di quel movimento) si domanderanno dove li sta conducendo il loro inamovibile leader. Perciò non credo che il peggio accadrà.
Quel peggio – cioè nuove elezioni a breve scadenza – è una previsione di alcuni sondaggisti che fanno capo a centri finanziari internazionali: Jp Morgan, Mediobanca, Standard & Poor’s, Deutsche Bank, Goldman Sachs. Si capisce perché quelle previsioni pessimistiche sulla nostra tenuta politica e sociale incontrino il favore della finanza americana e delle sue derivazioni europee: hanno interesse a disarticolare l’Eurozona trasformando l’Europa in una grande area di libero scambio e impedendo che possa diventare uno Stato federale.
Noi crediamo e speriamo invece che la grande maggioranza degli italiani comprenda la sostanza di quanto sta avvenendo e confidiamo che da queste elezioni esca un Parlamento responsabile e un governo stabile se, come sembra, sarà il centrosinistra a vincere alla Camera e a stipulare un accordo con Monti che metta in sicurezza anche il Senato. **** Alcuni osservatori ed economisti hanno osservato che l’espressione “spending review”, fino a pochi giorni fa usata ripetutamente nel lessico della campagna elettorale, è improvvisamente caduta in desuetudine. E se ne sono domandati il perché senza tuttavia trovare una convincente risposta. Eppure sembrava un termine molto chiaro per indicare la strada maestra da seguire nel prossimo futuro: per diminuire la pressione fiscale venendo incontro al desiderio, anzi alla rabbia d’un popolo tormentato dai sacrifici non c’è altra via che tagliare la spesa. Si taglino dunque gli sprechi, si tagli il superfluo e si avranno le risorse per diminuire le tasse rilanciando i consumi e l’occupazione. A dirla così sembra l’uovo di Colombo, lo predica anche Draghi, lo fece una decina di anni fa la Germania socialdemocratica e poi conservatrice da Schroeder a Kohl. Non lo deve fare anche l’Italia?
Certo, la logica porterebbe a questo programma, lapalissiano per eccellenza. Ma c’è qualcosa di sbagliato, come spesso accadeva a Monsieur de La Palice: tagliare il grasso è semplice e quasi sempre salutare, ma quando si interviene su un corpo scheletrico, su un organismo logorato da una lunga anoressia, allora l’operazione diventa estremamente difficile e probabilmente dannosa all’organismo che con quei tagli dovrebbe riconquistare la salute, perché non si taglia più il grasso che non c’è ma l’osso, si disarticola lo scheletro ed è difficilissimo ed estremamente rischioso procedere in questo modo.
Tagliare l’osso significa nel caso nostro che ogni taglio di spesa, anche quando si tratta di sprechi, comporta ulteriori perdite di occupazione, licenziamenti, rescissioni contrattuali, liquidazione di aziende e di enti: ospedali, tribunali, scuole, università, Province. Se sono inutili è certamente una modernizzazione eliminarli, ma chi ci lavorava fino a quel momento finisce sulla strada. Esistono le necessarie tutele? Oggi no ma si potrebbe crearle poiché i tagli creano comunque economie e quindi risorse aggiuntive. Forse con quelle risorse (che tuttavia non saranno disponibili subito) le necessarie tutele potrebbero essere create ma in tal caso resterà poco o nulla per alleggerire le tasse e dunque: tagli di spesa, adeguamento (futuribile) delle tutele sociali per chi è rimasto senza lavoro, ma tasse come prima. Non mi sembra un gran risultato.

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Diverso è il caso di una modifica delle priorità nella spesa corrente. Per esempio il taglio di aerei ed elicotteri destinati alle Forze armate, quelle sì, sono risorse che si ottengono senza costo. Un altro intervento possibile sarebbe la cartolarizzazione di beni patrimoniali di proprietà pubblica che garantisca un’emissione di titoli pubblici “di scopo”, da destinare al pagamento dei debiti della pubblica amministrazione alle imprese.
Bersani ha proposto questa operazione ma limitandola ad una prova di 15 miliardi. È troppo poco, si può tranquillamente arrivare a 50 miliardi su un debito totale stimato 170. Un’operazione di questa dimensione che abbia come garanzia beni fondatamente vendibili sul mercato darebbe luogo ad una iniezione di denaro alle imprese creditrici con un salto di qualità molto notevole.
C’è un’altra operazione che il centrosinistra ha previsto e che sarebbe un altro contributo importante ai fini della crescita economica fin qui trascurata: la rimodulazione dell’Imu abolendo quell’imposta per tutti coloro che hanno pagato meno di 500 euro sulla prima casa. Si tratta di molte decine di migliaia di persone il cui piccolo contributo ha rappresentato il 20 per cento del gettito complessivo di quella imposta; l’altro 80 per cento di quei 4 miliardi complessivi l’hanno pagato contribuenti ovviamente più agiati. Ricordo ancora una volta che l’Imu è un’imposta immobiliare progressiva; la sua abolizione promessa da Berlusconi produrrebbe dunque un beneficio “regressivo” a favore dei più agiati e non dei più poveri.
Infine sarebbe di grande sollievo sociale e un notevole contributo alla crescita e all’occupazione un taglio del cuneo fiscale (lo fece nel suo governo Romano Prodi) che avvicini il costo del lavoro alla retribuzione netta in busta paga. Non si tratta di un taglio di imposta ma di contributi sociali pagati in gran parte dalle aziende ma anche dai lavoratori. L’Inps può manovrare sulle varie voci di contributi che compongono il suo bilancio per assorbire il taglio del cuneo fiscale che riguarda il lavoro dipendente. Tutte queste misure che figurano nel programma del centrosinistra dovrebbero essere accompagnate per coerenza ed efficacia economica da un aumento della produttività, realizzabile dalla revisione dei contratti che privilegino quelli aziendali purché i relativi accordi siano discussi e approvati con la partecipazione dei lavoratori dipendenti.
Questi ed altri analoghi sono i modi appropriati per evitare che con tagli di spesa indifferenziati l’anoressia del sistema aumenti anziché diminuire.
Si tenga infine presente che sgravi di imposta per rilanciare i consumi possono riservare sorprese negative: secondo recenti indagini la massa dei consumatori è molto più propensa ad utilizzare eventuali sgravi per ripagare debiti o per accantonare risparmi anziché rilanciare i consumi. Perciò attenzione.
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Qualcuno si è chiesto: fa ridere di più Berlusconi o Grillo? Rispondo: nessuno dei due. Qualcun altro si è chiesto: chi di quei due può fare più danno all’Italia? Rispondo: Berlusconi.
Altri infine hanno posto la domanda: di chi è la colpa? Ha risposto Claudio Bisio, l’attor comico per eccellenza. Ha detto: la colpa è degli italiani che li votano.
Ora aggiungo anch’io una domanda: ma perché tanti italiani li votano? Ho risposto già molte volte ma lo faccio ancora, “repetita iuvant”: gli italiani non hanno mai avuto uno Stato fino a 150 anni fa. Prima di allora e per molti secoli furono dominati da Goti, Longobardi, Franchi, imperatori tedeschi, Papi e poi Normanni, Svevi, Spagna, Francia, Austria. Infine, quando tutto sembrava bene avviato, il Piemonte invase il Sud che Garibaldi aveva liberato, così lo visse il Mezzogiorno durante la terribile guerra del brigantaggio alla quale però parteciparono borbonici e sanfedisti.
Conclusione: gli italiani non hanno mai amato lo Stato, lo considerano un corpo estraneo se non addirittura un nemico. Perciò non vogliono regole. Sono furbi o gonzi come capita dovunque e a ciascuno, ma più furbi e più gonzi degli altri. L’asino che vola affascina i gonzi anche se non l’hanno mai visto volare. Per i furbi vale soprattutto il voto di scambio e lo praticano su larghissima scala, non tanto contro danari ma contro favori. Mafia e camorra hanno vissuto e vivono sul voto di scambio, ma anche le clientele, le confraternite, le corporazioni prosperano e crescono sul voto di scambio. Perciò ci vuole un cambiamento. La rabbia da sola porta inevitabilmente alla dittatura, dopo i sanculotti c’è sempre un Robespierre e dopo ancora un Napoleone.
Cambiamento non è rivoluzione ma riformismo radicale. Prodi ci provò e Veltroni anche; adesso ci proveranno Bersani e Vendola.
Napolitano ci mancherà ma nominare il nuovo governo spetterà ancora a lui e questo ci dà sicurezza per la lucidità e l’imparzialità delle sue scelte.

La Repubblica 24.02.13