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"Il Lazio volta pagina, vince Zingaretti", di Alessandro Capponi

Alle sette e trenta della sera, con un spoglio delle schede fermo al trenta per cento dei seggi, lento che più non si potrebbe, Nicola Zingaretti arriva nel Tempio di Adriano, in piazza di Pietra, a due passi dal Pantheon, e parla da governatore del Lazio: la proporzione definitiva della vittoria arriverà in nottata, ma il risultato non è in discussione. È in giacca blu, camicia bianca, senza cravatta. Sorride, con quella faccia un po’ paffuta: «Mi ha appena chiamato Storace per congratularsi, lo ringrazio. Da oggi sarò il governatore di tutti». La dedica, scontata, è «per mia moglie e le due mie figlie». Poi si parla di politica: «In un quadro nazionale di incredibile frammentazione e partendo dal 29,8% della Camera, il risultato che si profila nel Lazio è straordinario, attorno al 39-40 per cento dei consensi. Significa che ci sono stati tanti voti disgiunti». Dallo staff parlano del «10% in più». Di sicuro, a oltre metà scrutinio, Zingaretti ha quasi 200 mila preferenze più dei partiti che arrivano al 41,8%. Su 4.968 sezioni scrutinate su 5.267 — all’una e mezza del mattino, a spoglio quasi finito — Zingaretti ha il 40,6% dei consensi, Storace il 29,4%, il «grillino» Davide Barillari il 20,3%. Molto più staccati Giulia Bongiorno di Scelta civica con Monti (4,6%) e Sandro Ruotolo (2,2%) di Rivoluzione civile. Su Roma città, il distacco si allarga: Zingaretti arriva al 45,4%. E Fiorella Mannoia commenta su Facebook: «Almeno Zingaretti ce l’ha fatta. Ogni tanto una buona notizia». Circolano i primi nomi per la giunta. Per il Bilancio, l’ex ministro Vincenzo Visco. Mentre alla Scuola, il rettore di «Roma Tre» Guido Fabiani.
Non trova una Regione «comoda», Zingaretti: non tanto per la riduzione dei consiglieri a 50 e la maggioranza alla Pisana («sarà ampia», dicono nel Pd), quanto per i problemi legati ai temi «caldi» come la Sanità e i rifiuti. E, poi, c’è l’eredità dello scandalo targato «Batman» Fiorito del Pdl (ad Anagni, sua roccaforte, passa il centrosinistra) e del «bombardiere» Maruccio dell’Idv, e la gestione dei fondi a disposizione dei gruppi politici. In più, c’è l’onda grillina, con Barillari che annuncia ricorsi per l’annullamento di molte schede. Zingaretti apre il dialogo con Cinque Stelle: «La nostra proposta è chiara: taglio dei costi della politica, innovazione, trasparenza, sviluppo e lavoro. Non ci chiuderemo a riccio: sui punti elencati vedo un’affinità col Movimento 5 stelle».
Il centrodestra, invece, medita sulla sconfitta. Che su Roma città, più ancora che nelle province, è cocente: nella Capitale il Pd «doppia» il Pdl (404 mila voti, contro 216 mila, il 32% contro il 17%). Dato che «pesa», in vista delle comunali del 26 maggio. I democratici, ora, devono trovare un candidato sindaco da opporre ad Alemanno ma non è detto che si facciano le primarie, neppure nella forma «aperta» ad outsider come Alfio Marchini. E il centrodestra? Secondo Alemanno «Grillo, nelle amministrative, è il terzo partito e non il secondo. La sfida è aperta». Il sindaco spera nell’appoggio di tutta la coalizione, anche se qualcuno pensa alle primarie: «Su Storace potevamo partire prima: avremmo avuto più voti». Proprio Alemanno, però, era quello dubbioso. Ieri colloquio con Berlusconi: «Mi ha detto: “Peccato, alla Camera potevamo farcela”». Zingaretti annuncia il primo provvedimento: «Taglieremo i costi della politica e investiremo i proventi nello sviluppo». Adesso, nel centrosinistra, sorridono tutti. Ma quando Zingaretti venne dirottato dalla corsa al Campidoglio (dove, ora, crescono le quotazioni di Ignazio Marino) alla Regione, dopo le dimissioni della Polverini, ci furono anche dei malumori: «Allora — dice il neogovernatore — non si erano compresi i motivi, ma i consensi ci dicono che abbiamo fatto bene. Abbiamo agito con discontinuità e siamo stati percepiti come coalizione che vuole cambiare».

Il Corriere della Sera 27.02.13

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Parla il neogovernatore: cambio di passo dopo gli scandali. “Serve voltare subito pagina ai 5Stelle dico: apriamo insieme una fase costituente” di Mauro Favale

«Dal porto delle nebbie a una casa di vetro». La Regione Lazio, Nicola Zingaretti la immagina così: qualcosa di completamente diverso rispetto a quella attraversata da Franco Fiorito e da Vincenzo Maruccio, i due protagonisti dello scandalo che, lo scorso settembre, ha fatto naufragare anzitempo la giunta guidata da Renata Polverini. «La parola d’ordine sarà discontinuità: nel modo di fare politica, di gestire la cosa pubblica e il potere».
Dici Lazio e pensi a sprechi, vitalizi, commissioni, monogruppi, finanziamenti ai gruppi: non sarà facile strappare dalla Regione questa nomea.
«E infatti voltare pagina rispetto agli scandali non basterà: qui bisogna mettere in campo una proposta di governo che deve confrontarsi con tre sfide: la prima riguarda la partecipazione, la seconda, appunto, la trasparenza e la terza lo sviluppo».
Temi, almeno i primi due, cari anche al Movimento 5 Stelle che anche qui ha raggiunto un ottimo risultato. Si rivolgerà anche ai grillini?
«Ci sono tali e tanti problemi che non possiamo chiuderci a riccio: cercheremo di essere aperti al confronto. Durante la campagna elettorale ho parlato della necessità di inaugurare una fase costituente, ora voglio proseguire con coerenza».
E su questi temi pensa di guache l’ascolto e l’appoggio dei 5 Stelle?
«Mi rivolgerò a tutto il Consiglio regionale. Non ci sono pregiudiziali nei confronti di nessuno. La nostra sarà una proposta di governo basata su innovazione, trasparenza taglio dei costi della politica, sviluppo e lavoro. Su questi punti ci sono affinità: se ci sarà anche consenso con il Movimento 5 Stelle lo vedremo in aula. Questi, però, sono temi pieni della proposta che avevamo messo in campo e che i cittadini hanno riconosciuto come nostro patrimonio identitario».
Qui il Pd e il centrosinistra hanno tenuto meglio che altrove, come mai?
«In Lazio c’è stato un risultato straordinario perché in un quadro di incredibile frammentazione, partendo da un risultato sfiorava il 30% alla Camera, in Regione siamo intorno al 40%».
È stato favorito dal voto disgiunto?
«Sicuramente. Sono stati in tanti a scegliere la proposta politica che abbiamo messa in campo per la Regione, pur avendo fatto scelte diverse in campo politico ».
E questo come se lo spiega?
«Probabilmente qui è passato un messaggio diverso, più forte rispetto a rabbia e astensionismo: in Lazio ha vinto la buona politica e credo che questo risultato di affidi una grande responsabilità. Dobbiamo cambiare questa Regione e restituire all’istituzione dignità e autorevolezza».
Eppure anche qui il Movimento 5 Stelle ha fatto incetta di consensi.
«Non deve sfuggire a nessuno che il Lazio, come l’Italia intera, soffre. In questo voto è esplosa una voglia di rigore e trasparenza, un grido di dolore che abbiamo ascoltato in campagna elettorale. In parte è stata intercettata dai grillini, in parte siamo stati noi ad assorbirla. Ma non vogliamo cavalcarla, bensì provare a estirparla col buongoverno».
Quale sarà il suo primo provvedimento da governatore?
«Eredito una Regione in condizioni disastrose. E bisognerà fare i conti con questo. Se fosse un’azienda sarebbe in default, con 22 miliardi di debito, una situazione sociale drammatica, aggravata da nomine volute dalla Polverini fino a pochi giorni dal voto: una storia, francamente, molto triste. Detto ciò, ci concentreremo su una proposta seria per tagliare i costi della politica».
Lei era destinato a correre per il Campidoglio, ora si ritrova alla Regione: rimpianti?
«Nessuno, anzi. Abbiamo visto che è stata la scelta giusta. Alla Pisana sarò il presidente di tutti. E, a proposito del Comune di Roma, per vincere useremo la stessa arma: la buona politica».
Che pensa della situazione nazionale? Da neo governatore auspica un governo di larghe intese?
«Intanto, auspico un governo. In ogni caso, in questa partita, Bersani si è battuto come un leone».

La Repubblica 27.02.13

"La sede vacante", di Ezio Mauro

So può prevalere nei numeri e nelle percentuali (cosa che certamente conta, e fa la differenza sui competitori) e tuttavia perdere le elezioni. È quel che è accaduto al Pd e alla sinistra italiana. Bisogna dire la verità. La coalizione guidata da Bersani dopo un lunedì di disillusioni e una notte di tormenti ha infine spuntato uno 0,4 per cento in più alla Camera, incassando un premio di maggioranza abnorme, che distorce il principio di rappresentanza, grazie al Porcellum voluto dalla destra. È davanti di un soffio anche al Senato, dove non c’è maggioranza possibile, e dove risiede dunque la nuova ingovernabilità del sistema politico e istituzionale italiano. Ma ha perso nel significato autentico del voto, nel suo risultato morale, nel segnale che hanno ricevuto gli elettori di sinistra e tutti i cittadini.
Il Pd non era solo il vincitore annunciato di un’occasione unica e straordinaria: era l’alternativa in campo ai vent’anni di berlusconismo e soprattutto alla sua fase finale, con l’incapacità a governare coniugata con la crisi di credibilità e la perdita verticale di consensi, e l’azione esterna degli scandali, degli eccessi, dei soprusi e degli abusi. Tutto ciò ha portato Berlusconi non solo alle dimissioni, poco più di un anno fa, ma praticamente all’abbandono della politica, senza più la fiducia nemmeno dei suoi uomini.
Alle prime elezioni dopo la fine di questa avventura, il Pd non riesce a imporsi come forza di governo alternativa a Berlusconi, ma anzi assiste alla resurrezione miracolosa del Cavaliere che gli sbarra il passo e sfiora addirittura la vittoria, al trionfo di Grillo che pesca abbondantemente nel suo campo con la sua proposta di rinnovamento della politica e sullo slancio diventa primo partito, all’afflosciarsi di Monti che doveva essere l’alleato di governo e che non riesce a compiere la trasformazione da bruco a farfalla, perché dal Premier tecnico non è sbocciato un leader politico.
L’ingovernabilità è dovuta a questo, prima ancora che ai numeri. La politica tradizionale – tutta insieme, Monti compreso – non ha capito che la vera posta in palio nelle elezioni era quella del cambiamento, cioè una risposta radicale e concreta alle disfunzioni e alle inefficienze della nostra macchina istituzionale e politica, e soprattutto alla sfiducia drammatica dei cittadini nei confronti del sistema. Quando la fiducia nei partiti scende al cinque per cento, e quella nel parlamento si ferma all’otto, siamo sotto la legge di gravità, nel senso che una democrazia non può stare in piedi, o almeno una repubblica non funziona. Gli scandali e il malgoverno hanno fatto il resto, allontanando ancora di più gli elettori dagli eletti, la lunga semina di antipolitica, per mesi e anni, ha preparato il terreno di coltura agli opposti populismi che si alimentano di crisi reale e fantasmi generici, come l’Europa, l’euro, la Germania, la Bce e le banche. La divaricazione tra la forza del vincolo europeo, che ci condiziona come Paese a rischio, e la debolezza della sua legittimità dal punto di vista del consenso democratico ha prodotto un esorcismo politico che semplifica la crisi mentre la nega, e la attribuisce comunque a colpe esterne, in una de-responsabilizzazione crescente. Col risultato paradossale di un Paese che accetta i sacrifici ma è incapace di elaborare una cultura condivisa della crisi, e un suo meccanismo di governo.
In una parola, è come se il governo della fase che viviamo fosse impossibile, per una fetta di pubblica opinione. O peggio, inutile. Dentro questa rinuncia ipnotica, si scavano percorsi a breve, abitati da illusioni politiche, fantasmi culturali. Nazionalizziamo le banche, anzi chiudiamole. Ignoriamo lo spread, che importa se cresce? Non badiamo ai mercati, tanto sono un po’ pazzi. Se la Germania pretende troppo, usciamo dall’euro. Sciocchezze che funzionano come false rassicurazioni, perché non esistono risposte banali a problemi complessi. Ma funzionano, come le false promesse sulle tasse che si possono restituire, i soldi che arrivano dalla Svizzera, il magnate-demiurgo che in ogni caso, se mancano i miliardi, li metterà di tasca sua.
Come vediamo da questi esempi, tutti presi dalla campagna elettorale, anche la politica è in sede vacante, e qualcos’altro di confuso, semplice ed elementare, consolatorio e primordiale ne ha preso il posto. Un negazionismo autarchico, insieme orgoglioso e compassionevole, che è un prodotto non secondario della crisi sociale del nostro
tempo. I populismi diventano l’es pressione compiuta ed organizzata di tutto questo. A destra, con l’incalzare sorridente e ideologico di Berlusconi. A sinistra (o meglio, in un luogo di pseudosinistra) con la predicazione comica e apocalittica di Grillo. Con una differenza non da poco: che mentre Berlusconi chiede un voto di autotutela, di protezione a breve, conservativo, esaurendo ogni antica spinta rivoluzionaria, Grillo al contrario è capace di intercettare non solo quella spinta ma una vera ansia di cambiamento, a cui si aggiunge una volontà di partecipazione, una disponibilità all’ingaggio, una manifestazione concreta della volontà di realizzare fisicamente il rinnovamento.
Ed è qui la vera energia che ha portato i grillini – nello sganghero del linguaggio mortuario del leader, nel terrore della democrazia interna – a diventare il primo partito. Ed è sempre qui e proprio qui la sconfitta del Pd. Un partito nato con l’ambizione di essere moderno perché nuovo, forte se contendibile, aperto in quanto scalabile, pronto a mettere ogni volta in discussione i suoi assetti locali e nazionali e le sue leadership con la religione delle primarie, non può infatti essere messo fuori gioco dalla sfida per il cambiamento, soprattutto quando diventa il tema centrale delle elezioni e di questa fase. Sembra quasi che la sinistra abbia rinfoderato tutta la spinta che veniva dalle primarie, che Bersani, battuto Renzi, abbia archiviato la questione cruciale del rinnovamento dei dirigenti, che il Pd abbia sotterrato i suoi talenti (frutto della partecipazione dei cittadini) invece di farli fruttare. Un riflesso di conservazione, di garanzia degli apparati e dei gruppi dirigenti, che già si spartivano posti di governo in organigrammi improbabili. Ma soprattutto la rinuncia a giocare la partita del cambiamento preferendo la battaglia navale delle alleanze, come se tutto fosse dentro il Palazzo e la vita non scorresse invece fuori. Come se non esistessero un modo, un codice, una cultura e un linguaggio moderni e capaci di declinare il tema del cambiamento della politica da sinistra, e non solo da postazioni populiste.
Ora il Pd pensa come forza di maggioranza alla Camera di avere il dirittodovere di fare la prima proposta per il governo. E pensa di farlo guardando ai grillini, e aprendo loro la strada per la presidenza della Camera. Ma anche qui, lo schema di gioco è vecchio e difensivo. Grillo non accetterà mai un’intesa di sistema, programmatica e di maggioranza, potrà dare l’appoggio a singole riforme, non di più. E allora la vera formula di sfida e insieme di ingaggio dei grillini è la partita del cambiamento, com inciando dalla politica e dalle istituzioni, con un pacchetto che comprenda il dimezzamento del numero dei parlamentari, il superamento del bicameralismo
perfetto, la riduzione drastica dei costi della politica, l’abolizione dei privilegi, una vera legge anticorruzione, il conflitto d’interessi, il cambiamento della legge elettorale.
Questa – insieme con le misure per il lavoro, col rigore combinato con l’equità, con la riduzione delle tasse per i ceti più deboli – deve essere la piattaforma non solo politica ma identitaria della sinistra dopo la sconfitta. Guardando ai cittadini e alla pubblica opinione più che alla società dei partiti. E proponendo il cambiamento invece di subirlo. Su una piattaforma di questo tipo, si può mettere l’onda grillina alla prova del parlamento. Sapendo che c’è una barriera da superare, che è il rispetto degli impegni presi con l’Europa, quando eravamo a rischio default: perché se Grillo in parlamento seguirà una strada che ci porta fuori dall’euro, nessun accordo è possibile, e il Paese giudicherà. A quel punto, potrebbe esserci lo spazio soltanto per una larga coalizione, che gli elettorati del Pdl e del Pd difficilmente potrebbero reggere. E infine resterebbe la carta estrema di un governo allo sbando, senza maggioranze precostituite, che potrebbe diventare un governo di scopo nella drammatica necessità di negoziare con l’Europa gli aiuti che ci toglierebbero l’ultima sovranità, o di tentare disperatamente di scongiurarli.
I mercati ci hanno già messi nel mirino per l’evidente, clamorosa instabilità scelta dagli elettori. Dopo il voto del Senato siamo infatti davanti al caso di scuola del “governo impossibile”, o di governi tutti anomali, impropri e di breve durata. Al fondo, nuove elezioni come la Grecia, con la rabbia e la protesta ingigantite nelle urne. Perché non provare a riformare davvero la politica, subito e radicalmente, invece di aspettare che venga sepolta dall’onda dell’antipolitica? È una convenienza per il Paese, un’opportunità per tutti, ma è una necessità per la sinistra. A patto di essere credibili, ecco il problema. E dunque di avere il coraggio di mettere subito e davvero in gioco tutto, dopo la sconfitta: leadership, premiership, partito e consenso elettorale pur di salvarsi l’anima e approdare nel mondo nuovo.

La Repubblica 27.02.13

Andiamo avanti ascoltando il Paese

Ringrazio tutte e tutti per gli attestati di stima e per gli auguri. In un quadro di profonda incertezza, è necessario affrontare insieme la richiesta di cambiamento emersa dalle urne. Ora, terminata la campagna elettorale, è giunto il momento dell’assunzione di responsabilità, anche da parte di chi ha chiamato gli elettori a “mandare tutti a casa” col proprio voto. Perché non è con la protesta che il Parlamento potrà varare leggi a favore degli italiani. Non è con la protesta che aumenteranno i posti di lavoro o si abbasserà la pressione fiscale nei confronti di chi ha già pagato troppo e non ha più nulla da dare. Con il Partito Democratico affronterò la responsabilità di uscire dall’empasse, senza presunzione e aperta al dialogo su temi prioritari per il Paese, a partire da quelli che mi riguardano direttamente e sui quali i cittadini hanno riposto fiducia. E a chi chiede di tornare alle urne subito dopo aver modificato la legge elettorale, rispondo che gli italiani non mangiano con la riforma elettorale, né avranno più garanzie e tutele sul lavoro, né avranno una scuola migliore o accesso all’università. Ma per fare quelle riforme necessarie al bene comune, per gestire le emergenze di questo Paese, serve una maggioranza e un voto di fiducia a chi sarà chiamato a governare. È necessario, dunque, che anche al Senato si trovi la maggioranza e non una maggioranza “purché sia”. E con il PdL non possono esserci accordi o mediazioni, perché non ci sono convergenze ideali e programmatiche. È, dunque, ai molti parlamentari chiamati a rappresentare la voglia di trovare nuove forme di politica che sto pensando, chiedendo di trasformare il dissenso in proposta, la demolizione in progetto. Perché quando ci si trova di fronte alle macerie non si può danzare felici del proprio successo, ma si deve pensare a costruire meglio di prima. La mia esperienza di terremotata mi ha insegnato che per uscire dall’emergenza si deve fare un passo dietro l’altro, risolvere un problema alla volta, per trovare le soluzioni condivise per il bene della comunità. Ora, di fronte ad un terremoto istituzionale, so che con l’ascolto e l’azione rivolta al bene comune si può uscire dalla crisi, per un’Italia migliore.

"Il Pd ora pensa a un governo capace di sparigliare le carte", di Simone Collini

Esclusa l’ipotesi di Grande Coalizione con Berlusconi. Cautela anche sulle ipotesi di voto anticipato, l’onere della proposta spetta a chi ha vinto alla Camera. E adesso? Due cose sono chiare: al Senato c’è una situazione di ingovernabilità e la prima mossa per tentare di superare la situazione d’impasse spetterà al Pd, che ha preso il premio di maggioranza alla Camera. Fine. Per il resto, la confusione regna sovrana. Ed è difficile capire come si possa evitare quello che da più parti viene definito uno scenario in stile Grecia.
In campo ci sono sostanzialmente tre ipotesi. La prima: si torna a votare soltanto in un ramo del Parlamento, quello in cui è impossibile si determini una maggioranza, cioè il Senato. È un’ipotesi di scuola, ma non percorribile, tra le altre cose perché si metterebbero di traverso le forze (Pdl e Movimento 5 Stelle) che non hanno preso il premio a Montecitorio e che però hanno una nutrita pattuglia di senatori. La seconda ipotesi: la Grosse Koalition, o governo di unità nazionale, insomma un nuovo esecutivo sostenuto da Pd, Pdl e centristi. Anche questa ipotesi però non appare percorribile, stando a quanto dicono in queste ore i vertici democratici: perché è impossibile riaprire un canale di dialogo con Berlusconi dopo una campagna elettorale come questa e perché un nuovo governissimo rischierebbe di far aumentare ancora di più i consensi per Grillo, come del resto hanno dimostrato queste elezioni.
Resta una terza ipotesi, quella che in queste ore appare la più accreditata e che però arriva soltanto fino a un certo punto, quanto a chiarezza. E cioè che Bersani, leader della coalizione che ha preso il premio di maggioranza alla Camera, vada al Quirinale a fare una proposta di questo tipo: gli si dia l’incarico per formare un governo in grado di prendere la fiducia alla Camera e di tentare poi di ottenere lo stesso risultato anche al Senato. Ma il punto è: un governo per fare cosa? E qui le interpretazioni, anche all’interno dello stesso Pd, si diversificano. C’è chi sostiene che questo esecutivo dovrebbe rimanere in carica soltanto per il tempo necessario perché le forze parlamentari eleggano il nuovo Capo dello Stato (orientativamente a metà aprile) e approvino una nuova legge elettorale per poi tornare in tempi rapidi al voto (a fine giugno). E c’è chi sostiene che invece questo governo, seppur di minoranza, debba cercare di approvare le riforme necessarie al Paese cercando sui singoli punti di costruire la maggioranza anche al Senato, coinvolgendo nella discussione non soltanto il fronte moderato di Monti, ma anche i gruppi parlamentari del Movimento 5 Stelle. E questa è la linea che sembra intenzionato a seguire Bersani.
Non è casuale che il vicesegretario del Pd Letta, appena visto il dato che fotografava una situazione di ingovernabilità al Senato, a metà pomeriggio si fosse lasciato andare a questa battuta: «Se le cose stanno così, il prossimo Parlamento sarà ingovernabile. Si farà subito una nuova legge elettorale e si torna a votare». Salvo poi rettificare in serata: «Il ritorno al voto immediato non pare a oggi la prospettiva da perseguire e abbiamo fiducia che il Capo dello Stato possa aiutare a trovare le soluzioni migliori».
LA PROPOSTA SPETTA A CHI VINCE
Questa è la linea che sosterrà Bersani nelle prossime ore, convinto com’è che ritornare immediatamente alle urne non sia la prospettiva che può mettere l’Italia al riparo dai guai vissuti dalla Grecia. «Il centrosinistra ha vinto alla Camera e per numero di voti anche al Senato. È evidente a tutti che si apre una situazione delicatissima per il Paese», è la nota che il leader Pd fa diramare a notte fonda. «Gestiremo le responsabilità che queste elezioni ci hanno dato nell’interesse dell’Italia».
Al di là delle prospettive politiche e dell’ipotesi che si riesca a costruire delle convergenze al Senato che vadano oltre i gruppi del centrosinistra e di Scelta civica, c’è anche la Costituzione a impedire che si torni in tempi rapidi alle urne.
Tra gli elementi da tener presenti c’è che il mandato di Napolitano al Quirinale scade il 15 maggio, e che una volta insediate le Camere ed eletti i presidenti dei due rami del Parlamento, deputati e senatori dovranno procedere all’elezione del nuovo Capo dello Stato. Secondo il costituzionalista Stefano Ceccanti non si potrebbe però procedere allo scioglimento delle Camere e a nuove elezioni perché a quel punto saremmo nel semestre bianco. Non era questo il caso con questa legislatura, visto che l’articolo 88 della Costituzione recita: «Non può esercitare tale facoltà (di scioglimento, ndr) negli ultimi sei mesi del suo mandato, salvo che essi coincidano in tutto o in parte con gli ultimi sei mesi della legislatura». Con l’insediamento delle nuove Camere entreremmo però nella diciassettesima legislatura, e il caso sarebbe diverso. C’è allora l’ipotesi che il nuovo Capo dello Stato si insedi e proceda subito allo scioglimento? Sarebbe discutibile. E in ogni caso, prima che si vada al voto devono passare dallo scioglimento almeno 45 giorni. E a meno che il Parlamento non abbia proceduto speditamente, rischiano di non esserci i tempi per una finestra elettorale a fine giugno.
RENZI OSSERVA DA LONTANO
Nel Pd si guarda con attenzione all’eventualità di andare in tempi rapidi a nuove elezioni pensando agli interessi del Paese (in Grecia si è visto quanti danni ha provocato una situazione simile a quella che stiamo vivendo oggi) ma anche alle strategie di partito. Nel gruppo dirigente del Pd neanche si vuole discutere, in queste ore, dell’ipotesi che il risultato elettorale possa far prendere in considerazione a Bersani l’ipotesi di dimissioni anticipate (il leader del Pd aveva detto già in campagna elettorale che a prescindere dal risultato delle urne non sarebbe stato lui il segretario del partito col prossimo congresso). Però sono già in molti, dentro ma soprattutto fuori il Pd, a iniziare a dire che con Renzi vincitore alle primarie sarebbe andato in onda tutto un altro film. E anche nel fronte bersaniano si deve ammettere a denti stretti che in caso di nuove elezioni anche a breve non sarà l’attuale segretario a giocare il ruolo del candidato premier del centrosinistra.
Renzi in queste ore ha scelto di mantenere il basso profilo, rimanendo in silenzio (commenterà il risultato elettorale dopo che lo avrà fatto Bersani, hanno spiegato i suoi stretti collaboratori) e facendo filtrare soltanto un messaggio: la maggioranza, se non c’è, va ricercata e costruita. Insomma, il sindaco di Firenze ostenta calma e si guarda bene dal dare l’impressione di fremere per andare alla sfida elettorale. Ma anche questa, nelle prossime ore, è una questione che il gruppo dirigente del Pd dovrà affrontare.

L’Unità 26.02.13

E non diteci «non avete capito Grillo», di Stefano Menichini

La schiera di quelli che «io ve l’avevo detto» potrebbe anche astenersi, stasera, dall’alzare il suo coro saccente di fronte al prevedibile grande spettacolo di piazza San Giovanni gremita di simpatizzanti di Beppe Grillo. Lo possiamo scrivere fin d’ora: sarà l’evento memorabile di questa campagna elettorale (anche se una riserva va conservata: le dimensioni di quella piazza rappresentano una sfida per chiunque).

Il successo elettorale di M5S non è una sorpresa, non più di quanto lo fu nel ’94 la consacrazione di un fenomeno leghista che marciava già da tempo, e che era stato intercettato dai radar dei media e dei politici esattamente com’è accaduto coi grillini negli ultimi due anni.

I professionisti della previsione inascoltata rimprovereranno ai partiti (al solito, al Pd) di non aver capito. Di «aver sottovalutato».

Non è vero. Il fenomeno grillino è stato visto, capito e tutt’altro che sottovalutato. Soprattutto dall’attuale Pd a trazione emiliana, zeppo di dirigenti ormai abituati a considerare come veri antagonisti i grillini e non più né Pdl né Lega.

Il fatto è che un conto è vedere e capire, un conto è rispondere con efficacia a un fenomeno di ampia portata. La mossa delle primarie è stata una risposta improvvisa alla crisi di fiducia nei partiti che già buttava verso Grillo. Il Pd di Bersani e Renzi è casomai l’unico che, avendo capito, ha reagito in modo dinamico senza arroccarsi.

Se lunedì pomeriggio dovessimo scoprire che il bipolarismo italiano è ormai tra Pd e M5S, oltre che stupire dello tsunami di Grillo dovremo ricordarci di valutare come e perché i democratici vi sono sopravvissuti.

Da Europa QUotidiano 26.02.13

"Il Paese stordito e la resistenza del Cavaliere", di Michele Prospero

Il quadro che esce dal voto è a tinte fosche. Sembrano scomparire, oggi ma forse anche n el futuro prossimo, le risorse civiche indispensabili per affrontare le grandi emergenze storiche. Con il 30 per cento dei voti al Senato e con il 27 per cento alla Camera, Berlusconi appare come il Cavaliere dell’ingovernabilità. Fa ovunque il pieno dei consensi rimasti fedeli alla destra e approfitta in qualche modo del successo dell’antipolitica di Grillo per imporre una drammatica cura dimagrante alla sinistra.

È cresciuta in fretta un’onda anomala imprevedibile nelle sue dimensioni che vede un Paese (ancora?) europeo dividersi tristemente tra chi aspetta il postino con l’assegno dell’Imu e chi attende i mille euro al mese come suo agognato reddito di cittadinanza. Dopo il tecnico è tornato il comico e promette sfaceli per la tenuta della democrazia parlamentare. Tutti hanno dimenticato in gran fretta le colpe della destra per il disastro del Paese e hanno cancellato d’incanto le indelebili responsabilità del Cavaliere nella catastrofe economica.

L’immagine simbolo di questa campagna elettorale rimane quella di Berlusconi che con il fazzoletto immacolato pulisce la sedia di Travaglio. Non era affatto un gesto di disprezzo contro un suo inflessibile censore, era semmai a suo modo un atto di riconoscimento e di tributo. Proprio in quella trasmissione cominciò la sua vistosa rimonta nei sondaggi. Anche alla grande campagna mediatica

favorevole a Grillo, il Cavaliere deve guardare per sempre con un immenso senso di riconoscenza.

Una rivoluzione passiva, questo è stato il capolavoro architettato con astuzia da Berlusconi che ha saputo far lavorareperluianchegli avversari più indomiti. Ha utilizzato il clima infamante da anni imperante contro la «casta» e i suoi misfatti, e l’ordine di resa intimato da Grillo a tutto il ceto politico, per piegare le residue resistenze del centrosinistra. E così, nella riesumazione dell’eterna

battaglia tra politica e antipolitica, il dramma è stato consumato. La rivolta contro i partiti del malaffare e il grido incontenibile di dolore contro i privilegi della rappresentanza politica hanno riconsegnato un ruolo di primo piano a un Berlusconi il cui semplice ricordo turba i sogni di tutte le più influenti cancellerie europee.

Con l’inopinata riapparizione del Cavaliere, favorita ancora una volta dall’egemonia conquistata dal lessico dell’antipolitica contro cui la politica non sa adattare strategie efficaci di contenimento, l’Italia mostra di non essere più una nazione moderna, in grado di governare il proprio destino. Ha fatto fallimento la capacità delle élite dell’innovazione di raggiungere un seguito di massa in un Paese che vede una maggiore frantumazione dell’offerta politica marciare insieme alla polarizzazione delle scelte, che viene riconquistata attorno all’asse politica-antipolitica.

Berlusconi per un verso, almeno alla Camera, rischia anche lui di essere catturato dalla morsa della frantumazione dell’offerta elettorale che vede Grillo su percentuali molto alte e secondo alcune proiezioni strappa il secondo posto. Per un altro, con delle opzioni polarizzanti (fisco, Imu) riesce ad attirare attenzione e nuovi investimenti di senso.

Le elezioni si sono svolte attorno a due linee di frattura principali. La prima è quella vecchio-nuovo, politica-antipolitica, società civile-casta, protesta-istituzioni. E qui Berlusconi riesce, se non a sfondare come ai bei tempi, almeno a contenere i danni, perché non è su questo piano scivoloso che egli può soffrire la concorrenza. La seconda linea di divisione è stata quella giocata sul fisco, sul rigore, sugli imperativi ferrei dell’euro. E proprio qui il Cavaliere, come «cappellaio matto» che gioca beffardamente sulla pelle del Paese, con le sue proposte assurde ha trovato ancora il modo di incantare una società in disarmo. Berlusconi torna a creare scompiglio e ad allarmare il mondo. E l’Italia non è più una nazione credibile dopo il crollo delle élite dell’economia, dei media, della politica.

L’Unità 26.02.13

"Dopo lo tsunami", di Massimo Giannini

Lo tsunami è arrivato. E come promesso dal tour che l’aveva preceduto nelle piazze, è stato devastante. L’onda anomala e gigantesca di Beppe Grillo si abbatte sul sistema politico italiano, e lo stravolge per sempre. Il “non-partito” Cinque Stelle è il primo partito del Paese. La metamorfosi è compiuta. Il comico genovese diventa un leader vero, che esce dalla rete della Wiki-politica ed entra a pieno titolo nel circuito delle istituzioni. Il voto del 24-25 febbraio diventa un gigantesco Vaffa-Day. La tempesta grillina seppellisce definitivamente la Prima e la Seconda Repubblica, e uccide sul nascere la Terza.
Tra le macerie restano un Parlamento difficilmente governabile e un corpo elettorale altamente infiammabile. La sinistra assapora il retrogusto assai amaro di una vittoria quasi simbolica: grazie a una manciata di voti: può lucrare l’alto premio di maggioranza garantito dal Porcellum alla Camera, ma non può avere l’autosufficienza dei seggi al Senato, neanche con l’inutile stampella di Monti. Al fondo, hanno prevalso i populismi. Le forze che hanno investito sulla rabbia sociale, scaricandola contro l’Europa e le tasse, e sulla domanda di rottura istituzionale, scagliandola contro il vecchio “ceto politico” o la nuova élite tecnocratica. Ha vinto il populismo di Grillo, che è un impasto identitario complesso e contraddittorio, post-ideologico e post-materialista, al tempo stesso arcaico e ultramoderno. Lo «strano animale» irrompe nelle Camere, con 150 eletti che spazzano via specie ormai quasi giurassiche, da Fli di Fini all’Idv di Di Pietro, e che cambiano i connotati del «bipartitismo egemonico» di questi ultimi due decenni. I due partiti di massa si livellano, e il Nuovo Centro di Monti (a dispetto dell’incomprensibile soddisfazione del Professore) dimostra tutta la sua insostenibile leggerezza.
La vera «Terza Forza» è in realtà Grillo. Come dice il suo guru Casaleggio, il Movimento 5 Stelle trionfa perché svolge al meglio il compito del «bidone aspira-tutto ». Fa piazza pulita delle odiate, vecchie «cariatidi» del Palazzo, e succhia consensi ovunque. Destra e sinistra, centro e non voto. Questo era noto già dalle ammini-strative del maggio scorso. M5S nasce in effetti come «costola della sinistra», visto che il 46% dei suoi elettori proviene dalla sinistra radicale e libertaria. Ma ora fa il pieno anche a destra, da dove arrivavano già il 38,9% dei suoi voti, e dove adesso prosciuga non solo il Pdl, ma soprattutto la Lega.
Parlare di «anti-politica», a questo punto, diventa davvero riduttivo. Come già scrivemmo dopo il successo della tornata locale del maggio 2012, nello tsunami grillino c’è anche una forte domanda di «altrapolitica », non solo qualunquista e non solo protestataria, alla quale i partiti tradizionali non hanno saputo dare risposta in questi mesi. Eppure c’era tempo, per un’autoriforma della politica che avrebbe riavvicinato i cittadini alle istituzioni. C’era tempo per tagliare il numero dei parlamentari, eliminare le province, abbattere gli stipendi d’oro e le prebende degli eletti, mentre gli elettori sacrificavano fino all’ultimo centesimo sull’altare del «rigore necessario». Non è successo niente. Molti italiani hanno gridato, quasi nessuno li ha ascoltati. Grillo è diventato la risposta.
Per il capo carismatico comincia un’altra storia. Insulti e anatemi non bastano più. La protesta è legittima, ma non serve se non hai una proposta. E di fronte alla crisi italiana la proposta non può essere né l’allucinazione dell’uscita dall’euro o del rifiuto di pagare il debito pubblico, né l’illusione della «decrescita felice» o dell’«energia sostenibile». Ora che ha sfondato le mura dell’esecrato Palazzo d’Inverno, tocca a Grillo decidere se vuole crogiolarsi ancora nella dimensione esagitata del Web-populista, o vuole fare davvero Politica.
La sinistra è premiata dal calcolo aritmetico, ma ora ha a sua volta un enorme problema politico. Il Pd (insieme a Sel) ha avuto la meglio alla Camera, per poche centinaia di migliaia di voti. Nella forma, Costituzione alla mano, può dunque rivendicare il diritto di costituire un governo. Ma nella sostanza la vittoria del Pd è puramente virtuale. Per una sinistra riformista, consapevole del suo ruolo e convinta dei suoi mezzi, non poteva esserci occasione migliore di questa. Un ciclo declinante delle destre europee, una politica di austerità neo-liberista rimessa in discussione ovunque, un Pdl ridotto a ectoplasma dalle sue lacerazioni interne, una possibile saldatura con il centro moderato, all’insegna della crescita, dell’equità, dell’adesione ai valori dell’Europa e ai canoni dell’Occidente. Ebbene, questa occasione è stata persa. Il Paese non ha capito, e non ha seguito. Il Pd «a vocazione maggioritaria» è rimasto ben al di sotto della quota massima raggiunta nel 2008 da Veltroni, e non ha sfruttato in alcun modo il suo potenziale espansivo. Bersani ha commesso un errore fatale. Ha gestito al meglio le primarie, mettendosi in gioco e vincendo. Ha completato l’opera di legittimazione dei gruppi dirigenti con le «parlamentarie». Ma da allora, colpevolmente, ha considerato compiuta la sua missione.
Ha smesso di fare campagna elettorale, convinto che il suo unico compito sarebbe stato quello di amministrare il vantaggio registrato dai sondaggi. Ha pronunciato parole di buon senso. Si è rifiutato di inseguire Berlusconi nella folle rincorsa alle promesse fiscali, e di fare concessioni a Ingroia a sua volta impegnato a sabotare l’alleanza e punito dall’irrilevanza di un voto inutile. Ma non ha saputo riempire di contenuti visibili e di obiettivi comprensibili il suo «messaggio di responsabilità ». Si può dire agli elettori qualcosa di molto concreto su quanto e quando si vogliono ridurre le tasse, o su come e dove si vuole creare lavoro per i giovani, senza bisogno di spararla più grossa del Cavaliere. Bersani non l’ha fatto. Ha scommesso tutte le sue carte sul pragmatismo del buon amministratore emiliano, e sul realismo del bravo ministro dello Sviluppo che è stato. Non ha indicato una vera direzione di marcia. Ha coinvolto Matteo Renzi troppo tardi, in una campagna elettorale dove avrebbe dovuto farsi inseguire, e invece alla fine è stato costretto a rincorrere. Ha tentato l’esorcismo del «giaguaro da smacchiare». E lì si è fermato. È stato un tragico abbaglio, che oggi rende purtroppo la coalizione di Bersani ancora più fragile dell’Unione di Prodi.
Resta infine la destra. Se quello dell’ormai ex comico di Genova ha trionfato, il populismo del Cavaliere di Arcore ha resistito. Sembra assurdo anche dirlo, dopo i disastri dell’ultimo governo che ha guidato: ma Berlusconi ha letteralmente resuscitato un cadavere. Il suo Pdl era morto, dopo il crollo del dicembre 2011. Ha iniziato la campagna elettorale con i sondaggi che lo
accreditavano di un 15-18%. Non poteva vincere queste elezioni. Ma in due mesi ha recuperato oltre 10 punti: un’enormità. Aver impedito la vittoria piena del centrosinistra, ed aver ottenuto il maggior numero di seggi al Senato, per lui vale quanto il trionfo del 2008. Per quanto logoro e bugiardo, l’uomo simbolo dell’anomala destra italiana si conferma un «campaigner» formidabile, capace di combattere come nessun altro, contro i suoi avversari e contro i suoi stessi fantasmi. Certo, vince scommettendo sul peggio. Il condono tombale parla alla zona grigia dell’illegalità fiscale, dove convivono gli imprenditori arrabbiati del lombardo- veneto e gli impiegati pubblici che arrotondano in nero. La promessa della restituzione dell’Imu parla ai poveri cristi, pensionati e dipendenti, che hanno appena pagato la stangata e si sono messi in fila per ottenere il rimborso dopo aver ricevuto la lettera dell’ex premier. Ma tutte queste vergogne, e tutte queste menzogne, non bastano a scongelare un blocco sociale tenuto insieme dagli interessi più che dai valori, che non solo resiste dopo 17 anni di fallimenti, ma in parte si ricompone intorno a una destra anomala, plebiscitaria e altrove impresentabile, e intorno alle sparate irresponsabili
del suo mentore. Nonostante i suoi processi pubblici e i suoi scandali privati, il Cavaliere ha ancora un suo «popolo». E con il Cavaliere bisogna ancora fare i conti, anche nella nuova legislatura.
Si è infine materializzato quello che perfino gli osservatori e i mercati internazionali consideravano il peggiore degli incubi. Fare un governo, in queste condizioni, è impossibile. Un governo di sinistra, forte del solo premio di maggioranza alla Camera, sarebbe un azzardo pericolosissimo. Lo scioglimento del solo Senato, e un nuovo voto solo a Palazzo Madama, sarebbe un rischio anche peggiore. Restano due ipotesi. Un governo di larghe intese, sul modello dell’ultimo Monti, per fare almeno la riforma della legge elettorale. Oppure un ritorno immediato alle urne, che significherebbe consegnare definitivamente l’Italia a Grillo. Tutto è nelle mani di Giorgio Napolitano, che sperava in tutt’altro finale. Come lo speravamo tutti noi, sprofondati nell’infinita transizione di questa democrazia italiana che non sa, non può o non vuole diventare normale.

La Repubblica 26.02.13